Giustizia: “Commissione Mista”; con misure alternative e riforme 10mila detenuti in meno di Eva Bosco Ansa, 25 novembre 2012 Se si rimuovessero gli “sbarramenti” che impediscono l’accesso alle misure alternative al carcere e si incentivassero gli interventi per il reinserimento sociale; se si usasse sempre come “extrema ratio” la custodia cautelare (visto che quasi metà della popolazione penitenziaria è costituito da persone in attesa di giudizio); se si procedesse a “bonificare” l’ordinamento penitenziario dagli automatismi preclusivi e si desse maggiore margine di manovra alla magistratura di sorveglianza, le presenze stabili di detenuti all’interno delle carceri potrebbero scendere dalle 5mila alle 10mila unità nel giro di un anno. E si avrebbe un calo del flusso annuale di detenuti stimabile tra le 15mila e le 20mila unità, con un consistente aumento delle misure alternative alla detenzione in oltre 10mila casi in un anno. Sono le conclusioni a cui giunge la Relazione della “Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza”, che sarà presentata giovedì prossimo a Roma, al Salone della Giustizia, dal coordinatore della Commissione, il professor Glauco Giostra, membro del Csm, in un incontro a cui parteciperà anche il ministro della Giustizia Paola Severino. Costituita nel luglio 2010 su impulso del Csm proprio per individuare linee di intervento su questo fronte e composta da tre esponenti del Csm, 3 magistrati designati dal Guardasigilli e 6 magistrati di sorveglianza, la Commissione parte nella sua relazione da una premessa: quella delle carceri italiane è una “emergenza nazionale”. Lo indicano chiaramente sia i dati sul numero dei detenuti sia quelli sui suicidi dietro le sbarre. Come ci si è arrivati? La causa non è una sola. Semmai - si legge nel rapporto - ha agito una sorta di “sinergia perversa” tra fattori di carattere organizzativo, strutturale e normativo. E certo non hanno aiutato la “continua introduzione di nuove fattispecie di reato” (dalla ex Cirielli al pacchetto sicurezza); la codificazione di ipotesi “obbligatorie” di custodia cautelare; il ricorso alla custodia cautelare per “neutralizzare la pericolosità sociale degli imputati” e rispondere alla “diffusa percezione collettiva di insicurezza”. E neppure il “patologico fenomeno” delle cosiddette porte girevoli, con il passaggio in carcere spesso per pochi giorni di persone arrestate e sottoposte a custodia pre-cautelare. Ostacoli e preclusioni all’accesso alle misure alternative hanno fatto il resto. La direzione da prendere - segnala invece la commissione - è quella opposta, evitando automatismi che sbarrano la strada alle misure alternative e agendo su alcuni punti critici delle leggi vigenti. La Commissione è molto puntuale al riguardo, perché non si limita a fornire indicazioni generali, ma al contrario stila una serie di tavole in cui segnala le norme su cui si potrebbe intervenire fornendo anche un’ipotesi di testo modificato e, di conseguenza, uno strumento di lavoro per il legislatore. Una proposta di modifica, per esempio, è quella di riportare ai soli condannati per delitti di matrice mafiosa e terroristica il divieto ad accedere ai benefici penitenziari, prevedendo da una parte maggiore spazio interpretativo per il magistrato di sorveglianza, dall’altra maggiore coinvolgimento delle direzioni distrettuali antimafia: se la preclusione assoluta cadesse per i condannati in via definitiva per i reati di traffico di droga e violenza sessuale, oltre 3mila detenuti potrebbero avere accesso ai benefici. Un altro intervento riguarda l’art. 656 del codice di procedura penale sull’esecuzione delle pene detentive: l’invito è di introdurre una valutazione del magistrato di sorveglianza preliminare all’emissione dell’ordinanza di carcerazione, per calcolare eventuali riduzioni di pena legate a semestri di detenzione già pre-sofferti e verificare se al netto di questi la carcerazione si possa evitare. Un’ulteriore proposta, che è però ancora da approfondire, tocca l’affidamento al servizio sociale: il suggerimento è di attribuire al magistrato di sorveglianza il potere di applicare in via provvisoria tutte le misure alternative, compreso appunto l’affidamento in prova, nei casi in cui un ritardo possa pregiudicarne l’applicazione, rendendo così utile il decorso del tempo tra la decisione “provvisoria” del magistrato monocratico e quella “definitiva” dell’organo collegiale. Risultati possono venire anche da un’azione sul testo unico sulla droga, attenuando la severità delle sanzioni per i reati lievi e favorendo l’accesso terapeutico. Per valutare fino in fondo l’impatto di tali misure, bisogna considerare che “il condannato che espia la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4% contro il 19% di chi ha fruito misure alternative e addirittura l’1% di chi è inserito nel circuito produttivo”. Inoltre, diminuire la popolazione carceraria significa anche ridurre i costi (115 euro al giorno per detenuto) e quindi liberare “risorse da reinvestire nel sistema per sopperire alle carenze di personale di strutture”. Giustizia: Ministro Severino, un compleannus horribilis di Valentina Ascione Gli Altri, 25 novembre 2012 Sembra ieri che Super Mario Monti si affacciava al governo del Paese, con la sua squadra di tecnici ordinatamente schierati, uno accanto all’altro. Chiave inglese alla mano e piglio tedesco per rimediare ai danni della politica sprecona. Rimettere in sesto i conti e combattere con l’arma del rigore il nemico pubblico numero uno: quello “spread” che, uscito dalle pagine dei quotidiani economici, era entrato di prepotenza nel linguaggio comune. Tutto a un tratto è divenuto oggetto di conversazione sugli autobus, al mercato e al bancone del bar. Sembra ieri, ma il Professore ha già spento la sua prima candelina da premier. E mentre si tirano le somme di questo anno di tecnocrazia, e a pochi mesi dalla fine della legislatura si fa largo al centro l’ipotesi di un bis, anche sul fronte delle carceri è tempo di bilanci. Come quello tracciato dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti sui 12 mesi di attività del ministro della Giustizia. “Un anno di Severino” è il titolo dell’agile dossier che mette a confronto parole e fatti. Gli annunci sull’emergenza carceraria e le cifre ufficiali che spesso li smentiscono. Come quando a maggio scorso il ministro dichiarava a proposito del sovraffollamento: abbiamo 6 mila posti occupati in meno, pari cioè al 10 per cento, e in soli sei mesi. Peccato che, stando ai dati recentemente pubblicati dal Dap, la popolazione reclusa sarebbe diminuita in un anno di appena 826 unità, passando da un totale di 67.510 del 31 ottobre 2011 ai 66.685 detenuti presenti al 31 ottobre 2012: una flessione pari dunque all’1,3 per cento circa. Ma andiamo avanti. Il 12 novembre scorso la guardasigilli affermava soddisfatta: ci sono “quasi quattromila posti in più nelle carceri e ne stiamo costruendo altri novemila che dovrebbero essere pronti il prossimo anno”. Dovrebbe allora spiegare, il ministro, come mai le stime ufficiali certificano un aumento di soli 1.223 posti rispetto a ottobre 2011. Intanto i soldi destinati all’emergenza sono sempre di meno, sebbene a luglio Severino provasse a rassicurare detenuti e operatori spiegando che “le carceri sono fuori dai tagli”. “Ristretti Orizzonti” ricorda infatti che il piano carceri varato a giugno del 2010, che prevedeva risorse pari a 675 milioni di euro, ha subito un drastico ridimensionamento all’inizio del 2012, quando il Cipe ha deliberato uno stanziamento complessivo di 122 milioni. Ulteriori tagli sarebbero poi previsti per il 2013, con un investimento da parte di Palazzo Chigi di appena 45 milioni. Nel frattempo sonò stati chiusi il carcere di Marsala e l’istituto a custodia attenuata di Laureana di Borrello. Tutto ciò mentre il disegno di legge delega sulle pene alternative faticosamente arrivato in aula dopo mesi di stallo - e senza la parte relativa alle depenalizzazioni, stralciata strada facendo - è ben lontano dall’essere approvato. E allora il ministro ci perdonerà se, pur augurando a lei buon compleanno, non ce la sentiamo di augurare a detenuti e personale: cento di questi giorni. Giustizia: Schifani (Senato); affrontare con urgenza il sovraffollamento delle carceri Agi, 25 novembre 2012 Il problema del sovraffollamento delle carceri “non può non toccare la coscienza di tutti” che siano di “destra, sinistra e centro”. Lo ha detto il presidente del Senato, Renato Schifani, parlando al XXXI Congresso nazionale forense, dove ha sottolineato che questo tema va affrontato con grande urgenza e nello spirito di coesione del Paese indispensabile per ogni processo di riforma. “Il problema del sovraffollamento delle carceri e della giustizia va affrontato con grande urgenza e nello spirito di coesione nazionale che è indispensabile per ogni processo di riforme”. Così il presidente del Senato, Renato Schifani, nel suo intervento al XXXI Congresso nazionale forense. “La detenzione - ha aggiunto - non può e non deve significare scontare la pena in condizioni non umane; la politica deve farsi carico delle esigenze dei detenuti, senza tralasciare quelle dei tanti cittadini che vivono nel rispetto delle nostre leggi ai quali vanno garantite sicurezza e serenità di vita. Lo deve fare al più presto per essere all’altezza delle aspettative di un Paese libero e democratico. La giustizia è sovraffollata da un tale numero di procedimenti che non vengono smaltiti in tempi rapidi, soprattutto nel settore civile dove la durata eccessiva dei procedimenti non è ancora all’altezza di uno Stato moderno e competitivo”. Per Schifani, inoltre, “la lentezza dei processi produce effetti negativi sulla