Giustizia: migliaia in digiuno dentro e fuori le carceri per amnistia e diritto di voto dei detenuti Agenparl, 22 novembre 2012 Milano, Firenze, Napoli, Salerno, Venezia. E poi Palermo, Catania, Forlì, Torino, Cagliari Rimini, e ancora: Cuneo, Cremona, Bologna, La Spezia, sono decine in tutta Italia le città dove in queste ore sono in corso manifestazioni davanti alle carceri per l’ultimo dei quattro giorni di mobilitazione nonviolenta lanciata da Marco Pannella e dal Partito radicale per il diritto di voto dei detenuti e l’amnistia. Stasera gli oltre trentamila detenuti che in più di 80 carceri sono in sciopero della fame ripeteranno ancora una volta la battitura delle sbarre, dalle 20 alle 20.15, facendo seguire tre quarti d’ora di silenzio. Alle ore 19.30 di oggi, a Roma davanti al carcere di Regina Coeli in via della Lungara, il Partito radicale terrà un presidio al quale prenderanno parte parlamentari, operatori penitenziari, volontari, familiari dei detenuti e rappresentanti di associazioni che hanno aderito alla mobilitazione, oltre a militanti e dirigenti radicali tra cui la deputata Rita Bernardini e la segretaria del Detenuto Ignoto Irene Testa che dal 24 ottobre conducono un sciopero della fame - con il direttore di Notizie radicali Valter Vecellio e il segretario di radicali Lucani Maurizio Bolognetti - inframmezzato da intere giornate di sciopero della sete, affinché le istituzioni si impegnino a riportare subito alla legalità il sistema giustizia e la sua appendice carceraria attraverso un provvedimento di amnistia e indulto. Il presidio accompagnerà i detenuti nel momento della battitura delle sbarre e in quello successivo del silenzio. Tra le numerose adesioni alla mobilitazione nonviolenta promossa da Marco Pannella e dal Partito radicale dentro e fuori le carceri per garantire la possibilità, ai tantissimi reclusi che ancora li conservano, di esercitare i propri diritti in vista delle prossime scadenze elettorali e ribadire con forza la necessità di un’amnistia, quella del sindacato dei dirigenti penitenziari Si.Di.Pe, del segretario nazionale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, Leo Beneduci, delle associazione A Buon Diritto, di Patrizio Gonnella presidente di Antigone e Ornella Favero direttrice di Ristretti Orizzonti, di Anna Pia Saccomandi segretaria generale della Conferenza nazionale Volontariato e Giustizia, della Comunità di Sant’Egidio, di Albino Bizzotto, presidente dell’associazione cattolica “Beati i costruttori di pace” Padova; del settimanale Tempi con il direttore Luigi Amicone, del Blog della Giustizia, del presidente dei medici penitenziari Francesco Ceraudo, di Don Antonio Mazzi, e del cappellano e del sacerdote del Carcere di Rebibbia, Don Sandro Spriano e Don Marco Di Benedetto, del cappellano del carcere di Sassari don Gaetano Galia. La quattro giorni di sciopero della fame, battitura e silenzio sostiene l’astensione dalle udienze indetta dall’Unione delle Camere Penali. Giustizia: ecco perché, nonostante la crisi, la legge Smuraglia sarà rifinanziata www.ilsussidiario.net, 22 novembre 2012 Un emendamento alla Legge di Stabilità che oggi sarà approvata in via definitiva alla Camera assegna un incremento di fondi alla dotazione della Legge Smuraglia (l. 22 giugno 2000 n. 193), di quella legge cioè che prevede benefici fiscali e contributivi per le imprese che assumono detenuti o svolgono attività formative nei loro confronti. Il lavoro penitenziario è unanimemente e scientificamente considerato il più importante fattore di recupero e reinserimento sociale, quell’elemento del “trattamento” (secondo la terminologia un po’ burocratica delle norme) che meglio di qualsiasi altro dà attuazione alla previsione costituzionale per la quale le pene devono tendere alla rieducazione dei condannati (art. 27 II comma Cost.), poiché contribuisce come nessun altro all’abbattimento drastico della recidiva e conseguentemente dei costi abnormi del sistema carcerario. Prima dell’approvazione della Legge Smuraglia, avvenuta nel 2000, le norme sul lavoro in carcere non avevano portato grandi benefici in termini di rieducazione, poiché a conti fatti, senza misure di sostegno non consentivano di creare reali opportunità occupazionali, a fronte di un progressivo aumento della popolazione detenuta. Inoltre non era ipotizzato che le attività produttive fossero gestite con criteri di gestione imprenditoriali o con figure in grado di relazionarsi in maniera competente e stabile con il mercato del lavoro; le poche esperienze significative avviate negli anni 70 cessarono così dopo qualche anno, strette tra mille difficoltà logistiche, burocratiche e sindacali. Non c’erano in sostanza misure sufficienti a convincere imprese pubbliche, private e del privato sociale a trasferire tutte o parte delle proprie lavorazioni all’interno delle mura carcerarie. È stata la Legge Smuraglia a introdurre per prima misure concrete per le aziende pubbliche e private e per le imprese del privato sociale (prevalentemente cooperative sociali e loro consorzi) che organizzano attività produttive con l’impiego di detenuti: sgravi contributivi per l’assunzione di detenuti in semilibertà o ammessi al lavoro all’esterno e un credito d’imposta mensile per ogni detenuto assunto o inserito in programmi di formazione con finalità di assunzione. La Legge Smuraglia ha costituito un buon punto di partenza per affrontare il problema del lavoro nelle carceri; oggi su 66.685 detenuti presenti nelle 206 carceri italiane, che lavorano alle dipendenze di imprese e cooperative all’interno degli istituti sono meno di 900 (lavora cioè un detenuto ogni 74); è evidente che il numero non è affatto sufficiente a superare le difficoltà del sistema penitenziario italiano, oggi sempre più drammaticamente attuali. Sovraffollamento, condizioni di vita disumane, suicidi sono all’ordine del giorno. Negli ultimi anni, sollecitata dal mondo cooperativo e dagli operatori del settore, anche la politica si è mossa chiedendo con due disegni di legge promossi dall’Intergruppo Parlamentare per la Sussidiarietà presentati ancora alla fine 2009, con il sostegno trasversale di quasi tutte le forze politiche, nuove misure che possano rendere più facile l’assunzione dei detenuti da parte delle imprese. Nonostante l’ampio favore del mondo politico e le continue sollecitazioni di attenzione ai mille problemi delle carceri, in primis quelle insistenti e ripetute del Presidente Napolitano e non da ultimo l’impegno e i richiami accorati del Ministro Paola Severino, la questione del lavoro non era stata mai affrontata in modo strutturale, aggravando una situazione già allo stremo; nell’ultimo decennio i pochi benefici a disposizione del lavoro, mai aggiornati dal 2002, come il fondo a copertura del credito d’imposta previsto dalla legge Smuraglia, si sono esauriti molto prima del necessario, compromettendo i percorsi di inserimento già avviati e costringendo le imprese più in difficoltà a licenziare i detenuti. La misura contenuta nella legge di stabilità viene perciò salutata come una svolta epocale, perché stabilizza e incrementa la copertura economica della legge Smuraglia e incentiva imprese e cooperative a investire maggiormente nelle attività produttive intra ed extra murarie, cioè in lavoro vero secondo le regole del mercato, migliorando le condizioni di vita non solo dei carcerati ma anche degli agenti di Polizia Penitenziaria e di tutti gli operatori che a vario titolo lavorano nelle carceri, ai familiari dei detenuti stessi e, più in generale, grazie all’abbattimento drastico della recidiva, portando un beneficio sociale ed economico veramente molto rilevante per tutta la società. Vale la pena ricordare che secondo i dati ufficiali del Ministero della Giustizia, la recidiva in Italia raggiunge circa il 70% tra coloro che hanno scontato la pena in carcere e si attesta al 19% per coloro che hanno potuto beneficiare di misure alternative alla detenzione. Questo significa che dei 66.685 detenuti oggi presenti nelle carceri italiane il 70% commetterà almeno un nuovo reato una volta uscito dal carcere (e prima o poi usciranno tutti). Il lavoro in carcere invece, quando è lavoro reale con regole di mercato, produce un abbattimento della recidiva che scende mediamente sotto al 5% circa con punte dell’1% quando i percorsi di inserimento lavorativo cominciano all’interno del carcere e proseguono all’esterno con le misure alternative. Grazie all’abbattimento della recidiva un costo assistenziale pesantissimo, fino a 250 euro al giorno di costi diretti e indiretti per ogni detenuto, viene trasformato in risorsa a disposizione della collettività da destinare a interventi in sanità, sociale, scuola ecc., oltre a creare condizioni di vita più umane nelle carceri, più sicurezza sociale per i cittadini e risorse pubbliche non più sprecate ma impiegate costruttivamente dentro una prospettiva di reale reinserimento sociale. Il tutto senza alcuno slancio buonista e pietista o sconti di pena ingiustificati. Chi ha sbagliato deve pagare, ma dentro una prospettiva, una speranza fatta principalmente di percorsi di rieducazione che solo il lavoro può garantire. Giustizia: Napolitano; la situazione delle carceri italiane è allarmante, la pena non sia disumana Dire, 22 novembre 2012 “Il continuo aumento della popolazione carceraria e la massiccia presenza di reclusi di diverse etnie rendono estremamente complesso e spesso vanificano il perseguimento delle finalità rieducative della pena delineate dall’art. 27 della Costituzione. In tale allarmante contesto si rende indispensabile fronteggiare, in stretta collaborazione con tutti gli operatori del settore e anche con le istituzioni territoriali e il volontariato sociale, le situazioni di disagio, sofferenza e grave rischio che tale realtà carceraria comporta”. Così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della 17a Conferenza dei Direttori delle Amministrazioni Penitenziarie, promossa dal Consiglio d’Europa di concerto con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dedicata alla presenza nelle carceri di detenuti stranieri, nel messaggio inviato al Presidente del DA$$P Giovanni Tamburino. “Torno peraltro ad auspicare fortemente- aggiunge-, come in numerose precedenti occasioni, la ricerca di soluzioni normative e organizzative differenziate e flessibili affinché la pena non superi il punto oltre il quale la sua afflittività si pone in contrasto con il senso di umanità e la funzione di reinserimento sociale dei detenuti”. “Sono certo che dal dibattito e dal confronto tra i vertici delle amministrazioni che nei paesi membri presiedono alla fase esecutiva delle varie tipologie sanzionatorie emergeranno spunti e proposte interessanti per individuare le criticità e i fattori di rischio e per suggerire iniziative organizzative e trattamentali efficaci”, conclude Napolitano. Giustizia: il Papa; i detenuti sono soprattutto stranieri e poveri, il carcere fallisce se non rieduca Agi 22 novembre 2012 “La crescente presenza di detenuti stranieri, spesso in situazioni difficili e di fragilità” è una delle caratteristiche di “un tempo in cui le differenze economiche e sociali ed il crescente individualismo alimentano le radici della criminalità”. Benedetto XVI lo sottolinea in un discorso rivolto ai partecipanti alla 17esima Conferenza dei Direttori delle Amministrazioni Penitenziarie del Consiglio d’Europa. “Il contatto con coloro che hanno commesso colpe da espiare e l’impegno richiesto per ridare dignità e speranza a chi spesso ha già sofferto l’emarginazione ed il disprezzo richiamano - secondo il Papa - la missione stessa di Cristo, il quale è venuto a chiamare non i giusti, ma i peccatori destinatari privilegiati della misericordia di Dio”. Ai direttori dei dipartimenti delle carceri dei paesi europei, accompagnati in