Giustizia: i suicidi di detenuti e agenti sono la faccia della stessa medaglia La Repubblica, 1 novembre 2012 Un indice di disagio crescente allo studio di un gruppo di studio presieduto dal vice capo vicario del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). La matrice psicologica comune di reclusi e poliziotti penitenziari, un dolore mentale insopportabile che è comune a tutti i suicidi. Il problema è sempre quello di non riuscire a vedere il futuro e non avere ragioni per vivere e averne molte per morire. Sessantadue detenuti nelle carceri italiane si sono tolti la vita, nel 2011. Sono già 45 nei primi 9 mesi del 2012. È l’indice di un disagio crescente, al quale si aggiunge un numero, inferiore ma altrettanto allarmante, di episodi analoghi tra gli operatori della Polizia penitenziaria: 8 lo scorso anno; sempre 8 al 30 aprile 2012, tanto che il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, direttamente coinvolto nella drammatica gestione del fenomeno, ha istituito un Gruppo di studio, presieduto dal vicecapo vicario del Dap, Simonetta Matone, che si aggiunge all’attività dell’Unità di monitoraggio degli eventi di suicidio (Umes), creata nel 2000 e ricostituita dopo l’insediamento, a giugno scorso, dal nuovo capo del dipartimento, Giovanni Tamburino. L’incidenza del fenomeno è costante. A delineare un quadro del fenomeno, e dell’impegno preventivo di tutti gli attori coinvolti, l’ultimo numero della rivista del Dap, Le due città. L’incidenza dei suicidi di detenuti in carcere ha un andamento costante negli ultimi 20 anni, con numeri che vanno da un minimo di 45, nel 1996 e nel 2007, a un massimo di 69 nel 2001. Stabile anche il numero degli agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita: tra il 2007 e l’anno in corso oscillano tra 5 e 8. La giornata della prevenzione. In occasione della giornata mondiale di prevenzione del suicidio, che si è tenuta a Roma lo scorso settembre, Maurizio Pompili, responsabile italiano dell’ International Association for suicide prevention 1 (Iasp) promotore dell’evento insieme con l’Organizzazione mondiale della Sanità 2, sottolinea come il sovraffollamento non sia il solo fattore da considerare per una corretta analisi della situazioni. Piuttosto, bisogna tenere presente alcuni indici di rischio legati alla storia personale dei detenuti. L’unità costituita presso il Dap, infatti, prevede il monitoraggio delle singole situazioni, attraverso la conoscenza dei dati biografici e penali dei detenuti, nonché delle condizioni di detenzione. La matrice psicologica comune. Nel corso del dibattito per la Giornata mondiale della prevenzione, si è infatti sottolineata una matrice psicologica comune che porta al suicidio dei detenuti e poliziotti penitenziari e, ha spiegato il referente italiano Iasp, Pompili, intervistato da Le due città, “c’è quel dolore mentale insopportabile che è comune a tutti i suicidi. il problema è sempre quello di non riuscire a vedere il futuro, sentirsi disperato, non avere ragioni per vivere e averne molte per morire”. Il report finale e la help line. Il lavoro portato avanti della Commissione suicidi, al termine di un’accurata analisi, ha prodotto un report che suggerisce l’istituzione di un numero verde e di una help Line nazionale riservata agli operatori penitenziari. Il vice capo vicario del Dap, Simonetta Matone, intervenuta al dibattito, ha sottolineato il rischio che l’attenzione dell’opinione pubblica si concentri tutta sul tema dei suicidi tra i detenuti, disconoscendo la realtà altrettanto grave di quelli tra gli agenti. Entrambi subiscono infatti il contraccolpo psicologico della separazione dall’esterno e di una vita al margine della società. Solo questioni personali? Ma non ci sono nessi - ha chiarito lo studio del Dap - tra la scelta di un gesto estremo come il suicidio e l’attività svolta dalla polizia penitenziaria, e le motivazioni accertate dalla commissione riguardano ragioni esclusivamente personali. Nonostante ciò, la commissione ha lavorato per prevenire qualunque situazione di stress e di disagio lavorativo, e ha redatto linee di indirizzo per orientare i responsabili delle varie strutture a identificare ogni possibile segnale indicativo. Disegno di legge in materia di depenalizzazione, messa alla prova e procedimenti nei confronti di imputati irreperibili: è necessario fare di più per contrastare efficacemente la tortura democratica del sovraffollamento carcerario. Giustizia: prime valutazioni sul ddl AC 5019 in materia di pene detentive non carcerarie dall’Associazione Nazionale Giuristi Democratici Ristretti Orizzonti, 1 novembre 2012 Il 18 ottobre scorso, la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha licenziato il disegno di legge AC 5019, di iniziativa del Ministro della Giustizia, in materia di pene detentive non carcerarie e procedimenti nei confronti degli irreperibili. Il testo approvato rappresenta certamente un lodevole tentativo per lenire il sovraffollamento carcerario, attraverso la previsione di sanzioni ed istituti che si allontanino dal canone legislativo - ormai invalso negli ultimi decenni - che vede nel carcere l’unica risposta possibile alla commissione di qualsivoglia reato; si tratta, dunque, di un condivisibile tentativo di superamento della c.d. funzione pancarceraria della pena. Si è, infatti, in presenza di un sistema che ha decisamente spostato l’asse dalla prevenzione alla penalizzazione. Tale fenomeno, comunemente definito passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale, ha comportato una modifica profonda della Costituzione materiale, aprendo così la strada ad uno stravolgimento in senso autoritario ed essenzialmente repressivo dell’intero quadro giuridico nazionale. Il carcere si configura sempre di più come contenitore del conflitto, come discarica sociale e strumento atto a confinare donne e uomini delle classi sociali meno abbienti, in quanto tali, ritenute pericolose. Circa l’80 per cento della popolazione carceraria è, infatti, costituita dalla cosiddetta detenzione sociale, ovvero da persone che vivono uno stato di svantaggio, disagio o marginalità (immigrati, tossicodipendenti, emarginati) per le quali, più che una risposta penale o carceraria, sarebbero necessarie politiche di prevenzione e sociali appropriate. In questo quadro, l’amnistia e l’indulto sono provvedimenti necessari e non procrastinabili; pur tuttavia, tali provvedimenti rischierebbero di risultare inutili ove non accompagnati da una riforma organica e di struttura dell’intero ordinamento penale. Il disegno di legge approvato, nella prospettiva anzidetta, appare, in definitiva, una risposta esangue e, conseguentemente, insufficiente rispetto alla ratio che ne ha determinato la presentazione. È, infatti, facile prevedere - sulla scorta delle osservazioni che seguono - che la disciplina adottata dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati conseguirà effetti assai limitati. L’articolato contempla l’introduzione della detenzione domiciliare quale pena detentiva non carceraria (art. 2); tale istituto è contemplato, però, limitatamente ai delitti puniti con la reclusione non superiore, nel massimo, a quattro anni. È evidente che una comparazione coordinata di tale previsione con l’assai esiguo novero di reati del codice penale e non che prevedono tale limite edittale massimo, fa sì che le fattispecie interessate dall’applicazione di tale disciplina sia del tutto esiguo. D’altro canto, è evidente che il dato quantitativo delle persone detenute per questi titoli di reato sia comprensibilmente marginale e poco significativo, in termini numerici. Ancora, la nuova disciplina non può trovare applicazione laddove essa non appaia idonea a scongiurare il pericolo di reiterazione del reato o se possa compromettere le esigenze di tutela della persona offesa dal reato: è evidente come il margine di discrezionalità sia eccessivamente ampio. La sanzione penale, più che