Giustizia: i numeri del ministro Severino, il rapporto di Antigone, le riflessioni di Pugiotto di Valter Vecellio Notizie Radicali, 20 novembre 2012 Si viene afferrati da un senso di sgomento, nello sfogliare il IX rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia. Si documenta non solo la situazione di vera e propria tortura in cui è costretta a vivere la comunità penitenziaria. Sono i mezzucci per cercare di edulcorare questa realtà, a risultare maggiormente offensivi. Secondo i dati ufficiali, al 31 ottobre 2012, la capienza regolamentare dei 206 istituti penitenziari è di 46.795 posti. “La notizia però incredibile - scrive Antigone nel rapporto - è che due mesi prima la capienza degli istituti era di 45.568 posti. A noi non risultano apertura di nuove carceri, né di nuovi padiglioni in vecchi istituti di pena. A che gioco giochiamo?”. Giochiamo, si potrebbe rispondere, al giochino degli annunci ad effetto, quel tipo di “gioco” in cui sono stati eccellenti maestri i predecessori del ministro Paola Severino, che per parte sua si dimostra una bravissima allieva. Giorni fa Severino, in visita al carcere veneziano della “Giudecca”, dopo aver promesso novemila posti in più ha aggiunto che ne erano stati già creati quattromila. Come e dove non lo ha chiesto nessuno, e lei non lo ha chiarito. Tutto però ha un che di magico: da agosto a ottobre 2012 vengono “creati” circa 1.200 nuovi posti. Nel mese successivo (la visita alla “Giudecca” è del 12 novembre), eccone altri 2.800 nuovi… Wow! Davvero fantastico... Il Genio della lampada o la bacchetta del Mago Merlino? Torniamo al rapporto di Antigone. Nel carcere di Taranto quattro detenuti si affollano in 9 metri quadrati. In quello di Latina si sta rinchiusi anche 20 ore al giorno. Nel carcere di Catania d’inverno i termosifoni restano spenti… “La dichiarazione dello stato di emergenza per il sovraffollamento risale al 13 gennaio 2010 e il numero dei detenuti allora era di 64.791. Al 31ottobre scorso, la presenza è di 66.685 detenuti, 1.894 in più. Ma come - si chiede il rapporto - i detenuti non dovevano diminuire?”. L’Italia resta il Paese con le carceri più sovraffollate nell’Unione Europea: il nostro tasso di affollamento è oggi infatti del 142,5 per cento (oltre 140 detenuti ogni 100 posti). La media europea è del 99,6 per cento. I 66.685 detenuti nelle nostre carceri sono per lo più uomini. Le donne rappresentano solo il 4,2 per cento; gli stranieri (23.789) sono il 35,6 per cento. Le nazionalità più rappresentate: marocchina (19,4 per cento), romena (15,3 per cento), tunisina (12,7 per cento), albanese (11,9 per cento) e nigeriana (4,4 per cento). In questa realtà accade quello che Franco Corleone e Andrea Pugiotto descrivono nel loro recente “Il delitto della pena” (Ediesse, pagg. 280, 15 euro), un libro di cui ci si occuperà più compiutamente tra qualche giorno. “Il carcere oggi”, annotano Corleone e Pugiotto, “è un luogo di concentramento di figure deboli, di persone fragili, dove la differenziazione non è un modo per favorire il cosiddetto “trattamento” rieducativo, risolvendosi semmai in un crudo elemento di categorie: i “tossici”, gli “stranieri”, i “protetti”, le “transessuali”. Un catalogo di umanità disperata in cui la classificazione massificante non riesce a far posto alla distinzione capace di riconoscere il singolo uomo o la singola donna con la sua responsabilità personale e la sua storia individuale. La conclusione cui gli autori del libro giungono è la stessa di Marco Pannella e dei radicali, e se ne usano le stesse espressioni: “Le carceri italiane si trovano in una condizione di conclamata, abituale, flagrante violazione della legalità costituzionale, attestata dagli stessi organi apicali delle Istituzioni e della Giustizia. E se è un collasso che non collassa mai (o non ancora), lo si deve esclusivamente al senso di responsabilità di tutta la comunità carceraria: detenuti, direttori delle carceri, agenti della polizia penitenziaria, operatori, volontari” (pag.15). E ancora, operando un salto che ci porta alla pag. 238: “Se è così (ed è così), questa conclamata, abituale, flagrante violazione della legalità va interrotta subito, con misure deflative capaci di ripristinare il numero dei reclusi entro livelli compatibili con gli obblighi prescritti dall’ordinamento. Questi elementi ci sono, la Costituzione li prevede e si chiamano amnistia e indulto. Due parole ormai bandite dal vocabolario della politica… Escludere pregiudizialmente il ricorso alla clemenza pagherà sul piano dei sondaggi d’opinione. Eppure le scelte di politica criminale dovrebbero rispondere ad un progetto di riforme razionali (di cui amnistia e indulto rappresenterebbero l’indispensabile tassello iniziale) non agli umori variabili e suggestionabili dell’opinione pubblica. Sottraendosi alle proprie responsabilità, la classe politica continuerà così a rendersi corresponsabile di un crimine seriale e di massa, indegno di un paese che voglia definirsi ancora civile”. Già: ma siamo un paese civile? Leggere il IX Rapporto di Antigone, si diceva all’inizio, procura un senso di sgomento; ancor più sgomenti lascia il fatto che si sia in pochi a provare questo sentimento. Giustizia: la denuncia di Antigone; carceri senza dignità, tra sovraffollamento e degrado di Laura Bastianetto Pubblico, 20 novembre 2012 “Ciao papà, ti scrivo perché la situazione si è aggravata”. Inizia così la lettera di un giovane detenuto nel carcere di Fermo. “Mi hanno picchiato, denudato e messo in una cella senza nulla, stile Guantánamo. Credimi, qui è da tortura psicologica”. Sono quattro pagine accorate che implorano aiuto. Un manifesto di una situazione più generale che va oltre il carcere di Fermo e non si arresta finché non supera i confini nazionali. L’istantanea migliore ce la fornisce come ogni anno l’associazione Antigone, che ha presentato ieri il IX Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia. “Senza dignità” è il titolo “perché 3-4 persone devono vivere in celle di 10 mq - spiega il Presidente Patrizio Gonnella - con la carta igienica che finisce e che per un mese non viene riconsegnata. Gli spazi di socialità sono azzerati così che il carcere diventa un grande dormitorio. Molti di queste cose avvengono perché non ci sono soldi, però le violazioni dei diritti umani non sono mai giustificate”. Accanto al Rapporto, quest’anno, Antigone ha deciso d’inserire anche un nuovo strumento utile per comprendere meglio cosa si nasconde dietro i numeri. Inside carceri è il webdoc realizzato dal service giornalistico Next New Media e girato all’interno di 25 istituti di pena italiani. È un documentario interattivo che non ha un inizio e una fine, ma offre 32 video e 2 audio-gallery in cui viaggiare alla scoperta infelice delle condizioni di detenzione in Italia. Dietro questi dati c’è una macro storia legata agli spazi della socialità inghiottiti dal sovraffollamento che è ancora la piaga maggiore nonostante i vari provvedimenti, dallo Svuota carceri al Salva carceri. Dalla dichiarazione dello stato di Emergenza del 13 gennaio del 2010 a oggi ci sono 1.894 detenuti in più. “Enfaticamente sono stati propagandati - sottolinea Gonnella - provvedimenti risolutivi sia dal punto di vista edilizio, sia da quello normativo. Il dato complessivo è di 66.685 a fronte di una capienza di 45.568 posti. Del piano carceri non abbiamo visto neanche un mattone, ci sono state delle gare ma tutto procede molto lentamente e noi sappiamo che non è quella la soluzione perché l’edilizia non ha tempi emergenziali”. L’Italia resta il paese con le carceri più sovraffollate nell’Unione Europea con un tasso del 142,5% a fronte di una media europea del 99,6%. Per il 40,1% si tratta di misure di custodia cautelare. Liguria, Puglia e Veneto sono le regioni più affollate. Abruzzo, Sardegna e Basilicata le meno. Nel carcere di Catania Piazza Lanza ci sono 529 detenuti a fronte di una capienza di 155 unità. Si vive fino a 18 in una cella da 22 mq, su letti a castello fino a 4 piani. In inverno, ormai da 4 anni, non viene acceso l’impianto di riscaldamento e spesso le luci nei corridoi sono spente per risparmiare. La quasi totalità dei detenuti è chiusa in cella per 20 ore. Nella Casa circondariale di Firenze Sollicciano, l’istituto più grande della Toscana, vive il doppio della popolazione prevista. Ogni cella di 12 mq è occupata da 3 persone. A Latina alcuni detenuti dormono sui materassi per terra. Nel carcere di Poggio Reale ci sono 2.600 detenuti su una capienza di 1.700. Una cella viene condivisa da 18 persone con un solo bagno e un unico tavolo. E al sovraffollamento si aggiunge la riduzione delle risorse economiche. Nel 2011 a fronte di un aumento dei detenuti del 50%, il bilancio è stato tagliato del 10%. Edilizia, mezzi di trasporto, assistenza e rieducazione, i settori più colpiti. Per questi motivi Antigone ha presentato 400 ricorsi alla Corte Europea dei Diritti Umani. C’è un precedente importante per cui l’Italia è stata condannata per aver costretto una persona a vivere in meno di 3 mq. Sotto al macro tema del sovraffollamento e dell’assenza di spazi dedicati alla socialità e al lavoro (meno del 20% lavora all’interno dell’Istituto penitenziario), ci sono poi tante microstorie. Si va dalla salute negata alla violenza subita, dai morti in carcere (93 di cui 50 per suicidio) alla carenza di ore d’aria. Luigi (il nome è di fantasia) è un 37enne tossicodipendente affetto da epatite hiv correlata. È stato sottoposto quest’anno a un intervento, dopo il quale era stata prescritta terapia radioterapica mai effettuata. Ha il 98% d’invalidità e, dopo vari episodi di autolesionismo (in uno ha ingoiato 3 coltellini) ha tentato il suicidio. Giuseppe Rotundo, ex detenuto nella Casa circondariale di Lucera, racconta di essere stato costretto a denudarsi e di essere stato “ma-ssa-cra-to” e lasciato sul pavimento in una pozza di sangue. La sua colpa? Aver urlato a un agente “pezzo di merda”. E infine ci sono gli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari). Sei strutture, più di mille internati. La legge prevede la loro chiusura entro il 31 marzo prossimo, ma manca una road map e si temono le tenaglie del mille proroghe. Giustizia: Italia fuorilegge da mille giorni di Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone) Il Manifesto, 20 novembre 2012 Le patrie galere esplodono ormai da oltre tre anni: quasi 67mila detenuti per 45mila posti disponibili. Non è mai successo nella storia repubblicana che un governo per ben due volte dichiarasse lo stato di emergenza per sovraffollamento. Un fallimento anche lo “svuota-carceri”. Il prossimo 13 gennaio saremo al terzo anno di emergenza per il sistema carcerario italiano. Non era mai capitato nella storia repubblicana che un governo per ben due volte dichiarasse per legge lo stato di emergenza determinato dal sovraffollamento. Come tutte le emergenze è stata affrontata male e in modo propagandistico. Si è favoleggiato intorno a miracolosi