Giustizia: chi ricorda l’appello che dieci anni fa Giovanni Paolo II rivolse al Parlamento? di Maurizio Bolognetti Notizie Radicali, 15 novembre 2012 (L’autore è al 22esimo giorno di sciopero della fame a sostegno dell’iniziativa nonviolenta di Rita Bernardini e Irene Testa per ribadire la necessità di un provvedimento di amnistia per porre subito fine all’illegalità in cui versa la giustizia italiana e la sua appendice carceraria). La deputata Radicale Rita Bernardini e la Segretaria dell’Associazione il Detenuto Ignoto, Irene Testa, hanno voluto ricordare l’appello che dieci anni fa Papa Giovanni Paolo II rivolse al Parlamento riunito in seduta comune: un atto di clemenza verso i detenuti stipati, allora come oggi, in patrie galere indegne di un paese civile. Dieci anni dopo, un provvedimento di amnistia e indulto è innanzitutto un provvedimento, l’unico, capace di riportare il nostro Stato sul binario del rispetto della legalità costituzionale e delle Convenzioni Internazionali a tutela dei diritti umani. Non mero atto di clemenza, dunque, ma per dirla con Marco Pannella autentico provvedimento di riforma in grado di interrompere la flagranza di reato contro i diritti umani e la Costituzione in corso da lustri. Insomma, una amnistia per la Repubblica, per uno Stato che rispetto a tutte le giurisdizioni di riferimento nazionali e internazionali è un delinquente professionale. Laddove, gioverà ripeterlo, la situazione delle patrie galere è figlia di quella bancarotta della giustizia che un’amnistia la produce già: quella clandestina e di classe chiamata prescrizione. Oggi il carcere è luogo di tortura senza torturatori, situazione ben descritta da Pannella quando qualche anno fa ebbe a parlare di “un consistente e allarmante nucleo di nuova shoah”. Il cronico sovraffollamento degli italici tribunali si traduce in violazione del diritto ad una ragionevole durata dei processi e in giustizia negata per vittime e imputati, con corollario di carcerazioni preventive di cui ben conosciamo gli effetti e di condanne da parte della Corte di Giustizia Europea. Un costituzionale provvedimento di amnistia, nella situazione data, è un irrinunciabile provvedimento di riforma. Intanto il dramma delle carceri, dove si vive e si muore in silenzio, con le decine di suicidi di poliziotti e le centinaia di suicidi di detenuti che continuano a non fare notizia, prende corpo in queste ore in quanto viene scritto a proposito della piccola e fatiscente Casa Circondariale di Potenza, dove si registra un caso di scabbia. E proprio ai detenuti lucani e non solo a loro, ma anche all’intera comunità penitenziaria, voglio rivolgere l’appello ad aderire all’iniziativa nonviolenta del 21 e 22 novembre: una grande battitura seguita dal silenzio, anche per sostenere lo sciopero indetto dall’Unione Nazionale delle Camere Penali sulla questione del sovraffollamento delle carceri. Per il resto, pensando al gelo che ha accolto il solitario applauso della deputata Rita Bernardini nel corso della commemorazione della visita in Parlamento di Giovanni Paolo II, viene in mente il Vangelo di Matteo:”Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni di ipocrisia e iniquità”. Qualche giorno fa, passeggiando per le strade della città che diede i natali al poeta Orazio mi sono imbattuto in una targa dedicata alla famiglia Nitti. L’iscrizione recitava: “La città di Venosa pose a ricordo e ad esempio di una tradizione nobilissima negli ideali di democrazia e libertà”. A pochi kilometri in linea d’aria la città di Melfi, che durante il fascismo ebbe ad “ospitare” Eugenio Colorni e Ada Rossi. E sì, ci vorrebbe proprio che qualcuno ricominciasse a credere negli ideali di democrazia e libertà e ad accorgersi che siamo precipitati in un baratro fatto di assenza di Stato di diritto. Giustizia: Ucpi; il carcere non può più aspettare, astensione dai penalisti il 22 novembre di Mauro W. Giannini www.osservatoriosullalegalita.org, 15 novembre 2012 Astensione il 22 novembre per gli avvocati penalisti. L’ha proclamata l’Unione Camere Penali Italiane per sottolineare il suo impegno riguardo al problema del carcere come emergenza sociale e sollecitare quello delle istituzioni Negli ultimi anni, con cadenza quasi mensile, l’Unione delle Camere Penali Italiane ha denunciato le drammatiche condizioni di vita cui sono costretti i detenuti in Italia ed allo scopo di documentare