una pena in senso tecnico, appare avvicinarsi maggiormente ad una misura alternativa alla detenzione carceraria, per di più condizionata ad un’eccessiva congerie di presupposti applicativi. Di nuovo, per i reati puniti con pena non superiore ai 4 anni di reclusione, si introduce il nuovo art.168 bis c.p. (art. 3) che prevede, per l’imputato, la facoltà di richiedere la sospensione del processo con la messa alla prova. L’istituto ha trovato ampia applicazione e buona prova di sé nel processo minorile. Anche in questa ipotesi, tuttavia, il contenuto limite edittale dei reati per i quali viene prevista (limite non contemplato nel processo minorile) non conseguirà alcun effetto né in termini di decarcerizzazione né tantomeno di deflazione del processo penale. L’articolo 4 c. 4 introduce il nuovo art. 464-bis c.p.p. che prevede che alla richiesta di messa alla prova venga da subito allegato un programma concordato con l’Uepe. Una tale previsione appare, in concreto, non realizzabile, particolarmente nella fattispecie processuali in cui i termini sono assai brevi, come, ad esempio, il termine di quindici giorni previsto per la richiesta, già corredata ai sensi del comma 4, a seguito di notifica di decreto che dispone procedersi con giudizio immediato. In questo caso, sarebbe assai più ragionevole introdurre la possibilità, una volta avanzata la richiesta di messa alla prova, di produrre la documentazione sino all’udienza. Scarsamente comprensibile, appare, inoltre, la disciplina prevista per il novellato art. 464-ter c.p.p., che prevede il consenso del Pubblico Ministero, se la richiesta viene avanzata nel corso delle indagini preliminari. Se vi è dissenso la richiesta può essere riformulata prima dell’apertura del dibattimento. Tale sintetica e non esaustiva illustrazione del disegno di legge, testimonia, ad avviso dell’Associazione Giuristi democratici, che gli effetti concreti che la nuova disciplina produrrà sull’emergenza carceraria saranno assai contenuti. All’evidenza, restano incomprensibilmente esclusi dalle modifiche proposte i processi per violazione della disciplina sugli stupefacenti, i furti e tutti i reati della c.d. delinquenza minore, che maggiormente impegnano quotidianamente l’attività della magistratura. È, al contrario, necessario fare di più e prevedere, tanto che il limite di quattro anni imposto dalla norma per la sostituzione della pena detentiva in altra misura fosse ancorato, ad esempio, alla pena in concreto irrogata e non alla astratta pena edittale, quanto, consentire un’applicazione più ampia dell’istituto della messa alla prova - da trasporre integralmente dal processo minorile, magari bilanciato da specifici meccanismi riparatori da istituirsi in favore delle vittime del reato - senza limiti edittali di legge. C’è ancora tempo affinché il lavoro parlamentare migliori la disciplina proposta. È ora, infatti, giunto il momento di interventi legislativi audaci ed efficaci che aggrediscano in modo definitivo le cause dell’intollerabile stato di sovraffollamento delle nostre carceri. È, in definitiva, indispensabile cambiare approccio, abrogare le leggi che hanno, di fatto, creato criminalizzazione e carcerazione crescenti, per delineare la necessità del ritorno ad una nuova stagione del “diritto penale minimo”, capace di comprendere ed incidere sulle effettive ragioni sociali della devianza e del crimine. Giustizia: “Scuole di giornalismo” dietro le sbarre Francesco Lo Piccolo (Direttore di “Voci di dentro”) www.huffingtonpost.it, 1 novembre 2012 Sono stato a Bologna alla “Quinta Giornata nazionale dell’informazione dal/sul carcere” promossa da Regione Emilia Romagna, Provincia di Bologna, Conferenza regionale Volontariato e Giustizia in collaborazione con Ristretti Orizzonti e la Fondazione dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna. Una giornata intensa e dalla quale sono tornato con uno zainetto pieno di riviste (Io e Caino, Alterego, Ristretti Orizzonti, Sosta Forzata, Carte Bollate, L’impronta, Fuori riga, Area di Servizio, Buona Condotta, L’alba...) e con un quaderno pieno di appunti presi durante i vari interventi: 1) quello di Adriana Lorenzi, scrittrice, che ha spiegato che la scrittura è “oggetto mediatore per affrontare lo smarrimento e ritrovare la dignità nel raccontare di sé”; 2) quello di Ornella Favero, direttore di Ristretti, che si è soffermata sul valore dei giornali delle carceri come strumenti di educazione-responsabilizzazione del detenuto con la convinzione che “non c’è educazione se non si crede che la persona che ci sta davanti può insegnarci qualcosa...perché il carcere non è un pianeta lontano, ma è parte della nostra società e della nostra vita e che richiamare alle proprie responsabilità persone che hanno commesso reati significa responsabilizzare anche la società”; 3) quello di Francesco Maisto, Presidente del Tribunale di Sorveglianza dell’Emilia Romagna, che si è augurato un aumento della diffusione dell’informazione nei limiti indicati dalla Corte Europea e dalla Costituzione ovvero nel rispetto della verità. Ma nel mio personale bagaglio che mi ha fatto compagnia nel treno del ritorno ha trovato posto anche una bella emozione, la gioia di aver rivisto Gerardo Bombonato, vecchio amico che non vedevo da trent’anni, col quale ho ripensato a comuni compagni di lavoro come Foco, Bomprezzi, Comello, e che ora da Presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia al tavolo dei relatori ha richiamato i giornalisti alla responsabilità, “a parlare di carcere non solo in concomitanza di emergenze come nel caso dei suicidi, trasformando la persona in numero, ma cercando di dare voce a chi voce non ha”, affinché come ha poi detto Desi Bruno, Garante dei diritti dei detenuti dell’Emilia Romagna, “la redazione in carcere non sia una conquista ma la normalità, affinché si compia quel passo fondamentale che è atto politico, cioè incidere sul fuori, anche denunciando la cattiva informazione”. E non è tutto: prima in treno e successivamente a casa, nel leggere i vari giornali delle carceri, mi è arrivato un altro flash, nel senso che le parole dei detenuti, il racconto delle loro vite, che è il racconto di storie di uomini, con affetti, genitori, mogli e figli, mi hanno confermato un pensiero che per me ormai è certezza: a parte pochi casi e certo non intenzionalmente, il carcere nei fatti è diventato un albergo per poveri e una clinica per malati. In entrambi i casi una struttura senza fondamenta e che sta in piedi solo grazie a una grande ipocrisia, alla retorica della sicurezza, alla falsa idea della punizione come deterrente. Una struttura dove si mangia male, dove si gela d’inverno e si soffoca d’estate, dove la cella assomiglia (per fortuna non sempre e non ovunque, dunque non la norma) a una gabbia per animali riempita di persone che in carcere non ci dovrebbero stare. Una struttura dove alla lunga l’abbruttimento è tale che l’umano corre il rischio - in un domani sempre più vicino - di essere visto come un subumano (e il video delle ultime ore di vita di Francesco Mastrogiovanni è un emblema). E quando si arriva a diventare subumano, il passo che ti porta a finire come quelle persone descritte ne “Il vagone” di Rykner Arnaud appare più breve di quanto si possa pensare. E non lo voglio pensare. Mentre invece voglio pensare alle parole di Paola Cigalini, della Conferenza regionale Volontariato giustizia Emilia Romagna, che durante la giornata bolognese ha detto che “il volontariato deve uscire dalla logica dell’assistenza e attivare un dialogo con chi sta fuori... nel carcere c’è un pezzo di verità per capire la realtà...dobbiamo creare una comunicazione che sia proposta politica per cambiare il mondo di oggi”. Perché il carcere non sia il tappeto di casa sotto cui si nasconde lo sporco che abbiamo prodotto. E perché non sia più l’inferno che è. Senza aspettare studi o commissioni, piani carceri o altro, senza sperare in amnistie