piani di edilizia penitenziaria per poi fare i conti con la mancanza di soldi. Si sono presi provvedimenti definiti enfaticamente salva-carceri ma nulla e nessuno è stato salvato. Dalle pagine di questo giornale, abbiamo cercato di spiegare a Marco Travaglio che la legge sulla detenzione domiciliare era poca cosa e che le carceri non si sarebbero svuotate. Così è stato. Il numero dei detenuti alla fine del 2009, ovvero poco prima della dichiarazione dello stato di emergenza, era pari a 64.791 unità. Pochi giorni fa ne sono stati contati ben 1.894 in più. Siamo il Paese con il più alto tasso di affollamento in tutta l’Unione Europea. Nel frattempo non è stato costruito alcun istituto penitenziario, molti reparti detentivi in giro per l’Italia sono stati chiusi perché inagibili, sono finiti i soldi per la manutenzione ordinaria. Così i 66.685 presenti nelle 206 galere italiane sono stipati in circa 45 mila posti letto regolamentari, posti che in realtà sono molti meno visto che il ministero della Giustizia conta all’interno della capienza regolamentare anche le sezioni provvisoriamente chiuse. Le sale ping pong e di socialità sono diventate celle. Vi sono letti, brande e materassi dappertutto. A volte non vi sono neanche i materassi e i detenuti dormono per terra su un cumulo di coperte. Tra un po’ non vi saranno neanche i direttori visto che con la spending review vi sarà un taglio del 20% con il rischio di una militarizzazione del sistema. La legislatura Berlusconi-Monti volge al termine. Pende alla Camera un provvedimento governativo sulla messa alla prova e la riformulazione del sistema sanzionatorio. Procede molto lentamente nella discussione. In quella proposta di legge nulla si dice sulle cause che producono carcerazione di massa. Prendiamone una, ovvero la legge Fini-Giovanardi sulle droghe. Se non si interviene seccamente su quella legge, ridisegnando in modo pragmatico e non repressivo i confini dell’intervento statale e di polizia, tutto sarà abbastanza inutile. C’è un altro numero che è emblematico di una giustizia penale che corre sul bordo del fallimento, ovvero quello delle persone detenute in attesa di giudizio. Esse sono il 40% del totale della popolazione reclusa. Per capire di cosa stiamo parlando è utile conoscere alcuni dati europei: la percentuale è del 23,7% in Francia, del 15,3% in Germania, del 19,3% in Spagna e del 15,3% in Inghilterra e Galles. La media dei paesi del Consiglio d’Europa è del 28,5%. Ciò dipende da una inflazione di reati che rende tutto per i giudici lento e faticoso, dalla forzatura delle norme del codice di procedura, dall’uso eccessivo di uno strumento evocato e usato quale pena anticipata, da una cultura sommaria degli apparati di sicurezza e giustizia. La giustizia si è fortemente burocratizzata. Si mandano in galera le persone senza mai averle viste in faccia. Così può accadere che un impiegato comunale, a vari anni dal fatto commesso, vada in carcere per scontare quattro mesi per essersi rifiutato durante un controllo di polizia di fare il test dell’alcool. Entra in istituto e nel giro di un paio di giorni muore. “Senza dignità”, abbiamo titolato il nostro Rapporto annuale sulle condizioni di detenzione (Ed. Gruppo Abele). Il sovraffollamento riduce gli spazi, toglie chance di recupero sociale, ma non giustifica le violazioni dei diritti umani e l’azzeramento della dignità. Troppe le segnalazioni di violenze che ci giungono senza che vi sia un argine pubblico alle stesse. La violenza e la tortura nulla hanno a che fare con l’affollamento delle carceri. Il nostro primo rapporto, del lontano 1999, lo chiamammo Il carcere trasparente. L’opacità penitenziaria è sempre pericolosa. La trasparenza e l’informazione hanno una forte connotazione preventiva rispetto a tentazioni di abusi. Per questo il nostro rapporto 2012 si accompagna a un web doc, primo nel suo genere, Insidecarceri.com. Un lavoro straordinario realizzato grazie all’autorizzazione dell’amministrazione penitenziaria e diretto dai giornalisti di Next New Media. Da ieri la vita nelle carceri è comprensibile a tutti grazie alle immagini messe in rete, nella consapevolezza che la battaglia, prima che essere giuridica, è tutta sociale e culturale. Giustizia: il lavoro in carcere? sta scomparendo… mai così male da 20 anni di Daniele Biella Vita, 20 novembre 2012 Al minimo dal 1991 il numero di detenuti impiegati durante la pena, mentre cresce ancora il sovraffollamento, oggi ai massimi storici. È un ritratto realisticamente crudo quello che esce dal IX Rapporto nazionale sulle condizioni detentive dell’associazione Antigone. Lavoro in carcere addio. È il dato più basso da 20 anni a questa parte quello che esce dal nono rapporto nazionale dell’Osservatorio dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, dal titolo ‘Senza dignità’ e presentato oggi a Roma: “Nel primo semestre 2012 a lavorare sono stati 13.278 detenuti, ossia meno del 20% del totale dei reclusi e comunque una cifra assai inferiore rispetto al numero dei condannati, che al 30 giugno erano 38.771, ai quali l’amministrazione ha l’obbligo di garantire un’occupazione retribuita in base all’art. 20 dell’Ordinamento penitenziario: si tratta della percentuale più bassa dal 1991”, commentano i ricercatori di Antigone. “Questo calo è conseguenza dei drastici tagli del budget previsto nel bilancio del Dipartimento per le mercedi dei detenuti che negli ultimi anni si è ridotto del 71%: si è passati dagli 11milioni di euro del 2010, ai 9,3 euro del 2011 ai 3,2 euro dell’anno in corso”. Non solo meno lavoro: dal rapporto emerge come anche il sovraffollamento continua a essere una piaga insanabile del nostro sistema penitenziario La dichiarazione dello stato di emergenza per il sovraffollamento carcerario risale al 13 gennaio 2010. In quei giorni il numero di detenuti era di 64.791, con una capienza regolamentare di 44.073 posti. “Al 31.10.2012 la presenza è stata di 66.685 detenuti, 1.894 in più. Ma i detenuti non dovevano diminuire?”, è la laconica domanda dell’Osservatorio di Antigone. “L’Italia resta il paese con le carceri più sovraffollate nell’Unione Europea. Il nostro tasso di affollamento è oggi infatti del 142,5%, oltre 140 detenuti ogni 100 posti, mentre la media europea è del 99,6%”, denuncia Antigone nel rapporto. Le regioni più affollate sono Liguria (176,8%), Puglia (176,5%) e Veneto (164,1%). Le meno affollate Abruzzo (121,8%), Sardegna (105,5%) e Basilicata (103%). Per quanto riguarda la lista degli istituti più sovraffollati al 30/06/2012, la maglia nera va a Mistretta, in Sicilia, con il 268,8% di sovraffollamento (43 detenuti a fronte di una capienza di 16), ma per grandi numeri il record è di Brescia (Canton Mombello) con il 254,9% (525 presenti su 206 posti) seguita da Busto Arsizio, sempre in Lombardia, con il 251,5% (420 su 167) e Reggio Calabria con il 247,8% (389 anziché 157). Antigone, nei vari punti del rapporto (uscito in forma cartacea e accompagnato dal video documentario web Inside carceri, disponibile gratuitamente anche sul sito associazioneantigone.it nella sezione apposita), sottolinea anche aspetti che destano stupore: “secondo i dati ufficiali al 31/10/2012 la capienza regolamentare complessiva dei 206 istituti penitenziari è di 46.795 posti. La notizia però incredibile è che il 31/08/2012, due mesi prima, la capienza degli istituti era di 45.568 posti. Da agosto il numero degli istituti è rimasto lo stesso in ogni regione, ma in Calabria ci sarebbero 263 posti in più, in Umbria 196 e in Lombardia addirittura 661 in più. Ad Antigone non risultano però apertura di nuove carceri, né di nuovi padiglioni in vecchie carceri, né in Calabria (dove è anzi stato chiuso il carcere di Laureana di Borrello), né in Umbria e né in Lombardia. A che gioco giochiamo?”, si chiede Antigone, che ribadisce: “Seppur in quasi due anni la capienza dei nostri istituti fosse cresciuta di 2.722 posti in tutto, come affermato dal Dap, sarebbe comunque un risultato modesto, enormemente al di sotto dei posti promessi dal piano carceri, la cui prima stesura prevedeva oltre 17.000 nuovi posti entro il 2012 e la cui ultima stesura ne prevede 11.000 circa entro il 2013”. Per quanto riguarda gli ingressi in carcere, nel 2009, già prima della dichiarazione dello stato di emergenza, sono entrate in carcere 88.066 persone, quasi 5mila in meno dell’anno precedente. La dinamica decrescente è poi proseguita. Nel primo semestre del 2012 gli ingressi in carcere sono stati 32.625, ed è dunque possibile che nel 2012 si registrino meno di 70.000 ingressi in carcere, un dato praticamente senza precedenti. Ma questo calo è da imputare agli interventi del governo volti a contenere gli ingressi in carcere per periodi brevi? “Rispetto all’anno precedente gli ingressi nel2009 sono diminuiti del 5,1%. Nel 2010 del 3,9%. Nel 2011 (prima che il decreto-legge sulle “porte girevoli”, n. 211 del 22 dicembre 2011, potesse sortire alcun effetto) del 9%. Nel primo semestre del 2012 questa tendenza subisce una ulteriore accelerazione (-18,5% rispetto al primo semestre del 2011). Pare dunque che l’intervento del governo sul tema consolidi e rafforzi una tendenza già in atto”, conclude Antigone. I 66.685 detenuti nelle carceri al 31 ottobre 2012 sono per lo più uomini. Le donne, 2.857, rappresentano solo il 4,2% delle presenze. Sono poi in maggioranza italiani, provenienti soprattutto da Campania (26,3%), Sicilia (17,9%), Puglia (10,5%), Calabria (8,6%), Lombardia (7,3%) e Lazio (6,5%), ma gli stranieri, 23.789, rappresentano comunque il 35,6% dei detenuti, una percentuale, stabile ormai da tempo, anche questa con pochi paragoni in Europa. Le nazionalità più rappresentate sono quella marocchina (19,4%), romena (15,3%), tunisina (12,7%), albanese (11,9%) e nigeriana (4,4%). Le percentuali più alte di stranieri tra i detenuti si registrano in Trentino Alto Adige (69,9%), Valle d’Aosta (68,9%) e Veneto (59,1%). Le più basse in Basilicata (12,3%), Campania (12,1%) e Molise (11,8%). Ad oggi però la percentuale degli stranieri tra i detenuti è scesa di poco rispetto al dicembre del 2010, quando era del 36,7%. I reati maggiormente diffusi tra i detenuti sono quelli contro il patrimonio, subito seguiti da quelli previsti dal Testo Unico sugli stupefacenti, ed infine da quelli contro la persona. Se si guarda però ai soli detenuti stranieri, le prime due posizioni si invertono, ed i reati maggiormente diffusi diventano quelli previsti dalla legge sulle droghe. In base agli ultimi dati del Consiglio d’Europa erano condannati per aver violato la legge sulle droghe in Italia il 38,4% dei detenuti. In Francia questa percentuale era del 14,1%, in Germania del 14,8, in spagna del 28% ed in Inghilterra e Galles del 15,6%. Tra coloro che al 30 Giugno 2012 avevano almeno una condanna definitiva, “il 26,5%, 10.296 persone, avevano un residuo pena inferiore all’anno, 18.090 (il 46,6%) inferiore ai due anni e 23.596 (il 60,8%), inferiore ai tre anni. Se con un’azione