tali condizioni, delegazioni formate da componenti della Giunta, dell’Osservatorio Carcere dell’Unione e delle Camere Penali territoriali hanno visitato molte carceri, tra le quali quelle di Roma, Palermo, Napoli, Milano, Bologna, Torino, Genova, Firenze, Trieste, Catania, Sulmona, Siracusa, Rovigo, Udine, Saluzzo, Ferrara, Pistoia, toccando con mano l’insostenibilità della situazione. Il resoconto di queste visite è stato raccolto in una pubblicazione “Prigioni d’Italia”, che è a disposizione di tutti, e documenta - sottolinea la Giunta Ucpi in un documento del 5 novembre, “una situazione in cui gli uomini sono ammassati come cose, rinchiusi per 22 due ore al giorno in spazi che impongono loro di alzarsi a turno dalle brande, in condizioni igienico-sanitarie indegne”. In queste occasioni i penalisti hanno anche constatato direttamente la penuria di risorse con le quali l’amministrazione è costretta ad operare. Molteplici sono oramai le pronunce giudiziarie, nazionali e sovranazionali, che hanno attestato la responsabilità dello Stato italiano per le condizioni di vera e propria illegalità in cui vengono costretti i detenuti nel nostro Paese ed in diverse occasioni, con accenti adeguati alla gravità della situazione, il Presidente della Repubblica ha invitato il sistema politico a farsi carico del problema per porre fine a quella che è stata definita senza mezzi termini una “ vergogna”. Tuttavia, “al di là dei proclami governativi e dei generici buoni propositi della politica, nessun provvedimento efficace è stato fin qui assunto” afferma la Giunta UPI, commentando che infatti non possono essere considerati tali “i pochi interventi finora operati, come - ad esempio - la legge che permette di scontare una parte della detenzione in regime domiciliare, la quale risulta gravata da tante e tali deroghe da essere apparsa, fin da subito, inefficace”. Per i penalisti, “proprio un intervento immediato, anche di clemenza, può costituire la leva per far procedere in Parlamento alcuni dei provvedimenti in discussione che si porrebbero quali possibili soluzioni strutturali ed in questo senso dovrebbero avere corsia preferenziale quei disegni di legge - che comunque devono essere migliorati per renderli efficaci - che prevedono l’introduzione di strumenti deflattivi, come la sospensione del processo con messa alla prova ovvero l’introduzione della detenzione domiciliare o delle sanzioni riparatorie”, perché “il problema del sovraffollamento delle carceri è il frutto in primo luogo di una concezione che pone la pena detentiva al centro del sistema penale, e ciò costituisce il retaggio di una visione autoritaria del diritto penale da cui il nostro Paese non riesce a svincolarsi, mentre le più moderne soluzioni dimostrano la maggiore utilità, anche in termini di efficacia, delle pene non detentive sia dal punto di vista retributivo che della prevenzione generale”. I penalisti proseguono criticando quello che chiamano “abuso della custodia cautelare”, che determina per oltre il 40% il numero complessivo dei detenuti ed evidenziano che anche riguardo all’ordinamento penitenziario (cd legge Gozzini) “occorre abbandonare la via imboccata negli ultimi anni, attraverso la quale sono state introdotte un numero talmente elevato di esclusioni soggettive e oggettive da aver reso i benefici penitenziari sostanzialmente impossibili da applicare al maggior numero dei detenuti, anche in questo caso rendendo un pessimo servizio proprio in termini di tutela della sicurezza, posto che le statistiche dimostrano che i casi di recidiva sono nettamente inferiori da parte di coloro che godono di tali benefici” Al fine della più ampia sensibilizzazione al problema, la Giunta dell’Ucpi ha quindi deciso di promuovere occasioni di pubblico dibattito nel corso delle quali spiegare ai cittadini le ragioni che dimostrano come “un sistema penale, un sistema carcerario ed un ordinamento penitenziario degni di un paese civile, costituiscono anche il più efficace presidio per la loro sicurezza” ed ha deliberato a tal fine e non solo come occasione di civile protesta, l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale degli avvocati penalisti per il giorno 22 novembre 2012, sollecitando le Camere Penali ad organizzare per quel giorno, anche su base distrettuale, assemblee, convegni ed iniziative di informazione e denuncia. Giustizia: Spigarelli (Ucpi); il