o indulti che tardano a venire e sui quali ci sono solo liti e veti di una o di un’altra parte politica. Riguardo i miei appunti, ritrovo alcuni passaggi dell’intervento del Presidente Maisto... Contro il sovraffollamento (oltre 66 mila detenuti in celle che ne possono ospitare 40 mila), dunque contro la conseguente tortura (come denuncia la Corte Europea) basta un semplice decreto legge che annulli - oggi che siamo in emergenza come dice lo stesso Presidente della Repubblica - i decreti legge introdotti in passato, addirittura quando l’emergenza non c’era. Un decreto legge di pochi articoli che incida sull’eccesso di carcerazione dell’attuale sistema penitenziario. In sintesi: abolizione di alcune restrizioni del 4 bis (limitiamolo ai reati per terrorismo e associazione mafiosa) ed eliminazione dell’aggravante rapina ad esempio nel caso di un furto di una scatoletta di tonno al supermercato; eliminazione delle restrizioni della ex Cirielli; stop alle limitazioni alla sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’articolo 656 del Codice di Procedura Penale; fine delle asprezze introdotte sull’uso degli stupefacenti; affidamento terapeutico per tossicodipendenza senza limiti di volte; arresto obbligatorio (per reati minori) solo a discrezionalità del giudice. Pochi articoli facili e di semplice attuazione, senza costi, gli unici immediatamente efficaci affinché il carcere non diventi il nostro lazzaretto. Per questo e per tutto il resto, ieri ho firmato la petizione proposta dal Pd per l’introduzione anche in Italia del reato di tortura, per l’abolizione della legge ex Cirielli che vieta ai recidivi le misure alternative alla detenzione e per l’abolizione del reato di immigrazione clandestina. Una firma per tre giuste cause. Giustizia: l’ex ministro Mastella; sì a pene alternative per risolvere il sovraffollamento Il Mattino, 1 novembre 2012 A norma di legge Poggioreale ha una capienza massima di 1420 detenuti, ma la differenza con l’attuale popolazione di detenuti è intollerabile: sono a oggi 2.694, 1.280 in più rispetto a quelli consentiti. Su questo tema a Radio CRC, nel corso della trasmissione Barba & Capelli, in onda dal lunedì al venerdì dalle 7.00 alle 9.00, è intervenuto l’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella: “L’indulto fu l’inizio di un lavoro da svolgere per riuscire ad avvicinare chi sta dentro e chi sta fuori dalle carceri. Una soluzione ponte che doveva portare ad altre attività, come le pene alternative. Il carcere deve essere un luogo di recupero e non può essere un luogo dove si vive in condizioni poco sostenibili. Avevo, all’epoca, poche disponibilità economiche per risolvere la situazione, ma volevo allargare le strutture. Ma nell’attesa di costruire altre case circondariali allora l’unica strada era quella delle pene alternative, come quei tanti che aspettano il giudizio che potrebbero essere lasciati fuori provando a recuperarli con attività extra-carcerali”. Giustizia: i detenuti, le memorie e la letteratura di Claudio Magris Corriere della Sera, 1 novembre 2012 Mi capita, sia pure raramente, di incontrare, in diverse città, dei detenuti nelle carceri che desiderano parlare di lettura e di letteratura, anche se il dialogo finisce spesso per toccare ben altri e più brucianti temi. Una volta si discuteva di come nasce un libro, dei motivi che inducono a scrivere, del rapporto fra autore e lettori. A un certo punto, un detenuto che stava scontando una grave pena per omicidio, disse che anche lui, come altri suoi compagni di prigione, scriveva, aggiungendo che però tra loro e me e i miei colleghi dediti alle patrie lettere c’era, per quel che riguardava la scrittura, un’incolmabile differenza. Voi, diceva, scrivete per pubblicare, per comunicare, per trasmettere ad altri quello che avete dentro; per me e per gli altri come me, in questo carcere, le ragioni che ci inducono a scrivere sono opposte. Scriviamo - almeno questo è il mio caso, diceva, ma so che lo stesso vale per altri - per avere almeno una cosa che sia nostra, solo nostra, sottratta al controllo che fa passare ogni pezzo della nostra vita e della nostra realtà ai raggi X. Qui non ho niente di mio, solo mio, la mia esistenza è fatta per essere spogliata, perquisita, schedata. Quello che scrivo è invece solo mio; non lo mostro a nessuno, non vorrei mai farlo leggere a qualcuno, è un mio mondo dove i secondini, la legge, i giudici, gli altri non possono entrare. E su quella carta mi sento libero, senza guardiani, senza nessuno che mi espropri di me stesso. Evidentemente per quell’uomo mettere il proprio cuore a nudo, come dice il titolo di un’opera di Baudelaire, avrebbe significato subire un’ulteriore violenza. Non credo avesse ragione, perché scrivere, comunicare, dare una parte di sé stessi agli altri può essere un gesto di generosità, un dono, e aprire un dialogo. Ed è soprattutto nel dialogo, nell’uscire da sé stessi e nell’incontrare l’altro, che consiste il senso dell’esistenza. Ma nella caparbia chiusura in sé stesso di quell’uomo c’erano anche una verità, un’esigenza di riservatezza e una volontà di resistenza di cui, specie oggi, avrebbe in parte bisogno ognuno, anche chi non si trova dietro le sbarre. Quando penso a lui, penso allo sconcio spogliarello spirituale che dilaga sempre più, agli amanti o ex amanti smaniosi di esibire in tv le loro acredini, declassando il letto a pianerottolo di baruffe e pettegolezzi; alle mamme il cui cuore in mano occupa lo schermo, alle legioni che su Facebook raccontano intimità - non più interessanti della loro biancheria - a persone che non conoscono e che restano ancora più estranee dopo lo scambio oppure diffondono oscenamente intimità altrui rubate. Anche il cuore, scrive Flaubert, ha le sue latrine, ma non si vede perché si debbano spiare queste latrine dal buco della serratura, invitando migliaia a farlo, o perché si debba aprire la porta della propria latrina mentre si è intenti a evacuare, invitando gli altri a guardare. Ma quando mi ricordo di quell’uomo, penso pure a noi che scriviamo e che non solo pubblichiamo, ma andiamo in giro a mettere il nostro cuore forse non a nudo ma certo sotto i riflettori, leggendo ad alta voce le nostre pagine, sperando in folle di ascoltatori, raccontando come e perché abbiamo riempito di parole quei fogli, quali nobili, sofferte o trasgressive passioni ci sono dietro a quei fogli stampati. Naturalmente speriamo che si ammiri quello che del nostro buio mettiamo in mostra, senza accorgerci che in questo modo, come scrive Borges in una memorabile pagina, ci svuotiamo, ci facciamo portare via tutto e quello spazio buio rischia di restare vuoto. Non imiteremo quel detenuto custode inflessibile del suo buio; non sarebbe giusto e, soprattutto, non ne saremmo capaci. Non sappiamo rinunciare ad aprire il cuore ai visitatori che fanno la fila aspettando l’ora di apertura. Persone la cui generosità è spesso più profonda, intelligente e vera della nostra. Ma se almeno non lo lasciassimo proprio del tutto nudo, questo cuore, se gli mettessimo addosso, per decenza, una camicia qualsiasi, non necessariamente a strisce… Sardegna: gli indipendentisti; vogliamo istruzione, sanità, trasporti… non più carceri La Nuova Sardegna, 1 novembre 2012 ProgReS - Progetu Repùblica, Aristanis noa Irs, Sardegna natzione e Sardigna libera proseguono nell’impegno contro l’arrivo di detenuti della criminalità organizzata nel nuovo carcere di Massama e il rischio di eventuali “ramificazioni di tipo mafioso nel territorio”. Dopo l’interrogazione del consigliere provinciale Sebastian Madau, gli indipendentisti hanno organizzato un flash mob in Comune, mentre si svolgeva il consiglio comunale. “Nella sede dell’amministrazione locale, abbiamo voluto esprimere la nostra contrarietà all’ennesima servitù imposta alla Sardegna dallo stato italiano, svelata per esempio dalle proporzioni fra numero di detenuti e abitanti: il numero di detenuti in