normativa si facessero uscire quelli che devono scontare meno di tre anni di pena le carceri tornerebbero nella legalità contabile e costituzionale”, sentenzia l’associazione. Altri numeri sulle persone detenute: gli ergastolani al 31 ottobre 2012 erano 1.567. Alla fine del 2005 erano 1.224. Ancora, delle 66.685 persone detenute nella stessa data, ben 26.804, il 40,1%, non sconta una condanna definitiva ma è in carcere in custodia cautelare. “Nonostante vi sia una decrescita rispetto al 2011, in base ai dati pubblicati dal Consiglio d’Europa nel marzo 2012 questa percentuale è del 23,7% in Francia, del 15,3% in Germania, del 19,3% in Spagna e del 15,3% in Inghilterra e Galles. La media dei paesi del Consiglio d’Europa è del 28,5% e questo dato rappresenta certamente l’anomalia maggiore del nostro sistema”. Il 41,2% dei detenuti in Italia, aggiunge il rapporto di Antigone, ha meno di 35 anni. “Nonostante questoi detenuti presenti nelle nostre carceri non sono in buone condizioni di salute. Non ci sono dati nazionali affidabili ma nelle carceri toscane sono malati ben il 73% dei detenuti, e non c’è motivo di ritenere che altrove le cose stiano in modo diverso. Le patologie più comuni sono i disturbi psichici (26,1%), seguiti dalle malattie dell’apparato digerente (19,3%) e da malattie infettive e parassitarie (12,5%). Afferma il documento da cui sono tratti questi dati: “La giovane età dei detenuti spiega l’assenza di patologie che normalmente si presentano in età avanzata mentre, per quanto riguarda il disturbo mentale, risulta di facile comprensione l’influenza che il contesto abitativo e relazionale può esercitare sulla manifestazione di sintomi psicopatologici”. Un dato ancora più inquietante fornito da questa ricerca è quello relativo agli atti di autolesionismo o ai tentati suicidi registrati nella storia clinica dei detenuti oggetto della rilevazione. Tra costoro il 33,2% avrebbe posto in essere atti autolesivi ed addirittura il 12,3% avrebbe tentato il suicidio. Con riferimento alle attività scolastiche, i dati più recenti messi a disposizione dal Dap riguardano coloro che hanno frequentato i corsi scolastici nell’anno 2010/2011. Meno di un quarto dei 67.961 detenuti presenti in carcere alla fine del 2010 era impegnato in attività scolastiche (15.708), e poco più di un decimo dei presenti ha portato a termine con successo un percorso di studio (7.015). “Ancora più allarmante è il quadro relativo alla formazione professionale”, fa sapere Antigone. “Al 30/06/2012, quando erano presenti nelle nostre carceri 66.528 detenuti, erano stati attivati 237 corsi di formazione professionale. Vi avevano partecipato 2.974 detenuti, un misero 4.4% dei presenti. Degli iscritti 1.114 erano stranieri (37,4%) e 214 donne (7.1%). Al 30 settembre 2012 in totale in Italia scontavano la propria pena in misura alternativa 19.107 persone. Alla fine del 2005, prima dell’entrata in vigore dell’indulto del 2006, il numero totale delle persone in misura alternativa era 23.394, molti più di oggi. Da allora il numero dei detenuti ha superato ampiamente quello del 2006, ma il numero delle persone che scontano la propria pena fuori dal carcere è ancora troppo basso. Giustizia: Radicali; moltissime adesioni a 4 giorni di mobilitazione dentro e fuori le carceri Notizie Radicali, 20 novembre 2012 Sono moltissime le adesioni alla quattro giorni di mobilitazione nonviolenta per il diritto di voto dei detenuti e l’amnistia lanciata da Marco Pannella e dal Partito Radicale, che da oggi a giovedì coinvolgerà l’intera comunità penitenziaria, dentro e fuori le carceri. Mentre numerosi familiari dei detenuti, insieme a dirigenti e operatori penitenziari, volontari, cappellani, rappresentanti di associazioni e semplici cittadini hanno comunicato il proprio sostegno all’iniziativa con uno sciopero della fame o altre azioni nonviolente, da stasera i detenuti accompagneranno il digiuno con un quarto d’ora di battitura delle sbarre, dalle ore 20 alle 20.15, alle quali faranno seguito tre quarti d’ora di silenzio. Gli ultimi due giorni dell’iniziativa, il 21 e il 22 novembre, saranno anche di sostegno all’astensione dalle udienze promossa in tutta Italia dall’Unione delle Camere Penali. Tra le prime adesioni pervenute, quelle del sindacato dei dirigenti penitenziari Si.Di.Pe, del segretario nazionale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, Leo Beneduci, delle associazione A Buon Diritto, di Patrizio Gonnella presidente di Antigone e Ornella Favero direttrice di Ristretti Orizzonti, della Comunità di Sant’Egidio, del settimanale Tempi con il direttore Luigi Amicone, del Blog della Giustizia, del presidente dei medici penitenziari Francesco Ceraudo, di Don Antonio Mazzi, e del cappellano e del sacerdote del Carcere di Rebibbia, Don Sandro Spriano e Don Marco Di Benedetto. Obiettivo dell’iniziativa è garantire la possibilità, ai tantissimi reclusi che ancora li conservano, di esercitare i propri diritti in vista delle prossime scadenze elettorali. E ribadire con forza la necessità di un’amnistia - abbinata a un provvedimento di indulto - per uscire subito dall’illegalità gravissima nella quale versa la giustizia italiana e la sua appendice carceraria, come denuncia da tempo il leader radicale con la sua battaglia di civiltà per ripristinare - a partire dalle carceri, moderne catacombe del diritto e della democrazia - giustizia e legalità nel nostro Paese. Un obiettivo sul quale i Radicali sono mobilitati da sempre con le armi della nonviolenza, come la deputata Radicale Rita Bernardini e la segretaria del Detenuto Ignoto Irene Testa che dal 24 ottobre conducono uno sciopero della fame, inframmezzato da intere giornate di sciopero della sete, insieme ad altri dirigenti e militanti radicali in digiuno, tra cui il segretario di Radicali Lucani Maurizio Bolognetti e il direttore di Notizie Radicali Valter Vecellio, in risposta alla resa di uno Stato in flagranza di reato rispetto alla Costituzione italiana, alle giurisdizioni internazionali e ai diritti umani universalmente riconosciuti. È possibile aderire alla quattro giorni di sciopero della fame, battitura e di silenzio sui siti: www.radicalparty.org, www.radicali.it e www.radioradicale.it. Giustizia: Magistratura Democratica con Ucpi “Drammatica condizione di vita in carceri” Agi, 20 novembre 2012 Magistratura Democratica condivide la denuncia espressa dalle Camere Penali nella delibera del 5 novembre sulla “drammatica condizione di vita delle persone ristrette nelle carceri italiane, sull’inefficacia degli interventi legislativi e sullo scarso impegno della politica nella ricerca di soluzioni tempestive e adeguate”. “Se pure non convince lo strumento di protesta utilizzato, Md - fa sapere in una nota l’esecutivo della corrente di sinistra della magistratura - è al fianco dell’avvocatura nell’impegno, espresso nella citata delibera, a diffondere informazioni che rendano visibile all’opinione pubblica le insostenibili condizioni di vita dei detenuti e a promuovere iniziative volte a sensibilizzare la cittadinanza, attraverso un dibattito pubblico che evidenzi come il corretto funzionamento del sistema carcerario e del trattamento dei detenuti sia uno dei più importanti indicatori del grado di civiltà e democrazia di un Paese e costituisca presidio per la loro sicurezza”. “Da sempre siamo impegnati - prosegue Md - nella elaborazione di proposte volte alla riduzione del ricorso allo strumento del carcere (quali l’introduzione di sanzioni sostitutive, l’elaborazione di progetti di mediazione penale e di probation sul modello delle legislazioni anglosassoni) nonché nel promuovere prassi avanzate all’ interno delle carceri e strumenti volti a garantire che la pena abbia davvero una funzione rieducativa ed escluda i contenuti inutilmente afflittivi. Di fronte alla fotografia impietosa del degrado vissuto nelle carceri italiani gli operatori del diritto, associazioni e persone che abbiano a cuore i diritti inviolabili dell’uomo non possono restare in silenzio. Per questo Md condivide le ragioni indicate dalle Camere Penali a sostegno della protesta indetta per la giornata del 22 novembre e invita la magistratura ad assumere le iniziative ritenute opportune al fine assolvere agli impegni di informazione e sensibilizzazione che abbiamo ricordato”. Giustizia: giornalisti a confronto su un Codice deontologico dedicato a chi scrive di carcere Adnkronos, 20 novembre 2012 “Bisogna far crescere la cultura dell’informazione su cui poggiano i diritti di cittadinanza. La cultura dell’informazione va declinata in vari modi, abbiamo molte carte deontologiche ma la Carta di Milano sui diritti dei detenuti contribuisce, perché interviene anche in termini di linguaggio, ad un’inversione culturale”. Lo ha detto Paolo Butturini, segretario dell’Associazione stampa romana, durante la giornata di dibattito “Carcere: parole, pensieri ed omissioni”, organizzata oggi dall’Associazione stampa romana, per portare all’attenzione dell’informazione come parlare, raccontare e occuparsi di carcere nei media. Un primo passo potrebbe essere “La Carta di Milano”, ha spiegato Letizia Gonzales presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, nata un anno fa, la Carta “è il primo passo per arrivare all’approvazione di un codice a livello nazionale che regoli i rapporti tra media e mondo carcerario. L’informazione ha una grande responsabilità, per questo è nata l’idea di una carta deontologica - ha aggiunto Gonzales - perché ci siamo resi conto che non tutti i giornalisti avevano ben chiaro di cosa parlavano quando scrivevano di carcere, detenzione e famiglia. E questo è dovuto anche alla fretta e alla velocità con cui si spesso siamo costretti a lavorare”. Secondo Gerardo Bombato, presidente dell’Ordine dei giornalisti Emilia Romagna, è auspicabile che queste “occasioni di confronto e dialogo si moltiplichino in modo che il problema esca dalle stanze di categoria per coinvolgere tutti i soggetti che agiscono nell’emergenza carcere. È un sollecito anche all’Ordine nazionale dei giornalisti - sottolinea Bombato - perché prenda in seria considerazione questa Carta già approvata dall’Ordine della Lombardia, dell’Emilia Romagna e del Veneto”. Presente al dibattito anche il senatore Roberto Di Giovan Paolo (Pd), che ha sostenuto: “Non bisogna inventare niente di nuovo, bisogna rimettere insieme le forze. Va ritrovato il modo di fare rete perché delle carceri ci si occupi in maniera concreta. La stampa in questo è fondamentale perché può cambiare la società”. “Carta del carcere e delle pene”, giornalisti presto a Regina Coeli Sindacato e Ordini dei giornalisti, operatori, giuristi, direttori delle riviste carcerarie ed associazioni, si sono dati appuntamento a Roma in gennaio per discutere della “Carta del carcere e delle pene”, un codice deontologico dedicato a chi scrive di carcere, detenuti ed esecuzione della pena. L’incontro, su proposta del direttore del carcere di Regina Coeli, Mauro