nostra economia. Alcune riforme sono state approvate, ma occorre fare di più affinché il principio della certezza del diritto trovi piena attuazione. Nel settore penale il principio di obbligatorietà dell’azione penale, cardine del nostro sistema, è ancora una semplice enunciazione”. Ecco perché, ha concluso il presidente del Senato, “una riforma organica della giustizia darà ad ogni cittadino italiano quelle garanzie e quelle risposte che è lecito attendersi da un Paese moderno come il nostro”. Giustizia; Tamburino (Dap); su misure alternative occorre fare salto culturale in avanti Radio Vaticana, 25 novembre 2012 Nuovo tentativo di suicidio in un carcere. Un detenuto del penitenziario fiorentino di Sollicciano si è dato fuoco e ora si trova in gravi condizioni al Centro ustionati. Giovedì, nel ricevere i Direttori delle Amministrazioni Penitenziarie del Consiglio d’Europa, il Papa ha detto che “una detenzione fallita nella funzione rieducativa diventa una pena diseducativa”. Alessandro Guarasci ha intervistato al riguardo Giovanni Tamburino, Capo del Dap. Le misure alternative alla detenzione in carcere sono importanti? Sicuramente, noi dobbiamo fare questo salto culturale in avanti, nel pensare che la pena non è soltanto il carcere, non è la pena detentiva e basta. Ci sono una serie di fatti illeciti - penalmente illeciti - che richiedono quindi una risposta sanzionatoria da parte della società, per dare sicurezza alla società e anche per la giustizia, pure, nei confronti delle vittime. Però, non necessariamente questo deve essere il carcere. Cioè, l’idea che pena uguale carcere è un’idea che dev’essere superata con una visione culturale più aggiornata e più adatta ai tempi. La spending review quanto sta incidendo sul funzionamento ordinario delle carceri? Sta incidendo in modo notevole e in particolare per quanto riguarda due settori: quello del lavoro e quello, anche, dell’educazione, della scuola in carcere. Così come per la presenza di quel supporto di carattere psicologico e, a volte anche psichiatrico, di cui si ha bisogno non infrequentemente in relazione alla popolazione detenuta. Tutto questo fa soffrire di più la situazione penitenziaria generale. Devo dire che vi è anche un grande sforzo, coronato pure da buoni risultati, di razionalizzazione della spesa, cioè ottenere gli stessi risultati pur con risorse che si sono molto ridotte. È soddisfatto della qualità dei programmi di reinserimento che a volte vengono avviati nelle carceri italiane? La realtà carceraria è molto articolata, è molto differenziata. È sbagliato presentare solo gli aspetti negativi, perché ci sono anche aspetti di realtà molto positive, e quando si dà un giudizio si deve tener conto sia di quello che non va bene, ma anche di quello che va bene. Bollate, ma anche Padova, anche altre realtà come Viterbo, Rieti … ci sono realtà in cui la rieducazione è qualcosa di concreto: passa attraverso il lavoro, l’impegno, con risultati molto positivi. Giustizia: scuola in carcere, con la riforma lezioni (e diritti) a rischio di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2012 Che ne sarà della scuola in carcere in seguito alle riforme in atto? Che cosa ha significato fino a oggi e che funzione svolge tuttora l’istruzione per i detenuti? Quali sono le caratteristiche di questa particolare attività educativa? A queste e tante altre domande si è tentato di dare risposte nel convegno organizzato dal Cesp (Centro Studi per la Scuola Pubblica, presieduto dalla prof.ssa Anna Grazia Stammati) nel carcere romano di Rebibbia. Notevole la partecipazione di insegnanti carcerari provenienti da tutta Italia. Di livello anche la presenza di alti dirigenti dei due Ministeri (Istruzione e Giustizia) che nei penitenziari si trovano a condividere gli spazi di intervento. Anche alcuni studenti detenuti hanno fornito la loro testimonianza, con contributi preziosi come quello del paragone tra carcere senza scuola e inferno, che Dante descriveva come luogo in cui il tempo è fisso. Lo studio fornisce a chi frequenta le lezioni l’ampliamento dell’orizzonte temporale, oltre che culturale. Risale al 1958 la prima legge sulle scuole carcerarie. Nel 1976 veniva istituita la scuola secondaria di secondo grado nei penitenziari. Come spesso accade, bisognava aspettare un altro decennio perché aprissero effettivamente le prime sezioni. E fu proprio a Rebibbia, nella Casa di Reclusione, che si ebbe uno dei primi esperimenti. Oggi in Italia si contano 155 sezioni che hanno attivato corsi scolastici su un totale di 275 strutture di detenzione. Siamo ancora lontani dalla piena attuazione della previsione normativa, volta a garantire il diritto all’istruzione a tutti i cittadini, senza esclusione per chi è privato della libertà. La finalità della scuola in carcere è soprattutto “trattamentale e rieducativa”: non perché gli insegnanti debbano entrare nell’equipe che decide sulla libertà dei condannati (è bene che ne restino fuori e il loro giudizio non vada oltre gli aspetti didattici, consentendo così di mantenere la cultura in uno spazio aperto e quanto più possibile libero da ipocrisia e simulazioni). Ma la frequentazione delle aule scolastiche è di fatto per i detenuti un’occasione per rivedere criticamente i propri vissuti. Questa “rieducazione alla convivenza civile”… “con azione positive che aiutino a rivedere il proprio percorso di vita” che torna in molte formulazioni normative, costituisce l’essenza dell’istruzione in carcere. E comporta tempi lunghi: 5 anni o anche più se fosse possibile per chi ha pene particolarmente pesanti. Altro che i tre previsti dalla “Riforma della scuola per adulti nelle sezioni carcerarie”. Un difetto di questa, comune a tanti interventi normativi, è di non tener conto e non salvaguardare il patrimonio di pratica ed esperienza di chi lavora in carcere da anni. Tra questi merita una menzione il professore e scrittore Edoardo Albinati, che dal palco è stato come in altre occasioni particolarmente illuminante. Facendo un parallelo con il teatro e le altre arti performative che in un carcere come Rebibbia trovano sufficiente spazio (è qui che è stato girato il film “Cesare deve morire” con cui i fratelli Taviani hanno vinto l’Orso d’oro al festival di Berlino), Albinati ha proposto la provocazione dell’insegnante come performer, intrattenitore, domatore di classi riottose in cui fare lezione comporta una fatica talvolta anche fisica; ripagata però dall’impressione di una sorta di sipario immaginario che, a fine lezione, chiude tra gli applausi lo spettacolo della cultura. È questa la vera protagonista, di fronte a cui tanto gli studenti quanto l’insegnante si rivolgono con la stessa curiosità e ammirazione. Cambia in quest’ottica anche il senso ultimo delle lezioni, che non sono più e non solo piccoli passi intermedi verso un traguardo finale che è il diploma. Al contrario, soprattutto in situazioni di classi e studenti che cambiano di continuo per le vicissitudini positive e negative della carcerazione, ogni singola lezione si presenta come unica e irripetibile. La scuola di per sé, in ogni disciplina e materia di studio, ha come effetto automatico l’educazione alla legalità, alla bellezza. La Riforma, così come è stata formulata (come al solito per mere esigenze di bilancio), con il passaggio dei bienni ai Cpia, le riduzioni orarie e di organico con la limitazione di 10 docenti ogni 160 iscritti, rischia di far chiudere la maggior parte delle scuole in carcere. Si vanificherebbero gli sforzi che i docenti hanno fatto fino a oggi e si precluderebbe per sempre anche ai detenuti più meritevoli l’opportunità di uno sbocco alternativo che li distolga dalla commissione di nuovi reati. Un freno alla recidività che è nell’interesse di tutti noi contribuenti. Giustizia: appello Fnsi-Fieg; ddl su diffamazione, Parlamento cambi norma Tm News, 25 novembre 2012 In occasione della discussione al Senato della Repubblica del disegno di legge sulla diffamazione a mezzo stampa, la Fieg e la Fnsi "si uniscono - si legge in una nota congiunta - nel rinnovare al Parlamento e a tutte le forze politiche l'appello a non introdurre nel nostro ordinamento limitazioni ingiustificate al diritto di cronaca e sanzioni sproporzionate e inique a carico dei giornalisti con condizionamenti sull'attività delle libere imprese editoriali, senza peraltro che siano introdotte regole efficaci di riparazione della dignità delle persone per eventuali errori o scorrettezze dell'informazione". "Il testo che va al voto dell'aula del Senato non riesce a bilanciare il diritto dei cittadini all'onorabilità e il diritto-dovere dell'informazione a cercare e proporre, con lealtà, verità di interesse pubblico, come viene chiesto al giornalista professionale. Le norme proposte, inoltre, come ha rilevato il Governo - che ha espresso parere tecnico contrario - sollevano dubbi di incostituzionalità e di incoerenza con l'articolo 110 del Codice Penale, nonché con l'articolo 57 relativo ai reati a mezzo stampa. Si tratta di una pessima legge che introduce norme assurde: le ragioni della protesta e la richiesta di ritiro sono condivise da Fieg e da Fnsi". "Gli editori e i giornalisti concordano sulla necessità di tutelare la dignità delle persone, tutela che si deve realizzare con azioni tese a sostenere un giornalismo etico e responsabile. Nessuna legge che abbia come sanzione il carcere lo può alimentare. In questo modo, invece, si introducono solo elementi di condizionamento, di paura per la possibile esplosione di querele temerarie e di controllo improprio che non possono essere condivisi. Fieg e Fnsi riconoscono che equilibrate sanzioni economiche e rettifiche documentate e riparatrici siano la strada principale di