Sardegna è, in percentuale, di molto superiore alla media dell’Italia e della maggior parte degli stati europei occidentali”. “La protesta non riguarda gli atti del Comune - spiega una nota di Aristanis Noa - ma la mancata censura politica rispetto all’arrivo di determinate tipologie di detenuti”. Secondo gli indipendentisti il diritto alla territorialità della pena l’Italia lo dovrebbe rispettare sia verso i detenuti sardi che stanno in Italia sia per i detenuti italiani che stanno in Sardegna. Quindi i numeri: dei 1.201 detenuti di residenza sarda non tutti sono ospitati in carceri sarde mentre il totale dei posti disponibili è di 2.170 (dati del ministero dell’Interno). Per ProgReS c’è un’alternativa: “Le infrastrutture di cui la Sardegna ha bisogno sono ben altre ed è sintomatico che per istruzione, sanità, trasporti - per citarne alcuni - gli indici di sviluppo in Sardegna siano sotto la media su tutto lo stato italiano mentre per servitù militari, carceri, produzione di energia siano maggiori”. Spiegazioni sui mafiosi in Sardegna (www.notizie.alguer.it) Sono le richieste contenute nella lettera che il presidente della commissione “Diritti civili” Salvatore Amadu ha inviato alla Presidente del Consiglio regionale Claudia Lombardo affinché solleciti una risposta dal Ministro della giustizia Il Ministro della giustizia deve chiarire definitivamente se esiste la volontà di trasferire in Sardegna detenuti legati alla criminalità organizzata e deve dare certezze sulla conclusione e l’operatività dei nuovi istituti penitenziari. Sono le richieste contenute nella lettera che il presidente della commissione “Diritti civili” Salvatore Amadu ha inviato alla Presidente del Consiglio regionale Claudia Lombardo affinché solleciti una risposta dal Ministro della giustizia al fine di sapere con certezza quali siano le intenzioni del governo nazionale. Il problema dello spostamento dei detenuti in regime di 41 bis nelle carceri isolane è gravissimo. È di qualche giorno fa la notizia del trasferimento di 24 detenuti pericolosi nel carcere di Nuchis e si paventa il rischio che siano in arrivo nell’isola centinaia di altri detenuti legati alla criminalità organizzata. Tali trasferimenti, oltre a creare un allarme sociale aggraverebbero la situazione, già fortemente a rischio, nelle carceri isolane. Le criticità, emerse durante le sedute della Seconda commissione che si sta occupando di tutte le problematiche relative al sistema carcerario isolano, sono legate principalmente alla fatiscenza e al sovraffollamento degli istituti penitenziari e alle difficoltà dell’entrata a regime delle nuove carceri di Cagliari, Sassari, Oristano e Nuoro. Tra i problemi rilevati anche la cronica carenza di personale, con particolare riguardo agli agenti penitenziari e le difficoltà legate alla regionalizzazione della medicina penitenziaria. Proprio il passaggio della medicina penitenziaria dallo Stato alla Regione è stato al centro, stamattina, di un’audizione con i tecnici dell’assessorato alla Sanità. I funzionari hanno assicurato che sono stati definiti tutti gli aspetti che riguardano l’organizzazione del servizio e il trasferimento del personale e, pertanto, il sistema è operativo. Le audizioni di questa mattina si inseriscono nell’ambito di una serie di iniziative decise dalla commissione Diritti civili sulle problematiche delle carceri isolane. L’organismo consiliare ha anche deciso di effettuare una serie di sopralluoghi per verificare direttamente i problemi che esistono e la situazione degli istituti. Per martedì 13 novembre è stata programmata una visita al nuovo carcere di Massama. Nella scorsa seduta la commissione aveva dato il via libera definitivo al Testo Unico sullo stalking. Marsala (Tp): lunedì prossimo il carcere chiude, fallito il tentativo del Sindaco Adamo www.marsala.it, 1 novembre 2012 Finisce con un fallimento il primo banco di prova del nuovo Sindaco di Marsala, Giulia Adamo, a tutela degli interessi della città. Ma era nelle previsioni: solo il nostro primo cittadino credeva che il Ministro Severino potesse ricredersi sulla chiusura del carcere di Marsala. Adamo si era detta convinta di avere tutti dalla sua parte: l’Udc, Casini, l’ex prefetto Ferrante (oggi senatore dell’Udc). Ha chiesto un appuntamento al Ministro: non l’ha ricevuta. In compenso è venuto a Marsala il sottosegretario Mazzamuto, a dare ascolto al primo cittadino e ai rappresentanti degli avvocati. Ma ogni dossier, viaggio della speranza, è stato vano. Ogni petizione inutile. Il carcere di Marsala chiude davvero, come nelle previsioni. L’unico risultato ottenuto da Giulia Adamo è che chiude con sei mesi di ritardo. La notizia è stata comunicata al Sindaco dal Ministero della Giustizia che avrebbe già dato disposizioni al direttore della struttura di iniziare il trasferimento dei detenuti in altri carceri. “È una decisone assurda contro la quale abbiamo lottato con tutte le nostre forze - sottolinea Giulia Adamo -. Purtroppo né l’intervento del sottosegretario alla Giustizia Salvatore Mazzamuto, né tanto meno quello dell’on. Pier Ferdinando Casini, sono riusciti nell’intento di scongiurare la chiusura del nostro carcere. Evidentemente è prevalsa l’azione del governo tecnico di Monti che così facendo mostra notevoli limiti nell’ affrontare i temi di grossa rilevanza, mancando di una corretta visione politica”. Non vale per il Sindaco di Marsala la politica dell’attuale governo tecnico che esegue tagli sono con la finalità di risparmiare. “Il problema a mio giudizio è quello che l’attuale governo tecnico esegue tagli con l’accetta senza capacità alcuna di distinguere tra ciò che effettivamente è superfluo e ciò che invece è necessario - prosegue Giulia Adamo. Non è stato un problema igienico e nemmeno di carenze strutturali. La casa circondariale di Marsala che ospita una cinquantina di detenuti non andava chiusa per tanti ordini di motivi fra cui la vicinanza al Tribunale e la possibilità dei familiari di andare a far visita ai loro detenuti in carcere senza essere costretti a trasferte in altre strutture penitenziarie”. L’auspicio del Sindaco è adesso quello che si possa presto tornare a parlare del nuovo Carcere. “Visto che non riusciamo ad interfacciarci con il Governo Monti, che non riflette prima di prendere certe decisioni - conclude l’Adamo - ritorneremo alla carica per fare in modo che il progetto abbandonato da Alfano e dal Pdl per il nuovo carcere possa essere ripreso e finanziato. Allo stato è l’unica soluzione per ovviare alla chiusura della struttura di Piazza Castello in cui la smobilitazione è ormai già iniziata”. Dichiara Gioacchino Veneziano della Uilpa: “Senza ombra di smentita giorno 5 novembre sarà ricordato come la morte del carcere di Marsala, privando l’importante città lilybetana di un presidio importantissimo di legalità. Dobbiamo informare l’opinione pubblica, la nuova classe politica e le istituzioni - ha fatto sapere Veneziano - che la chiusura del carcere di Marsala non porterà nessun risparmio di spesa e che nessuno potrà gioire se coattivamente 50 dipendenti del carcere dovranno per forza “emigrare” determinando inoltre un maggiore sovraffollamento nei penitenziari della provincia di Trapani, alimentando una situazione già ampiamente compromessa a causa della carenza di mezzi, della mancanza di personale e di risorse economiche”. La Uilpa definisce quest’iniziativa di soppressione del carcere, un’ingiustizia totale perché, sulle 206 carceri presenti in Italia, quello lilybetano è l’unico che verrà chiuso, quindi la provincia di Trapani e l’intera Sicilia pagherà l’altissimo prezzo di una scelta scellerata. “È il momento - ha detto il coordinatore della Uil - che tutti, politici ed istituzioni locali, facciano il loro dovere per salvaguardare il territorio di Marsala da quest’ingiusto esproprio, perché il concetto di risparmio non deve assolutamente ricadere solo sulla pelle dei lavoratori marsalesi. I