Magliani, potrebbe avvenire proprio nel carcere romano aprendo l’ingresso a giornalisti che si troveranno a diretto contatto con i detenuti e con i tantissimi soggetti che si occupano di carceri. La Carta - è stato spiegato stamattina in un incontro propedeutico a quello di gennaio organizzato da Stampa Romana - è il primo passo per arrivare all’approvazione di un codice nazionale che regoli i rapporti tra media e mondo carcerario allo scopo di fornire un supporto a chi scrive dell’argomento per una informazione “più informata”. La Carta afferma sostanzialmente due principi: il primo è che non è ammessa (neanche per i giornalisti) l’ignoranza della legge e sono leggi, quelle che consentono a un detenuto, di accedere a benefici e misure alternative. La possibilità di appropriarsi progressivamente della libertà - sostengono i promotori della Carta - non mette in discussione la certezza della pena. Si tratta dunque di usare termini appropriati evitando di sollecitare un ingiustificato allarme sociale rendendo più difficile un percorso di reinserimento che avviene sotto stretta sorveglianza. Altro principio è il diritto all’oblio: una volta scontata la pena, un detenuto che cerca di ritrovare un posto nella società, non può essere indeterminatamente esposto all’attenzione dei media che continuano a ricordare al vicino di casa, al datore di lavoro, all’insegnante dei figli e ai loro compagni di scuola il suo passato. Fino ad ora la Carta è stata approvata dagli ordini regionali della Lombardia, dell’Emilia Romagna e del Veneto e l’intenzione dei promotori è che possa essere fatta propria dall’Ordina nazionale dei giornalisti. Giustizia: A Roma Insieme; delusi da Severino, per minori servono Case Famiglia protette Ansa, 20 novembre 2012 “Siamo rimasti molto delusi che il ministro della Giustizia Paola Severino, durante una recente intervista, abbia parlato esclusivamente degli Icam e non abbia neanche accennato alla novità legislativa rappresentata dalle Case Famiglia protette”. A sostenerlo è Gioia Cesarini Passarelli, presidente dell’Associazione “A Roma Insieme” che si occupa dei bambini reclusi con le madri nel carcere romano di Rebibbia, in merito ad un’intervista del ministro Severino a “Che tempo che fa”. “Sul tema dei bambini in carcere - spiega - si continua a parlare sempre e solo di Icam, come se questa fosse la soluzione al problema. In realtà queste strutture anche se sono migliori rispetto ad una normale sezione, restano comunque carceri perché vi si applica l’ordinamento penitenziario con le limitazioni che ne derivano sia sotto il profilo dei rapporti con il mondo esterno (colloqui, visite ecc.) che con quello interno. Da anni sosteniamo che l’unica vera soluzione al problema sono delle strutture non detentive dove le mamme possono scontare la pena al di fuori del carcere. Non a caso il decreto 26 luglio 2012 firmato dal ministro Severino stabilisce che, in attuazione della legge 62 del 21 aprile 2011, la nuova disciplina della detenzione delle detenute madri, sono istituite le case famiglia protette”. Il presidente di “A Roma Insieme” ricorda che “il decreto prevede espressamente la realizzazione delle case famiglia protette. Vogliamo ricordare che questo decreto è stato emanato con un ritardo di quasi un anno rispetto alla scadenza fissata. C’è stata una nostra iniziativa con la raccolta di centinaia di firme per una petizione perché il decreto fosse emanato, consegnata all’inizio dell’estate al ministro Severino a cui abbiamo anche fatto un pubblico apprezzamento dopo l’emanazione. Mentre ci auguriamo che tutte le parti coinvolte continuino a impegnarsi per la realizzazione di questo snodo fondamentale della legge sulle detenute madri, noi continueremo a lavorare perché nessun bambino varchi più la soglia di un carcere”. Giustizia: Associazione Clemenza e Dignità; il governo lasci un segno tangibile di speranza Adnkronos, 20 novembre 2012 “Un governo tecnico, che quindi deve raffrontarsi solo con le leggi, con le regole di buona amministrazione, e non è strettamente condizionato dalla ricerca o dal mantenimento di un consenso, può svolgere in materia di carceri, un’azione assai più incisiva di un governo politico. Manca poco al termine di questa legislatura, e vista la situazione sempre più disperata delle carceri, formulo molto rispettosamente un appello che è veramente accorato al Sig. Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro della Giustizia, perché venga lasciato perlomeno un segno, un segno tangibile di speranza, in un mondo che sembra essere stato dimenticato dallo Stato, dalla politica, dai media e dalla società”. È quanto afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni dell’Associazione Clemenza e Dignità. Giustizia: ddl diffamazione; il relatore Berselli presenta un emendamento “salva direttori” Agi, 20 novembre 2012 “Salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione” per la diffamazione a mezzo stampa con attribuzione di un fatto determinato, “il direttore o il vice direttore responsabile che abbia partecipato con questi nella commissione del reato è punito con la pena della multa da euro 5 mila a 50 mila”. È quanto prevede l’emendamento del relatore - il presidente della commissione Giustizia Filippo Berselli - al ddl sulla diffamazione all’esame del Senato. Resta dunque il carcere fino a un anno in alternativa alla multa per i giornalisti sul quale l’aula di Palazzo Madame si era già pronunciata, con voto segreto e favorevole. L’emendamento di Filippo Berselli incide sull’articolo 13 della legge sulla stampa ma comporta l’eliminazione delle modifiche all’articolo 57 del Codice Penale, che è norma a carattere generale. Nel testo appena depositato per l’esame d’aula si stabilisce anche che salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione, il direttore o il vice direttore responsabile che omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario a impedire che attraverso la pubblicazione sia commessa la diffamazione è punito “a titolo di colpa, se tale reato è commesso, con la pena della multa da 2 mila a 20 mila euro. Qualora l’autore sia ignoto o non identificabile, ovvero un giornalista professionista sospeso o radiato dall’Ordine, si applica la pena della multa da 3 mila a 30 mila euro. All’emendamento appena presentato si è giunti dopo la lunga querelle sul caso del direttore del Giornale Sallusti. Berselli: da Lega mi aspetto non chieda voto segreto “Mi sembra che il testo vada verso la direzione a cui tutti aspiravano”. Lo dice Filippo Berselli, presidente della commissione Giustizia e relatore del Pdl sulla diffamazione, a proposito dell’emendamento che ha appena presentato per l’esame dell’Aula. Ma non manca di notare che il suo auspicio era quello di non approvare neanche la norma che prevede la pena del carcere in alternativa alla multa per i giornalisti condannati a causa del reato di diffamazione a mezzo stampa. Prevedo che la Lega - aggiunge Berselli - potrà riconoscersi” nel testo. Quindi richiama le dichiarazioni del segretario del Carroccio, Roberto Maroni, e dell’ex guardasigilli Roberto Castelli e prosegue: “mi attendo che non chiedano più lo scrutinio segreto e confido che anche l’Api faccia altrettanto”. Berselli non manca di chiosare: certo, “bisogna vedere cosa farà il Partito Democratico. È stato un emendamento molto elaborato”, dice ancora Berselli, che ritorna sul monito che aveva lanciato: se il ddl fosse tornato in commissione per ricominciarne, in quella sede, la valutazione, sarebbe stato messo su un “binario morto”. Ora verrà fissato il termine per la presentazione di sub-emendamenti alla modifica proposta da Berselli e il disegno di legge, da calendario, tornerà all’esame dell’Aula in questa settimana. Giustizia: “Non date la grazia a Vallanzasca”, la protesta dei parenti delle vittime La Repubblica, 20 novembre 2012 È nata a Milano l’associazione “Maresciallo D’Andrea” dopo la notizia che il “Bel René” è tornato a chiedere la grazia al presidente della Repubblica (che l’aveva già rifiutata). Nonostante sia ormai 62 enne e malato il Boss della Comasina riapre ancora vecchie ferite. Renato Vallanzasca è stato un bandito dalle caratteristiche quasi letterarie e non a caso ha ispirato persino sceneggiature cinematografiche. Ma per centinaia di persone la banda di cui è stato capo è solo un drammatico ricordo luttuoso. I familiari delle vittime della banda della Comasina hanno presentato l’”Associazione Maresciallo Luigi D’Andrea”, che riunisce tutti i parenti. Per mandare un messaggio netto: è trapelato infatti pochi giorni fa che Renato Vallanzasca, che sta scontando quattro ergastoli e 295 anni di reclusione, è tornato a chiedere tramite i suoi parenti la grazia al presidente Napolitano, il quale aveva già negato l’atto di clemenza nel 2007. E la loro risposta è seccamente “no”. Presiede l’associazione Gabriella Vitali, la vedova del maresciallo D’Andrea che fu ucciso in un conflitto a fuoco con la banda di Renato Vallanzasca con un suo collega, Renato Barborini, il 6 febbraio del 1977 al casello autostradale di Dalmine, nel Bergamasco: “Non si è mai scusato e non ha mai dato segni di pentimento” ha detto la vedova, “ha dato solo segni in negativo”. “Basta con il buonismo di Stato, alle Condizioni attuali non c’è ragione per concedere la grazia” ha detto Carlo Saffioti, vice presidente del consiglio regionale lombardo che ha presieduto la presentazione dell’associazione. “I familiari delle vittime non possono avere diritti che hanno valore inferiore rispetto a quelli di chi ha commesso l’omicidio, e le istituzioni hanno doveri precisi nell’aiutare e nell’assistere i familiari delle vittime” ha concluso. All’ex capo della banda della Comasina venne concessa la semilibertà lo scorso agosto. Gli era consentito uscire dal carcere alle 7.30 per lavorare come magazziniere in una pelletteria in provincia di Bergamo e poi rientrare in istituto alle 19.00. La notizia del suo impiego al di fuori del carcere è rimasta segreta finché alcuni giornalisti non lo hanno riconosciuto e il clamore mediatico generato portò la titolare del negozio a licenziarlo dopo poche settimane di lavoro. Lettere: abbiamo le galere peggiori d’Europa di Ascanio Celestini Pubblico, 20 novembre 2012 I carcerati c’hanno pure la televisione. Così si dice durante la chiacchiere al bar, come se avercela sia una buona cosa. E allora andiamo a vedere come stanno i prigionieri delle nostre galere, le più infami d’Europa. Ricordiamo intanto il dato che alcuni giornali mostrano quando arriva l’estate e le condizioni si fanno più critiche. Cioè che nelle nostre galere ci sono quasi 150 detenuti dove ce ne starebbero 100 stretti. Insomma una vera tortura e non lo dico io o qualche vecchio brigatista pericoloso, ma un signore moderato come il presidente della repubblica. Di questi, quasi la metà scontano una pena senza aver ricevuto una condanna. Aspettano. E intanto se ne stanno dentro. Dentro alla cella per 22 ore su 24. Magari