un ordinamento moderno del diritto dell'informazione che abbia come obiettivo la tutela della dignità delle persone". "E' necessario salvaguardare il bene informazione, la sua natura, il suo valore per una stampa libera, autonoma e pluralista. Occorrono leggi giuste e eque che tutelino efficacemente le persone ed esaltino le responsabilità e la funzione civica della stampa e del giornalista. Fieg e Fnsi rivolgono un appello estremo al Parlamento e alle forze politiche perché si evitino soluzioni non appropriate. L'Italia deve restare in linea con i principi del diritto europei delle nazioni più evolute". Roma: gravemente malato ottiene detenzione domiciliare, muore prima di arrivare a casa Ristretti Orizzonti, 25 novembre 2012 Un detenuto del Reparto G11 di Rebibbia, Alessandro Faretra, è morto venerdì scorso mentre veniva trasportato a casa. Aveva un fine pena inferiore ad un anno e diversi problemi di salute. Comprendendone l’aggravamento, era stato velocemente disposto il suo trasferimento in detenzione domiciliare provvisoria. (Fonte: Associazione Antigone) Firenze: a Sollicciano un’altra vittima del sovraffollamento, governo sordo sui detenuti di Riccardo Chiari Il Manifesto, 25 novembre 2012 “Il Governo si vuol prendere anche solo la responsabilità di dirlo”. Sono parole tanto terribili quanto realistiche quelle di Franco Corleone, di fronte al quotidiano bollettino di guerra che arriva dalle carceri italiane. Solo nelle ultime 36 ore ci sono state una vittima e un ferito gravissimo. Nel silenzio di un esecutivo che nemmeno risponde alla lettera aperta, inviata ormai da più di due settimane, scritta per chiedere un decreto legge che cancelli le norme “affolla carcere” della legge Fini-Giovanardi sulle droghe. Una legge che impedisce per giunta la possibilità di misure alternative al carcere per i tossicodipendenti, provocando così un sovraffollamento che moltiplica i casi di disperato autolesionismo. Proprio alla fine di una giornata che aveva visto in contemporanea la mobilitazione dei Radicali, gli avvocati penalisti in sciopero contro il sovraffollamento, e i direttori carcerari europei ricevuti da papa Ratzinger, a Firenze un detenuto di 30 anni, condannato per una semplice ricettazione e con fine pena nel 2014, si è dato fuoco nel carcere di Sollicciano usando la bomboletta di un fornellino da cucina. Ora è ricoverato al centro grandi ustionati dell’ospedale di Pisa in gravi condizioni, per fortuna i medici valutano che se la potrà cavare. Niente da fare invece per un detenuto campano di 50 anni, collaboratore di giustizia con ancora dieci anni da passare dietro le sbarre, che si è impiccato a inizio settimana nel carcere di Monza, e che è morto in ospedale dopo tre giorni da agonia. A Sollicciano, dove a una capienza regolamentare di 450 detenuti se ne trovano abitualmente mille di cui il 40% ancora in attesa di giudizio, nel corso del 2012 i morti sono stati sette. “Davanti a situazioni del genere - ricorda Corleone, garante fiorentino dei diritti dei detenuti - da 33 giorni esponenti delle associazioni che si occupano di giustizia e del carcere, insieme a donne e uomini del volontariato e della società civile, ad avvocati e operatori penitenziari, e a tanti garanti dei diritti dei detenuti, stanno andando avanti con una catena del digiuno a oltranza, fino a quando non arriverà un decreto legge contro il sovraffollamento. Le nostre richieste, tese in primo luogo a cancellare gli aspetti più criminogeni della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, non sono irragionevoli. Tanto che sono state condivise anche dalla commissione carcere del Consiglio superiore della magistratura”. Il grande assente è il governo: “Il suo silenzio è imbarazzante -osserva Corleone - Eppure nel 2006 la modifica criminogena della legge sulle droghe fu approvata a fine legislatura, con un decreto legge e il voto di fiducia. Quindi cambiare si può. Se poi il governo Monti vuole sottrarsi alle sue responsabilità, lo dica chiaramente. Noi andremo avanti con il digiuno. Fino all’ultimo minuto prima dello scioglimento delle camere”. Radicali: a Sollicciano auto-immolazioni come in Tibet “Proprio come in Tibet, una regione governata da un regime antidemocratico, anche nelle carceri italiane iniziano le auto-immolazioni. Ieri è stato il caso di Sollicciano dove da anni sono ristretti il doppio dei detenuti previsti dal regolamentò. È quanto affermano in una nota congiunta il senatore radicale, Marco Perduca, e Maurizio Buzzegoli, segretario dell’associazione radicale Andrea Tamburi, commentando quanto accaduto nel carcere fiorentino di Sollicciano, dove giovedì un detenuto si è dato fuoco utilizzando un fornellino. “Se il governo non affronta con la necessaria drammatica urgenza questa gravissima situazione -proseguono - contenuta solo dalle lotte nonviolente di Marco Pannella e dei Radicali, nelle prossime settimana ci si potrebbe trovare di fronte a una situazione ben più seria di questi drammatici eventi di autolesionismo estremo”. Per Perduca e Buzzegoli, “se il Guardasigilli Severino non se la sente forse è il caso di prendere in considerazione un avvicendamento in via Arenula”. Napoli: Radicali; manifestiamo davanti a Poggioreale per dare eco a proteste dei detenuti di Luigi Erbetta www.campania24news.it, 25 novembre 2012 I Radicali hanno indetto una mobilitazione non violenta della durata di 4 giorni per il diritto al voto dei cittadini e per chiedere l’amnistia. Una manifestazione è stata organizzata anche a Napoli, all’esterno del carcere di Poggioreale, dall’Associazione Per una Grande Napoli. I manifestanti, militanti del partito e familiari dei detenuti, hanno messo in scena una battitura utilizzando stoviglie. Campania24News ha intervistato il presidente dell’associazione Per La Grande Napoli Rodolfo Viviani per parlare della protesta e delle originali modalità con cui è stata portata avanti. Come è andata la manifestazione in termini di risultato? Siamo molto soddisfatti della crescita continua del nostro movimento. Abbiamo iniziato a fare manifestazioni a Poggioreale dal maggio del 2011 e col passare del tempo le nostre iniziative stanno coinvolgendo sempre più persone. Protestiamo perché siamo di fronte a una situazione inaccettabile. Ogni giorno migliaia di persone fanno file di ore per avere un colloquio con i detenuti. È inaccettabile che le proteste non violente di oltre 30.000 detenuti, sollecitati da Marco Pannella, vengano ignorate dalla stampa. Cosa chiedete con queste manifestazioni? Lottiamo perché venga attuato un provvedimento di amnistia e indulto. Con il governo Prodi, quando Mastella era ministro della Giustizia, riuscimmo ad ottenere l’indulto ma per una serie di motivi non si riuscì ad arrivare all’amnistia. In Italia ci sono tantissimi processi arretrati. Nonostante la Corte Europea dei diritti dell’uomo continui ad infliggerci condanne per la lentezza dei procedimenti e per la condizione delle carceri, le istituzioni continuano a non mostrare interesse verso il problema. Questo sistema favorisce i ricchi, che possono pagare avvocati in grado di prolungare i processi per tempo indeterminato, mentre in carcere restano solo i poveracci. Solo tossicodipendenti ed extracomunitari restano in prigione in Italia. Fuori al carcere di Poggioreale avete inscenato una battitura utilizzando stoviglie. Ci spiega cos’è questa forma di protesta? La battitura nelle carceri è l’unica forma di protesta possibile. L’unico modo che i detenuti hanno per comunicare il proprio malessere. Marco Pannella ha indetto quattro giorni di sciopero della fame collettivo nelle carceri, con battitura, per riconquistare il diritto di voto dei detenuti e per l’amnistia. In carcere si tengono 15 minuti di battitura delle sbarre e 45 minuti di silenzio, per un totale di un’ora al giorno di protesta. A Napoli abbiamo dato vita alla battitura anche fuori dal carcere per dare eco alla protesta dei detenuti, per far sentire anche nelle città la loro protesta. Si protesta contro un carcere, quello di Poggioreale, che è governato dalla Camorra, in cui non c’è una mensa e si trascorrono 22 ore in cella. A Napoli gran parte dei cittadini ha problemi con la legge e il fatto di essere riusciti a portare avanti una protesta non violenta ci inorgoglisce. Venezia: Camera Penale; in carcere il doppio dei detenuti, poco lavoro e carenza di servizi di Giorgio Cecchetti La Nuova Venezia, 25 novembre 2012 Celle previste per quattro detenuti che ne “ospitano” otto, agenti di custodia ampiamente sotto organico, servizio sanitario insufficiente e quasi inapplicata, almeno a Venezia, la circolare del ministro della Giustizia Paola Severino che invitava polizia e carabinieri a trattenere nelle loro caserme gli arrestati che dopo due o tre giorni, grazie ai processi per direttissima, è prevedibile che vengano scarcerati. Questa la situazione di Santa Maria Maggiore che hanno trovato gli avvocati della Camera penale guidati dal presidente Renato Alberini e dall’avvocato Annamaria Marin. Dopo l’astensione dalle udienze del 22, in cui i penalisti italiani hanno denunciato che le carceri cono “una vergogna nazionale e che non possono più aspettare”, hanno compiuto una visita a Santa Maria Maggiore, accompagnati dalla direttrice Immacolata Mannarella. Innanzitutto il sovraffollamento: a fronte di una capienza di 168 detenuti (quella tollerabile è e di 252) da tempo ormai nel carcere veneziano i detenuti non sono mai meno di 320, venerdì erano 329, dei quali 188 condannati per una pena definitiva e 141 in custodia cautelare. Gli stranieri sono due terzi del totale. “Ogni cella”, racconta uno dei legali che faceva parte della delegazione in visita, “in media ospita il doppio delle