Vaticano dal ministro italiano Paola Severino, il Pontefice ha ricordato che “al parametro della giustizia, deve essere accostato come essenziale quello del rispetto della dignità e dei diritti dell’uomo”, ed ha aggiunto che anche “questo parametro, benché indispensabile ed in molti Paesi, purtroppo, ancora lontano dall’essere conseguito, non può essere considerato sufficiente, proprio al fine di tutelare in modo integrale i diritti della persona”. In proposito Papa Ratzinger lamenta che se oggi “i temi della giustizia penale sono continuamente all’attenzione dell’opinione pubblica e dei governi”, purtroppo “la tendenza è quella di restringere il dibattito solo al momento legislativo della disciplina dei reati e delle sanzioni o al momento processuale”, e una “minore attenzione viene invece prestata alla modalità di esecuzione delle pene detentive”, mentre una “più vera giustizia, anche in presenza di strutture e risorse adeguate, l’efficacia dei percorsi rieducativi dipende sempre dalla sensibilità, capacità ed attenzione delle persone chiamate ad attuare in concreto quanto stabilito sulla carta”. Dunque, “il compito degli operatori penitenziari, a qualunque livello essi operino, non è certo facile”, ammette il Papa che vuole così “rendere omaggio a tutti coloro che, nelle amministrazioni penitenziarie, si adoperano con grande serietà e dedizione”. La giustizia fallisce se il carcere non rieduca Lo denuncia di Benedetto XVI ai partecipanti alla 17esima Conferenza dei Direttori delle Amministrazioni Penitenziarie del Consiglio d’Europa in Vaticano. Per fare giustizia, non basta punire il colpevole ma bisogna fare tutto il possibile per “correggere e migliorare l’uomo”, aiutandone la riabilitazione e il reinserimento nella società. Altrimenti, “la giustizia non è realizzata in senso integrale” e sarà l’intera collettività a pagarne le conseguenze. È stato un discorso tutto centrato sulla centralità della “funzione rieducativa” del carcere, quello tenuto questa mattina da papa Benedetto XVI di fronte ai partecipanti della Conferenza dei direttori delle amministrazioni penitenziarie, organizzata dal Consiglio d’Europa. I rappresentanti di ben 47 Paesi sono a Roma dal 22 al 24 novembre per riflettere su come garantire ai detenuti stranieri gli stessi diritti degli altri detenuti e cercare insieme norme adeguate per prevenire ogni sorta di discriminazione. Papa Ratzinger ha osservato come oggi giustizia e criminalità siano temi spesso all’ordine del giorno di opinione pubblica e governi, ma come spesso la discussione si riduca alla richiesta di leggi e pene più severe per i reati, senza riflettere su come queste pene vengano poi amministrate. Invece, per il pontefice bisogna “impegnarsi, in concreto e non solo come affermazione di principio, per una effettiva rieducazione della persona, richiesta sia in funzione della dignità sua propria, sia in vista del suo reinserimento sociale”. “L’esigenza personale del detenuto di vivere nel carcere un tempo di riabilitazione e maturazione - ha proseguito Benedetto XVI - è esigenza della stessa società, sia per recuperare una persona che possa validamente contribuire al bene di tutti, sia per depotenziarne la tendenza a delinquere e la pericolosità sociale”. Non si tratta solo di investire più soldi per rendere le carceri più dignitose: deve crescere una nuova “mentalità” che metta al centro il pieno rispetto dei diritti umani dei carcerati, perché la funzione rieducativa della pena “non sia considerata un aspetto accessorio e secondario del sistema penale, ma, al contrario momento culminante e qualificante”. Un rispetto che è tanto più urgente nel caso dei detenuti stranieri, “spesso in situazioni difficili e di fragilità”, che costituiscono in alcuni Paesi una fetta consistente della popolazione carceraria. In Italia, i detenuti stranieri sono il 36,6% del totale, ma in Paesi come la Svizzera si arriva addirittura a più del 70%. Per loro, ancora più che per i detenuti locali, è importante pensare iniziative capaci di “spezzare la solitudine in cui spesso i detenuti restano confinati”, a cominciare dalla “promozione di attività di evangelizzazione e di assistenza spirituale” all’interno delle prigioni. Un’indicazione, questa, contenuta anche nella recente Raccomandazione - la numero 12 - del Consiglio d’Europa ai suoi membri, che prevede tra l’altro di facilitare i contatti dei detenuti stranieri con la famiglia e gli avvocati, e di offrire al personale carcerario una formazione specifica sulle differenze culturali e religiose. Giustizia: il ministro Severino al Papa “Completare riforma del carcere con misure alternative” Il Velino, 22 novembre 2012 “Santità, avverto oggi un’emozione analoga a quella che avvertii quando, per la prima volta, quasi un anno fa, la incontrai nel carcere di Rebibbia, in una circostanza quindi certamente diversa da quella di oggi, ma comunque sempre per parlare di carcere e per parlare di detenzione”. Lo afferma la Guardasigilli Paola Severino rivolgendosi al Pontefice in occasione dell’udienza concessa da Papa Benedetto XVI ai partecipanti alla 17a Conferenza dei Direttori di Amministrazione Penitenziaria e dei servizi di probation. “Considero quella di Rebibbia - continua il ministro - una tappa fondamentale nel mio percorso di Ministro, che mi ha segnata e che ancora oggi mi segna, alimentando la mia tenacia nel tentativo di completare la riforma carceraria con le misure alternative alla detenzione, con l’istituto della messa alla prova, con l’istituto del lavoro carcerario che rappresenta, veramente, la più importante forma di reinserimento sociale del detenuto. Mi ha segnata, dicevo, e continua a segnarmi, perché il calore di quella umanità sofferente che ho sentito insieme a Lei quel giorno, l’ho risentita in tutte le carceri nelle quali, successivamente, ho portato la mia visita e la mia parola”. Nel saluto al Pontefice, Severino prosegue: “In quell’incontro a Rebibbia lessi una lettera inviatami da un detenuto; anche quella lettera, quelle parole mi hanno seguita in tutti gli altri incontri successivi. Nelle mie visite ho avvertito delle storie di umanità dolente, di umanità che cerca però il modo per redimersi, di detenuti che chiedono di imparare un mestiere per poter riprendere la loro vita normale, per poter essere vicino ai figli, ai nipoti, ai familiari, per poter ritornare a far parte di quella famiglia dalla quale sono stati lontani, e sono lontani, durante il periodo della carcerazione. Ho letto in un libro una frase che mi ha molto colpita: “quando tu vai in carcere tu sei un punto fermo nella tua cella, che non si può muovere, che non può fare nulla, mentre la tua famiglia, i cari, continuano a vivere, continuano ad andare avanti, continuano a crescere, continuano a vivere la vita”. Ecco, tutto quello che è stato fatto e che continueremo a fare e che ruota, oggi, intorno al carcere, serve proprio a diminuire la distanza che c’è tra l’uomo in carcere e la sua famiglia, che c’è tra l’uomo in carcere e la società. E devo dire che gli esempi che ho avuto di straordinaria professionalità e dedizione del volontariato cattolico, ma anche del volontariato laico, nelle carceri, mi hanno dimostrato quanto importante sia la presenza di tutti coloro che, ogni giorno, offrono ai detenuti un filo di comunicazione con la società, la possibilità di un canale di ascolto per ridurre la lacerazione della lontananza dagli affetti. Nel carcere, come Lei Santità certamente ci può insegnare, si vedono abissi di dolore, di disperazione, ma anche abissi di straordinaria capacità di reagire e di straordinaria capacità di ritrovare se stessi nel momento del dolore e nel momento della sofferenza”. Severino nota ancora: “Tante volte entrando in quelle piccole cappelle del carcere, che sovente non sono altro che una stanza spoglia, nella quale c’è un altare ed un crocifisso, ho avvertito quel senso di pace che, certamente molto più di me, avvertono i detenuti nel momento in cui ritrovano il loro contatto con la religione, la spiritualità, che è certo una delle forme più importanti per riuscire a sopravvivere all’esperienza del carcere. La nostra presenza qui, oggi, con tutte queste persone che per professione - ma credo di poter dire anche per vocazione - dedicano la loro esperienza, la loro umanità al carcere, credo testimoni l’importanza che tutti noi attribuiamo alla cura della spiritualità come fondamentale momento di rispetto della dignità dell’uomo. Di questo, Santità, volevo darle testimonianza perché tra il nostro primo incontro in carcere ed oggi vi è una continuità che è stata, per me, fonte di ispirazione quotidiana, sostenendomi nel difficile cammino di Ministro”. Giustizia: Severino; avanti per misure alternative, immigrati clandestini sono potenziali detenuti Italpress, 22 novembre 2012 “Avverto oggi un’emozione analoga a quella che avvertii quando, per la prima volta, quasi un anno fa, la incontrai nel carcere di Rebibbia, in una circostanza quindi certamente diversa da quella di oggi, ma comunque sempre per parlare di carcere e per parlare di detenzione”. Lo afferma il ministro della Giustizia, Paola Severino, nel suo saluto al Pontefice in occasione dell’udienza concessa da Papa Benedetto XVI ai partecipanti alla 17esima Conferenza dei direttori di Amministrazione Penitenziaria e dei servizi di probation. “Considero quella di Rebibbia una tappa fondamentale nel mio percorso di Ministro - prosegue la Guardasigilli, che mi ha segnata e che ancora oggi mi segna, alimentando la mia tenacia nel tentativo di completare la riforma carceraria con le misure alternative alla detenzione, con l’istituto della messa alla prova, con l’istituto del lavoro carcerario che rappresenta, veramente, la più importante forma di reinserimento sociale del detenuto. Mi ha segnata, dicevo, e continua a segnarmi, perché il calore di quella umanità sofferente che ho sentito insieme a Lei quel giorno, l’ho risentita in tutte le carceri nelle quali, successivamente, ho portato la mia visita e la mia parola. In quell’incontro a Rebibbia lessi una lettera inviatami da un detenuto; anche quella lettera, quelle parole mi hanno seguita in tutti gli altri incontri successivi - sottolinea la Severino. Nelle mie visite ho avvertito delle storie di umanità dolente, di umanità che cerca però il modo per redimersi, di detenuti che chiedono di imparare un mestiere per poter riprendere la loro vita normale, per poter essere vicino ai figli, ai nipoti, ai familiari, per poter ritornare a far parte di quella famiglia dalla quale sono stati lontani, e sono lontani, durante il periodo della carcerazione”. Immigrati clandestini potenziali detenuti C’è una stretta correlazione tra immigrazione clandestina e carceri, per cui è necessario intervenire con politiche di integrazione e sostegno perché “mantenere un clandestino significa mantenere un potenziale detenuto e creare occasione di guadagno alla criminalità organizzata”. È il monito lanciato dal ministro della Giustizia, Paola Severino, nel suo intervento alla Conferenza dei dipartimenti dell’Amministrazione penitenziaria dei Paesi europei e del bacino del mediterraneo, in corso al Campidoglio. “È a monte che si deve intervenire per evitare che l’immigrazione diventi fonte di criminalità”, ha sottolineato il ministro, ed è necessario uno sforzo comune: “nonostante lo straordinario impegno dell’Italia per gestire i flussi di stranieri, occorre mettere insieme le forze dei vari Paesi” per non correre il rischio che i clandestini “finiscano per essere abitanti delle nostre carceri”. È evidente, ha poi aggiunto il guardasigilli, “che l’emarginazione dello straniero, soprattutto clandestino, è occasione per la criminalità perché si tratta di persone senza punti di riferimento, che hanno bisogno di tutto, e questo provoca danni a cascata”. Giustizia: Severino; il Governo ha già provveduto a rendere le carceri posti più accoglienti Redattore Sociale, 22 novembre 2012 “Detenuti stranieri, un problema comune in quasi tutti gli Stati dell’Ue. Il governo ha già provveduto a rendere le carceri posti più accoglienti”. “La presenza sempre più elevata di detenuti stranieri dentro alle nostre carceri ci mette di fronte al dovere di pensare e attuare al più presto contromisure che permettano sia di ridurre l’ingresso di nuovi detenuti, sia di affrontare il problema dei diritti umani in carceri sempre più affollate”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Paola Severino al convegno “Carceri e Stranieri”, organizzato a Roma. Secondo il ministro, “il governo ha già provveduto a rendere le carceri posti più accoglienti per i detenuti, per i quali sono previste una serie di misure volte a facilitarne il rapporto con i famigliari; come l’ammorbidimento di quella che vieta l’utilizzo del cellulare, e la decisione di non richiedere il permesso di soggiorno ai famigliari che vanno a fare visita”. “Si tratta di misure che sento come particolarmente importanti, perché facilitare i rapporti con i famigliari può rappresentare un’ancora di salvezza nei confronti della disperazione provocata dall’esperienza carceraria”. Una seconda misura assolutamente prioritaria secondo il ministro Severino deve consistere nell’affrontare e cercare di risolvere il problema della “clandestinità”, in quanto “gli immigrati senza permesso di soggiorno, sono quasi sempre persone invisibili, a rischio emarginazione e povertà, e quindi rappresentano la manodopera ideale per le organizzazioni criminali”. Secondo il ministro è essenziale agire per riconoscere il permesso di soggiorno a quei migranti che dimostrano di volersi integrare in Italia, perché lasciare tante persone in condizione di “clandestinità” significa “allevare nuovi potenziali detenuti e favorire la criminalità che di queste persone si nutre”. Analizzando il problema del sovraffollamento carcerario, il ministro Severino ha smentito la concezione secondo la quale la situazione italiana sia tra le peggiori all’interno della Ue: “Non è vero che abbiamo numeri da record, il sovraffollamento in cifre simili alle nostre è un problema comune in quasi tutti gli Stati dell’Unione”, ha affermato. Prima di rivendicare il fatto che “questo governo ha messo in cima alla propria agenda il problema del sovraffollamento delle carceri sin dal primo giorno di attività parlamentare, ponendo particolare attenzione alla presenza dei detenuti stranieri, che rappresentano ormai il 35% della popolazione carceraria totale”. Per affrontare il problema del sovraffollamento servono diverse misure, secondo il Ministro due sono quelle fondamentali: da una parte la costruzione di nuovi posti di detenzione per aumentare la capienza delle carceri, dall’altra per far sì che la detenzione in carcere sia una misura da adottare il meno possibile, privilegiando la espiazione del reato fuori dal carcere. Una parte del discorso del ministro è stata riservata alla funzione riabilitativa del carcere, che “deve tornare ad essere la vera funzione del carcere”. In questo senso secondo la Severino è “essenziale che le amministrazioni penitenziarie lavorino di concerto con il volontariato sociale, e che il carcere torni ad essere un luogo dove si possa imparare un mestiere e, per gli stranieri, anche la lingua italiana, in quanto se i detenuti quando escono dal carcere hanno un lavoro la percentuale di recidiva crolla al 2%”. Giustizia: Spigarelli (Ucpi); sistema carcerario italiano in emergenza, servono riforme urgenti Agi, 22 novembre 2012 “Nel sistema carcerario italiano siamo ormai all’emergenza e servono misure alternative al carcere, va riformato il sistema anche riducendo le ipotesi in cui si può andare in custodia cautelare in carcere prima di essere condannati”: lo ha affermato oggi a Bari il presidente nazionale dell’Unione delle Camere penali italiane Valerio Spigarelli sottolineando che “va anche presa in considerazione, contestualmente ad un azione riformatrice o magari un attimo prima, un provvedimento generale di amnistia, o indulto”. Gli avvocati penalisti italiani hanno proclamato oggi una giornata di protesta contro la gravissima situazione in cui versano le carceri italiane, in termini di sovraffollamento e di vera e propria emergenza sicurezza sia per i detenuti che per il personale che vi opera. A Bari l’iniziativa si è caratterizzata anche con un minuto di silenzio nel Tribunale, nel carcere e contestualmente nel corso della manifestazione di apertura del31esimo Congresso nazionale forense iniziato stamani nel Teatro Petruzzelli. Nel 2011, 186 detenuti sono morti nelle carceri italiane e 66 di essi si sono suicidati, innumerevoli sono i casi di tentato suicidio e di autolesionismo. Inoltre il personale in servizio oggi è lo stesso di alcuni anni fa ma la popolazione detenuta è raddoppiata, e conta 24 mila detenuti stranieri e 15mila tossicodipendenti. Questi dati sono contenuti in un video dal titolo “Carceri d’Italia” curato dall’Unione delle Camere penali e presentato oggi nel corso di un’assemblea. “I detenuti stanno 22 ore al giorno in una cella che è fatta per tenerne uno e invece ce ne sono tre: il che significa che passano la maggior parte del tempo sdraiate e non hanno aria sufficiente per respirare; le condizioni igieniche delle celle sono vergognose e non si riesce a fare nulla in termini di rieducazione “ ha rilevato ancora Spigarelli “ed escono dalla pena, peggio di come sono entrati. Per questo l’Unione Europea ci sanziona perché siamo al di fuori della legalità europea e lo stesso Presidente Napolitano ha parlato di un abisso tra la condizione carceraria attuale e il dettato costituzionale. Ma oggi - ha concluso- servono riforme di struttura - peraltro in parte presentate dal Governo attuale - come la sospensione del processo con messa alla prova, introduzione sanzioni riparatorie per certi reati invece della detenzione, l’istituto della “irrilevanza del fatto” per fatti minimi, modifica delle norme sulla custodia cautelare rendendola davvero eccezionale e solo per persone pericolosissime: per i “colletti bianchi” per capirci, vi sono delle modalità interdittive e di detenzione domiciliare che sono sufficienti a evitare ogni reiterazione del reato. Bisogna smettere però di dire che il carcere è una vergogna civile, che è illegale senza poi adottare i provvedimenti necessari”. Giustizia: Ferri (Mi); stop attacchi penalisti, interrogarsi seriamente su dati custodia cautelare Tm News, 22 novembre 2012 Polemica presa di posizione di Magistratura indipendente contro l’Unione Camere penali, che sta promuovendo una serie di iniziative di protesta contro il sovraffollamento carcerario: secondo il segretario di Mi Cosimo Ferri “l’Ucpi non ha perso l’occasione per attaccare l’operato dei magistrati, abbandonandosi a toni inaccettabili e dimostrando di non voler affrontare seriamente il tema del sovraffollamento carcerario”. “Il dato sul numero di misure cautelari - ha affermato Ferri - applicate è sicuramente significativo (anche se va detto che in Italia sono considerati in custodia cautelare anche i detenuti in attesa del giudizio in Cassazione, pur essendo stati già condannati in primo e secondo grado), ma occorre interrogarsi seriamente sulle cause di tale fenomeno, ricordando - ad esempio - che il codice di procedura penale in sede di adozione di misure cautelari, prevede ipotesi di reato per le quali la carcerazione preventiva è obbligatoria (in presenza del solo presupposto della gravità indiziaria), e che molto spesso quelle voci che protestano contro il presunto eccesso applicativo delle misure cautelari sono le stesse che poi attaccano i giudici quando non si applicano quelle stesse misure a persone indagate per taluni fatti di grande risonanza mediatica, dimostrando la strumentalità e la gratuità delle critiche”. Sono “inaccettabili e quindi da respingere”, a giudizio del leader di Magistratura indipendente, “le gravi espressioni utilizzate nel documento delle Camere Penali dove si formulano generiche accuse alla magistratura di “autoritarismo o di abuso della custodia cautelare al fine di trasformarla in una incostituzionale anticipazione della pena con la quale far fronte alle presunte o reali per nascondere le inefficienze del sistema giudiziario”. “Non è questo né il tono né il metodo - ha sostenuto Cosimo Ferri - per affrontare seriamente la grave questione del sovraffollamento carcerario, che merita una riflessione serena e approfondita su soluzioni praticabili, tempestive e veramente efficaci, avendo ben presente che la situazione è grave e complessa e che non può essere risolta in breve tempo. L`attuale sistema penitenziario non garantisce, purtroppo, condizioni di vita in linea con i principi di umanità e dignità della persona, e mancano le risorse economiche, strutturali e umane per rendere il sistema carcerario adeguato e finalizzato all`attuazione del processo rieducativo del condannato ed al suo graduale reinserimento nella società, come esige una concezione moderna della pena e come stabilito dalla nostra Carta Costituzionale”. Dal momento che non può essere in alcun modo ulteriormente minato il principio di certezza della esecuzione della pena e non possono essere erose le garanzie per la sicurezza dei cittadini, appare necessario - ha sostenuto ancora Cosimo Ferri - arrivare ad un significativo ridimensionamento della popolazione carceraria attraverso strumenti di natura ordinaria e non indulgenziale. A tale risultato si può giungere attraverso il progressivo aumento del numero di condannati in grado di accedere a misure alternative alla detenzione agendo, al fine anche di ridurre il numero della popolazione detenuta, sia con una massiccia depenalizzazione sia con l`ampliamento delle misure alternative sia con l`applicazione di benefici alternativi alla detenzione già in sede di cognizione; su tale strada il Legislatore - che pure ha intrapreso primi timidi passi - dovrebbe intervenire in modo più deciso”. “È necessario inoltre prevedere - ha detto ancora il leader della corrente di opposizione dell’Anm - una manovra di ampio respiro che ponga al centro anche la revisione dei limiti edittali della pena. Misure di depenalizzazione, sicuramente benefiche e necessarie a nulla servirebbero se non accompagnate da una revisione dell’entità delle pene comminate. Il Consiglio superiore della magistratura, in una prospettiva di fattiva collaborazione con il ministro della Giustizia, ha in questi giorni discusso una proposta elaborata dalla commissione composta da magistrati e rappresentanti del ministero della Giustizia, che contiene una serie di proposte serie e non demagogiche per affrontare in tempi rapidi il problema della riduzione del numero di detenuti presenti nei penitenziari italiani, senza alcuna concessione a misure di natura indulgenziale”. “Ci auguriamo, a questo punto, che anche i settori più ragionevoli dell’avvocatura vorranno porsi sulla strada del confronto serio su proposte concrete, deponendo una volta per tutte - ha concluso Ferri - toni che appartengono a logiche che si sperava ormai superate”. Spigarelli (Ucpi): stonano parole segretario di Magistratura Indipendente La giornata di denuncia delle “inaccettabili condizioni di detenzione in Italia”, indetta e organizzata per oggi dall’Unione Camere Penali, ha visto la “significativa adesione di alcune componenti della magistratura e moltissimi magistrati, e anche un utile confronto con l’Anm. In questo clima stonano davvero le dichiarazioni del segretario generale di Magistratura Indipendente, Cosimo Maria Ferri”. Il presidente dell’Ucpi, Valerio Spigarelli, replica seccamente alle critiche arrivate dal segretario della corrente delle toghe. “Ferri, evidentemente, non è molto