sul materasso lercio al quarto piano di un letto a castello. “Gli stranieri, 23.789, rappresentano comunque il 35,6% dei detenuti, una percentuale, stabile ormai da tempo, anche questa con pochi paragoni in Europa” ci ricorda il IX Rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone. Che sommati ai tossici (quasi il 30%) ci raccontano come le nostre prigioni sostituiscano uno stato sociale inesistente. “In base agli ultimi dati del Consiglio d’Europa erano condannati per aver violato la legge sulle droghe in Italia il 38,4% dei detenuti. In Francia questa percentuale era del 14,1%, in Germania del 14,8, in Spagna del 28% ed in Inghilterra e Galles del 15,6%”. Ma perché siamo così strani rispetto a tutti gli altri paesi del continente? Sarà perché nel nostro paese abbiamo trasformato in reato quello che per decenni era solo un giudizio morale? “Il 41,2% dei detenuti in Italia ha meno di 35 anni, ma nonostante questo i detenuti presenti nelle nostre carceri non sono in buone condizioni di salute”. “Tra costoro il 33,2% avrebbe posto in essere atti autolesivi ed addirittura il 12,3% avrebbe tentato il suicidio”. Strano. In galera ci stanno i cattivi! E perché questi cattivi sono tanto deboli da togliersi la vita? “Ancora più allarmante è il quadro relativo alla formazione professionale. Al 30.06.2012, quando erano presenti nelle nostre carceri 66.528 detenuti, erano stati attivati 237 corsi di formazione professionale. Vi avevano partecipato 2.974 detenuti, un misero 4.4% dei presenti”. Ma le nostre galere allora non sono rieducative? Mi pareva che dovesse essere così. Come diceva Dostoevskij? Che “il grado di civiltà di un paese si misura dalle condizioni delle sue carceri”? Trovo questa frase citata addirittura su un sito di poliziotti. Andiamocelo a leggere il rapporto di Antigone. Perché per capire il nostro paese dovremmo porre un po’ più di attenzione anche nei confronti di questi nostri concittadini prigionieri. Sassari: sbarre battute e sciopero fame, mobilitazione pacifica dei detenuti per l’amnistia La Nuova Sardegna, 20 novembre 2012 Il grado di civiltà di una nazione si misura anche dalle condizioni di vita dei carcerati. Nel Paese e anche a Sassari, i detenuti non se la passano bene. Sovraffollamento e situazioni logistiche e igieniche non sempre ottimali sono alla base dei malumori e delle proteste della popolazione carceraria. Sarà per questo che ieri sera, in città, la maggior parte degli inquilini di San Sebastiano ha aderito alla mobilitazione non violenta, a livello nazionale, promossa da Marco Pannella e dal Partito radicale. Quattro giorni di protesta per il diritto di voto dei detenuti e l’amnistia. Da ieri sino a giovedì l’intera comunità penitenziaria accompagnerà il digiuno con un quarto d’ora di battitura delle sbarre, dalle ore 20 alle 20.15, alle quali faranno seguito tre quarti d’ora di silenzio. Molti passanti e numerose persone che abitano nei pressi della struttura di San Sebastiano si sono allarmate pensando a una sorta di rivolta. Invece si è trattato di una manifestazione pacifica e ampiamente annunciata da parte dei detenuti. Obiettivo dell’iniziativa è garantire la possibilità, ai tantissimi reclusi che ancora li conservano, di esercitare i propri diritti di voto in vista delle prossime scadenze elettorali. E ribadire con forza la necessità di un’amnistia - abbinata a un provvedimento di indulto. Ma il grido di dolore che viene da dietro le sbarre si riferisce anche alle precarie condizioni detentive e alla richiesta di migliori standard di vita. L’ultima denuncia arriva dal sindacato Sappe che rappresenta il personale di Polizia Penitenziaria. Il segretario provinciale Antonio Cannas infatti in una nota parla della “riapertura del 3° braccio dopo che, in seguito alle richieste dello stesso sindacato quella zona, considerata al di sotto delle minime condizioni igienico sanitarie, era stata finalmente chiusa”. I detenuti erano stati trasferiti al 2° braccio “col presupposto che la popolazione detenuta ristretta nel carcere di Sassari si sarebbe attestata sulle 50 unità, in attesa dell’apertura del nuovo istituto in fase di ultimazione a Bancali. Attualmente i detenuti presenti nella sede invece sono più di 150 e una decina di questi sono addirittura sistemati nuovamente nel 3° braccio detentivo. Ma allora tutto quello che si è fatto non è valso a nulla?”. Altra questione che preoccupa i rappresentanti sindacali è il fatto che, prima di provvedere allo “sfollamento” nel 3° braccio si trovavano ristrette, separatamente, varie categorie di detenuti protetti i quali sempre nello stesso modo (separati) fruivano dell’orario di “passeggi” previsto dalla norma, mentre adesso che questi soggetti sono ristretti nel secondo braccio, sembra che fruiscano dei “passeggi” tutti insieme senza alcun tipo di separazione. “Eppure le norme che disciplinano la separazione delle varie categorie di detenuti sono molto chiare. Al contrario a Sassari, sembra che per favorirne la convivenza, sia stata adottata una sorta di domandina con la quale il detenuto dichiara di non avere problemi con alcuno. Addirittura nel secondo braccio della casa circondariale di San Sebastiano sembra si trovi anche un detenuto “protetto” ex collaboratore di Giustizia, al quale, parrebbe previa liberatoria, venga riservato lo stesso trattamento degli altri”. Insomma, secondo il sindacato Sappe la promiscuità dei detenuti e gli spazi sempre più inadeguati creerebbero situazioni ad altissimo rischio sotto il profilo della sicurezza dei detenuti ma anche degli agenti di Polizia Penitenziaria. “Chiediamo alla direzione del carcere e al provveditorato regionale - è la conclusione della nota, un intervento urgente per sanare una situazione oramai non più accettabile”. Sassari: il nuovo carcere non apre, al San Sebastiano riaperto il “braccio della vergogna” L’Unione Sarda, 20 novembre 2012 Chiuso in estate, riaperto in autunno. È il 3° braccio detentivo del carcere di San Sebastiano i cui detenuti erano stati trasferiti al piano terra ipotizzando una presenza di 50 unità in attesa dell’apertura del nuovo Istituto. “In realtà - denuncia il sindacato Sappe - i detenuti sono più di 150 e una decina di questi occupano nuovamente il 3° braccio”. Secondo il Sappe nel secondo braccio si troverebbe un detenuto protetto, già ex collaboratore di giustizia, cui sarebbe riservato lo stesso trattamento dei reclusi “normali”: passeggi, socialità e altro. “Se non ottiene quello che vuole, ricorre subito alla lametta, creando così - continua la nota del Sappe - gravissimi disservizi all’interno del penitenziario. Una prassi ormai accertata che nessuno pare voglia debellare”. Così le responsabilità scivolano da uno all’altro per poi finire sull’assistente capo della sezione detentiva che “quando non accontenta il detenuto rischia di subirne la violenza”. A Sassari, secondo il Sappe, per arrivare ad una soluzione definitiva di un problema si deve attendere sempre e comunque che qualcuno si faccia veramente male: “Per non arrivare a tanto - conclude la nota del segretario Antonio Cannas - è necessario un intervento urgente della direzione. Due gli obiettivi: garantire l’incolumità dei detenuti e quella degli agenti della polizia penitenziaria cui sono affidati”. Busto Arsizio: in tre nelle celle singole, da giovedì detenuto in sciopero della fame Asca, 20 novembre 2012 Al carcere di Busto Arsizio, giovedì e venerdì i piatti dei detenuti rimarranno pieni. E stata infatti indetto uno sciopero della fame dai reclusi del penitenziario di via per Cassano, che intendono denunciare la situazione intollerabile di sovraffollamento. Oltre allo sciopero della fame attueranno la battitura delle sbarre e quarantacinque minuti di successivo silenzio. Maglia nera per il carcere di Busto Arsizio che si è classificata tra uno dei casi limite per sovraffollamento in un rapporto pubblicato dall’associazione Antigone. Nel penitenziario infatti sono presenti il doppio di detenuti rispetto al numero previsto, le celle singole sono destinate a tre persone e la palestra per gli invalidi è stata chiusa per mancanza di personale. A dare man forte alla protesta dei detenuti l’Unione italiana delle Camere Penali che porterà avanti la protesta con un giorno di astensione degli avvocati dalle udienze. Vicenza: visita al carcere della Radicale Bernardini “quello che ho visto è stato un orrore” di Chiara Roverotto Giornale di Vicenza, 20 novembre 2012 “Ho una sola parola per descrivere quanto ho visto nel carcere di Vicenza: orrore”. Rita Bernardini parlamentare dei Radicali e componente della Commissione Giustizia della Camera, domenica ha trascorso sei ore all’interno della Casa Circondariale di via Della Scola. Era accompagnata da Maria Grazia Lucchiari e da Fiorenzo Donadello, rappresentanti locali del movimento. “Dopo quanto ho visto presenterò un’interrogazione in parlamento, invierò un rapporto al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di competenza e farò un esposto alla Procura perché non ci saranno torture in carcere, ma maltrattamenti sì: nel senso che non vengono rispettati i diritti delle persone rinchiuse”. L’on. Bernardini prosegue: “C’erano 358 detenuti con una capienza massima di 146, tra loro 90 italiani, il resto stranieri. Non c’è alcuna divisione tra coloro che sono in attesa di giudizio e chi ha già una condanna da scontare, e questo non dovrebbe accadere. Vivono in tre in una cella di nove metri quadrati: due sono sistemati su un letto a castello il terzo su una brandina. Muoversi all’interno è impossibile. Domenica faceva molto freddo, il riscaldamento viene acceso un’ora al mattino e un’ora alla sera, il resto della giornata i detenuti mettono maglioni, cappotti, pile. Naturalmente chi li possiede, molti non hanno parenti per cui si devono adattare. Mi ha colpito che parecchi, anche a distanza di due anni, non avessero ancora incontrato il direttore o il comandante degli agenti. Alcuni provenivano da Brescia e da San Vittore a Milano, sostenevano che stavano meglio in quelle carceri. E questo è pazzesco”. Da oggi per quattro giorni i Radicali hanno organizzato proteste in tutte le case circondariali per far sì che l’attenzione si sposti su un sistema carcerario al collasso. “I detenuti dalle 20 alle 20,15 batteranno sulle sbarre poi seguiranno tre quarti d’ora di silenzio assoluto, lo stesso silenzio delle istituzioni che non vogliono affrontare questo problema e non vogliono sentir parlate di indulto o amnistia”. Da un po’ di mesi la struttura di via della Scola è al centro di polemiche: prima l’Ulss che ha denunciato i casi di Tbc, ma le condizioni igieniche restano disperate. “Alcuni non si possono lavare perché non hanno sapone e le docce funzionano ad intermittenza, sempre che l’acqua sia calda - continua l’on. Bernardini. Domenica il cibo veniva distribuito una sola volta e per cena c’erano due uova sode e a pranzo 80 grammi di pasta e una fettina di carne. Mi chiedo se tutto questo sia possibile e, soprattutto, umano? Ho visitato anche l’albanese che pochi giorni fa ha tentato di dare fuoco alla cella. È in isolamento: un materasso gettato per terra e niente di più. Voleva morire e come non capirlo? Nel campo da calcio ci sono tre capre, è inutilizzabile perché dovrebbero partire i lavori del nuovo padiglione. Ma quando?”