dati del risparmio, con la soppressione del carcere, non sono reali, giacché la gravità del sovraffollamento in Provincia appesantirà il lavoro nelle carceri di Trapani, di Castelvetrano e di Favignana e, quindi, aumenterà l’attività di spostamento dei detenuti, dei magistrati e delle altre forze di polizia”. Come lo stesso sindacato ha ricordato, l’operazione di chiusura della Casa Circondariale della nostra Città, è nata da un decreto del lontano 2001, oggi rispolverato solo per rimpolpare gli organici delle carceri delle altre città della Provincia. Reggio Calabria: Intesa tra Csv, Tribunale di Sorveglianza e Casa Circondariale www.ntacalabria.it, 1 novembre 2012 Un importante protocollo d’intesa è stato sottoscritto in data odierna tra il Centro Servizi al Volontariato dei Due Mari, il Tribunale di Sorveglianza e la Casa Circondariale di Reggio Calabria in forza del quale i tre organismi potranno avviare un percorso condiviso di collaborazione sui temi della esecuzione penale, dell’inclusione sociale e della giustizia riparativa. L’accordo prevede azioni condivise di sensibilizzazione della popolazione detenuta per favorire processi di autocritica sul proprio vissuto, il coinvolgimento della comunità locale rispetto al sostegno e al reinserimento di adulti in esecuzione penale, la conoscenza e lo sviluppo di attività riparative a favore della collettività. All’interno dell’Istituto si svolgeranno tutto l’anno incontri, laboratori di informazione, sensibilizzazione e formazione con i detenuti sui temi della espiazione della pena e a della giustizia riparativa attraverso anche momenti di reciproco ascolto e confronto con magistrati, operatori pastorali, familiari di vittime della mafia. Mario Nasone, Presidente del Csv Dei Due Mari, ha posto l’accento sull’importanza di offrire occasioni ai detenuti per riflettere sui valori autentici della vita in alternativa alla cultura mafiosa dell’arricchimento, del potere, della sopraffazione degli altri. I detenuti potranno altresì ricevere un messaggio di speranza e uno stimolo a dare una svolta alla propria vita. Il Csv dei Due Mari, che da diversi anni sostiene il progetto di giustizia riparativa, conferma così la volontà del mondo del volontariato di svolgere una funzione di ponte tra il mondo carcerario e quello esterno, guardando ai detenuti non come un problema ma come una risorsa per la società. Ha ricordato come in questi ultimi anni sono stati un centinaio i soggetti in misura alternativa che hanno svolto un servizio di volontariato presso le associazioni del Csv operanti nella provincia e con la collaborazione dell’Uepe. Il Presidente Reggente del Tribunale di Sorveglianza Daniela Tortorella ha espresso la sua soddisfazione per il lavoro che il protocollo d’intesa permetterà di fare c/o l’Istituto Penitenziario di Reggio Calabria e che si aggiunge alle numerose iniziative trattamentali che il carcere ha già in corso. E si impegnerà a favorire le iniziative in materia di “giustizia riparativa”, per sensibilizzare i cittadini e incentivare gli operatori del diritto a promuovere una diversa cultura in tema di “gestione del conflitto” riavvicinando il reo al mondo delle vittime. Il Direttore del carcere Maria Carmela Longo ritiene i laboratori e le attività sulla giustizia riparativa un altro tassello che permette di fare entrare nel carcere la comunità esterna con i suoi valori ed i suoi stimoli. In questo momento di sovraffollamento e di difficoltà dell’istituto, potere offrire ai detenuti occasioni di riflessione e di progettualità utili per il loro futuro acquista una valenza particolare. Roma: i primi 3 detenuti ai “domiciliari” con il bracciale wi-fi di Emilio Orlando La Repubblica, 1 novembre 2012 L’oggetto elettronico alla caviglia di chi si trova agli arresti domiciliari. Il segnale trasmesso fa scattare l’allarme nella sala operativa della Questura Il segnale trasmesso dal braccialetto viene ricevuto da una centralina wi-fi che fa scattare l’allarme nella sala operativa della questura se il detenuto prova a liberarsi del dispositivo o si allontana dal luogo in cui deve scontare la pena. Finora, su disposizione del giudice del tribunale di Roma, Stefano Aprile, il braccialetto elettronico cinge la caviglia di tre detenuti di 31, 34 e 35 anni, ai domiciliari nei quartieri di San Basilio e Casilino per reati legati agli stupefacenti. “L’obiettivo del dispositivo elettronico”, spiega Raffaele Clemente dirigente dell’ufficio anticrimine e misure di prevenzione della questura che gestisce il servizio, “è quello di consentire un progressivo miglioramento alla situazione del sovraffollamento carcerario attraverso l’impiego di un meccanismo di controllo a distanza da parte delle forze di polizia”. “Gli oltre mille 700 detenuti che la questura conta ai domiciliari continua impegnano un numero consistente di addetti per i controlli, mentre con questo accorgimento almeno un terzo di quel personale potrebbe essere indirizzato sui controlli del territorio”. Il braccialetto elettronico è collegato a una centralina che, dall’appartamento, rileva costantemente la posizione del detenuto. Penalmente, l’allontanamento non consentito e la manomissione del congegno sono equiparati a un tentativo di evasione. Prato: apre la pizzeria dei carcerati, detenuti in semilibertà serviranno ai tavoli Il Tirreno, 1 novembre 2012 Cercano una seconda chance. Due mondi solo apparentemente lontani. Carcere e salute mentale. Detenuti e soggetti con disagio psichico. Non chiamateli fuori di testa. Semmai, “Fuori di pizza”. Così si vuole giocare sul nome del locale che apre i battenti stasera a Prato: è la pizzeria al circolo Uisp di S. Paolo, nella periferia pratese, al piano terra dalla nuova società sportiva dilettantistica “Me la cavo”, nella quale confluiscono iscritti di altre associazioni nate come “costole” della polisportiva “Aurora”, che oltre allo sport si occupa di riabilitazione dei disabili psichici. Quello della pizzeria al circolo Uisp è l’ultimo dei progetti educativi, che coinvolge anche i detenuti in semilibertà del carcere pratese della Dogaia. Come Alfonso, Franco e Angelo che stanno pagando il debito con la giustizia (uno di loro è un ergastolano). Addosso il grembiule per servire ai tavoli, in virtù del loro regime di semilibertà assaporeranno qualche ora fuori le sbarre, per poi tornare in cella entro le 22.30 (sarà chiesto alla direzione del carcere di prolungare l’orario fino alle 23.30). Intanto “Fuori di pizza” non rimarrà sguarnita: a mandarla avanti fino a chiusura penseranno i volontari dell’associazione. Salerno: agli arresti domiciliari per stalking tenta suicidio sui binari, la salva capostazione Adnkronos, 1 novembre 2012 Notte drammatica alla stazione ferroviaria di Bellizzi, nel salernitano, dove una donna di 48 anni detenuta agli arresti domiciliari per stalking si è allontanata da casa con il deciso intento di suicidarsi. Si è recata in stazione poi si è distesa sui binari. Dopo pochi minuti sarebbe transitato sulla tratta Battipaglia-Salerno un treno diretto a Siracusa, con oltre 400 passeggeri a bordo. È stato il capostazione di Bellizzi ad accorgersi della donna. Immediatamente ha avvertito i carabinieri attraverso il 112 poi ha disposto il fermo di tutti i treni in transito su Bellizzi. La decisione del capostazione è stata decisiva per evitare una tragedia. Infatti poco dopo sarebbe passato a forte velocità l’espresso 35959 diretto a Siracusa che non avrebbe potuto fare nulla per evitare di travolgere la donna. Subito dopo sono arrivati i carabinieri di Bellizzi e della compagnia di Battipaglia. I militari sono stati costretti a sollevare di peso la donna e a portarla via dalla stazione. La 48enne è stata arrestata per evasione dagli arresti domiciliari e ricondotta a casa per la detenzione. Dopo mezz’ora è ripresa anche la circolazione ferroviaria. Salerno: doppia overdose al carcere di Fuorni, Rita Bernardini interroga il ministro