persone per cui è progettata in condizioni decisamente intollerabili, soprattutto per coloro che invece che, in otto, occupano celle destinate a quattro persone, costrette a condividere un unico servizio igienico e angolo cottura. Risulta così vanificato il miglioramento delle condizioni di vivibilità della struttura in seguito al restauro compiuto recentemente”. Per quanto riguarda gli agenti di custodia, la pianta organica degli agenti della Polizia penitenziaria, sulla carta i posti sono tutti coperti (anche se sono molti quelli adibiti a servizi esterni che non svolgono quindi servizio all’interno del carcere), ma quella pianta organica è parametrata alla capienza ordinaria di 168 detenuti, mentre normalmente sono il doppio se non di più. “Il servizio sanitario”, continua il penalista, “è insufficiente: il medico generico è presente tre ore al giorno, mentre lo psichiatra due ore a settimana; lo psicologo per i nuovi ingressi solo otto ore la settimana. Gli educatori sono soltanto due rispetto ai quattro previsti”. A lavorare sono semplicemente in 45, quindici nei due laboratori interni e gli altri trenta come cuochi, scopini, eccetera. Infine, gli avvocati veneziano segnalano che una delle modifiche normative che avrebbe dovuto incidere sulla situazione di Santa Maria Maggiore rimane praticamente lettera morta. Si tratta di quella che lo stesso ministro Severino aveva definito come la legge “contro le porte girevoli”. Per evitare che il carcere si aprisse anche dieci volte al giorno per ospitare per due o tre giorni al massimo chi commette piccoli furti, resistenze o detenzione di qualche grammo di droga (dopo il processo per direttissima viene solitamente scarcerato) il ministro aveva disposto che fosse trattenuto dalla Polizia o dai Carabinieri. Ma a Venezia accade raramente. Firenze: Poretti; tre mesi da chiusura, ma all’Opg Montelupo ci sono ancora 105 internati Notizie Radicali, 25 novembre 2012 La senatrice dei Radicali Donatella Poretti e il dr. Cesare Bondioli, Responsabile carceri e Opg di Psichiatria Democratica hanno effettuato una visita all’Opg di Montelupo Fiorentino. Nelle more della chiusura di queste strutture - che per legge è prevista per il prossimo marzo - abbiamo potuto constatare che finalmente dopo un anno dalla fine dei lavori, e dopo una serie di problemi burocratici e pratici la consegna all’uso dei locali è stata data lo scorso 13 settembre, ora le nuove celle sono agibili e occupate dagli internati. Stamani erano presenti 105 internati (15 piano terra, 46 al primo piano e 44 al secondo. Il primo e secondo piano sono così tornati alla loro origine: le celle sono per metà vecchie (del 2007) e per metà nuove (primo piano aperto il 30 ottobre e il secondo sabato scorso). Le nuove celle (con soffitti a cassettone e simil cotto al pavimento) e i nuovi spazi comuni sono una buona notizia e una realtà dignitosa contro il degrado della parte più vecchia che se al piano terra ha infiltrazioni di acqua e muffa, anche nei piani a salire mostra tutta la necessità di interventi di ripulitura. Purtroppo la carenza dei fondi per il mantenimento e la gestione ordinaria è alla base di una sporcizia e del conseguente degrado delle celle vecchie, ma già inizia ad apparire anche in quelle nuove. Le pulizie sono (non) fatte dagli internati. Va inoltre sottolineato che gli arredi sono rimasti quelli recuperati dalle vecchie celle e sono totalmente inadeguati e in pessime condizioni, il che aggrava il senso di degrado complessivo della struttura che nemmeno il recente restauro riesce a nascondere. Una sala colloqui nuova è pronta dall’estate ma senza l’autorizzazione delle opere pubbliche non può aprire, e altre problematiche minori si sono rilevate, ma la contraddizione del luogo di detenzione per persone che hanno bisogno di cure sanitarie è sempre più evidente. La struttura ormai ha assunto sempre più l’aspetto di un carcere a media sicurezza, dagli spazi esterni per l’aria ai blindati delle celle e dei sistemi di vigilanza. Una struttura in attesa di essere svuotata dagli internati che devono per lo più essere riassorbiti nei progetti dei loro territori con comunità o altre nuove strutture che la legge sta individuando. Da quanto sottolineato dagli operatori sanitari, in particolare, si è colto il disagio per la mancanza di iniziative concrete per la dimissione degli internati il 25% circa dei quali si trova in regime di proroga della misura di sicurezza (in qualche caso la proroga è stata rinnovata ripetutamente, anche per 23 volte!); in particolare il regime di proroga è particolarmente grave tra gli internati provenienti dalla Sardegna (11 proroghe su 28 internati) ma anche per le altre Regioni del bacino: per la Toscana (7 su 45), per la Liguria (7 su 20) e l’Umbria (2 su 7 internati di cui uno con 23 proroghe). Occorre quindi che i programmi di dimissione ricevano un nuovo impulso e che le Regioni competenti, attraverso i loro Dipartimenti di Salute Mentale, formulino i progetti terapeutico-riabilitativi in favore dei loro internati con date certe per la loro realizzazione. Occorre altresì che le Regioni, che hanno richiesto il finanziamento per la realizzazione delle strutture sanitarie alternative all’opg, tanto più ora che è stato emanato il Regolamento con le loro caratteristiche strutturali, passino alla realizzazione delle strutture per cui hanno richiesto il finanziamento. Il rischio che, in assenza di un effettivo governo della fase di transizione, gli opg rimangano in funzione in attesa di una proroga (da tutti oramai data per scontata) dei termini per la loro chiusura va scongiurato e che ci si accontenti delle piccole migliorie senza dare seguito alla riforma. Ad un migliaio di internati in tutta Italia sono negati ancora oggi il diritto alla salute e alla dignità umana. Un problema numericamente piccolo, che ha la legge e i fondi economici per la sua soluzione, e a cui va “solo” data applicazione. Lecce: Radicali visitano carcere di Borgo San Nicola; 1.400 detenuti per capienza 660 posti www.quotidianoitaliano.it, 25 novembre 2012 Ieri mattina, il leader dei Radicali Italiani Marco Pannella ha effettuato una visita presso il carcere di Borgo San Nicola con la senatrice Adriana Poli Bortone, il Presidente di Movimento Regione Salento Paolo Pagliaro e il Presidente dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino” Sergio D’Elia. Durante la visita nel carcere è stato notato come la struttura sia sicuramente più moderna di quelle del resto d’Italia, ferme agli anni 30, ma in pari condizioni sotto il profilo dell’affollamento - 1.400 detenuti su 660 di capienza - di scarsità di agenti penitenziari a lavoro e di numero di suicidi che cresce vertiginosamente. Per il leader dei Radicali Italiani Marco Pannella la soluzione è una e si chiama Amnistia. Concorda il Presidente D’Elia per il quale l’amnistia è anche per lo Stato che sulla condizione delle carceri non fa fronte ai propri doveri. “Questo Governo, se vuole, fa le cose nel giro di una settimana - ha detto la Poli Bortone - Mi auguro che con la forte determinazione dei radicali, unita alla nostra si muova qualcosa nel più breve tempo possibile”. Nelle oltre 4 ore tra sezione maschile e quella femminile, sono stati effettuati colloqui serrati. Pannella, Pagliaro, la Poli Bortone e D’Elia hanno ascoltato le storie dei detenuti, hanno incrociato i loro sguardi e la voglia di dare una svolta alla loro vita. “Il reparto femminile è quello che presenta la maggiore criticità - ha detto Pagliaro - bisogna intervenire subito. Nelle altre sezioni alcuni miglioramenti li abbiamo riscontrati rispetto alla nostra ultima visita dei mesi scorsi. La Direzione lavora in condizioni difficilissime e questo sforzo lo abbiamo riscontrato anche parlando con i detenuti. Abbiamo ascoltato le loro storie, guardato nei loro occhi tutta la disperazione che provano. È stata una esperienza che ci ha colpiti profondamente”. Durante la visita ci sono state tante strette di mano , ma soprattutto applausi: i detenuti hanno infatti osannato Pannella, perché lo rispettano per l’incrollabile coerenza con la quale si è battuto, spesso solo, sempre come un leone. Catania: Garante Fleres; 1 anno di carcere a piazza Lanza è come 3 anni 6 mesi e 20 giorni La Sicilia, 25 novembre 2012 Riflettori accesi sulle criticità del sistema detentivo, ieri nella sala delle Adunanze del Tribunale, nel corso della conferenza sul tema “Carcere: Giustizia negata?”, organizzata dall’associazione Libera e da Magistratura Democratica. Problematiche che riguardano le strutture, carenti e sovraffollate, il personale di polizia penitenziaria e tutte le attività necessarie al futuro reinserimento del detenuto nel contesto sociale, dalla scuola al lavoro, che si reggono però solo sull’impegno del volontariato. I lavori sono stati coordinati dal magistrato dottoressa Marisa Acagnino, vi hanno preso parte Gianni Trumino (ispettore di Polizia Penitenziaria), Riccardo Campochiaro (avvocato del Centro Astalli), Elisabetta Zito (direttore casa circondariale di Piazza Lanza), Salvo Fleres (garante dei diritti dei detenuti siciliani), Angelo Sinesio (commissario delegato per l’attuazione del piano carceri), Giuseppe Passarello (presidente Camera Penale di Catania), Giovanni Salvi (Procuratore della Repubblica di Catania), Carmelo Giongrandi (Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catania). In un contesto caratterizzato da svariate emergenze, lo spiraglio è venuto dal commissario delegato per l’attuazione del Piano carceri, dott. Angelo Sinesio, il quale ha anticipato che entro i prossimi due anni si renderanno disponibili 11mila nuovi posti, con una maggiore garanzia di rispetto dei diritti dei detenuti. Le