. Reggio Calabria: Foti (Pdl); riaprirà a breve il carcere di Laureana di Borrello Tm News, 20 novembre 2012 “Istituto Penitenziario Luigi Daga di Laureana di Borrello riaprirà molto presto, ed entro il primo trimestre del prossimo sarà in condizione di operare a pieno regime. Lo annuncia in una nota Nino Foti, capogruppo Pdl in Commissione Lavoro alla Camera, che spiega che il ministro della Giustizia Paola Severino, tramite il suo capo di Gabinetto, ha risposto “positivamente alla comunicazione inviata qualche giorno fa nella quale ho chiesto chiarimenti in merito a questa situazione”. Secondo quanto specificato nella lettera la chiusura dell’Istituto “È assolutamente di natura temporanea, ed è stata espletata con l’obiettivo di realizzare una ridefinizione dell’organico e individuare i criteri per l’assegnazione di almeno ottanta detenuti da selezionare in funzione delle caratteristiche dell’istituto”, spiega Foti. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si è impegnato a porre, entro il primo trimestre del prossimo anno, l’Istituto in condizione di operare a pieno regime e “di conseguire i risultati attesi sulla base di un progetto e di un modello gestionale rispondente alla particolare tipologia della struttura”. Modena: il Sappe denuncia gravi carenze igienico-sanitarie nella Casa Circondariale Adnkronos, 20 novembre 2012 Continuano i disagi legati alla grave carenza igienico sanitaria all’interno della casa circondariale di Modena, con particolare riferimento ai locali della mensa. È quanto sottolinea in una nota il Sappe, Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria, che ricorda che dopo una denuncia dei giorni scorsi “nessun provvedimento è stato formalmente assunto, come la richiesta e auspicata chiusura del locale, al fine di consentire un adeguato rispristino delle condizioni igienico sanitarie”. “Dopo la nostra denuncia il personale di polizia ha notato ancora la presenza di scarafaggi all’interno della mensa - dice Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe - Pertanto, stiamo valutando l’opportunità di interessare della questione l’Ausl, considerato che l’amministrazione sembra non voler adottare i provvedimenti da noi richiesti”. il sindacato fa poi notare “che tra personale di polizia e amministrativo la mensa è frequentata da circa 200 dipendenti”. Roma: dal 22 al 24 Conferenza direttori amministrazione penitenziaria di 47 Paesi europei Adnkronos, 20 novembre 2012 Come garantire ai detenuti stranieri gli stessi diritti degli altri detenuti? Quali norme applicare per prevenire ogni forma di discriminazione? In quale maniera ridurre il sovraffollamento penitenziario? Le questioni saranno esaminate nel corso di una conferenza che riunirà, dal 22 al 24 novembre a Roma i direttori di amministrazione penitenziaria e dei servizi di probation dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. La conferenza sarà aperta giovedì dal ministro della Giustizia Paola Severino e dalla vice segretaria generale del Consiglio d’Europa, Gabriella Battaini-Dragoni. Discorso di benvenuto di Giovanni Tamburino, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La gestione degli stranieri detenuti, spiega una nota, costituisce un problema la cui gravità varia da un paese all’altro. Le statistiche 2010 del Consiglio d’Europa indicano che il tasso di stranieri in carcere oscilla dallo 0,7% dalla popolazione penitenziaria (in Polonia e Romania) al 71,6 della Svizzera, passando dal 36,6% per l’Italia. I partecipanti discuteranno dei mezzi più adatti per prenderli in carico e prepararli per la liberazione ed il reinserimento, alla luce della Raccomandazione del Consiglio d’Europa. Quest’ultima enuncia una serie di misure da adottare, come ad esempio: esaminare la situazione dei detenuti stranieri secondo gli stessi criteri degli altri imputati o condannati - in particolare nel momento della scelta del regime o della pena, e della presa in considerazione della liberazione - fornire le informazioni in merito ai diritti ed ai doveri in carcere in una lingua comprensibile, facilitare i contatti con la famiglia e gli avvocati e mettere in atto collegamenti tra i paesi di detenzione ed i paesi di destinazione, per favorire il reinserimento. Il testo sottolinea poi l’importanza di una formazione specifica del personale per una migliore comprensione delle differenze culturali e religiose. Palermo: il 29 novembre Report finale del Progetto “Buoni Dentro”, coinvolti 30 detenuti Ansa, 20 novembre 2012 Sarà presentato il 29 novembre alle ore 9.30, nel Teatro dell’Istituto Penitenziario Pagliarelli, il report finale del progetto “Buoni Dentro”, promosso nel 2011 da Infaop - Istituto nazionale per la formazione, l’addestramento e l’orientamento professionale, “con l’obiettivo di dare alla comunità - afferma una nota - una nuova immagine della struttura carceraria e dei detenuti”. “Buoni Dentro è un progetto durato 24 mesi e nato con l’obiettivo di riqualificare 30 fra detenuti e detenute del carcere Pagliarelli - affermano i promotori - che hanno visto ampliarsi le loro opportunità di accesso al mondo del lavoro attraverso due corsi paralleli che, anche grazie ai relativi laboratori, hanno preparato rispettivamente gli uomini come mastri pastai e le donne come operatrici socio-assistenziali”. Realizzato nell’ambito del Programma operativo obiettivo convergenza 2007-2013, Fondo sociale Europeo, Regione Siciliana, il progetto è stato promosso da Infaop e coordinato da Mediali, mentre l’azione di ricerca è stata gestita dallo studio di consulenza aziendale Proteos. Partner di Buoni Dentro sono stati il Pastificio Giglio, che ha formato gli uomini, e la Cooperativa Sociale Isola, che ha curato la formazione delle donne. Durante la presentazione verranno illustrati i risultati della ricerca dal titolo “Uno sguardo tra i pianeti della popolazione detenuta”. Interverranno fra gli altri Francesca Vazzana, direttrice dell’Istituto penitenziario Pagliarelli; Leoluca Orlando, sindaco di Palermo; Rosolino Greco, dirigente assessorato regionale della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro. S. Angelo dei Lombardi (Av): Sappe; riportare a carceri provenienza gli agenti “distaccati” Ansa, 20 novembre 2012 Restituire ai penitenziari calabresi le decine di agenti in servizio provvisorio a S. Angelo dei Lombardi (Avellino) e favorire la mobilità a domanda del personale di Polizia che da anni lavora nel Nord Italia. A chiederlo è la Segreteria Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe) che ha inviato una richiesta urgente alla Ministro della Giustizia Paola Severino. “Le contraddizioni dell’Amministrazione Penitenziaria - afferma il segretario generale del Sappe, Donato Capece - retta da Giovanni Tamburino sono talmente evidenti che non sappiamo cosa aspetti il Ministro Guardasigilli ad avvicendarlo dalla guida del Dap. Per l’apertura ed il funzionamento del carcere di S. Angelo dei Lombardi sono stati depauperate le carceri calabresi da decine di poliziotti mandati a fare servizio. E questo nonostante i penitenziari calabri soffrono di una grave carenza organica di Baschi Azzurri ed è in atto un piano di mobilità a domanda del Personale che aspira ad essere trasferito in quella sede”. “Così facendo - conclude - il Dap di Tamburino scontenta coloro che, da anni in servizio in carceri del Nord, aspirano ad essere trasferiti a S. Angelo dei Lombardi e contestualmente aggrava la già precaria situazione penitenziaria calabrese. Servono urgenti determinazioni, che auspichiamo verranno adottate con sollecitudine dal Ministro della Giustizia Paola Severino”. Pisa: i detenuti corsisti della Scuola Edile affrescano sala colloqui per l’incontro coi figli Il Tirreno, 20 novembre 2012 Entrare in un carcere per scontare una condanna vuol dire anche, fra le tante cose, dover reimpostare gli affetti, che fino a poco tempo prima facevano parte della vita di tutti i giorni. Fra questi vi sono i legami con i parenti ed in modo particolare con i figli, che più di ogni altro pagano un prezzo molto alto, soprattutto quando sono piccoli. I bambini, oltre ad essere deprivati della presenza di un genitore, devono affrontare i colloqui in carcere, non sempre in ambienti adeguati, che troppo spesso finiscono per rendere opprimente l’incontro con il genitore, già di per sé difficile data la separazione e la lontananza. Per superare tutto il grigiore e la fredda atmosfera che una struttura di reclusione può comunicare, anche il carcere Don Bosco ha inaugurato uno spazio adeguato agli incontri dei reclusi con i propri figli. “Nella nuova sala - spiega il direttore, Fabio Prestopino - le persone detenute possono incontrare i loro familiari, soprattutto i figli, in un ambiente più luminoso, e abbellito con i personaggi dei cartoni animati disegnati sulle pareti, ed evitare così le scomode panche ed il vecchio bancone che li separava dai loro affetti, grazie all’introduzione di comode poltroncine”. Un’inaugurazione che ha avuto un grande significato per il Don Bosco: “Un evento - continua Prestopino - che è stato realizzato grazie alla partecipazione di molti, ai quali rivolgo il mio riconoscente ringraziamento con l’auspicio che altri progetti possano essere avviati e portati a termine nel prossimo futuro”. È proprio il caso di dire che l’unione ha fatto la forza, infatti, solo grazie alla buona volontà di più componenti si è avverato il sogno di molti detenuti-genitori. I partner di questo progetto sono: la Scuola Edile, che ha messo a disposizione i docenti per la realizzazione dei corsi rivolti ai reclusi, che hanno fatto i lavori e ricevuto un attestato; il progetto Glem (Giù le Mura) finanziato dalla Provincia con l’assessore Anna Romei; il progetto Vivibilità, finanziato dalla Cassa Ammenda, l’associazione Cif, che si è occupata di reperire gli arredi, il personale della Polizia Penitenziaria che ha collaborato con gli insegnanti e la Direzione del carcere alla realizzazione dei progetti. Un ringraziamento speciale va ai detenuti-artisti Perri e Marcellino. Roma: assolto detenuto di Rebibbia che rifiutò di denudarsi per una perquisizione di Andrea Ossino Il Messaggero, 20 novembre 2012 Quando gli agenti di Rebibbia gli chiesero di spogliarsi completamente per farsi perquisire in maniera approfondita, il detenuto Bruno Ghirardi decise di alzare la testa. Conosceva la legge e sapeva che la sua dignità era un diritto che neanche le forze dell’ordine potevano togliergli. E allora si divincolò e spinse lontano un agente che gli stava troppo addosso. E ieri il tribunale di Roma che doveva giudicarlo per quella “resistenza a pubblico ufficiale” lo ha assolto, riconoscendo