addentro al problema - afferma Spigarelli - se ignora le decine di prese di posizione e di proposte assai articolate dei penalisti sia in tema di depenalizzazione, di riforme sulle misure alternative e sulle norme relative alla custodia cautelare. Solo il difetto d’informazione infatti - aggiunge il leader dei penalisti - può motivare le corporative dichiarazioni di Ferri, che non si è neppure reso conto che il riferimento al rischio dello stravolgimento della custodia cautelare a una incostituzionale anticipazione della pena, oltre che dall’Ucpi, all’inizio dell’anno era stato denunciato dal primo presidente della Cassazione”. Per fortuna, conclude Spigarelli, “la sensibilità dimostrata su questa iniziativa da una larga parte della magistratura dimostra che la voce del segretario di Mi, oltre a essere stonata, è anche fuori dal coro”. Giustizia: se un giovane magistrato facesse uno stage in carcere capirebbe meglio… di Chiara Rizzo Tempi, 22 novembre 2012 La scuola di formazione dei magistrati porta le nuove leve nel carcere di Torino. per alcune toghe è un errore: “Condizionati nei giudizi futuri”. Ma la maggioranza è favorevole: “Dovremmo andarci tutti”. “Ho visto cose che immaginavo diverse, ho imparato cose non sapevo, ho camminato per corridoi e cancelli che avevo visto solo nei film, ho ascoltato le storie dei detenuti, di quelli che stanno nella sezione “universitaria” e che mi hanno detto com’è l’università fatta dentro il carcere, di quelli che stanno nella sezione “rugby”, che mi hanno parlato con orgoglio della loro squadra, iscritta e in testa al campionato di C…”: inizia così la mail di R., un magistrato che in questi giorni ha accompagnato per la prima giornata di stage penitenziario i Mot a Torino. I Mot sono i magistrati onorari di tribunale che svolgono la funzione di supplenti dei colleghi pm di carriera, e la scuola che li forma ha previsto anche una loro visita nelle carceri italiane. Il risultato è straordinariamente sintetizzato da R, nella sua mail spedita ai colleghi di Area, non appena finito il primo giorno di stage: “Lo stage in carcere, quello in cancelleria, quello al consiglio giudiziario, l’incontro con i consigli dell’ordine degli avvocati disegnano il profilo di un magistrato non chiuso in se stesso, che non pensa solo a scrivere il suo provvedimento ma si occupa e si pre-occupa di dove manda i suoi condannati/imputati in custodia cautelare, di come il suo lavoro si integra con le esigenze di cancelleria, di quali sono le esigenze degli avvocati, ecc. ecc. Insomma l’idea di un magistrato che è lì per rendere Giustizia. E non per sbrigare pratiche, né per accumulare pubblicazioni”. Ma non tutti in Area la pensano così. Le più critiche sono le toghe dell’Anm di Napoli, che in un verbale ammoniscono sui possibili condizionamenti emotivi che un giudice subirebbe nel conoscere il carcere. Via mail, riprende la posizione un magistrato addetto all’ufficio di Gabinetto del ministero della Giustizia: “Per unico svantaggio va evidenziata la eventuale suggestionabilità dei giovani colleghi nelle loro future decisioni in ordine alla richiesta o all’emissione di provvedimenti che incidono sulla libertà personale”. Il giudice però richiama anche le carte dei diritti dell’uomo e quella di Nizza, e conclude che “la scelta di orientare i giovani colleghi a richiedere misure cautelari meno afflittive rispetto al carcere sembra un saggio consiglio”. Qualcuno interviene più criticamente, come un sostituto procuratore antimafia di Napoli: “Forse pur essendo di “sinistra” non ho la sensibilità giusta per capire il senso dell’iniziativa, ma continuo ad avere molte perplessità sul fatto che lo stage, così organizzato sia il modo migliore per far conoscere la realtà carceraria ai nostri giovani colleghi. Per “assurdo” si potrebbe sostenere che stando direttamente con i carcerati in cella il carcere si conosce meglio”. E ancor più critico un altro magistrato della procura antimafia napoletana: “Mantengo le mie perplessità sull’idea che la scelta della misura cautelare debba avvenire non già per le esigenze cautelari ma in relazione alle condizioni di vita del carcere. Ho dei limiti, ma non lo condivido. Continuo a credere che la cultura della giurisdizione si acquisisca facendo il magistrato, non su una torre d’avorio, ma negli uffici giudiziari. Dopo di che, se in carcere le condizioni sono disumane, ben vengano non una ma mille condanne della Corte di Giustizia. Forse destinatario dello stage dev’essere il legislatore”. Va detto che invece la stragrande maggioranza degli interventi sono a favore di quest’iniziativa. Ad esempio una sostituto procuratore di Monza: “Potrebbe “influenzarli” nelle decisioni future? Se davvero una formazione a tutto tondo, che ha il coraggio di sbattere in faccia a un mot una realtà con la quale, volente o nolente, avrà a che fare, è idonea a togliere al nostro imparzialità di giudizio, significa che abbiamo sbagliato qualcosa nella selezione di quel Mot. Se l’equilibrio è ancora una virtù distintiva del magistrato, non posso pensare che sia poi necessario preservarlo da certi spettacoli che potrebbero turbarne il giudizio. Magari la consapevolezza di cos’è in concreto il carcere potrebbe fargli prendere un po’ più seriamente l’espressione “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata”, o considerare la funzione rieducativa della pena. Non mi pare un effetto nefasto. Sicuramente gli provocherà mal di pancia, e gli renderà le decisioni più faticose, ma se il nostro Mot avesse voluto un lavoro più leggero ne avrebbe scelto uno diverso”. Tra gli altri, scrive anche un giudice che è pure notissimo scrittore di gialli, e ricorda i suoi esordi, sconosciuti ai più, proprio da magistrato di sorveglianza, quando un pm “mi spiegò con efficace rozzezza che “noi e la polizia lavoriamo per metterli dentro, e voi giudici di sorveglianza vanificate il nostro lavoro tirandoli fuori”. Spiega, il giudice-giallista, come però la giurisprudenza della Corte costituzionale abbia sempre imposto la finalità rieducativa della pena, e conclude: “Le condanne dell’Ue all’Italia per le carceri non riguardano un mero fenomeno amministrativo (cattiva gestione), ma la natura stessa della pena così come il costituente la volle. Secondo me, dunque, non centrate su questa mirabile iniziativa della scuola: che andrebbe semmai estesa a tanti di noi altri vecchi e stanchi operai di “sentenzificio” bagattellaro e pure ai rappresentanti dei pm”. Giustizia: ergastolo per il femminicidio; la Bongiorno e la Carfagna vorrebbero una legge ad hoc di Stefano Zecchi Il Giornale, 22 novembre 2012 Come se uccidere una donna fosse più grave che uccidere un uomo. Due deputate, Giulia Bongiorno e Mara Carfagna, hanno predisposto una legge per punire con l’ergastolo chi uccide le donne: appunto, il reato di femminicidio. Ho due obiezioni, in proposito, naturalmente espresse da chi non ha competenze giuridiche, ma svolte - se mi si consente - in nome del buonsenso. La prima riguarda l’uso politico della legge. L’affermazione rimanda a un costume deprecato da tutti, che però è molto in voga: si prende di mira un politico... e poi si vedrà in giudizio se è davvero responsabile o innocente. Ma non è di questo uso politico molto famoso che intendo parlare, piuttosto di quello che finisce per teatralizzare l’informazione. Insomma, si fa una legge, al di là della minima ragionevolezza anche nella sua applicazione, con lo scopo di far parlare il mondo della comunicazione. Il danno è doppio: il cittadino, invece di sentirsi tutelato dalla legge ne è sempre più diffidente e si augura di non essere tanto scarognato da incapparci. E, a sua volta, l’informazione si trova costretta a parlare di cose insensate perché non è possibile non parlarne. La legge sul femminicidio è una pagliacciata per far discutere. E infatti il direttore mi ha cortesemente invitato a dire la mia, poi, probabilmente, un’altra persona dirà la sua non d’accordo con me, e così avanti in questo carnevale di opinioni in cui troveranno vantaggio non il lettore, non certo la giurisprudenza, neppure le donne, ma soltanto le due deputate che devono cercare di prendere voti per tornare in parlamento. Neppure per le donne ha senso la loro legge. E questa è la seconda obiezione di principio. La distinzione di genere è diventata una differenza ontologica, non biologica. E questa è una pagliacciata - per rimanere nel dominio della filosofia metafisica. Più che giusto individuare i correttivi che possono dare alle donne pari opportunità rispetto agli uomini. C’è un ministero apposito che dovrebbe garantire l’equilibrio dei generi nelle istituzioni politiche, amministrative, economiche. Potrei osservare che non è per decreto che si garantiscono pari opportunità tra uomini e donne, ma attraverso l’educazione famigliare e, poi, scolastica. Una questione di formazione culturale. Ma il reato di femminicidio non ha niente ha che fare con l’equilibrio etico tra i generi. La legge in un Paese democratico garantisce le regole di una giustizia uguale per tutto il genere umano, e maschio e femmina appartengono allo stesso genere umano. Ammazzare un maschio è più grave che ammazzare una femmina? Perché? Su quale fondamento etico si può sostenere la differenza di gravità? Il codice penale prevede già le aggravanti in un delitto: per esempio, l’omicidio di un bambino, maschio o femmina che sia. La distinzione di genere in un omicidio è la violazione di un principio etico fondamentale su cui si costruisce la convivenza civile in una democrazia. Ma, caro direttore, mi fermo qui: se continuo su questa strada, finisco per dare troppo peso a una pagliacciata di due deputate in attesa di voto. Giustizia: Sappe; carcere ai giornalisti dimostra ipocrisia Parlamento su criticità penitenziarie Comunicato stampa, 22 novembre 2012 “Mi sembra evidente che le forze politiche che compongono il Parlamento dimostrino, sui temi del carcere e del pesante sovraffollamento penitenziario, una sconcertante ipocrisia. Se, da un lato, buona parte dei membri di Camera e Senato plaudono alle gravi denunce del Presidente della Repubblica che in più occasioni, parlando delle carceri, ha accennato ad una realtà che umilia l’Italia in Europa e della prepotente urgenza di trovare idonee soluzioni favorendo maggiormente il ricorso alla misure alternative alla detenzione, dall’altra parlano da un mese di mettere in carcere direttori di giornali e giornalisti per il reato di diffamazione. Davvero sconcertante”. A dichiararlo è Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto e Commissario straordinario per la Liguria del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, che ha partecipato a Genova alla giornata di mobilitazione delle Camere Penali sull’emergenza penitenziaria. “Noi poliziotti penitenziari siamo quelli che vivono in prima persona i disagi del carcere perché siamo in sezione 24 ore al giorno. Il dato effettivo è che oggi abbiamo più detenuti di quando si è insediato il governo Monti, ovvero il doppio di quanto potrebbero contenere le carceri”, ha detto. “A Marassi ci sono ad esempio 450 posti letto regolamentari, ma sono 800 i detenuti presenti e abbiamo grossi problemi in merito alle patologie ed alle varie forme di disagio sociale, nel senso che abbiamo più del 60% in attesa di giudizio definitivo, uno detenuto su 4 che è tossicodipendente e quindi potrebbe scontare la pena in una comunità, mentre un altro 60 % è costituito da extracomunitari. E, nonostante una legge ad hoc, a Pontedecimo continua ad essere un bimbo in cella con la mamma detenuta”. Per Martinelli, se la politica volesse intervenire concretamente potrebbe farlo subito con 3 provvedimenti. “Processi più rapidi, espulsione dei detenuti extracomunitari per far scontare loro la pena nel paese di provenienza e soprattutto far scontare la pena ai tossicodipendenti in una comunità di recupero - conclude - È ovvio che, se come oggi i detenuti stanno 20 ore in cella, questo alimenta tensioni. Dovrebbero lavorare, ma ci vuole una legge apposita e la volontà politica per farla. In Germania è così. Lavorano con soddisfazione perché stare fuori dalla cella dà senso di serenità ed è diverso che stare 20 ore rinchiusi senza fare nulla, alternandosi tra chi sta seduto e in piedi per mancanza di spazio. Questo acuisce la tensione, quindi aggressioni e tentati suicidi”. “Dal 1 gennaio al 30 giugno 2012” ha concluso Martinelli “in Liguria 21 detenuti hanno tentato il suicidio (erano stati 33 in tutto il 2011), 218 gli atti di autolesionismo - ingestione di corpi estranei, chiodi, lamette, pile; tagli diffusi sul corpo e provocati da lamette - (che nel 2011 furono 317), 14 i ferimenti e 54 le colluttazioni: 6 sono state le morti per cause naturali. 