criticità del sistema giudiziario, legate tra l’altro alla concessione dei benefici per buona condotta, sono state approfondite dal Procuratore della Repubblica di Catania Giovanni Salvi e dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catania Carmelo Giongrandi. Il garante dei diritti dei detenuti siciliani, Salvo Fleres, rilevando la necessità di una sinergia per affrontare tutti gli aspetti della questione, ha presentato l’esito di uno studio che quantifica il coefficiente di “afflittività” che scaturisce da inadeguate condizioni detentive. I parametri considerati sono il sovraffollamento delle celle, la distanza del detenuto dal luogo di residenza e dunque la difficoltà di mantenere il contatto con la famiglia, e il tempo dedicato all’assistenza e alle attività mirate al reinserimento sociale. “Il calcolo - spiega Fleres - è stato finora empirico, adesso è stato perfezionato a livello matematico: il risultato è che un anno di detenzione a piazza Lanza equivale a 3 anni, 6 mesi e 20 giorni di carcere”. Rimini: sovraffollamento, poche risorse per pasti e rieducazione… peggio di noi solo i cani di Fausta Mannarino www.romagnanoi.it, 25 novembre 2012 Il detenuto dietro le sbarre? Incredibile ma vero, ci costa sempre di meno. E non perché siamo bravi a fare le acrobazie risparmiando sempre di più. Così, mentre il sovraffollamento ha raggiunto livelli da record, hanno raggiunto livelli record anche le voci di spesa per il mantenimento dietro le sbarre dei detenuti. Il sistema penitenziario riminese costa alle casse del Dipartimento e quindi dello Stato 8 milioni e 123mila e 320 euro all’anno. Il costo medio di un detenuto a Rimini è di 112, 81 euro. Mentre il costo mensile di un prigioniero si assesta su 3mila e 384 euro e quello annuale in 40mila e 611 euro. Per un detenuto si spendono 3,95 euro al giorno per mettere insieme il pranzo con la cena. Ma alla rieducazione sono destinate risorse irrisorie: per il “trattamento della personalità e l’assistenza psicologica” si impegnano 8 centesimi al giorno per detenuto mentre per le attività scolastiche e culturali 11 centesimi al giorno. In linea con le spese affrontate dall’intero sistema carcerario italiano, ai Casetti di Rimini l’80 per cento delle risorse vengono utilizzate per il personale (polizia penitenziaria, amministrativi, dirigenti educatori); il 13 per cento se ne va nel mantenimento dei detenuti (corredo, vitto, cure sanitarie, istruzione, assistenza sociale) mentre il 4 per cento è impiegato per la manutenzione delle carceri e il 3 per cento per energia elettrica, acqua e gas. Il costo quotidiano di un detenuto è determinato da due elementi: le risorse messe a disposizione annualmente dall’amministrazione penitenziaria e il numero medio di detenuti ospiti nella struttura. Due voci che però non sono per nulla collegate tra loro. Infatti dal 2007 ad oggi i detenuti sono aumentati del 50 per cento (per effetto di leggi che hanno introdotto nuovi tipi di reati soprattutto sull’immigrazione clandestina) mentre le risorse sono diminuite del 25 per cento. Se si valuta poi che dagli studi puntualmente effettuati (l’ultima ricerca è la fotografia della salute dei detenuti italiani scattata da Antigone nel suo IX Rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione “Senza dignità”) emerge che il 70 per cento delle persone, una volta rimesse in libertà tornano a delinquere, si può intuire come il sistema non funzioni. Con una recidiva così alta, il conto economico di qualsiasi azienda verrebbe ritenuto fallimentare. A questo si aggiunge il malessere palpabile dietro le sbarre. Prova ne è l’alto tasso di suicidi, una sessantina in tutta Italia, nel primo semestre dell’anno mentre gli agenti di polizia penitenziaria ne hanno sventati 1200. L’ultimo caso di tentato suicidio sventato a Rimini risale a pochi giorni fa. Protagonista un trans arrestato nel pesarese per la rapina di una catenina d’oro e condannato a restare in cella fino al 2019. L’uomo è stato salvato in extremis, trasferito all’ospedale e sottoposto a lavanda gastrica (per aver inghiottito barbiturici). L’ultimo suicidio risale al 2009 mentre successivamente un egiziano è stato tratto in salvo due volte. Il personale della polizia penitenziaria trasporta all’ospedale, mediamente, tre detenuti al giorno. La fotografia attuale sulla struttura penitenziaria riminese è composta da una popolazione carceraria di 203 persone. La struttura è abilitata per ospitare 123 detenuti con una capienza di tollerabilità di 154 ospiti. Dei 203 detenuti, 96 sono tossicodipendenti, 89 sono italiani e 114 stranieri. L’etnia più presente, in parità sono i tunisini e i marocchini (con 60 detenuti), seguiti dai rumeni. In questo momento dietro le sbarre dei Casetti ci sono anche 2 cinesi. La popolazione carceraria è composta da 2 ergastolani, che hanno già scontato 26 anni di carcere ciascuno e che quindi godono di un regime di semilibertà che consente loro di uscire all’esterno della struttura per lavorare. Oltre ai due ergastolani ci sono 56 persone in attesa di giudizio, 35 in attesa dell’Appello e 27 che hanno presentato ricorso in Cassazione. I definitivi, ai quali è stata già applicata la pena sono 85. Gli agenti di polizia penitenziaria chiamati a far funzionare le cose nelle prigioni riminesi sono un centinaio, a fronte di un organico di 160. Il sovraffollamento, che nei mesi estivi conosce la sua forma più acuta, ha indotto, lo scorso anno, i detenuti a lanciare disperati appelli ai giornali. “Peggio di noi solo i cani”. Così avevano titolato i detenuti la lettera. “Scriviamo queste righe per raccontare l’altra pena, quella a cui siamo costretti per il fatto di vivere in 10, 11 in una cella di 12- 16 metri quadrati dove i letti a castello riducono la superficie calpestabile a 6 metri quadrati quando va bene”. Quando va male sono costretti a mettere il materasso sul pavimento e a rinunciare alla branda. “In un canile per legge - ricordano - vengono destinati nove metri quadrati per animale”. Modica (Rg): Camera Penale protesta allestendo una “cella” nel parcheggio del tribunale Antonio Di Raimondo www.corrierediragusa.it, 25 novembre 2012 Era una cella di dimensioni reali quella allestita in un capanno di lamiera posizionato ieri mattina nel parcheggio del tribunale di via Aldo Moro. Una cella ricostruita fin nei minimi dettagli, sporcizia compresa, per trasmettere la sensazione palpabile, a chi vi entrava, delle condizioni in cui vivono ogni giorno i carcerati. In questo singolare modo la camera penale di Modica ha aderito alla manifestazione nazionale a tema, dalla quale è altresì scaturita l’astensione degli avvocati dalle udienze penali. Si è scelto di inscenare la manifestazione proprio dinanzi al palazzo di giustizia non solo per motivi logistici, ma anche e soprattutto simbolici. Oltre al tribunale, difatti, Modica rischia di perdere pure il carcere di Piano del Gesù. Tutto questo dopo la oramai tramontata ipotesi della realizzazione di un nuovo penitenziario in contrada Catanzarello. Ipotesi definitivamente cassata dall’allora governo Berlusconi, con la eliminazione della nuova struttura dall’elenco di quelle in attesa dei finanziamenti pubblici. La paventata soppressione del carcere esistente è dettata dall’esiguità della distanza in chilometri, appena otto, che separa la struttura modicana da quella di via Di Vittorio a Ragusa, nonché dalla carenza di organico che mette e repentaglio l’incolumità delle guardie carcerarie sia di Modica che di Ragusa. “Sarebbe un vero peccato - ha detto il presidente della camera penale Pippo Rizza - che Modica perdesse il suo carcere, anche perché rispetto alle altre realtà del Paese, le condizioni dei detenuti non sono poi così malvagie”. Il sovraffollamento, vera piaga delle strutture penitenziarie, interessa anche Modica, ma in maniera più leggera, con circa una dozzina di detenuti in più rispetto alla capienza massima di circa 40 carcerati. “Fino a quando in una cella come quella da noi allestita ci si vive in due - ha proseguito l’avvocato Rizza - i disagi sono tutto sommato sopportabili, come accade a Modica o a Ragusa. Il vero dramma - ha concluso Rizza - è quando i pochissimi metri quadrati devono dividerseli anche quattro o addirittura cinque detenuti”. Ecco perché, secondo il presidente della camera penale, il carcere di Modica non va soppresso. Agli antipodi l’opinione del segretario Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, Mimmo Nicotra. Per il sindacalista, difatti, “E´ necessario chiudere il carcere di Modica perché si tratta di una struttura troppo piccola. Il trasferimento dei detenuti a Ragusa, che dispone di una casa circondariale molto più capiente, permetterebbe di affrontare le emergenze con più personale”. Secondo Nicotra, quindi, “35 agenti in più a Ragusa, ovvero quelli che sono in servizio a Modica, garantirebbero una maggiore forza all´interno del carcere del comune capoluogo. Tra l´altro - aveva concluso Nicotra in una sua recente nota - a Modica non ci sarà più neanche il Tribunale, soppresso a causa dei tagli determinati dalla spending review”. Nel carcere di Ragusa l’organico della polizia penitenziaria conta su una ottantina di unità rispetto alle 117 previste, circa il 22% in meno. L’ultimo tentato suicidio di un agente a Ragusa risale a un paio d’anni fa, quando un assistente capo ragusano di 44 anni tentò di impiccarsi nel garage di casa, a causa della depressione scaturente dalle condizioni di lavoro. L’uomo, per fortuna, venne salvato in extremis. Di recente, sempre nel carcere di Ragusa, pure un detenuto egiziano aveva tentato di togliersi la vita, mentre erano in preoccupante aumento i casi proteste da parte dei detenuti, in alcuni casi sfociate