implicitamente il diritto alla dignità che, secondo quanto emerso al processo, non sempre viene rispettato nel carcere di Rebibbia. I fatti risalgono a quattro anni fa, quando Bruno Ghirardi, aveva poco più di 50 anni e una carriera di sindacalista ormai alle spalle. Era in carcere da un anno per reati politici. “Associazione sovversiva”: secondo il pm milanese Ilda Boccassini era l’esperto militare del “Partito comunista politico-militare”, un gruppo sovversivo che si firmava con la stella a 5 punte simile a quella usata dalle brigate rosse e che era considerato una sorta di “seconda fila” delle stesse bierre. Il 3 ottobre 2008 Ghirardi e altri sei detenuti dovevano essere trasferiti dal carcere Siano, di Catanzaro, dove erano detenuti, in un’aula di tribunale a Milano, dove c’era il processo in cui erano imputati. Ma lungo il percorso gli agenti che scortavano il gruppo decisero di fare una sosta a Roma e la camionetta della Penitenziaria entrò nel carcere di Rebibbia per ripartire la mattina dopo. È nell’ufficio Matricole di Rebibbia che si verifica l’episodio al centro del processo di ieri: quei sette detenuti, che erano già stati perquisiti all’uscita del carcere calabrese, vengono sottoposti ad un nuovo e approfondito controllo. Anche se quando un detenuto non viene mai a contatto con l’ambiente esterno, non dovrebbe subire nuove verifiche. La richiesta degli agenti, che poi diranno di aver agito per motivi di igiene, è perentoria: spogliarsi completamente per una ispezione completa. Tutti si ribellano, ma solo Bruno Ghirardi reagisce con forza spingendo un poliziotto contro il muro ed impedendo che gli venga fatta quella perquisizione corporale. Il giorno seguente dichiarerà, insieme al detenuto Vincenzo Sisi, di essere stato picchiato dalla polizia e presenterà una denuncia. E sarà a sua volta denunciato per resistenza, lesioni eminacce a pubblico ufficiale. L’indagine sull’operato delle guardie penitenziarie si è chiusa nel 2010 davanti al Gip, che ha ritenuto non sanzionabile il comportamento degli agenti, perché non mirato “a danneggiare i detenuti”. Ma ieri il tribunale di Roma ha stabilito che anche loro, i carcerati, non sono punibili per essersi ribellati ad una richiesta che, evidentemente, è stata ritenuta illegittima dalla corte. Caterina Calia, difensore di Ghirardi, lo ha sottolineato: “Questa sentenza conferma che i detenuti non possono essere oggetto di maltrattamenti e comportamenti lesivi della dignità umana. È stato tutelato l’articolo 13 della Costituzione”. Tuttavia, una condanna minima Ghirardi l’ha avuta. Nei loro rapporti, gli agenti scrissero di aver subito anche minacce verbali. E per quelle frasi che Ghirardi ha detto di non aver pronunciato, il tribunale ha stabilito una condanna a quattro mesi di reclusione. Milano: arrestato Cappellano carcere San Vittore, accusato violenza sessuale su sei detenuti Ansa, 20 novembre 2012 Don Alberto Barin, cappellano del carcere milanese di San Vittore, è stato arrestato con l’accusa di violenza sessuale su sei detenuti e per concussione. In un comunicato il procuratore della Repubblica di Milano Edmondo Bruti Liberati spiega che “nel pomeriggio odierno, in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip presso il tribunale di Milano, ufficiali di polizia giudiziaria della IV sezione della Squadra Mobile e della Polizia Penitenziaria di Milano, hanno tratto in arresto don Alberto Barin, cappellano della Casa Circondariale di Milano, indagato per violenza sessuale in danno di sei detenuti e per concussione”. Turchia: l’appello di Öcalan mette fine al digiuno dei detenuti in corso da più di due mesi di Elisa Piccioni www.osservatorioiraq.it, 20 novembre 2012 È finita la protesta di centinaia di detenuti curdi in sciopero della fame da più di due mesi. La decisione è stata presa dopo l’appello lanciato sabato del leader del Pkk Abdullah Öcalan, che chiedeva di terminare lo sciopero “senza esitazioni”. La fine della protesta potrebbe segnare l’inizio di un nuovo dialogo, ma per il momento gran parte delle rivendicazioni restano inascoltate. “In risposta all’appello del nostro leader (..) terminiamo la protesta, oggi 18 novembre”. Queste le parole pronunciate da Deniz Kaya, portavoce dei detenuti membri del partito del Lavoratori del Kurdistan (Pkk) e del partito per la Liberazione delle donne del Kurdistan (Pajk). Lo sciopero della fame è iniziato il 12 settembre scorso, coinvolgendo 65 detenuti politici. Il numero di partecipanti è però rapidamente cresciuto fino a comprendere membri del Parlamento, sindaci, studenti universitari, giornalisti e diversi membri del partito della Pace e della democrazia (Bdp). La decisione di terminare l’iniziativa, alla quale secondo l’Associazione per i diritti umani di Diyarbakir (Ihd) avrebbero aderito 10 mila detenuti, è stata presa in seguito all’appello lanciato da Öcalan per porre fine alla protesta. “Nonostante non approvi lo sciopero della fame, credo che questa iniziativa, se necessaria, debba essere portata avanti da chi è fuori dalle prigioni, non dai detenuti. Questo atto significativo dovrebbe finire senza alcuna esitazione poiché ha raggiunto il suo principale obiettivo.” Il comunicato è stato diffuso sabato dal fratello Mehmet, che è riuscito ad incontrare Öcalan nel carcere di Imrali dopo oltre un anno di isolamento. Secondo l’agenzia daily Radikal l’appello, che ha evitato che l’iniziativa si trasformasse in tragedia, segue una serie di incontri avvenuti negli ultimi due mesi tra il leader curdo e i servizi segreti turchi (Mit). Il co-presidente del Bdp, Gulten Kisanak e il co-presidente del Congresso della società democratica (Dtk), Aysel Tugluk, hanno subito manifestato appoggio all’appello di sabato, rilasciando una dichiarazione congiunta per invitare gli scioperanti a prendere in considerazione la richiesta di Öcalan. Gran parte dei detenuti ha quindi cessato il digiuno già nelle prime ore della mattinata di domenica, e molti si sono sottoposti a trattamenti medici all’interno delle carceri. I detenuti più gravi sono stati ricoverati in strutture ospedaliere. Nelle scorse settimane l’Associazione medica turca (Ttp) e gli avvocati dei prigionieri avevano denunciato le condizioni critiche delle persone in sciopero della fame. Emorragie, stanchezza, difficoltà di parola, vertigini, nausea, vomito e in alcuni casi perdita di conoscenza: questi i sintomi dei detenuti più gravi, alcuni dei quali sarebbero stati sul punto di morire. Nonostante il silenzio dei media, nel corso dello sciopero sono arrivate voci a sostegno dell’iniziativa dei detenuti da tutto il mondo e molti appelli sono stati indirizzati al governo affinché rispondesse alle richieste degli scioperanti. Forte apprensione è stata espressa anche dall’Unione Europea: Peter Stano, portavoce del commissario all’allargamento, e Stefan Füle, responsabile per i negoziati di adesione Ue-Turchia, il 2 novembre hanno diffuso un comunicato in cui esprimevano “preoccupazione” per le condizioni dei prigionieri, chiedendo al governo turco di applicare le norme internazionali sul rispetto dei diritti umani. Intanto, nelle ultime settimane, le diverse proteste di solidarietà ai detenuti hanno provocato disordini in tutto il paese, soprattutto nelle più importanti città a maggioranza curda, dove molte manifestazioni sono state duramente represse, con l’arresto di numerosi attivisti. La decisione di interrompere lo sciopero ha infatti portato sollievo tra le fila del governo di Ankara, costretto a fronteggiare una situazione sempre più tesa. Se lo sciopero fosse finito in tragedia (come si temeva), l’immagine della Turchia all’estero sarebbe stata duramente compromessa: “Spero che non dovremmo affrontare altre proteste del genere d’ora in avanti. La Turchia è un paese democratico”, ha dichiarato il vice prime ministro Bulent Arinc, commentando la fine del digiuno. “Qualsiasi richiesta abbia il popolo, governo e politici possono portarle all’attenzione del Parlamento”. Tra le rivendicazioni dei detenuti in protesta, l’utilizzo della lingua curda nei processi e nelle scuole e la fine dell’isolamento di Öcalan che, nonostante l’incontro con il fratello, non ha però goduto di alcun cambiamento nelle condizioni di detenzione. Nei giorni scorsi, il primo ministro Erdogan, che aveva dipinto lo sciopero come “uno show” o un “ricatto” messo in scena dalla popolazione curda, ha presentato un progetto di legge per permettere agli imputati di utilizzare la lingua madre nei processi, specificando però che l’iniziativa non era frutto della protesta. “Speriamo che questo appello possa aprire la strada al prossimo processo, ovvero alla fine dell’isolamento (di Öcalan) .. il problema curdo dovrebbe essere risolto con il dialogo e riflessione”, ha dichiarato il leader del Bdp, Selahattin Demirtas. Turchia: viaggio a Diyarbakir… sospeso lo sciopero della fame nelle carceri di Francesco Lo Piccolo www.huffingtonpost.it, 20 novembre 2012 È terminato domenica 18 novembre, dopo 68 giorni, lo sciopero della fame dei detenuti curdi incarcerati nelle carceri turche. La fine della protesta, cominciata il 12 settembre per opera di 9 donne nel carcere di Diyarbakir e di 9 uomini detenuti a Bolu, e che era stata preceduta il primo settembre dalla decisione di rifiutare il cibo da parte di un’altra donna detenuta a Bakirköy (Gönül Erdogan, appartenente al Pkk), è stata presa dopo l’appello di porre fine allo sciopero della fame lanciato dal leader del Pkk Abdullah Öcalan e reso pubblico dal fratello che lo ha incontrato tre giorni fa nel carcere di massima sicurezza di Imrali, piccola isola nel Mar di Marmara. “Il messaggio è arrivato - ha detto Öcalan - ora basta, lo sciopero va continuato fuori dalle carceri, la vostra vita è preziosa”. Un appello che ha messo fine a una inevitabile strage di uomini giunti all’estremo delle forze (almeno settecento secondo molte fonti curde) e già ieri sono cominciati i primi ricoveri in ospedale dei tanti curdi che hanno partecipato al digiuno indetto per poter usare la lingua curda nelle scuole, negli uffici pubblici, nelle aule di giustizia, per migliorare le condizioni nelle carceri e per far cessare il regime di detenzione dura alla quale è sottoposto il loro leader Öcalan sorvegliato a vista con una telecamera 24 ore su 24 in una cella di 13 metri quadrati, senza poter vedere tv, leggere giornali, posta censurata, condizioni disumane. E che dimostra oltre che il grande ascendente di Öcalan anche la realtà, invano negata dallo stesso governo turco che ha minimizzato l’entità dello sciopero (“vi partecipa un solo detenuto, uno spettacolo, un ricatto, un bluff” ha detto Erdogan). La realtà di un popolo senza diritti. E lo abbiamo constatato di persona nel nostro viaggio proprio in questi giorni a Diyarbakir e che abbiamo fatto come associazione Voci di dentro con una delegazione internazionale composta da italiani, spagnoli, sloveni, lituani e turchi nell’ambito del progetto Grundtvig “Voices