3 le evasioni dopo aver fruito di permessi premi ed 1 dalla semilibertà mentre oltre 660 sono stati i detenuti della Liguria coinvolti in manifestazioni di protesta contro sovraffollamento, condizioni di vita intramurarie ed a favore dell’amnistia”. Campania: Garante dei detenuti e Camere Penali, insieme contro l’affollamento delle carceri Il Velino, 22 novembre 2012 Carceri affollate, istituzioni in prima linea per combattere questa piaga. Il comune di Napoli è sceso in campo al fianco del Garante dei detenuti, Adriana Tocco, che questa mattina è intervenuta al convegno organizzato dalla Camera penale di Napoli sull’affollamento degli istituti penitenziari italiani. L’assessore comunale Sergio D’Angelo ci ha assicurato che farà affiggere uno striscione su Palazzo San Giacomo recante la scritta “Fate presto” - ha spiegato Tocco. Il problema dei detenuti deve riguardare tutte le istituzioni perché bisogna affrettare le procedure per svuotare i penitenziari e creare pene alternative, ma il governo sta rispondendo con molta lentezza e i provvedimenti non sono incisivi come dovrebbero essere”. Poggioreale, per l’assessore alle Politiche sociali del Comune, “è un cancro e chi fa quell’esperienza della detenzione, diventa in genere più cattivo, allora il problema è anche dell’amministrazione cittadina che deve far sentire la sua voce. Adesso le leggi - ha aggiunto D’Angelo - possono essere modificate perché si possono fare quelle alternative, bisogna cambiare la Bossi-Fini”. Scoppia ancora una volta il “caso carceri” È ritornato cosi a scoppiare il caso carceri anche in Campania, con le celle piene di Poggioreale mentre è in aumento il numero di suicidi nelle celle. Dati alla mano, solo nel 2010 si sono registrate 184 morti di cui 66 per suicidio; nel 2011 invece, 186 decessi e 66 suicidi; l’ultimo resoconto aggiornato al mese di novembre 2012, ha riportato 142 morti di cui 53 suicidi. Numeri che fanno la differenza per Riccardo Polidoro, presidente della onlus “L’altro carcere possibile”: “Per questo c’è un’emergenza enorme, le cifre parlano da sole e la magistratura è scesa in campo come già da tempo sta facendo, accogliendo l’appello del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che io ripeto, abbiamo una prepotente urgenza di svuotare le carceri”. Occorrono provvedimenti di “clemenza” dunque, per Bruno Botti, avvocato e membro dell’Unione camere penali: “Abbiamo fatto un tour tra le celle dei penitenziari e non è possibile sostenere questa situazione, invochiamo provvedimenti di clemenza”. E occorre pure che i reati meno gravi “siano depenalizzati” per Domenico Ciruzzi, presidente della Camera penale di Napoli: “Chiediamo l’indulto, almeno per promuovere quelle iniziative e misure alternative al carcere”. Friuli Venezia Giulia: interrogazione del Consigliere Piero Colussi sulla chiusura degli Opg Agenparl, 22 novembre 2012 “Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono in chiusura e la Regione sarà chiamata a intervenire”. L’appello del consigliere regionale del Gruppo Cittadini-Libertà Civica, Piero Colussi, è contenuto in una interrogazione con la quale invita a procedere senza indugi con un piano di dimissioni dalle strutture dei detenuti corregionali, coinvolgendo i diversi Dipartimenti di salute mentale della regione. “Il 31 marzo del 2013 i 6 ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) del nostro Paese dovranno finalmente chiudere - ricorda Colussi. Lo ha deciso il Parlamento con l’approvazione, avvenuta il 17 febbraio 2012, della legge 9 chiamata a intervenire sul drammatico problema del sovraffollamento delle carceri. E così, i circa 1400 pazienti detenuti fra Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione delle Stiviere, Reggio Emilia e Montelupo Fiorentino dovranno fare ritorno nelle regioni di provenienza in strutture o comunità attrezzate allo scopo”. “Per capire come intende muoversi il Friuli Venezia Giulia, notoriamente all’avanguardia in Europa nella cura e nell’assistenza della salute mentale, il consigliere Colussi ha interrogato la Giunta per conoscere le dimensioni del problema in regione, per sapere se sia stato predisposto un piano di rientro di queste persone come prevede la legge e se ci siano le risorse finanziarie necessarie”. “L’assessore alla Salute Luca Ciriani, rispondendo, ha riferito che “attualmente sono 9 le persone ricoverate nei vari Opg e che, anche in passato, non si sono mai superate le 10 unità”. Ciriani ha quindi precisato che “le risorse promesse dallo Stato (180 milioni) non sono ancora disponibili e la domanda presentata non ha ricevuto nessun finanziamento (si tratta della stessa legge che finanzia l’edilizia ospedaliera)”. Inoltre, tenuto conto che la legge prevede strutture con 20 posti letto (ben al di sopra, dunque, delle necessità del Fvg) l’assessore ha espresso l’intenzione di prendere accordi con il vicino Veneto, soluzione che viene auspicata dallo stesso gruppo di lavoro del ministero della Salute”. “In tal senso si è svolta qualche giorno fa - ha riferito sempre Ciriani - una riunione con i responsabili dei servizi per la salute mentale della regione e un referente dell’Amministrazione penitenziaria del Triveneto”. “Nel prendere atto della risposta della Giunta, il consigliere Piero Colussi ha auspicato, come detto, che si proceda senza indugi con un piano di dimissioni dagli Opg dei detenuti corregionali, coinvolgendo i diversi Dipartimenti di Salute mentale della regione, così da mettere fine, come ha denunciato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, “all’estremo orrore inconcepibile in qualsiasi Paese appena appena civile”. Roma: sovraffollamento e gravi problemi sanitari… la civiltà perduta di Regina Coeli e Rebibbia di Margherita D’ Amico La Repubblica, 22 novembre 2012 Quando sentiamo parlare delle atroci condizioni delle carceri italiane, fatiscenti, sovraffollate, ferocemente disumane, speriamo che la questione non ci riguardi da vicino. A luglio Regina Coeli accoglieva 997 detenuti per una capienza di 725 posti, da cui detrarre i 220 di due sezioni in ristrutturazione. Se un tempo la struttura vantava un reparto ospedaliero all’avanguardia, oggi le sale operatorie sono chiuse e la chirurgia viene effettuata altrove, presso ospedali civili che richiedono scorte e piantonamenti. Tuttavia, investire in favore di chi ha nociuto rischia l’ impopolarità, e la politica lo sa bene. “Ma una legislatura moderna che ripensi il sistema, trovando per certi delitti soluzioni alternative al carcere capaci di recuperare le persone, sarebbe anche a vantaggio della sicurezza dei cittadini”, spiega Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione delle Camere Penali che ha indetto domani una giornata di astensione nazionale dalle udienze e da ogni attività giudiziaria. A sostegno dello sciopero dei penalisti, nell’assemblea organizzata dall’Ucp presso la Sala Occorsio del Tribunale di Roma, la magistratura sarà rappresentata dal presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli, presente con il vice capo del Dap Luigi Pagano e il presidente dell’Associazione Antigone, Patrizio Gonnella. Oltre a ricordare la situazione che in Italia ha presumibilmente favorito 53 suicidi e 130 decessi da inizio anno, si ragionerà sull’inefficacia di tale impianto. Si rileva infatti il 68,8% di recidiva nel delinquere rispetto al 19% registrato fra chi abbia scontato la pena affidato a servizi sociali o lavori di pubblica utilità. “Cambiare significa prevenire dice ancora Spigarelli - oltre ad applicare la Costituzione, che definisce la pena nella perdita della libertà e non della dignità”. Regina Coeli e Rebibbia fuori controllo (Corriere della Sera) Regina Coeli, l’infermeria è ancora quella attraverso la quale passò Stefano Cucchi durante il suo calvario in carcere. Scoppiano di detenuti i penitenziari romani: oltre al tradizionale sovraffollamento del carcere di via della Lungara (1.044 detenuti per 600 posti) anche Rebibbia Nuovo Complesso sta ora registrando un record di presenze, ben 1800 detenuti. Su tutti incombono i problemi della sanità (farmaci spesso non disponibili, lentezza nei ricoveri, convenzioni con gli specialisti a volte sospese…), ma il primo grande problema è Regina Coeli. Così la nuova rilevazione curata dall’associazione Antigone, “Senza dignità: IX rapporto”, che mercoledì mattina viene presentata da Patrizio Gonnella alla Stampa Estera, presente il vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Luigi Pagano. E intanto Gonnella anticipa una denuncia: “A Regina Coeli sono stati spesi 500 mila euro per riparare il riscaldamento, ma non funziona. Nei due reparti interessati i detenuti affronteranno un altro inverno al gelo”. “L’VIII sezione è parzialmente chiusa, mentre la V e la VI lo sono per intero, a causa della loro inadeguatezza abitativa - così inizia la descrizione del carcere più noto di Roma, Regina Coeli-.. Due anni fa Antigone denunciò condizioni di vita inaccettabili, con detenuti costretti a vivere in pieno inverno senza riscaldamento e a lavarsi con l’acqua gelida. Ciò rende ancor più drammatiche le condizioni di affollamento. A fronte di una capienza inferiore ai 600 posti letto il 10 ottobre 2012 erano presenti in istituto 1044 detenuti. I provvedimenti di legge presi dal vecchio governo Berlusconi e poi dal nuovo governo Monti non hanno avuto incidenza deflattiva. Quasi tutti gli spazi destinati alla vita in comune, alla scuola e alle attività penitenziarie sono oggi utilizzati come dormitori. Le celle del centro clinico, previste per la degenza, ospitano detenuti comuni che non hanno trovato posto altrove. Molte celle sono dotate di coperture alle finestre, che vengono giustificate con la vicinanza agli alloggi del personale di polizia e ad abitazioni private, con l’effetto di rendere ancor più angusta la vita interna diminuendo fortemente il passaggio di aria e luce naturale. L’ora d’aria viene effettuata in stretti cortili cementificati”. E poi ecco il nodo irrisolto della sanità: “Nell’estate 2012, la Asl RmA ha reso nota un’indagine relativa al centro clinico dell’istituto dalla quale sono emerse condizioni igieniche, strutturali e sanitarie degradatissime. Su sollecitazione anche del ministro Severino, la Regione Lazio ha avviato un’inchiesta amministrativa sulla situazione. La storia recente dell’istituto è costellata da episodi drammatici, a cominciare dalle morti di Stefano Cucchi e di Simone La Penna per le quali i procedimenti penali sono attualmente in corso. Nel luglio 2012 il medico della settima sezione, Rolando Degli Angeli, è stato condannato con rito abbreviato a due anni e otto mesi di reclusione per le torture inflitte a un detenuto, mentre il suo collega infermiere Luigi Di Paolo è stato rinviato a giudizio”. E intanto si preannuncia un nuovo inverno con alcuni reparti al freddo, nonostante gli interventi e i soldi stanziati dalla Regione Lazio. “Ogni tanto