La Città di Salerno, 1 novembre 2012 È stata presentata nella seduta di lunedì, dal deputato dei Radicali Rita Bernardini un’interrogazione al ministro della Giustizia, Paola Severino, sul caso dei due detenuti del carcere di Salerno che la scorsa settimana sono stati ricoverati d’urgenza in ospedale per una overdose, dopo aver assunto droga in cella. “È del tutto sorprendente oltre che inquietante - scrivono i firmati dell’interrogazione - che in carcere si possa morire per overdose poiché a prevenirlo, fino ad impedirlo, dovrebbero esservi sistematici controlli e continue ed accurate vigilanze, il che autorizza a pensare che fosse acquisita e pacifica la convinzione da parte dei detenuti che i controlli e le vigilanze in quel carcere non si effettuavano”. Inoltre Bernardini chiede “se risulti se ed in che misura i due detenuti in questione fossero stati sottoposti ad un adeguato trattamento di carattere sia farmacologiche psicologico e come sia possibile che l’eroina sia riuscita ad entrare e circolare con tale facilità all’interno del carcere nonostante i controlli”, invitando il Governo ad avviare un’indagine. Lodi: no alla terza ala del carcere, non ci sono forze per sorvegliarla di Laura De Benedetti Il Giorno, 1 novembre 2012 I tagli all’organico mettono a repentaglio la sicurezza, il corretto funzionamento del sistema, e impongono carichi di lavoro eccessiva al personale. “No alla riapertura della terza sezione della Casa Circondariale di Lodi”. Ad affermalo è il sindacato regionale Ugl di Polizia Penitenziaria guidato da Enzo Tinnirello in una nota inviata ieri al Provveditore Regionale di Milano dell’Amministrazione Penitenziaria, Aldo Fabozzi, al fine di scongiurare tale ipotesi, che ormai circola insistentemente tra gli addetti. “Una decisione di questo genere si abbatterebbe come un flagello, su di un organico altamente rimaneggiato che giornalmente opera all’interno del Carcere di via Cagnola - afferma Tinnirello -. L’errato calcolo dell’organico di Polizia Penitenziaria, culminato con l’emissione del DM 08/02/2001, in cui si prevedevano 19 unità in meno, nel corso del tempo ha messo in ginocchio la Casa Circondariale di Lodi, costringendo il personale a reggere anche 9 posti di servizio alla volta nei turni di maggior movimentazione dei detenuti; ciò è a discapito della sicurezza, del corretto funzionamento del sistema nonché, non meno importante, della garanzia di carichi di lavoro sanciti contrattualmente che, se aumentati a dismisura come è avvenuto negli ultimi anni, finiscono con l’incidere sulle condizioni psico-fisiche degli agenti, generando anche disturbi nelle relazioni con le proprie famiglie”. “Già nel corso dei lavori di ristrutturazione - prosegue confermando che il malcontento non è solo di oggi -, come da noi denunciato sin dal 2009, il personale è stato costretto per tre anni a lavorare in un “carcere cantiere”, in mezzo alla polvere, ai rumori dei martelli pneumatici in due sezioni con pareti in cartongesso non ignifugo e con cavi elettrici passanti sott’acqua lungo un muro di cinta allagato. Il tutto a rischio della salute e in totale inottemperanza, da parte dell’Amministrazione, delle norme inerenti la sicurezza nei luoghi di lavoro. Ora ci chiedono più postazioni di servizio con sempre meno unità, ma i lavoratori non intendono proseguire questo gioco al massacro. Il personale è sceso sul piede di guerra e, a fronte di questa situazione, non escludiamo di far emergere il nostro dissenso anche attraverso manifestazioni eclatanti”. “Chiediamo all’Amministrazione Penitenziaria regionale innanzi tutto il differimento dell’apertura della terza sezione - conclude -. In secondo luogo gli agenti chiedono a gran voce tramite le organizzazioni sindacali, UGL in prima fila, la convocazione di un tavolo sindacale ove discutere dell’incremento dell’organico della Casa Circondariale di via Cagnola e, infine, il ripristino di condizioni lavorative decenti”. Avellino: carcere di Bellizzi, i detenuti aumentano e pure le carenze di Paola Iandolo www.ottopagine.net, 1 novembre 2012 Celle piccole e fatiscenti, oltre che sovraffollate. Detenuti reclusi 22 ore su 24, con solo due ore d’aria. Pochi fondi per l’istituto, per le attività interne ed esterne, e per il personale. Questa la situazione denunciata da sempre dal personale interno e da tutti coloro che si sono interessati al carcere di Bellizzi. Il male del carcere non sono solo i detenuti. L’istituto di pena rappresenta in qualche modo un “corpo estraneo” nel quale rinchiudere e lasciare il più a lungo possibile coloro che hanno sbagliato. Tutto finisce lì. Ma di quello che è davvero la realtà del carcere non se ne parla. Carenze d’organico, strutturali, igienico sanitarie e una giustizia che rende ancor più complicata la gestione. Certo è che solo chi lo vive dall’interno riesce a cogliere la vera realtà, a interrogarsi sul senso della pena e sulla funzione della reclusione. Al momento nella casa circondariale di Bellizzi ci sono 537 detenuti (di cui 30 donne). I detenuti in attesa di giudizio sono 90, 56 gli appellanti, 29 i ricorrenti e 362 con condanne definitive. Ma il vero problema della struttura carceraria avellinese è che non ha manutenzione. Quando si entra nelle celle è come ritornare indietro nel tempo. L’acqua calda nelle celle è un lusso e le docce sono roba da strutture a 5 stelle. I detenuti per poter fare una doccia e andare in bagno fanno a turno. Le celle sono stracolme, in una due per due ci sono anche nove reclusi, dove i letti a castello a tre piani arrivano al soffitto. Un tavolino al centro dove a turno si consumano i pasti e poi ci si ritrova a giocare a carte. Quando i detenuti entrano nel carcere perdono di vista il motivo per cui si trovano lì perché presi dal problema della convivenza e del sovraffollamento. Un altro problema che lamentano i carcerati è il lavoro. Purtroppo non vi è molta offerta di lavoro, perché mancano le iniziative. E da maggio a Bellizzi è stato inaugurato un nuovo padiglione, che ha ospitato 160 detenuti. Ma nemmeno questo è servito per alleviare le carenze del sovraffollamento. Si tratta di ospiti sottoposti a vincoli di vigilanza meno stringenti rispetto ai normali canoni penitenziari e che potranno essere destinati ad attività di volontariato. Ma la sua inaugurazione ha sollevato già qualche malumore. Soprattutto tra gli agenti di polizia penitenziaria. È arrivato il personale distaccato dalla Campania per la gestione della nuova struttura, ma con 160 detenuti in più servirà un numero di penitenziari adeguato alle unità della popolazione carceraria. Dello stesso parere è la direttrice del carcere Cristina Mallardo che ha detto: “Purtroppo i problemi del carcere sono sempre gli stessi e quello che sta vivendo Poggioreale è un problema condiviso da tutte le strutture carcerarie italiane. Dobbiamo soltanto sperare di poter avere un grado di vivibilità migliore rispetto a quello che si vive oggi”. Imperia: detenuto ingoia due lamette “se sto male è l’unico modo per ricevere soccorsi” di Maurizio Vezzaro La Stampa, 1 novembre 2012 “Ho ingoiato due lamette in segno di protesta: quando sto male, quando qualcuno di noi sta male, bisogna sbottare prima di ricevere soccorsi. E poi sulla documentazione che ci spetterebbe di diritto: ho fatto richiesta di atti processuali da avere a mie spese ma non mi sono stati concessi”. A parlare è il detenuto del carcere di Imperia Massimo Garofalo, arrestato nell’agosto scorso dalla polizia perché aveva dato false generalità a un controllo, e successivamente condannato a otto mesi dal Tribunale (“Non ho mai assunto psicofarmaci e non sono tossicodipendente”, tiene a precisare). La sua storia, le sue vicende, sono quelle che accomunano tanti altri detenuti come lui che affollano, anzi sovraffollano le carceri liguri. La convivenza con gli altri reclusi, la maggioranza di origine straniera con grandi differenze linguistiche e culturali, è spesso