in ferimenti lievi ai danni degli agenti penitenziari”. Ragusa: “Sprigioniamo sapori”, al via un progetto di inserimento lavorativo per i detenuti www.blogsicilia.it, 25 novembre 2012 Il pieno recupero dei detenuti è un tema sul quale è più che mai necessario intervenire con adeguate politiche sociali. In nessun altro modo sono definibili se non inaccettabili le condizioni di vita per i reclusi all’interno delle carceri italiane. Il sovraffollamento è ai livelli record: “per ogni 100 detenuti che gli istituti di prevenzione e pena dovrebbero ospitare, ve ne sono mediamente 151?, emerge dallo studio Istat “Noi Italia 2012? di qualche mese fa relativo a diversi aspetti della vita nel nostro Paese. Strutture fatiscenti, spazi inadeguati, numero di agenti penitenziari inadeguato: uno scenario che obbliga a chiedersi quale recupero sia possibile per chi varca la soglia di una casa di reclusione. In molte case circondariali però, il riscatto inizia a partire dal lavoro. Si chiama “Sprigioniamo sapori” il nome del marchio nato all’interno del carcere di Ragusa. Un progetto tenacemente perseguito dal consorzio “Città Solidale” che ha presentato stamane il marchio nella città iblea. Molti i volontari del consorzio che hanno permesso l’avvio di una piccola realtà imprenditoriale che ha già creato 10 posti di lavoro, 4 per soggetti svantaggiati e 6 per detenuti. Il progetto riguarda la gestione della cucina detenuti e il bar/spaccio aziendale. Nella mensa vengono occupati due cuochi, due aiuto cuoco detenuti e 4 inservienti detenuti. Mentre nel bar spaccio sono occupati una donna e un barista. La prospettiva del progetto è di integrare nel mondo del lavoro i detenuti, offrendo loro la possibilità di lavorare anche dopo l’espiazione della pena. Infatti, si prevede di offrire il catering esterno con l’organizzazione di banchetti, cerimoniali e degustazioni oltre che di punti vendita esterni dei prodotti gastronomici”. “La Città Solidale”, dunque, si propone di accompagnare questa impresa nei suoi primi passi per favorirne l’ingresso in quella che viene definita “economia carceraria”. Tema che è stato al centro della giornata conclusiva del seminario “Economia sociale” tenutosi a Ragusa. Tra i relatori, Achille Tagliaferri, uno dei massimi esperti del settore a livello europeo. Coordinatore Ufficio di Piano Distretto Roma G/1 e Coordinatore nazionale del Dipartimento “Pace e Stili di Vita” delle Acli. “Dobbiamo sprigionare - spiega Tagliaferri - uno sviluppo che sia solidale e sostenibile. L’economia carceraria costituisce un fattore di civiltà verso il quale tendere. Per farlo occorre sentire il carcere sulla propria pelle, sviluppare delle riflessioni attorno e dentro ad esso e, infine, avere delle visioni ed evasioni che ci permettano di vedere la reclusione come una pulsione creativa”. Un concetto che presuppone la capacità di distinguere la giusta detenzione dallo spirito di vendetta di una società che ama infliggere delle pene. Una distinzione utile per incominciare a tracciare un discorso costruttivo e realistico sull’economia carceraria. “Il progetto del consorzio “La Città solidale” - aggiunge Tagliaferri - rappresenterà un momento di economia carceraria nel momento in cui si aprirà del tutto alle regole di mercato e sarà competitivo anche all’esterno nell’offrire i propri servizi. Per riuscirvi deve puntare sulla qualità del prodotto e sulla capacità di metterlo in commercio”. In attesa che “sprigioniamo sapori” prenda la forma definitiva di una impresa no profit, resta la soddisfazione di avere dato il via ad un progetto innovativo per la provincia di Ragusa. “Abbiamo già in corso - anticipa Guccione - contatti molto interessanti per fare uscire presto i nostri prodotti dalla cucina del carcere. Mi fa piacere sottolineare la grande e preziosa collaborazione avviata con gli educatori e con i direttori delle case circondariali di Ragusa e Modica. persone disponibili e che vivono concretamente il loro ruolo di agenti facilitatori del ritorno in società dei detenuti”. Napoli: all’ergastolo da innocente e ora gli chiedono pure 22mila € per “spese di giustizia”! di Rosaria Capacchione Il Mattino, 25 novembre 2012 Cartella Equitalia per un muratore di Casal di Principe: da due anni aspetta la revisione del processo. Alberto Ogaristi, un muratore condannato all’ergastolo e ora libero, in attesa da due anni e mezzo di revisione del processo, si è visto recapitare la cartella esattoriale che monetizza quelle spese di giustizia che si devono allo Stato in caso di condanna: per la precisione, ventiduemila e 605 euro (somma comprensiva di interessi di mora e di riscossione coattiva) che Equitalia intende incassare con il ricorso al pignoramento dei crediti. Un giorno, quando l’incubo sarà finalmente finito, i giorni trascorsi in carcere ingiustamente saranno risarciti con un indennizzo. Una riparazione economica, grande o piccola non si sa, che non comprenderà però le pene aggiuntive che Alberto Ogaristi sta scontando ora che è un ergastolano in libertà, un uomo dimezzato in attesa di una revisione che tarda ad arrivare. Velocissima, invece, è stata la cartella esattoriale che monetizza quelle spese di giustizia che si devono allo Stato in caso di condanna: per la precisione, ventiduemila e 605 euro (somma comprensiva di interessi di mora e di riscossione coattiva) che Equitalia intende incassare con il ricorso al pignoramento dei crediti. Una beffa, perché la sentenza di condanna è sospesa già da due anni e mezzo ma non così la procedura burocratica avviata nel 2007 dalla Corte di Appello di Napoli, all’esito della sentenza di secondo grado che aveva ribaltato il verdetto della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere. Nessuno si è preso la briga di impugnare il decreto: non Ogaristi, che nel frattempo era stato arrestato; non la giovane moglie, che dall’oggi al domani era diventata una vedova bianca, mamma di una bimba che all’epoca aveva pochi mesi; non i genitori, alle prese con la brutta malattia del papà. Il 23 ottobre, invece, dall’agenzia di Caserta di Equitalia Sud è arrivato il pignoramento. Il tributo richiesto è 15.235,93 euro (più le spese, suscettibili di ulteriori aumenti) per spese processuali e ufficiali giudiziari. In tutto, dicevamo, quasi ventitremila euro. Che, ovviamente, Alberto Ogaristi non ha. Perché lui, che un tempo era un muratore specializzato, oggi è un operaio saltuario, costretto a elemosinare una giornata di lavoro, a improvvisare mille mestieri per dare da mangiare a moglie e figli. Ogaristi, che oggi ha 40 anni, continua a essere un uomo a metà: mezzo ergastolano, mezzo libero, appeso ai tempi del processo di revisione che la scorsa settimana è stato nuovamente rinviato. La sua storia è la storia di ordinaria ingiustizia, di un errore al quale la stessa Procura antimafia, quattro anni fa, aveva posto rimedio, ma che da allora s’incrocia e si scontra con le sabbie mobili della burocrazia per la quale il muratore di Casal di Principe è soltanto un numero di matricola e di procedimento. Da due anni e mezzo aspetta che dei giudici mettano il suggello a quanto hanno detto altri giudici. E cioè che non fu lui a uccidere un tale Antonio Amato, vittima della faida tra i bidognettiani e gli altri Casalesi. I veri assassini, tutti collaboratori di giustizia, hanno confessato e per quel crimine sono stati anche condannati. Tutti tranne uno: Giovanni Letizia, assolto in primo grado e in appello, oggi ergastolano per gli omicidi commessi al seguito di Giuseppe Setola. Il primo pentito a parlare fu Massimo Iovine da Villa Literno, a gennaio del 2008: “Vivo con la morte nel cuore perché in carcere c’è un giovane che sta pagando per un omicidio commesso da me. Fui io a uccidere Antonio Amato, quell’Ogaristi non c’entra niente”. Ogaristi ha ottenuto che i giudici accogliessero l’istanza di libertà condizionata, mettendo parzialmente fine all’ingiustizia. Accadeva il 22 giugno del 2010, dopo mille battaglie e dopo le relazioni della stessa Procura di Napoli che tempo prima l’aveva fatto arrestare e condannare e che voleva riparare all’errore. Amato fu ammazzato la sera del 18 febbraio del 2002 mentre a Casal di Principe un altro commando di camorra uccideva il sindacalista Federico Del Prete. Si salvò il cognato della vittima, Talet Qoku, che per alcuni secondi vide in faccia uno degli assassini. Spaventato, Talet tornò in Albania subito dopo il riconoscimento, per non fare mai più rientro in Italia. Circostanza che ha comportato la sanzione della Corte europea di giustizia all’Italia, condannata a pagare un risarcimento di 15.000 euro, venuta meno alla regola del processo giusto. Milano: dai detenuti di San Vittore 41 scatoloni di cibo per il Banco alimentare di Elena Gaiardoni Il Giornale, 25 novembre 2012 I tempi sono duri ma i buoni resistono. I detenuti di San Vittore per esempio. Dai trentatré del 2011, sono passati ad essere quarantuno gli scatoloni pieni di cibo che gli “ospiti” della casa circondariale hanno donato nella sedicesima edizione della Giornata nazionale della colletta solidale, tenutasi ieri, e indetta dalla Fondazione banco alimentare onlus. Olio, omogeneizzati, cibi per i piccoli, pesce e carne in scatola, sughi tra i doni che i carcerati hanno acquistato risparmiando sulla paga della settimana. Le derrate saranno distribuite tra gli ottomila enti caritativi che si prendono cura di un milione e quattrocentomila indigenti. Sono 292 le strutture che nella nostra città assistono cinquantamila persone a rischio fame. “Ho incontrato individui che non sanno cosa significhi la rassegnazione, con un forte desiderio di socialità e soprattutto generose come la stessa raccolta dimostra” ha commentato Carolina