qualcuno chiede di chiudere Regina Coeli - spiega Patrizio Gonnella -. Ma il vero problema è che fine fanno i soldi che ad esempio la Regione ha stanziato poco tempo fa per rifare il riscaldamento, mezzo milione di euro, in due reparti dove non funzionava. Il risultato? I soldi sono stati spesi ma il riscaldamento non funziona lì dove doveva essere riparato”. Non va troppo meglio nel resto delle strutture carcerarie romane. Intanto emerge questo dato nuovo del sovraffollamento di Rebibbia Nuovo Complesso dove, aggiunge Gonnella, “ormai molti spazi che erano destinati ad attività sociali vengono utilizzati per ospitare detenuti”. “Al reparto dei Transessuali al G8 - spiega il rapporto sul Nuovo Complesso - i detenuti lamentano vari problemi: la mancanza di armadietti e di altri suppellettili, i problemi del lavoro. Sono perlopiù stranieri. Denunciano la particolare situazione di disagio, di essere in difficoltà economica. Spesso ci sono atti di autolesionismo e di conflittualità interna” Invece alla casa di reclusione di Rebibbia (401 detenuti) “ci sono lamentele sui prezzi del sopravvitto, ritenuti troppo alti rispetto al mercato esterno, sulla situazione sanitaria, in particolare sulla scarsa disponibilità di farmaci”. Infine il femminile, l’istituto con più detenute d’Italia. “Sull’istituto - denuncia Antigone - pesa molto il fatto che il servizio sanitario nazionale non fornisca più alcune tipologie specifiche di farmaci, legati a patologie femminili. È noto che ci sia tendenza ad una somministrazione eccessiva di psicofarmaci” Il rapporto non quantifica la presenza dei bambini sotto i tre anni che vivono con le madri in carcere. Sono comunque una ventina, attualmente. “Per loro - conclude Gonnella - il Comune di Roma ha riservato poco tempo fa una nuova sorpresa: la sospensione del pulmino che la mattina li portava al nido”. Sassari: situazione carcere peggiorata, visita avvocati penalisti e dibattito in tribunale La Nuova Sardegna, 22 novembre 2012 Ci vanno quasi tutti i giorni per parlare con i propri assistiti, ma quasi sempre si fermano nella sala colloqui. È quindi una visita speciale quella in programma questa mattina nella casa circondariale di San Sebastiano da parte dei dirigenti nazionali e locali delle Camere penali che oggi, in tutti i tribunali d’Italia, affrontano l’emergenza carceri con dibattiti e pubbliche riflessioni. Eventi che vogliono sollevare il velo sulle condizioni di disagio in cui è costretta a vivere la popolazione penitenziaria. Della delegazione che oggi entra in carcere faranno parte Giuseppe Conti, vice presidente nazionale dell’Unione delle Camere penali; Gabriele Satta, presidente della camera penale sassarese “Enzo Tortora; il vice presidente Paolo Spano, la segretaria Maria Claudia Pinna. Con gli avvocati penalisti entrerà nella casa circondariale anche Marco Palmieri in rappresentanza dell’Ordine forense. La visita, autorizzata dal provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, prevede che i cinque avvocati possano visitare le varie sezioni e il centro medico della ottocentesca casa circondariale per verificare di persona le condizioni di vita dei detenuti. I penalisti potranno anche incontrare una delegazione di reclusi. I risultati della visita saranno esposti domani in tribunale, alle 11.30, nel corso di un pubblico dibattito significativamente intitolato “Carcere: una vergogna tutta italiana”. Partecipano al confronto magistrati di sorveglianza, rappresentanti della polizia penitenziaria e della società civile. Prosegue nella struttura di San Sebastiano la mobilitazione pacifica portata avanti dai carcerati per chiedere al governo l’amnistia e rivendicare il diritto al voto per le prossime consultazioni elettorali. Due sere fa i detenuti avevano battuto per mezzora le sbarre e gridato a gran voce il proprio disagio. Alla protesta rumorosa era seguita un’ora di assoluto silenzio, e poi ancora lo sciopero della fame e della sete. Gli inquilini di San Sebastiano denunciano anche le precarie condizioni di vita che una struttura penitenziaria vecchia come quella di Sassari è in grado di offrire. La situazione è peggiorata ulteriormente a causa del sovraffollamento, che ha costretto la direzione a riaprire il terzo braccio. E su questo problema, oltre al sindacato delle guardie carcerarie interviene anche il Garante dei detenuti Cecilia Sechi: “Riaprire il terzo braccio equivale a riaprire una ferita dolorosa. La gente, all’esterno, non può immaginare cosa sia il terzo braccio. Solo chi l’ha visto di persona può farsi un’idea dell’inferno che racchiude. Io stessa, la prima volta che l’ho visitato, non riuscivo a credere ai miei occhi: per chi deve passarci mesi o anni della propria vita siamo ai limiti della tortura”. La prima cosa che ha colpito il Garante sono state le pareti: “Erano scrostate, venivano giù dall’umido”. E poi gli spazi angusti: “Impossibile qualsiasi tipo di intimità, con un asciugamano che separa il bagno dal resto della cella. E il cucinino è dotato di un unico lavandino dove si lava qualunque cosa”. Anche dormire è scomodo: “Tre letti a castello, uno sopra l’altro, con quello in cima che si trova a un metro dal soffitto. Chi sale lassù non ha nemmeno lo spazio per restare seduto sul letto, è costretto a piegare la schiena o rannicchiarsi”. Si tratta dunque di una situazione logistica totalmente inadeguata ad ospitare i detenuti: “Mi chiedo come si possa avviare un percorso riabilitativo e di recupero - dice Cecilia Sechi - sottoponendo una persona a delle condizioni di vita così degradanti e mortificanti”. E infine c’è il grande problema dei figli dei carcerati: “Nonostante la preziosa disponibilità del Comune e del servizio nidi, molte mamme recluse nel carcere non lasciano andare fuori i propri bambini”. Il coordinamento dei garanti ha prodotto un documento ricco di proposte migliorative per gli istituti di pena, una sorta di lettera aperta che verrà inviata al presidente del Consiglio Mario Monti. Rimini: in carcere sovraffollamento, poche risorse per i pasti e per la rieducazione www.romagnanoi.it, 22 novembre 2012 Il detenuto dietro le sbarre? Incredibile ma vero, ci costa sempre di meno. E non perché siamo bravi a fare le acrobazie risparmiando sempre di più. Così, mentre il sovraffollamento ha raggiunto livelli da record, hanno raggiunto livelli record anche le voci di spesa per il mantenimento dietro le sbarre dei detenuti. Il sistema penitenziario riminese costa alle casse del Dipartimento e quindi dello Stato 8 milioni e 123mila e 320 euro all’anno. Il costo medio di un detenuto a Rimini è di 112, 81 euro. Mentre il costo mensile di un prigioniero si assesta su 3mila e 384 euro e quello annuale in 40mila e 611 euro. Per un detenuto si spendono 3,95 euro al giorno per mettere insieme il pranzo con la cena. Ma alla rieducazione sono destinate risorse irrisorie: per il “trattamento della personalità e l’assistenza psicologica” si impegnano 8 centesimi al giorno per detenuto mentre per le attività scolastiche e culturali 11 centesimi al giorno. In linea con le spese affrontate dall’intero sistema carcerario italiano, ai Casetti di Rimini l’80 per cento delle risorse vengono utilizzate per il personale (polizia penitenziaria, amministrativi, dirigenti educatori); il 31 per cento se ne va nel mantenimento dei detenuti (corredo, vitto, cure sanitarie, istruzione, assistenza sociale) mentre il 4 per cento è impiegato per la manutenzione delle carceri e il 3 per cento per energia elettrica, acqua e gas. Il costo quotidiano di un detenuto è determinato da due elementi: le risorse messe a disposizione annualmente dall’amministrazione penitenziaria e il numero medio di detenuti ospiti nella struttura. Due voci che però non sono per nulla collegate tra loro. Infatti dal 2007 ad oggi i detenuti sono aumentati del 50 per cento (per effetto di leggi che hanno introdotto nuovi tipi di reati soprattutto sull’immigrazione clandestina) mentre le risorse sono diminuite del 25 per cento. Se si valuta poi che dagli studi puntualmente effettuati (l’ultima ricerca è la fotografia della salute dei detenuti italiani scattata da Antigone nel suo IX Rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione “Senza dignità”) emerge che il 70 per cento delle persone, una volta rimesse in libertà tornano a delinquere, si può intuire come il sistema non funzioni. Con una recidiva così alta, il conto economico di qualsiasi azienda verrebbe ritenuto fallimentare. A questo si aggiunge il malessere palpabile dietro le sbarre. Prova ne è l’alto tasso di suicidi, una sessantina in tutta Italia, nel primo semestre dell’anno mentre gli agenti di polizia penitenziaria ne hanno sventati 1200. L’ultimo caso di tentato suicidio sventato a Rimini risale a pochi giorni fa. Protagonista un trans arrestato nel pesarese per la rapina di una catenina d’oro e condannato a restare in cella fino al 2019. L’uomo è stato salvato in extremis, trasferito all’ospedale e sottoposto a lavanda gastrica (per aver inghiottito barbiturici). L’ultimo suicidio risale al 2009 mentre successivamente un egiziano è stato tratto in salvo due volte. Il personale della polizia penitenziaria trasporta all’ospedale, mediamente, tre detenuti al giorno. La fotografia attuale sulla struttura penitenziaria riminese è composta da una popolazione carceraria di 203 persone. La struttura è abilitata per ospitare 123 detenuti con una capienza di tollerabilità di 154 ospiti. Dei 203 detenuti, 96 sono tossicodipendenti, 89 sono italiani e 114 stranieri. L’etnia più presente, in parità sono i tunisini e i marocchini (con 60 detenuti), seguiti dai rumeni. In questo momento dietro le sbarre dei Casetti ci sono anche 2 cinesi. La popolazione carceraria è composta da 2 ergastolani, che hanno già scontato 26 anni di carcere ciascuno e che quindi godono di un regime di semilibertà che consente loro di uscire all’esterno della struttura per lavorare. Oltre ai due ergastolani ci sono 56 persone in attesa di giudizio, 35 in attesa dell’Appello e 27 che hanno presentato ricorso in Cassazione. I definitivi, ai quali è stata già applicata la pena sono 85. Gli agenti di polizia penitenziaria chiamati a far funzionare le cose nelle prigioni riminesi sono un centinaio, a fronte di un organico di 160. Il sovraffollamento, che nei mesi estivi conosce la sua forma più acuta, ha indotto, lo scorso anno, i detenuti a lanciare disperati appelli ai giornali. “Peggio di noi solo i cani”. Così avevano titolato i detenuti la lettera. “Scriviamo queste righe per raccontare l’altra pena, quella a cui siamo costretti per il fatto di vivere in 10, 11 in una cella di 12- 16 metri quadrati dove i letti a castello riducono la superficie calpestabile a 6 metri quadrati quando va bene”. Quando va male sono costretti a mettere il materasso sul pavimento e a rinunciare alla branda. “In un canile per legge - ricordano - vengono destinati nove metri quadrati per animale”. Monza: “Il carcere non può aspettare”, oggi un dibattito e domani la Cella in Piazza Il Giorno, 22 novembre 2012 Gli avvocati della Camera penale di Monza denunciano l’inciviltà del carcere con una manifestazione “Cella in Piazza”: potrà essere visitata dai cittadini che vogliono rendersi conto di cosa vuol dire vivere come i detenuti in tre in una stanza con le sbarre di 4 metri per due. Una cella per detenuti nella piazza dell’Arengario per denunciare l’inciviltà del carcere. È un’iniziativa organizzata dagli avvocati della Camera penale di Monza, unitamente alle Camere Penali del Distretto di Corte D’Appello di Milano, con la collaborazione del Comune di Monza, che si apre domani fino a domenica. Per l’occasione della “Cella in Piazza” una cella vera, per dimensioni ed arredi, realizzata dai detenuti e dai volontari della Conferenza regionale del Volontariato Giustizia del Veneto, sarà posta