sovraffollamento delle carceri è una vergogna intollerabile Adnkronos, 15 novembre 2012 Il sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani è “una vergogna. Abbiamo trovato in tutte le carceri una situazione intollerabile, con persone ammassate, situazioni igieniche al limite. Non penso che un Paese civile possa tollerare cose simili”. Lo ha detto Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, ospite dei ‘Dibattiti Adnkronos’. Una delegazione di penalisti ha visitato nelle scorse settimane diversi istituti di pena e per sensibilizzare la politica sulla necessità di affrontare il problema, l’Ucpi ha indetto per il 22 novembre una giornata di astensione dalle udienze. “Per lungo tempo - ha aggiunto il leader dei penalisti - abbiamo detto che amnistia e indulto sono situazioni temporanee che non risolvono strutturalmente il problema. Continuiamo a dirlo, pero diciamo anche che di fronte ad un così elevato tasso di inciviltà c’è bisogno di fare qualcosa di immediato come soluzioni di questo tipo, ma accompagnandole con riforme strutturali”. “La detenzione domiciliare e la sospensione del processo con messa alla prova, sono iniziative buone ma riservarle solo a ipotesi di reato per cui in Italia si prende la sospensione condizionale della pena è un controsenso. Bisogna modificare quelle norme e renderle più effettive. Se non ci fossero le elezioni incombenti - ha osservato Spigarelli - la soluzione sarebbe più razionale: quando si parla di carcere si muovono sentimenti istintivi e allora i partiti, di fronte alle elezioni che arrivano, ci ripensano”. Giustizia: Consiglio d’Europa; “detenuti stranieri discriminati”, tema conferenza a Roma Public Policy, 15 novembre 2012 Cosa fare per ridurre il sovraffollamento nelle carceri? Come garantire ai detenuti stranieri gli stessi diritti degli altri detenuti? Quali norme applicare per prevenire le discriminazione? Questi saranno i temi di una conferenza internazionale che riunirà dal 22 al 24 novembre a Roma i direttori delle amministrazioni penitenziarie e dei servizi di vigilanza della libertà condizionata dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. Le statistiche 2010 del Consiglio d’Europa indicano che il tasso di stranieri nelle prigioni oscilla tra lo 0,7% della popolazione carceraria (in Polonia e Romania), il 36,6% in Italia, fino ad arrivare al 71,6% in Svizzera. Il nodo è come potersi occupare dei detenuti stranieri e prepararli alla libertà e al reinserimento nel rispetto della Raccomandazione (2012) 12 del Consiglio d’Europa. I criteri stilati nella Raccomandazione sono, per esempio, esaminare la situazione dei detenuti stranieri secondo gli stessi criteri usati per gli altri indiziati o condannati, fornire le informazioni riguardanti i diritti e gli obblighi in carcere in una lingua conosciuta, facilitare i contatti con la famiglia e gli avvocati e creare passerelle tra il paese di detenzione e il paese di destinazione per favorire il reinserimento. Il testo del Consiglio d’Europa sottolinea altresì l’importanza di una formazione specifica del personale per una migliore comprensione delle differenze culturali e religiose. I lavori della conferenza saranno aperti da Paola Severino Di Benedetto, ministro della Giustizia, e da Gabriella Battaini-Dragoni, vicesegretario generale del Consiglio d’Europa. Giustizia: Kalina, uno scheletro sorridente che sta morendo nel carcere di San Vittore di Renato Farina Tempi, 15 novembre 2012 “Kalina! Kalina! Vieni Kalina ti cercano!”. L’agente di polizia penitenziaria chiama ad alta voce, nella zona dove le detenute prendono l’aria a San Vittore. Nel cortiletto dipinto di verde per fingere il prato, forse, Silvia Kalina si alza da sotto il muro di cemento. Se ne stava accovacciata in mezzo alle altre, con una cartelletta blu in mano, ed è uno scheletro avvolta in qualcosa di grigio. Quanti anni avrà? Settanta, ottanta? Si avvicina e saputo che un deputato italiano è lì per lei, ha un bel sorriso, e da sotto i capelli bianchi spuntano due pezzi di smeraldo che sono gli occhi. In una intervista trasmessa da Radio Radicale, Marinella Colombo parlava di questa signora incarcerata (a proposito della Colombo e delle sue terribili vicende, conviene leggere qui), e concludeva così: “Spero che qualcuno intervenga”. Il giornalista Lanfranco Palazzolo rilanciava: “Spero che qualcuno ci ascolti”. Eccomi, ore 13 circa