Pellegrini, assessore regionale alla Famiglia, integrazione e solidarietà sociale, durante la visita a San Vittore insieme ai volontari dell’associazione “Incontro e presenza”. Nel corso delle sue conversazioni con uomini e donne che stanno scontando la pena, Carolina Pellegrini ha avuto modo di rendersi conto di cosa significhi una vita dietro le sbarre, passata in condizioni non certo ottimali visto la storico problema di sovraffollamento che colpisce il carcere già da troppo tempo. Cento e trentamila famiglie lombarde conducono una vita di stenti. Altrettanto drammatiche le cifre che si riferiscono alla povertà nel nostro Paese. Otto milioni di italiani, il 13,8% della popolazione. Si contano inoltre 3,5 milioni di poveri assoluti che non sono in grado d’accedere a beni e servizi essenziali. Di questa piaga in progressiva espansione ha parlato l’europarlamentare Gabriele Albertini, che ha fatto una spesa solidale nei supermercati Iper Portello di via Grosseto e all’Esselunga di viale Certosa. Accompagnato dall’imprenditore Gianfranco Librandi, che aderisce alla sua lista civica per le regionali, Albertini ha sottolineato l’impegno dei politici italiani al parlamento di Strasburgo contro i tagli del 30% proposti dal Consiglio e dalla Commissione Europea al fondo per l’assistenza agli indigenti, tagli che aumenterebbero le difficoltà di vita di 18,9 milioni di beneficiati dalla distribuzione di derrate alimentari. Ieri, sull’intero territorio regionale, una task force di cinquemila volontari si è mossa per una raccolta a cui hanno partecipato l’assessore alle Politiche sociali del Comune Pierfrancesco Majorino, il presidente del Banco alimentare Lombardia, Pierluigi Valerin e il presidente della Fondazione Banco Alimentare, Andrea Giussani. “Ogni giorno migliaia di uomini e donne arrivano alle mense dei poveri per cercare un pasto caldo. E sono in aumento. Far fronte a questo sarebbe impossibile se non ci fosse la generosità dei cittadini. La collaborazione con il Banco alimentare è nata anni fa e continuerà nei prossimi mesi nell’ambito del piano per i Senzatetto” ha detto Majorino. Il Banco alimentare lombardo “Danilo Fossati” fornisce 2.800 tonnellate annue di cibarie per un valore pari a oltre 8 milioni di euro all’anno, gran parte dei quali provengono proprio dalla giornata di ieri in cui tutti i lombardi si sono dati da fare. Chieti: detenuti al Banco Alimentare… un modo per sentirci utili e aiutare chi ha bisogno Il Sussidiario, 25 novembre 2012 In occasione della sedicesima Giornata nazionale della Colletta Alimentare, promossa da Fondazione Banco Alimentare, due detenuti della Casa Circondariale di Chieti raccontano in che modo hanno vissuto questa speciale occasione: lasciare le mura del carcere per aiutare i più bisognosi. Ecco quindi le lettere di Sgaieri Tarek e Nicola Paradiso. “Mi chiamo Sgaieri Tarek e sono in carcere dal 2008. Isolato dai miei famigliari e dagli amici che frequentavo prima, in tutti questi anni trascorsi in vari istituti nessuno ha mai creduto in me o mi ha dato la minima possibilità di reinserirmi. Qui invece, in questo istituto in cui mi trovo da un po’ di tempo, ho trovato persone che credono davvero in me. Sono immensamente grato a tutti loro che mi stanno dando l’opportunità di trascorrere una giornata al di fuori di queste mura: per me, e credo anche per chi verrà insieme a me, sarà una vera e propria boccata di aria fresca. Alla fine credo che questa esperienza ci offrirà davvero l’opportunità di essere utili a chi è più bisognoso di noi ma allo stesso tempo potrà rendere meno pesante il peso delle mie (e delle nostre) colpe. Ringrazio tutte le persone che hanno avuto fiducia in me, concedendomi questa opportunità. Ringrazio tutta la direzione e in particolare la dott.ssa Raciti”. Sgaieri Tarek “Si apre il 24 novembre la 16ª edizione della “Colletta Alimentare”, evento sociale come tanti altri, penseranno quasi tutti; per me è un evento che segna il mio ritorno alla vita, direi la mia occasione di rinascita; mi esprimo così perché sono un detenuto di lunga data a cui nella precedente manifestazione è stata data l’opportunità di osservare il mondo nei suoi colori, rumori, luci e nei gesti comuni come il fare la spesa. Tutto questo lo avevo dimenticato avevo negli occhi nelle orecchie e nel naso visioni, rumori e odori che diventavano quelli di detenuto nella vita di ogni giorno. Ricordo ancora l’entusiasmo, la curiosità e direi la bramosia di fare mio, o ancor di più, fissare nella mia mente tutti i momenti che avrei vissuto, perché poi una volta rientrato in carcere vi avrei nutrito la mente e l’anima. Ad un anno di distanza e ancora vivida nella mia mente l’immagine di mia moglie che mi stava aspettando, ho potuto riabbracciarla senza impedimenti e sussurrarle il mio amore senza il pudore di colui che pensa di essere ascoltato. Sto raccontando tutto ciò, perché quest’anno presenzierò di nuovo a questa manifestazione con uno spirito nuovo, posso considerarmi un mezzo detenuto, oggi ho un lavoro, quindi un reinserimento sociale importante; ho riconquistato in parte un ruolo nella collettività. Dopo il lavoro rientro a casa e posso vivere le gioie della famiglia, ho detto un “mezzo detenuto” perché ahimè alle ore 22,30 ancora sento alle mie spalle rumori di chiavi e cancelli che si chiudono al mondo e si aprono su una realtà carceraria, che spinge ogni uomo a tirare fuori il peggio di sé. La mia esperienza a questo evento per me è una vittoria, perché sono riuscito ad adeguarmi e comprendere le regole della mia nuova vita. Quest’ opera di volontariato mi porta a comprendere una realtà diversa che avevo perso di vista. È doveroso non dimenticare coloro che lavorano per la nostra riabilitazione, io porto nel cuore l’immagine di una donna adibita a ciò, la quale ha puntato tanto su di me, grazie, mi impegnerò ancora per non deluderla. Si può cambiare, bisogna volerlo. Nicola Paradiso Catanzaro: all’Ipm giovane detenuto magrebino distrugge il vetro della cella Ansa, 25 novembre 2012 Il fatto è stato reso noto da Walter Campagna, coordinatore nazionale per la giustizia minorile. Protagonista un magrebino che nei giorni scorsi aveva anche incendiato il materasso. Gli episodi hanno poi scatenato momenti di tensione anche tra gli altri “Ancora disordini al carcere minorile di Catanzaro. Stamane intorno alle 9 un detenuto di nazionalità magrebina, lo stesso che qualche giorno fa aveva incendiato il materasso della propria cella, ha spaccato il vetro della finestra della stanza dove era ubicato creando, ancora una volta, disordine all’interno della struttura carceraria”. Lo rende noto Walter Campagna, coordinatore nazionale per la giustizia minorile. “Quanto sta avvenendo - aggiunge il sindacalista - dovrebbe far riflettere dipartimento che senza un adeguato organico di polizia penitenziaria diviene arduo programmare l’apertura del nuovo padiglione detentivo che creerebbe, a nostro avviso, un notevole aumento di detenuti ritenuti problematici che farebbero perdere all’istituto di Catanzaro quel prestigio affermato ormai da diversi anni”. Roma: domani Convegno “Il carcere oggi, luogo di recupero o discarica sociale?” Adnkronos, 25 novembre 2012 Domani, a partire dalle 9.30, si terrà a Roma il convegno dal titolo “Il carcere oggi: luogo di recupero o discarica sociale?”, organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza di RomaTre (Aula magna, via Ostiense, 159). Ad aprire i lavori, spiega una nota, sarà il professore di Diritto penale Mario Trapani. La giornata si articolerà in due sessioni. La prima, dalle 10, introdotta dall’ex direttore di Radio Radicale, Massimo Bordin, si concentrerà sulla situazione carceraria e sulle alternative alla pena detentiva. Nel pomeriggio, a partire dalle 14.30, la seconda sessione presieduta dal direttore de “Il Tempo”, Mario Sechi, affronterà il tema del sovraffollamento carcerario e i diritti dei detenuti. Al confronto prenderanno parte, tra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia, Salvatore Mazzamuto, la deputata Radicale, Rita Bernardini, il deputato del Pdl, Alfonso Papa, il capogruppo Pd in commissione Giustizia, Donatella Ferranti, il capogruppo Udc in commissione Giustizia, Roberto Rao, il presidente dell’Unione Camere Penali Valerio Spigarelli, il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, il docente di Filosofia del diritto, Luigi Ferrajoli, il docente di Diritto processuale penale, Luca Marafioti. Haiti: il calvario di Francine, unica canadese nell’inferno delle carceri di Lorenzo Cairoli La Stampa, 25 novembre 2012 Condannata a quindici anni per droga vive come le altre detenute in condizioni incredibili: nove in una cella senza latrina, infestata da zecche, cimici, scarafaggi e ratti. Mentre l’avvocato Javier Villegas denuncia che le carceri colombiane sono veri e propri campi di concentramento, da Haiti, Port-au-Prince, arriva una atroce storia di prigionia vissuta da una cinquantenne canadese, Francine Desormeaux, reclusa nel carcere femminile di Pétion-Ville, prima del terremoto, il quartiere dei ricchi dove, inutile dirlo, non viveva nemmeno uno degli haitiani di razza nera che formano il 95% della popolazione. Il calvario della canadese incomincia nel marzo 2011 quando all’aeroporto di Port-au-Prince viene fermata dalla polizia haitiana con un chilo di cocaina in una tasca interna della sua culottes. Lei cade dalle nuvole. Pensavo, balbetta atterrita, che in quel pacchetto ci fossero delle reliquie voodoo. La polizia, da subito, la ritiene una pedina di un ambiguo uomo d’affari di Montreal di origine haitiana, Dejean Victor, evaso da una prigione di Port-au-Prince nel 2010 mentre attendeva il verdetto per un processo di