difficile, durante le lunghe giornate in cella montano spesso nervosismo e frustrazione. “Qui - racconta Garofalo - non possiamo neanche bere l’acqua del rubinetto perché scende solo calda, quasi bollente: è così da mesi. Ho chiesto il trasferimento in un altro carcere ma non sono stato accontentato”. Non è la prima volta che Garofalo cerca di attirare l’attenzione sul suo caso. Qualche settimana fa, prima del suo gesto da autolesionista, aveva inscenato uno sciopero della fame, una delle poche armi a disposizione di un detenuto per far sentire la propria voce, nella speranza che il messaggio giunga anche all’esterno. Cinema: “Milleunanotte” è in concorso al Festival Internazionale del Cinema di Roma www.persinsala.it, 1 novembre 2012 Speranza e rassegnazione sono al centro del recente documentario del regista, autore e produttore Marco Santarelli, in concorso nella sezione Prospettive Italia del Festival Internazionale del Cinema di Roma con Milleunanotte, girato nel penitenziario Dozza di Bologna. Santarelli segue con la macchina da presa il percorso umano di alcuni detenuti della sezione giudiziaria del carcere bolognese, scandito da lunghissimi iter burocratici. Per questo suo quarto lungometraggio, Santarelli si lascia ispirare dai racconti di Ignazio, monaco e volontario del penitenziario Dozza. L’aspetto umano, infatti, emerge nella narrazione fin dal titolo: mille e una notte è l’inizio di una lettera d’amore di una detenuta che ha trascorso mille e una notti in carcere. Spesso la difficoltà di girare film in carcere è legata alla mancanza di fiducia dei detenuti verso il regista e a una naturale ritrosia davanti alla macchina da presa. Quale rapporto ha avuto con i detenuti durante le riprese? E i detenuti che atteggiamento hanno tenuto di fronte alla cinepresa? Marco Santarelli: “Prima di filmare ho aspettato che loro si fidassero di me. Ho ascoltato le loro storie, passato tempo in cella a bere te, caffè, a fumare. Ho passeggiato con loro durante l’ora d’aria, parlando in liberta del più e del meno. Ho rispettato sempre i loro tempi, senza mai forzare le situazioni, trattandoli come persone prima che detenuti. Dopo questa prima fase, ho iniziato a registrare tutti i giorni, ore e ore di materiale, anche quando le cose che uscivano non erano interessanti ai fini del documentario. Mi piace tenere sempre accesa la camera, perché è un modo per sciogliere le tensione e costruire un rapporto “fisico” con chi ho davanti”. Qual è stato il momento di maggiore soddisfazione durante le riprese di Milleunanotte? “Il momento di maggior soddisfazione durante le riprese di Milleunanotte è stato quando ho deciso di raccontare la storia di Agnes, finita in carcere per spaccio di sostanze stupefacenti. Agnes, l’ho conosciuta pochi giorni prima del suo breve permesso di uscita. Ero partito per filmare storie di vita all’interno del carcere, ma le “circostanze” mi hanno portato altrove. E cosi, quando Agnes ha avuto l’autorizzazione di tornare a casa ho deciso di seguirla. Ecco, questa apertura all’esterno, in cui ho avuto la possibilità di filmare Agnes nella sua quotidianità, è stato tra i momenti più emozionanti della lavorazione del documentario”. E quello di maggiore difficoltà? “Non c’è stato un momento di grande difficoltà, ma tante piccole difficoltà, che ogni giorno ho dovuto affrontare. Confrontarsi con l’organizzazione carceraria e le sue regole non è stato facile. Ma alla fine è andata bene e credo di essere riuscito a realizzare un documentario che affronta aspetti importanti su come funziona la vita all’interno di un penitenziario”. Recentemente la realtà del carcere è stata al centro di Cesare non deve morire dei fratelli Taviani, della sua trasposizione teatrale, e de Il Gemello di Vincenzo Marra, presentato all’ultimo Festival d’Arte Cinematografica di Venezia. Come spiega questo interesse per l’argomento? M. S.: “Non so. Per quanto mi riguarda, Milleunanotte rientra in un percorso personale di ricerca, incentrato sulle istituzioni italiane e i cittadini che le abitano, da protagonisti, spettatori o che semplicemente le ignorano. Un viaggio cominciato nel 2011 con il documentario Scuolamedia, girato in una scuola di Taranto, e che un anno dopo mi ha portato a Bologna, nel penitenziario Dozza. I miei lavori nascono da microcosmi sociali, all’interno dei quali osservo e indago come le persone vivono, subiscono, si adattano alle regole”. Una domanda provocatoria. Prendendo come riferimento il libro di Truman Capote A sangue freddo, che fece scalpore per l’atteggiamento che l’autore ebbe nei confronti dei criminali, protagonisti di una storia vera, e facendo le dovute differenze - poiché nel suo film non ci sono assassini - non crede che vi sia il rischio per l’autore di un’opera realizzata in carcere di avere un contatto talmente empatico con i detenuti da indulgere sulle ragioni della loro condanna? “Le storie documentate e le situazioni filmate sono state registrate nella sezione giudiziaria del carcere di Bologna, dove si trovano i detenuti in attesa di giudizio e chi deve scontare pene brevi. Si tratta di una sezione difficile, popolata per lo più da reclusi tossicodipendenti e dove spesso chi entra, resta in attesa per mesi, prima di avere una pena definitiva, gli arresti domiciliari o l’assoluzione. Un limbo giudiziario e burocratico, che rappresenta una delle cause principali del sovraffollamento delle carceri italiane. Dentro questo limbo, ho cercato di costruire un percorso di storie che scatenasse emozioni e allo stesso tempo spunti di riflessione sulla condizione umana e sociale di chi finisce in questa sezione. Ho trascorso cinque settimane gomito a gomito con detenuti, volontari e personale carcerario. Un periodo non lungo, ma intenso. Nelle settimane di riprese, mantenere la cosiddetta “barra fissa” sugli obiettivi del documentario non è stato facile, ma non avevo altra strada. Non perdere mai di vista gli obiettivi e le ragioni per cui ero lì, mi ha permesso di contenere gli “istinti di empatia” e costruire una sana e ragionevole distanza da quello che vedevo e raccontavo. Una condizione mentale che mi ha dato la possibilità di cogliere la complessità, delle situazioni e delle storie con cui mi confrontavo. Nel momento in cui si tocca la vita di altre persone, si ha il dovere di essere lucidi e onesti, perché in gioco c’è la fiducia che la persona che hai davanti ti ha donato”. Quale impatto ha avuto su di lei, come uomo e come regista, l’esperienza di girare un documentario in un penitenziario? “Diciamo che quando ho finito le riprese di Milleunanotte, come uomo e come regista, ho riscoperto il piacere di aprire e chiudere una porta da solo”. Quale distribuzione avrà il film? “Per ora Festival in Italia e all’estero, nella speranza di trovare presto una distribuzione”. Croazia: le carceri scoppiano, ma lo Stato non ha soldi per migliorarle di Andrea Marsanich Il Piccolo, 1 novembre 2012 Formicai o giù di lì. È così che appaiono i penitenziari in Croazia, settore che sta scoppiando per il continuo aumento del numero di “inquilini”, che superano di gran lunga la capacità massima delle carceri. Lo ha ammesso lo stesso ministro croato della Giustizia, Orsat Miljeni che rivolgendosi ai giornalisti ha parlato di 3,771 posti a disposizione, mentre i carcerati sono 4.950. “In media la capienza è superiore del 30 per cento rispetto alle capacità ricettive - ha affermato il ministro - è un problema che non riguarda esclusivamente l’ordine e la sicurezza ma anche le casse dello Stato”. Miljeni„ ha spiegato che i reclusi hanno sporto denunce per un ammontare di 90 milioni di kune, qualcosina in meno di 12 milioni di euro. Sono denunce inviate alla Corte di Strasburgo per i diritti dell’uomo e che riguardano le difficili condizioni di vita nelle strutture carcerarie. Stando ai criteri fissati dalle convenzioni internazionali, ogni carcerato ha diritto a 4 metri quadrati di superficie