in Piazza Roma e potrà essere visitata dai cittadini che vogliono rendersi conto di cosa vuol dire vivere come i detenuti in tre in una stanza con le sbarre di 4 metri per due. Un problema, quello del sovraffollamento e dei disagi delle carceri, che affligge anche la casa circondariale di Monza dove, per una capienza di 405 detenuti, ne vengono invece ospitati quasi 900 e dove un detenuto di 51 anni si è appena suicidato impiccandosi nella cella della sezione collaboratori di giustizia ed è morto dopo un giorno di coma. Per partecipare alla manifestazione contro l’insostenibilità della condizione carceraria, oggi la Camera penale di Monza ha proclamato l’astensione dalle udienze dei suoi avvocati e ha organizzato al Liceo Dehon di Monza, all’interno del Coordinamento delle Camere penali del Distretto, un convegno sul tema “Il carcere non può aspettare”. Al convegno hanno partecipato l’avvocato Roberta Minotti dell’Osservatorio per il carcere della Camera penale di Monza, che si è appena recata in visita all’interno della casa circondariale monzese per raccogliere e raccontare i disagi dei detenuti; il direttore del carcere di Monza Maria Pitaniello; la pm monzese Emanuela Massenz, che appartiene all’Associazione Nazionale Magistrati; il magistrato del Tribunale di sorveglianza di Milano Francesca Ghezzi; l’onorevole Marco Cappato, consigliere comunale a Milano e presidente del Gruppo Radicale e l’avvocato Mirko Mazzali, anche lui consigliere comunale milanese e presidente della Commissione sicurezza. Piacenza: la Polizia penitenziaria resta a secco, gli agenti devono pagare il pieno di Giacomo Londra Il Piacenza, 22 novembre 2012 L’episodio una decina di giorni fa. I distributori abilitati non accettavano la card in uso ai poliziotti. Un benzinaio: “Anche se mi fate la ricevuta i soldi li vedrò fra qualche anno”. Che la crisi colpisca duramente anche l’universo carcerario - detenuti e agenti - è un dato di fatto, ma che gli stessi agenti debbano pagare anche il carburante per il trasferimento dei detenuti è il segno che il collasso è vicino. La vicenda è avvenuta una decina di giorni fa. Un mezzo della polizia penitenziaria doveva trasferire un detenuto a Bologna. Nel viaggio di ritorno, a Reggio Emilia, si accende la spia rossa della riserva. Gli agenti escono per trovare un distributore convenzionato per i rifornimenti che accetti la tessera della compagnia petrolifera in dotazione alla penitenziaria, grazie a un accordo tra il ministero della Giustizia e la compagnia. Una compagnia che non ha molti distributori e che quindi costringe i mezzi molto spesso a uscire dall’autostrada per cercare la stazione di servizio. Comunque, i poliziotti trovano non una ma diverse stazioni di servizio. E qui comincia un’odissea che definire kafkiana è un eufemismo. Un gestore dice che non può accettare la tessera perché la compagnia sta cambiando nome, mentre agli “automatici” la card viene rifiutata. Con il serio rischio di restare a piedi, gli agenti trovano un’altra stazione di servizio della stessa marca. Dicono al gestore di essere ormai agli sgoccioli e chiedono di poter fare rifornimento. I poliziotti avrebbero rilasciato una ricevuto e il gestore sarebbe stato pagato dall’istituto penitenziario di Piacenza. Pronta la risposta del benzinaio che dà un quadro della situazione in cui naviga il Paese, anche nel delicato settore della sicurezza: “Il ministero mi rimborsa il pagamento con una card dopo sei mesi, con questa ricevuta a mano i soldi li rivedrò fra qualche anno”. Alla faccia di decreti “Salva Italia”, “ripresa in arrivo”, “luci in fondo al tunnel”. Parma: Cgil; i figli dei detenuti penalizzati agli asili comunali, chiediamo un confronto www.parmatoday.it, 22 novembre 2012 Anelli: “Ci rendiamo da subito disponibili ad un incontro dei sindacati confederali con l’Amministrazione, perplessità per la diminuzione del punteggio per i figli di detenuti” Regolamento sull’accesso alle scuole per l’infanzia. Nell’ultima seduta della Commissione sono state confermate le due note dolenti del regolamento stilato dai 5 Stelle: l’abbassamento dei punti in graduatoria ai figli di detenuti (da 40 e 24) e ai nuclei mono genitoriali (da 17 a 15). Una penalizzazione che molti contestano. Asili, il nuovo regolamento: penalizzate ragazzi madri e detenuti. “Altra questione è l’equiparazione dei contratti a tempo indeterminato all’universo dei contratti atipici (co.co.co., co.co.pro., prestazioni occasionali, apprendistato, ecc..) che viene introdotta dal nuovo testo sull’istruzione. Il consigliere Nuzzo durante la seduta ha fatto notare che: “La precarietà comporta minori garanzie e maggiori disagi, quindi andrebbero introdotte delle agevolazioni. La modifica del regolamento comunale per l’accesso ai servizi educativi 0/6 - spiega Valentina Anelli, segretaria confederale della Cgil provinciale - pensiamo debba vedere un confronto anche con le parti sociali. A tal proposito ci rendiamo da subito disponibili ad un incontro dei sindacati confederali con l’Amministrazione, nella convinzione che il regolamento debba garantire un ampio accesso al servizio, salvaguardando tutti coloro che lavorano e non solo a tempo indeterminato ma anche con contratti atipici e a tempo indeterminato. Questo aspetto rappresenta infatti una grave lacuna del regolamento precedente, che limitava l’accesso ai soli lavoratori con contratto a tempo indeterminato. Pensiamo inoltre che il regolamento debba essere inclusivo per tutti i cittadini residenti nel Comune di Parma, indipendentemente dall’anzianità di residenza, favorendo l’accesso a tutti coloro che decidono di spostare la residenza da un Comune all’altro senza che questo debba penalizzarli nell’attribuzione del punteggio per l’accesso ad un sistema educativo. Tutto ciò anche in considerazione del fatto che in questi anni a Parma e frazioni limitrofe sono stati costruiti nuovi insediamenti urbani che vedono continuamente l’ingresso di persone provenienti da altri Comuni”. “Non possiamo tuttavia non esprimere la nostra perplessità - prosegue Valentina Anelli - in ordine alla diminuzione del punteggio per i figli di detenuti, che già vivono in condizioni di disagio, in un nucleo monogenitoriale, e che pensiamo debbano trovare anche al di fuori della famiglia di origine un presidio educativo e di socializzazione. Crediamo inoltre che vada individuato un meccanismo che possa garantire alle famiglie con più figli di poter avere una priorità di accesso all’interno della stessa struttura, così da evitare il disagio, come è successo in passato, di dover portare i fratelli in strutture differenti”. Frosinone: detenuti Paliano riparano vecchi banchi delle scuole Ansa, 22 novembre 2012 “La Provincia ha stipulato un accordo con il carcere di Paliano per il recupero dei vecchi banchi malridotti delle scuole, grazie alla manodopera dei detenuti che stanno offrendo questo servizio gratuitamente”. Lo ha annunciato il presidente della Provincia di Frosinone, Antonello Iannarilli. “Si tratta di un’iniziativa a cui tengo molto, dalla valenza sociale e ambientale - ha aggiunto Iannarilli, perché finalizzata al riciclo e alla conservazione di materiali in disuso, e anche economica in termini di risparmio. Quanto alle risorse affidate alla Provincia per l’edilizia scolastica - ha detto ancora Iannarilli, il Frusinate non è un’isola infelice rispetto al resto del Paese e infatti rispecchia pienamente gli standard a livello nazionale, pagando lo scotto delle gravissime ristrettezze imposte dall’attuale Governo tecnico, contro il quale, non credo sia un mistero, mi sto battendo duramente per numerose questioni che non fronteggiate, avrebbero letteralmente cancellato il nostro territorio”. Secondo Iannarilli “pesa enormemente il taglio fatto a ottobre di 4 milioni di euro, di cui due erano destinati proprio alle scuole. Raschiare il fondo del barile con una gestione particolarmente oculata - ha concluso - ci sta comunque consentendo oggi di garantire gli stessi standard degli anni passati”. Roma: stasera “cena galeotta” al Circolo degli Affari Esteri, detenuti realizzano catering Ansa, 22 novembre 2012 “Cena galeotta” questa sera al Circolo degli Affari Esteri in occasione della 17/a conferenza dei capi delle amministrazioni penitenziarie del Consiglio d’Europa e del bacino del Mediterraneo: ad occuparsi del catering e del servizio durante il ricevimento saranno i detenuti, ammessi al lavoro esterno, del carcere di Volterra e di Bollate. Tutto il buffet, dai vini al panettone, dai formaggi ai paté, è preparato con i prodotti provenienti dalle colonie agricole penali. La stessa sala del Circolo degli Affari Esteri è stata interamente ripulita e ordinata da squadre di manutenzione costituite da detenuti del carcere romano di Rebibbia perché l’edificio, la scorsa settimana, era stato sommerso dall’esondazione del Tevere. “Con l’organizzazione di questa serata con cena vogliamo dare il massimo rilievo al lavoro penitenziario come efficace strumento riabilitativo, e al tempo stesso quale utile risorsa economica per la realizzazione a basso costo di prodotti di elevata qualità”, spiega Alfonso Sabella, ex pm antimafia e attuale direttore generale delle risorse del Dap. Come aperitivi saranno serviti cocktail analcolici di frutta, succhi non zuccherati e lo spritz. Sul tavolo del buffet ci saranno insalata di pollo con mandorle e semi di papavero, muffin con formaggio di capra e albicocche, uova di quaglia al tegamino con rapè di tartufo nero, risotto alla milanese, crespelline con pesto alla ligure, oltre ad altri manicaretti. Il reparto dei dolci - si tratta sempre di prodotti interamente realizzati dai detenuti - vede schierati panettoni di “Giotto”, un dolce al moscato di Pantelleria, crema soffice di ricotta profumata all’arancia, paste di mandorla “Dolci Evasioni” e friandises “Dolci Libertà”. Nutrita anche la scelta dei vini dai nomi evocativi: “Valelapena”, un rosso da uve Nebbiolo, Barbera e Dolcetto, “Fresco di Galera”, un bianco dai vitigni di Falanghina, Greco di Tufo, Coda di Volpe e Fiano, infine un brut millesimato. Alla cena “galeotta” saranno presenti decine di delegazioni straniere e il capo del Dap Giovanni Tamburino. Parma: Progetto europeo Re-Play, un giorno di giochi in carcere per i figli dei detenuti Gazzetta di Parma, 22 novembre 2012 Anche in carcere si può giocare. Anche il carcere, grigio e silenzioso se visto da fuori, può diventare un luogo di chiasso festoso. D’altra parte la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia recita nell’articolo 31 che gli Stati membri devono garantire il diritto al gioco del bambino. Un concetto che è la stella polare del progetto europeo Re-Play, di cui il Comune di Parma è capofila e che ieri mattina è entrato nell’istituto penitenziario di via Burla con merenda offerta dal panificio Giacomazzi, festoni, castello gonfiabile di Gommaland e truccabimbi di ludobimbo.it. Ai piccoli non pareva vero: un abbraccio a papà, poi a saltare fino allo sfinimento su quell’attrazione gigante, lontano dai pensieri complicati dei genitori che, tra un problema e l’altro, si scambiano sorrisi e carezze tipiche di chi sa che i minuti passano inesorabilmente e la visita dura il tempo di un sogno. Per entrare in carcere, Re-Play ha collaborato con l’associazione onlus “Crescere con noi” che, dal 2005, propone questa mattinata di gioco e ricongiungimento famigliare all’interno dell’istituto. “I bambini solitamente non vogliono venire qui, perché si annoiano - spiega Layla Cervi, presidente dell’associazione, affiancata dal vicepresidente Giorgio Stacchi, socio instancabile e principale finanziatore -. In questo modo, invece, cerchiamo di regalare un momento di vita normale. Lo facciamo con tutto l’amore che ci è possibile, perché l’amore muove il mondo e ti permette di fare le cose senza