droga. E mentre il suo capo vive a Montreal libero e indisturbato, Francine sconta a carissimo prezzo la sua ingenuità. Quindici anni di carcere per aver accettato di fare da corriere a Victor. E adesso la vita di Francine sembra un remake di “Fuga di mezzanotte”. Pochi giorni fa Gabrielle Duchaine del quotidiano québécois “La Presse” l’ha incontrata in carcere. Occhi infossati, il corpo scosso da tic, una sigaretta nella mani tremanti. Ha chiesto di lavarsi prima di parlare con la giornalista e ora le confessa di vedere tutto diverso e tutto nerissimo. Non ha mai permesso ai figli di venire a trovarla ad Haiti. “Non voglio che mi vedano in questo stato e non voglio che mettano piede in questo inferno”. Poco prima dell’arrivo della giornalista le hanno estratto tutti i denti dell’arcata superiore. “Tutti marci. Ho dovuto levarli altrimenti l’infezione si propagava”. Divorata da una depressione spaventosa, sempre ammalata a causa dei batteri onnipresenti nell’acqua e nel cibo e sempre a lottare contro infezioni urinarie che la debilitano, Francine ha cercato di suicidarsi due volte negli ultimi mesi. Una volta ingerendo acqua contaminata, un’altra pezzi di vetro. Il paradosso è che dopo averlo fatto non è successo nulla. “Nessun dolore. Come se invece che vetro avessi ingerito batuffoli di cotone”. Uno psicanalista che l’ha visitata ha scritto chiaramente nel suo referto che la canadese potrebbe riprovare a suicidarsi in qualsiasi momento. E la sua determinazione a togliersi la vita è nota in tutto il carcere. La guardia che accompagna la Duchaine nel cortile dove l’attende Francine, scuote il capo e sospira. “Francine, elle ne va vraiment pas bien. Pensa solo a suicidarsi”. La vita in prigione è durissima. Delle 150 recluse, lei è l’unica bianca. Divide una celle con altre nove detenute, in una promiscuità raggelante. Non ci sono latrine nelle celle e raramente le guardiane permettono alle detenute di orinare o defecare fuori dalla cella. “Abbiamo una pentola e dei sacchi. Facciamo tutto lì. Davanti a tutti. Immagina cosa succede quando una di noi soffre di diarrea. Un’umiliazione. E una volta che abbiamo terminato, nessuno porta via i nostri escrementi . I primi tempi mi rifiutavo di mangiare per non dover defecare nella pentola”. I primi tempi Francine si rifiutava anche di lavarsi. “Ci svegliavano alle 5 e ci portavano nude in un cortile circondato da muri sormontati da filo spinato. Versavano dell’acqua in un catino e una dopo l’altra ci lavavamo sotto lo sguardo delle guardie e delle altre detenute e sempre con la stessa acqua con cui si erano lavate le altre. Io mi rifiutai. La direttrice, visto che ero straniera, mi concesse di lavarmi per ultima, quando le altre detenute erano già rientrate nelle celle”. A causa del sovraffollamento delle carceri haitiane, un problema endemico in tutta l’isola, Francine e le sue nove compagne sono detenute in quello che prima era un bagno. Francine, ad esempio, dorme in quello che una volta era lo scarico di una doccia. “Puzza in maniera pestilenziale ed è pieno di cimici e zecche. Ho tante di quelle punture sul corpo che non faccio in tempo ad accorgermi delle nuove. Per non parlare degli scarafaggi. La notte li sento dappertutto, persino sulla mia faccia. Serro la labbra, perché ho il terrore di ingoiarli. Per non parlare dei ratti. Le prime notti li vedevo correre nei corridoi. Abbiamo messo del cartone sulle sbarre della cella per impedire che entrino, ma è stato inutile”. Francine non si è mai adattata alla vita del carcere. Non digerisce il cibo - due pasti giornalieri; la mattina uno sgradevole imbratto d’avena, a pranzo riso, e acqua non depurata. Ha imparato un pò di creolo ma non abbastanza per capire e farsi capire. Le guardie non l’hanno mai picchiata, come fanno spesso con le altre detenute, ma le dà panico la presenza di un guardiano che la scruta con sguardo inquisitore. “Mi provoca continuamente, mi perseguita, mi urla cose tremende”. Il 5 ottobre Francine ha chiesto ufficialmente di essere rimpatriata in Canada per scontare la sua pena. Ma ad oggi, assicurano gli haitiani, non è arrivata nessuna richiesta di estradizione. “Il Canada è un paese amico - ricorda il vice commissario Jean Pierre - se ci avesse chiesto d’estradare la signora Desormeaux, avremmo collaborato. Ma ad oggi, non abbiamo ricevuto nulla”. Il Ministero degli Affari Esteri canadese si è negato al quotidiano “La Presse” per motivi, si legge in un laconico comunicato, di riservatezza. Ma sembra che nei prossimi giorni Francine riceverà una visita dell’ambasciatore canadese. Per quanto attiene le carceri haitiane, nel marzo del 2012 sono stati censiti quasi 8.000 detenuti in 16 prigioni, di cui 4 erano ex commissariati di polizia. Dal 1995 al 2012 la popolazione carceraria è aumentata del 250%. Il 70% dei detenuti non è mai stato assistito da un avvocato, né ha mai subito un processo. 275 detenuti sono morti di colera poco tempo dopo il propagarsi dell’epidemia. Bambini e adulti sono detenuti nelle stesse celle. La superficie totale di tutte le prigioni è di 3455 metri quadrati, che equivale a 0,48 metri quadrati per detenuto, con un tasso di sovraffollamento superiore al 400% rispetto a quello previsto dalla Croce Rossa. Un esempio su tutti. Nella prigione di Jacmel c’è un solo letto a castello per 30 detenuti. Per dormire tocca fare a turni. Venezuela: Maria Lourdes Afiuni, giudice anti-Chavez, denuncia stupro in carcere Ansa, 25 novembre 2012 Una giudice venezuelana accusata di corruzione dal presidente Hugo Chavez, Maria Lourdes Afiuni, ha scritto in un libro di essere stata violentata nel periodo in cui è stata incarcerata a Caracas. Così facendo la Afiuni ha rilanciato il caso per cui il leader “bolivariano” era stato duramente criticato dall’Onu e da diverse Ong di difesa dei diritti umani. In “Afiuni, la prigioniera del Comandante”, del giornalista Francisco Olivares, la giudice racconta di essere stata vittima di ogni sorta di abuso, stupro incluso, mentre era rinchiusa nell’Istituto Nazionale di Orientamento Femminile (Inof), un carcere dei dintorni di Caracas. Si era molto parlato di Afiuni, 48 anni, dopo il suo arresto nel 2009, perché aveva deciso la libertà condizionale per Eligidio Cedeno, un faccendiere finito in carcere per tre anni, senza processo. Chavez aveva chiesto per la donna una condanna “alla pena massima di 30 anni, per la dignità del paese”. In un discorso televisivo, il presidente ha prima definito la giudice “una bandita”, poi ha affermato di aver sollevato il caso con la Corte Suprema e il Parlamento per “esigere la massima durezza” nella vicenda Afiuni, sostenendo inoltre che Simon Bolivar, eroe nazionale del paese, l’avrebbe fatta fucilare. La giudice è stata accusata tra l’altro di corruzione, abuso di potere e cospirazione. È stata quindi incarcerata all’Inof, dove è rimasta fino a febbraio dell’anno scorso, quando ha ottenuto gli arresti domiciliari a seguito di una isterectomia (asportazione dell’utero). Ora Afiuni ha rivelato che mentre era in carcere è stata violentata, è rimasta incinta ed ha abortito spontaneamente, e quindi è stata operata. Nel libro-intervista la giudice descrive il carcere femminile di Caracas come un inferno dove le autorità tollerano la violenza psicologica e fisica delle detenute, complici di ogni sorta di abuso e di traffico. Le autorità penitenziarie hanno respinto le accuse, precisando che chiederanno “l’apertura di una causa civile, penale e amministrativa per diffamazione e ingiurie”. Il caso Alfiuni è stato denunciato tra l’altro dalla Commissione Interamericana per i Diritti Umani, la Conferenza episcopale venezuelana e Human Rights Watch, organismo per il quale “Caracas conferma la sua totale indifferenza rispetto all’indipendenza del potere giudiziario”. Qualche mese fa, il linguista e attivista politico Usa Noam Chomsky ha scritto una lettera aperta a Chavez nella quale sosteneva che Afiuni “ha subito un attentato contro la sua dignità umana”, chiedendo che sia liberata. Russia: scarcerato dopo 11 anni medico condannato per spionaggio a favore Cina Tm News, 25 novembre 2012 La Russia ha scarcerato un medico condannato a tredici anni di reclusione per spionaggio a favore della Cina, ma che non aveva smesso di proclamare la sua innocenza sostenendo che le informazioni in questione fossero di dominio pubblico da anni. Valentin Danilov è stato scarcerato dalla prigione numero 17 a Krasnoiarsk (Siberia) dopo aver scontato undici dei tredici anni che gli erano stati inflitti, hanno sottolineato le agenzie di stampa russe. Arrestato nel 2001, era stato condannato nel 2004 a 14 anni (pena successivamente ridotta a tredici), per spionaggio a favore dei cinesi e distrazione di 466mila rubli (15mila dollari) in un’università. La procedura è stata aperta a suo carico all’inizio del primo periodo al potere di Vladimir Putin, ex agente del Kgb. Siria: arrestato ingegnere, dissidente non violento, che aveva già scontato 2 anni di carcere Ansa, 25 novembre 2012 Le forze di sicurezza siriane hanno arrestato e condotto in un luogo sconosciuto un dissidente di spicco del movimento non violento. Lo riferisce l’avvocato Anwar Al Bunni, anch’egli più volte in carcere per il suo lavoro di difensore di detenuti politici. Bunni afferma che le forze di sicurezza hanno fatto irruzione ieri nell’abitazione dell’ingegnere Marwan al Osh a Sehnaya, sobborgo a sud di Damasco, portandolo via e sequestrando i due computer che aveva a casa. Marwan Al Osh aveva già scontato due anni di carcere dal 2008 al 2010 e nel 2005 era stato uno dei firmatari della Dichiarazione di Damasco, in cui numerosi dissidenti invocavano una graduale e incruenta stagione di riforme politiche nel Paese.