from inside”. Obiettivo del progetto: approfondire e comparare la situazione carceraria e le politiche di reinserimento lavorativo per detenuti ed ex detenuti in diversi contesti europei. Di fatto, nonostante che la nostra richiesta di visita al carcere di Diyarbakir fosse stata avanzata alle autorità turche dalla Scuola di formazione professionale del turismo Otelcilik, partner del progetto, e che dall’aprile 2012 ha avviato due corsi professionali proprio all’interno della prigione di tipo E di Diyarbakir, in carcere non ci siamo potuti entrare: nessuna risposta, nemmeno un no ufficiale. Ignorati, come sono ignorati diritti e doveri. Nemmeno l’autorizzazione ad un incontro formale con la direzione. Il problema è “ hot “ o meglio non esiste finche non se ne parla. Ma il problema c’è, arrivando a Diyarbakir lo puoi vedere sui ponti delle sopraelevate e sui semafori dove c’è un numero che viene aggiornato e che è il numero dei giorni al quale dello sciopero della fame. Un problema che la Turchia non vuole in alcun modo considerare. Come se curdo fosse uguale a terrorista. E i dati spaventano: i detenuti turchi accusati di terrorismo sono quasi 9.000, di questi metà in attesa di sentenza definitiva. Il livello di educazione medio di questi detenuti è alto. Moltissimi di loro sono curdi. Sono deputati, sindaci, sindacalisti, giornalisti (almeno sessanta), intellettuali e studenti tutti accusati di reati di opinione per i quali sono previste pene pesanti (la stessa Unione Europea ha ripetutamente segnalato nei suoi rapporti questa situazione suscitando le dure reazioni di Ankara che giudica le valutazioni non equilibrate). Silvia Civitarese, vicepresidente della Onlus Voci di dentro, di ritorno da Diyarbakir, scrive nei suoi appunti: “Non possiamo dar voce a chi ha deciso di lasciarsi morire piuttosto che rinunciare a lottare per quelli che considera principi irrinunciabili: parità di diritti, dignità e libertà, ma sappiamo che se potessimo udirla, questa avrebbe la dolcezza e la rotondità della lingua curda. Che è diversa dal turco, parlata comunemente in queste zone, che non è un dialetto ma una lingua letteraria, nazionale, storica ma che è vietata a scuola, nei documenti, nei tribunali dove si decide la sorte di quelli che ne difendono la tradizione. I nostri ospiti non ci hanno dato l’impressione di essere terroristi separatisti parlando e insegnando a noi le parole di sopravvivenza e cortesia curde, o portandoci in un locale ad ascoltare e ballare musica rigorosamente Kurdish. Hanno invece così condiviso con noi la nostalgia e la veemenza, il romanticismo e la spavalderia la dimensione intima e insieme mitica di questo popolo estremamente ospitale e generoso. E il paesaggio ha la stessa forza evocativa: gli altopiani, le sponde dell’epico Tigri , il ponte a nove arcate sui quale è passato Marco Polo sulla via della seta o San Paolo dirigendosi a Roma, mura di basalto nero , moschee e monasteri, minacciose fortezze arroccate e distese di terra ruvida ma fertile. [...]Forse non so abbastanza della storia e della politica della Turchia o delle genti curde ma credo nell’arricchimento che viene dalle differenze, dalle commistioni, dal dialogo tra voci diverse e dalla comprensione delle esigenze dell’altro: cioè quello che il nostro comune progetto europeo promuove e favorisce”. E così Alessandro Fusillo che ha portato a casa un ricco dossier fotografico: “Raggiungiamo Dyarbakir il 3 novembre. Quasi due ore di volo da Istanbul fin nel cuore dell’Anatolia sud orientale. Prima della partenza le notizie su ciò che accade al confine turco-siriano: i missili lanciati contro le città turche di confine, le incursioni dell’esercito turco in territorio siriano, i profughi siriani in fuga dalla guerra. La Turchia, terza tappa di questo progetto-percorso dopo Italia e Lituania, ne rappresenta un momento chiave. Perché le tematiche legate alle carceri in questa parte della Turchia sono un punto critico, in grado di far vacillare i pilastri dello stato turco e riaprire questioni irrisolte che proprio in questi mesi si stanno riacutizzando. Perché Dyarbakir non è semplicemente una grande città della Turchia, è la capitale del Kurdistan turco. Qui, dopo il colpo di stato militare del 1971, Öcalan, come molti altri studenti di sinistra provenienti dall’Università di Ankara e costretti a lasciare gli studi, si arruolò nel servizio civile. Sette anni dopo aveva fondato il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Il primo incontro con i nostri colleghi turchi ci rassicura, la loro cordialità e ospitalità è un ottimo benvenuto. La guerra, sostengono, è lontana più di 400 km. Nel tragitto dall’aeroporto all’hotel passiamo di fronte alla grande base aeronautica di Pirinçlik. La base nacque come base americana negli anni 70, punto strategico della difesa Nato contro l’Urss alle porte del Medio Oriente. Nei giorni seguenti sentiremo spesso l’assordante frastuono dei jet alzarsi in volo. Un amico curdo mi dice che secondo lui quegli aerei si stanno dirigendo verso le montagne del nord dell’Iraq per continuare la guerra nascosta contro i ribelli curdi; io credo che siano invece diretti verso la Siria, con l’obiettivo di prevenire eventuali lanci di missili su territorio turco e spaventare i profughi in marcia. È notte fonda, accendo la tv dell’hotel: tanti canali, modernità e tradizione si intrecciano senza continuità, ritmi e stili occidentali sono ormai dominanti, osservo Cnn Turchia e Al jazeera international raccontare delle elezioni americane. Sfoglio gli appunti raccolti prima della partenza. All’inizio dell’estate un incendio divampato in un dormitorio del carcere di Sanliurfa ha causato la morte di 13 detenuti. Sanliurfa è a meno di 200 km da Diyarbakir. Il governatore della regione aveva assicurato che non si è trattato di una rivolta dei carcerati ma di una rissa, senza spiegarne le cause. Oggi la situazione è divenuta esplosiva. Il 5 novembre ci riuniamo con tutta la delegazione internazionale nella periferia di Diyarbakir in visita presso la scuola di formazione professionale nel turismo Otelcilik, partner del progetto. Dall’aprile 2012 la scuola ha avviato 2 corsi professionali proprio all’interno della prigione di tipo E di Diyarbakir. I corsi di formazione per cuoco e cameriere coinvolgono 50 detenuti. Hanno come obiettivi il miglioramento della qualità del cibo e del servizio all’interno della prigione e soprattutto fornire una chance di vita migliore dopo la detenzione. Il giorno seguente attraversiamo di nuovo la sconfinata periferia di Diyarbakir per visitare la lavanderia di Sadil, ex detenuto. Mi fanno notare quanto sia nuova l’urbanistica di questa parte della città, tutta fatta di alti palazzi ed ingressi sorvegliati. La città odierna è il frutto del processo di urbanizzazione forzata che il governo turco ha attuato in questa parte del Paese. I contadini sono stati spinti a lasciare le campagne per la città e Diyarbakir in qualche decennio è passata dai 140000 abitanti del 1970 ad oltre un milione e mezzo di persone. Gli amici curdi sostengono che questo processo sia dovuto alla maggiore capacità di controllo dello Stato sugli abitanti di una metropoli che sui contadini sparsi su vaste aree e dunque terreno fertile per il Pkk. Arriviamo da Sadil che ci accoglie nella sua nuova attività, ci offre un the, vicino ha suo figlio sorridente. Sadil ce l’ha fatta, dopo 4 anni di carcere, ha ottenuto un finanziamento da parte dei servizi sociali. Il governo gli ha garantito un prestito di 7000 euro da restituire dopo 2 anni. Sadil ha realizzato il suo sogno di aprire una lavanderia nella città vecchia. Ed ora, visto il successo della sua prima attività, si è trasferito in questi grandi quartieri in espansione. È felice e riconoscente nei confronti della comunità che gli ha offerto una nuova opportunità”. E così con la storia di riscatto di Sadil si conclude il viaggio di Voci di dentro a Diyarbakir: il fiume Tigri scorrere placido tra queste terre, culla della civiltà, dove un popolo è in lotta per affermare la propria identità e dove il governo turco ha dimostrato ancora tutta la sua reticenza a chiarire la situazione dei detenuti politici curdi. Svizzera: detenuto si suicida durante un ricovero all’ospedale cantonale di Winterthur Reuters, 20 novembre 2012 Un detenuto si è suicidato la scorsa notte durante un ricovero all’ospedale cantonale di Winterthur (Zh). L’uomo era un cittadino armeno sulla ventina che stava scontando una pena nella prigione dell’aeroporto di Zurigo. Il detenuto - precisa la polizia in una nota - soffriva di problemi psichici ed era stato ricoverato in una struttura psichiatrica di Winterhur. Feritosi mentre faceva la doccia, è stato in seguito portato in ospedale, dove questa mattina è stato ritrovato senza vita. Sempre stando alla nota, il suicidio è avvenuto per strangolamento. Il Ministero pubblico ha aperto un’inchiesta e ha ordinato l’autopsia. Afghanistan: pena morte; otto esecuzioni eseguite oggi Ansa, 20 novembre 2012 Otto condanne a morte sono state eseguite oggi in Afghanistan. Lo ha annunciato il procuratore Rahmatullah Nazari precisando che alcuni dei condannati erano stati riconosciuti colpevoli di omicidio o stupro. Nei giorni scorsi il presidente afghano Hamid Karzai aveva approvato l’esecuzione di 16 detenuti condannati a morte. È la terza volta dal 2001, anno in cui i talebani hanno perso il potere, che il governo dà via libera all’esecuzione di condanne a morte in Afghanistan. Gli otto detenuti giustiziati oggi facevano parte di un gruppo, fra 16 e 22, per cui il presidente della repubblica Hamid Karzai aveva autorizzato l’esecuzione della pena da oggi in poi. Secondo i media afghani in questo modo il governo cerca di inviare un messaggio di fermezza di fronte ad una serie di episodi di violenza, fra cui lo stupro recente di una bambina di cinque anni, che hanno scosso il paese. Al riguardo il portavoce presidenziale Emal Faizi ha raccontato che uno dei condannati a morte è colpevole di aver ucciso alcuni bambini e la loro madre e di avere poi gettato i cadaveri in un pozzo. Proprio ieri peraltro, riferisce infine il giornale online Khaama Press, un tribunale di Kabul ha respinto l’appello dei legali di un soldato afghano condannato a morte per aver ucciso tempo fa cinque soldati francesi nella provincia orientale di Kapisa. Afghanistan: sollecitato agli Stati Uniti il rilascio di 70 detenuti di Bagram Reuters, 20 novembre 2012 L’Afghanistan ha sollecitato agli Stati Uniti il rilascio di 70 detenuti afghani del carcere militare di Bagram, a Nord di Kabul, che sarebbero trattenuti nonostante sentenze di assoluzione emesse nei loro confronti. Lo scrive l’ agenzia di stampa Pajhwok. Secondo il portavoce presidenziale Faizi, i 70 detenuti in questione devono “essere rilasciati, perché trattenerli ulteriormente significherebbe violare nella sostanza il memorandum di intesa firmato fra Kabul e Washington, nonché violare la sovranità afghana”.