fatica”. Dietro le sbarre sono entrati anche i colori della Nazionale italiana di calcio, grazie alla partnership col progetto “Vivo Azzurro”. “I valori della Figc, in ambito giovanile, sono gli stessi del progetto Re-Play - spiega Moira Balbi, responsabile di Re-Play. Con questa iniziativa, facciamo giocare i bambini in libertà, senza regole: loro hanno la grande capacità di inventare e costruire i giochi da soli”. Le spese per l’iniziativa sono state tutte sostenute da privati, con l’eccezione dei festoni, acquistati dal Comune e poi donati all’associazione “Per ricominciare”. Prima visita in carcere per il sindaco Federico Pizzarotti: “I bambini non hanno colpe, per questo è fondamentale garantire loro una giornata così, in un certo senso normale - osserva il primo cittadino -. È nostra intenzione estendere la collaborazione con l’istituto penitenziario, con iniziative interne ed esterne, facendo uscire, quando possibile, i detenuti”. Re-Play non è solo un’idea, una buona intenzione. Tanto che l’assessore comunale allo Sport, Giovanni Marani, è recentemente rientrato da un tavolo istituzionale organizzato a Dublino. “Sapere, da cittadino, che ci sono persone che si stanno interrogando sul diritto al gioco regala una bella sensazione - dice Marani -. Le indagini ci raccontano di bambini uguali a quelli che eravamo noi: vogliono giocare liberamente all’aria aperta. Se non lo fanno, non è a causa delle nuove tecnologie, ma dei genitori che, in casa, si sentono più sicuri”. Eventi come quello di ieri non sarebbero possibili senza il diretto interessamento del penitenziario. “Questa iniziativa è in linea con il nostro impegno sulla relazione padre-figlio - osserva il direttore aggiunto del carcere, Anna Monastero - e con la logica di evitare un trauma ai bambini che entrano in carcere”. Milano: l’amarezza di Lucia Castellano “Don Barin benvoluto da tutti, anche dai detenuti” di Paolo Papi Panorama, 22 novembre 2012 L’assessore ed ex direttrice del carcere modello di Bollate parla a cuore aperto del caso che ha coinvolto il cappellano di San Vittore: “Il vizio d’origine sta nell’istituzione carceraria”. Don Alberto Barin, il cappellano di San Vittore arrestato per concussione e violenza sessuale nei confronti di sei detenuti, non è mai stato un parroco defilato che, come alcuni suoi colleghi, si limitava a dire messa o fornire una generica assistenza spirituale ai carcerati. “Era molto conosciuto nell’ambiente, e, per quella è che è stata la mia esperienza, anche benvoluto dai carcerati. Di lui tutti, anche gli operatori, parlavano bene” spiega Lucia Castellano, oggi assessore alla casa della Giunta Pisapia, fino al 2011 - e per vent’anni - direttrice di carceri, tra cui il carcere modello di Bollate, esempio possibile di una galera meno disumana e più attenta ai diritti dei detenuti. “Per chi, come me, ha creduto all’utopia di poter riformare gli istituti carcerari quanto avvenuto è il segno di un fallimento”, ammette Castellano non senza amarezza, per poi spiegare: “Il vizio d’origine sta nel carcere in sé, un’istituzione totale dove chiunque, dall’operatore al cappellano, dispone di un potere assoluto su chi si trova di fronte”. Detto da una che ha fatto la direttrice di carcere per quasi vent’anni suona come una resa. Io stessa mi sono resa conto di quanta responsabilità gravasse su di me anche solo quando dovevo decidere se dare l’ok ad autorizzare l’acquisto di un paio di scarpe per un detenuto. È un potere assoluto, agli occhi di chi non può uscire, quello di cui godono il poliziotto, il volontario, il direttore, il prete. Perché da loro dipende la possibilità di avere uno shampoo per lavarsi i capelli, come nel caso del cappellano, o anche un permesso di qualche ora per andare a trovare la famiglia. Da loro dipende, in una parola, la dignità del detenuto. La vicenda di Don Barin, al di là delle risultanze processuali, la inquadro così. Il problema sono forse le istituzioni totali. Come ci è rimasta quando ha saputo? Stupore. Grande amarezza. Basta un solo episodio di questo genere, per inficiare decenni di riflessioni e lavoro per rendere gli istituti carcerari luoghi più umani. Vede, io non voglio giudicare secondo criteri moralistici. Non mi interessa che la persona accusata sia un prete. Né mi scandalizza il fatto che il sesso possa diventare merce di scambio. Io non emetto sentenze morali. Ma quando questo scambio avviene non tra adulti consenzienti ma su un patto in cui una parte dispone di un potere pressoché assoluto sull’altra, mi devo interrogare sul senso del carcere in quanto tale. Torniamo a Don Barin. Mai una chiacchiera o un pettegolezzo sul suo conto? Mai. Era un prete molto benvoluto. E poi le dico, se dal 2002 al 2011, nei nove anni in cui ho fatto il direttore di Bollate, avessi solo sentito anche un pettegolezzo, avrei cercato di capire, di fare un’indagine interna. Vede, quando un detenuto - nella condizione di cattività in cui si trova - arriva a anche solo ad accennare a qualcosa come un abuso, non lo fa mai a cuor leggero. Perché, nelle carceri, il detenuto ha paura anche di parlare. E quando parla, spesso, è ormai troppo tardi. India: messo a morte fra gli applausi il terrorista degli attentati a Mumbai Reuters, 22 novembre 2012 L’unico terrorista pachistano superstite delle stragi di Mumbai del 26 novembre 2008 è stato impiccato ieri mattina in segreto in una prigione di Pune, nello stato centrale del Maharashtra. Ajmel Amir Kasab, di 24 anni, era stato condannato a morte due anni fa per aver organizzato insieme ad altri nove militanti arrivati via mare, gli attentati agli hotel della metropoli che costarono la vita a 166 persone, tra cui l’italiano Antonio Di Lorenzo, dopo un assedio di tre giorni. Il militante, sospettato di appartenere al gruppo estremista islamico pachistano Lashkar-e-Toiba, è salito sul patibolo alle 7.30 (alle 3 ora italiana) e non ha espresso alcun desiderio, secondo quanto riportano le televisioni. Era stato trasferito nella prigione di Yerwada in gran segreto. Il presidente della Repubblica, Pranab Mukherjee, aveva respinto la domanda di grazia. Il corpo è già stato sepolto nel penitenziario. Il governo indiano aveva informato Islamabad dell’esecuzione, ma “non è giunta alcuna richiesta di riavere il corpo” hanno detto le autorità indiane. Il ministro degli Esteri Salman Kurshid ha detto che “l’ambasciata pachistana ha ignorato un fax inviato dal suo ministero” in cui si comunicava la decisione. L’esecuzione della condanna a morte, la prima dal 2004, è stata accolta con soddisfazione dai familiari delle vittime e dall’opposizione indo-nazionalista. Giunge alla vigilia della ripresa dei lavori del Parlamento per la sessione invernale e a meno di una settimana dal quarto anniversario della strage che provocò una gravissima crisi tra le due potenze nucleari asiatiche. Islamabad ha riconosciuto che lo spettacolare attacco compiuto dal commando di militanti contro due hotel, un centro ebraico, una stazione e un ospedale, è stato concepito sul suo territorio e ha avviato un’inchiesta contro le “menti” dell’operazione che però sono ancora a piede libero. Mozambico: rapporto Amnesty International; migliaia di persone detenute illegalmente Tm News, 22 novembre 2012 Migliaia di persone sono detenute nelle prigioni del Mozambico senza che siano state giudicate colpevoli di alcun reato. Lo dichiara Amnesty International in un rapporto pubblicato oggi. Il documento, “Chiudere a chiavi i miei diritti: arresti arbitrari, detenzione e trattamento dei detenuti in Mozambico” realizzato da Amnesty International e Lega del Mozambico per i diritti umani, denuncia come molti detenuti siano stati arrestati su basi pretestuose e imprigionati per anni senza poter parlare con un avvocato. In particolare, le persone appartenenti a gruppi sociali emarginati sono particolarmente a rischio di detenzione per mesi, a volte per anni, in celle squallide, sovraffollate e senza aver commesso reati. Nella maggior parte dei casi, queste persone economicamente svantaggiate non vengono informate dei loro diritti o non sono in grado di comprenderli; non possono permettersi un avvocato e, pertanto, sono quasi sempre rappresentati da persone non qualificate o da avvocati poco preparati. Raramente viene loro concessa la libertà in attesa del processo. Un uomo è stato detenuto in una prigione di massima sicurezza per 12 anni senza aver commesso un crimine e senza essere mai stato ascoltato da un tribunale. “Questa modalità di amministrazione della giustizia del Mozambico alla giustizia ha prodotto centinaia di detenuti che semplicemente vengono “persi” nel sistema e languiscono in prigione senza diritti né ricorso alla giustizia” - ha detto Muluka-Anne Miti, ricercatrice di Amnesty International in Mozambico. “In alcuni casi i documenti dei prigionieri sono stati interamente persi o contengono gravi discrepanze”. Secondo le leggi del Mozambico, tutti i detenuti devono comparire entro 48 ore davanti a un giudice competente che dovrebbe verificare se l’arresto è legittimo o meno. Inoltre ogni detenuto dovrebbe avere accesso a un avvocato gratuitamente. Nonostante ciò, nella stragrande maggioranza dei casi questo non succede semplicemente. “Abbiamo incontrato detenuti, alcuni dei quali bambini, arrestati pur non essendo stati colti in flagranza di reato e anche senza alcuna prova che avessero commesso un reato o un’infrazione”- ha riferito Muluka-Anne Miti. Ana Silvia (nome di fantasia) aveva 15 anni quando è stata arrestata per l’omicidio di sua madre anche se c’erano segni non evidenti di una morte sospetta; non c’erano elementi del coinvolgimento di Ana Silvia e non è stata eseguita l’autopsia. Ana Silvia ha raccontato ad Amnesty International che dopo che la polizia l’ha accusata di aver ucciso sua madre, gli agenti hanno chiesto a suo padre se potevano picchiarla per farle dire la verità. Suo padre ha rifiutato, ma Ana Silvia è stata mandata in prigione lo stesso. Amnesty International ha incontrato molti bambini che sembravano - e affermavano - di avere meno di 16 anni. Quando è stato chiesto alle autorità della prigione un chiarimento su questo, hanno detto che spettava ai detenuti dimostrare la loro età. Ma solo una piccola minoranza di persone in Mozambico ha certificati di nascita, è improbabile che chi proviene da famiglie povere abbia un qualche documento. Nella prigione della Provincia di Nampula, Amnesty International ha trovato 16enni in una cella che non avevano un rappresentante legale. In altre prigioni, c’erano bambini detenuti senza condanna insieme ad adulti condannati in celle sporche e affollate. Le prigioni del Mozambico sono, in generale, sovraffollate, con scarsi servizi igienici; i detenuti hanno poche medicine e le opportunità di istruzione e formazione sono scarse o nulle per chi è in attesa di processo. Nella prigione provinciale di Nampula, Amnesty International ha trovato 196 persone stipate in un cella di 14 metri per sei. I detenuti erano seduti, si toccavano con le spalle e avevano le gambe piegate, perché solo così potevano stare tutti nella cella. “L’accesso alla giustizia in Mozambico viene sistematicamente negato a chi non ha disponibilità economica. Le prigioni sono piene di giovani poveri, in attesa di un processo e che non sono messi a conoscenza dei loro diritti né hanno ricevuto assistenza legale” - ha riferito Muluka-Anne Miti. “Il sistema di giustizia del Mozambico semplicemente non funziona per le persone povere, che possono trascorrere anni a languire in prigione senza che le autorità sappiano che essi sono lì o si curino di questo. L’obiettivo di un sistema giudiziario è assicurare che vi sia giustizia, il che significa anche che chi non ha commesso un crimine non sia detenuto illegalmente. Le autorità del Mozambico devono prendere questa responsabilità molto seriamente”.