e a 10 metri cubi di spazio. Sono condizioni che in questo momento la Croazia non può garantire. La Corte di Strasbur- go, in casi del genere, appioppa multe che per singola denuncia vanno da un minimo di 4 mila ad un massimo di 5 mila euro. “Abbiamo a che fare pure con la carenza di quadri - ha rilevato Miljenic - ci servirebbe un buon 50 per cento di personale in più. L’unico modo per arrangiarci sono gli straordinari e qui siamo passati da 350 mila a 200 mila, ma più sotto non possiamo andare”. Restando in tema cifre, il ministro ha fatto sapere che la movimentazione 2011 nelle prigioni croate ha riguardato 18 mila persone, per una spesa di 538 milioni di kune (71 milioni e 400 mila euro). Attualmente si sta ristrutturando un’ala del penitenziario di Zagabria, che garantirà 380 posti in più, mentre il predetto dicastero sta impegnandosi per arrivare a i fondi che consentiranno la costruzione a Sebenico di un carcere da mille posti. La struttura sarà edificata tramite modello di partenariato pubblico-privato. Iran: negate visite e cure mediche a giornalisti, legali e attivisti detenuti La Repubblica, 1 novembre 2012 La Nobel per la pace Shirin Ebadi, Amnesty International, Human Rights Watch, Reporter senza frontiere ed altre organizzazioni umanitarie chiedono alle autorità iraniane di porre fine alle vessazioni subite in carcere da Nasrin Sotoudeh e da altri detenuti e di consentire loro di incontrare i familiari e ricevere cure mediche. Giornalisti, avvocati e difensori dei diritti umani sono imprigionati in Iran solo a causa delle loro attività pacifiche. A denunciarlo sono la Premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, Amnesty International, Human Rights Watch, la Campagna internazionale per i diritti umani in Iran, Reporter senza frontiere, la Federazione internazionale per i diritti umani e la Lega iraniana per la difesa dei diritti umani. “Anzitutto - dicono Shirin Ebadi e le sei organizzazioni per i diritti umani - nessuno di loro dovrebbe essere in carcere. Ma intimidire i figli dei prigionieri, negare gli incontri tra questi e i loro familiari e non fornire cure mediche è ancora peggio”. Da quando è stata arrestata, nel 2010, Nasrin Sotoudeh, avvocata di 47 anni e madre di due figli, è stata spesso posta in regime di isolamento. Così come ad altri prigionieri, le sono state negate cure mediche adeguate e le è stato impedito di incontrare con regolarità i suoi familiari. Lo sciopero della fame di Nasrin. Nasrin Sotoudeh è attualmente ricoverata nell’infermeria del carcere di Evin, a Teheran. Ha iniziato uno sciopero della fame il 17 ottobre per protestare contro le vessazioni subite dai familiari e le restrizioni al suo diritto di ricevere visite. Secondo quanto riferito dal marito Reza Khandan, Nasrin Sotoudeh ha intrapreso lo sciopero della fame quando ha saputo che la figlia dodicenne era stata convocata in tribunale per comunicarle il divieto di viaggiare all’estero. Inoltre, negli ultimi tre mesi, la direzione del carcere di Evin ha impedito incontri diretti tra la detenuta e i suoi figli (possono vedersi solo attraverso un vetro divisorio) e hanno imposto forti limitazioni alle telefonate. Nasrin Sotoudeh non incontra la madre e il fratello da quasi un anno. Le dure sanzioni dopo il carcere. “Siamo seriamente preoccupati per lei e consideriamo le autorità iraniane responsabili di questa situazione”, hanno sottolineato Shirin Ebadi e le sei organizzazioni per i diritti umani. Nasrin Sotoudeh sta scontando una condanna a sei anni di carcere (in primo grado, nel gennaio 2011, gliene erano stati inflitti 11) per “atti contro la sicurezza nazionale e propaganda contro il sistema”. Al termine della pena le sarà inibito l’esercizio della professione legale e non potrà viaggiare per 10 anni. Le restrizioni nel penitenziario. La direzione del carcere di Evin sta impedendo incontri tra le giornaliste Jila Baniyaghoob e Mahsa Amrabadi, condannate a un anno di carcere, e i loro mariti detenuti in altre prigioni: Bahman Ahmadi-Amoui, collega e marito di Jila Baniyagoob, si trova nella prigione di Rajai Shahr, condannato a cinque anni per “propaganda contro il sistema” e “offesa al presidente”. Anche Masoud Bastani, collega e marito di Mahsa Amrabadi si trova a Rajai Shahr, dove sta scontando una pena di sei anni per “propaganda contro lo stato”. Cure mediche negate. Le autorità iraniane stanno negando cure mediche anche a due detenute politiche, Bahareh Hedayat e Mahboubeh Karami, condannate rispettivamente a 10 e tre anni di carcere per reati contro la sicurezza. Karami soffre di depressione, ma non riceve trattamenti adeguati. Hedayat è stata autorizzata a curarsi per problemi ai reni e allo stomaco fuori dal carcere, per poi essere obbligata a rientrare in prigione. Una condanna alla lapidazione. Tra gli altri casi segnalati figurano: Javid Houtan Kiyan, in carcere dall’ottobre 2010, condannato a 11 anni per atti contro la sicurezza nazionale per aver parlato del caso di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna condannata nel 2006 alla lapidazione e la cui sentenza è stata sospesa a seguito delle pressioni internazionali. Ha gravi problemi all’apparato digerente ma non riceve cure mediche adeguate. Le visite dei familiari sono ridotte al minimo. Abdolfattah Soltani è in carcere dal 4 marzo 2012 in esecuzione di una condanna definitiva a 13 anni (seguiti dal divieto di esercitare la professione legale per 20 anni). È recluso a Barazjan, circa 1.200 chilometri a sud di Teheran. È stato giudicato colpevole di propaganda contro il sistema, riunione e collusione contro lo stato e costituzione di un gruppo illegale, ossia il Centro per i difensori dei diritti umani di cui è cofondatore con Shirin Ebadi. Gli altri casi. Mohammad Ali Dadkhah, un altro avvocato in carcere dall’aprile 2012, sta scontando una condanna a nove anni per aver rilasciato interviste alla stampa estera e aver fatto parte del Centro per i difensori dei diritti umani. Come pene accessorie, è stato multato e frustato e inibito dall’esercizio della professione legale e dall’insegnamento per 10 anni. Mohammad Seifzadeh, ennesimo avvocato a sua volta esponente del Centro per i difensori dei diritti umani, sta scontando due anni di carcere per accuse simili a quelle di Dadkhah ma nei suoi confronti sono in corso ancora altre inchieste. Ulteriori informazioni. Fino al 25 novembre è in corso Io sono la voce 8, la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi di Amnesty International Italia tramite SMS solidale al 45509 per i diritti delle donne in Medio Oriente e Nordafrica. Il valore della donazione è di 2 euro per ciascun sms inviato da cellulari Tim Vodafone, Wind, 3 PosteMobile, CoopVoce e Nòverca e di 2 euro per ciascuna chiamata da rete fissa Twt e di 2 o 5 euro per ciascuna chiamata da rete fissa Telecom Italia, Infostrada e Fastwebnet. Cina: dissidente condannato a 8 anni carcere per sovversione Ansa, 1 novembre 2012 Un tribunale della città sud orientale cinese di Kunming ha condannato ad otto anni un ex gestore di un internet caffè accusato di sovversione dei poteri dello stato. La severa condanna è stata inflitta a Cao Haibo un giovane di 27 anni che attraverso un social forum aveva mandato messaggi e lanciato un sito, per promuovere cambiamenti costituzionali e governativi in Cina. Aveva anche formato una sorta di nuovo partito repubblicano, che è rimasto in piedi su internet per un solo giorno. La polizia è entrata a casa sua nell’ottobre dell’anno scorso, pochi mesi dopo il suo matrimonio, e lo ha portato via. A maggio è stato giudicato a porte chiuse e ieri è stata emessa la sentenza, annunciata stamattina in una telefonata al suo avvocato, con una azione illegale. La condanna di Gao arriva ad una settimana dal 18mo congresso del partito che cambierà i vertici dello stesso e quelli della nazione. In questi giorni, diversi dissidenti sono stati messi sotto controllo dalle autorità.