di venerdì 9 novembre. La denuncia era chiara. Giace nel carcere milanese, in custodia cautelare, una signora malata di cancro, incapace di esprimersi, non ascoltata da nessuno. Com’è possibile una simile disumanità? C’entra qualcosa con la legge, con i diritti umani sulla cui base l’Europa si è messa tutta sotto la bandiera azzurra con dodici stelle? Premetto: la vicenda giuridica è confusa. Kalina è accusata di aver rapito la sua stessa figlia di 17 anni, è ritenuta parte di una specie di organizzazione che provvede a strappare alla patria tedesca, per conto di padri e madri che germanici non sono, i figli che a ogni costo lo Stato della Merkel impone restino sotto la bandiera di Berlino. In carcere il deputato non può parlare di questioni processuali con i reclusi, tanto più quando sono in attesa di giudizio. Ma la salute, lo stato della detenzione quello sì che si può e si deve esplorare. E ad occhio nudo questa donna non può stare lì. Le mettano un braccialetto elettronico, la chiudano in un ospedale: ma così è la morte vivente e temo presto non più vivente. Chiedo a Silvia come sta. Parla il tedesco, e io no. Non lo parla nessuno tra le bravissime agenti della polizia penitenziaria. Mastica un poco di inglese, e le uniche compagne con cui dica due parole sono una polacca che qualcosa di inglese sa, e si chiama Danuta, ma di italiano nulla (parla uno spagnolo scalcinato); e poi c’è Veronica, che qualche frasetta britannica sa tirarla fuori. Mi dicono che Silvia non ha 80 anni ma 55, e da 3 è ammalata di cancro. Le è stato asportato un seno, e le metastasi - a quanto dice la Kalina - si sono diffuse, ha subìto diverse operazioni (“Sì sì, ha le cicatrici”, dicono) e lei mostra il fegato, e mima anche ferite al cuore, ma non si capisce se sono lacerazioni morali o a qualche muscolo, ma forse tutt’e due. “Ho perso diciotto chili da quando sono stata estradata in Italia”, penso di capire. Mi segna su un foglio le date: 14 maggio 2012, arrestata in Germania su ordine dei giudici italiani con mandato di cattura europeo. Il 20 luglio viene trasferita a Roma, il 31 luglio a Milano. Avrà il processo a dicembre. Dice che doveva essere sottoposta a esami, ma non ha accettato di farsi passare sotto i raggi dell’ospedale, sostenendo che la macchina era vecchia di quarant’anni, e l’avrebbe esposta troppo a lungo a raggi nocivi. Mi dice: “Sono stata visitata. La visita è durata trenta secondi”. Ed è stata rimandata qui. Qualcuno la viene a trovare in prigione? “Nessuno. Verrebbe mia figlia, ma ha diciassette anni e dalla Germania non la lasciano uscire”. È la figlia che avrebbe rapito a se stessa… Non afferro molte cose, e non sono certo medico. Lei mi sorride: è abituata a non essere capita da nessuno. Mi mostra la cartelletta blu, la apre. Ci sono esercizi elementari di lingua italiana, sta cercando di imparare. Io le tiro fuori un libretto per lei, è la versione tedesca di Chi prega si salva (edizioni 30 Giorni) con preghiere nella sua lingua e in latino, e la prefazione di Joseph Ratzinger. Allora mi bacia proprio sulla guancia, tra il riso contagioso delle detenute, specialmente di una ragazza che uscirà l’indomani. Ma poi un’altra signora rompe il clima di festa e piange. Mi domanda di fare qualcosa. È russa di San Pietroburgo, si chiama Oxana. Dovrebbe uscire presto dal carcere, e ha un bambino di tre anni in una comunità. Lo ha avuto da un macellaio marchigiano, e dunque il piccolo è italiano. Lei vorrebbe portarlo a casa in Russia, dai genitori, hanno una casa dignitosa: impossibile. Il padre non vuole né madre né figlio tra i piedi, ma nemmeno autorizza la loro partenza. Dice Oxana: “Mio Dio che errore ho fatto”. Non per quel che l’ha portata in cella, che io non so, ma per essersi messa con quel macellaio, il quale in due anni le ha spedito 500 euro per il bambino e basta così: “Non ci ama”, dice. Scrive il numero di telefono dell’uomo perché io lo convinca a dire di sì. Altre donne allora si avvicinano, e raccontano le stesse storie, ma le lacrime sono tutte diverse. E le agenti di polizia si commuovono. Giustizia: Rita Bernardini (Ri); arresto di Ambrogio Crespi è un nuovo “caso Tortora” Adnkronos, 15 novembre 2012 “Ho firmato la petizione per la liberazione di Ambrogio Crespi perché sono assolutamente convinta che sia innocente. Inoltre mi sono messa in contatto con uno dei suoi difensori, Giuseppe Rossodivita, e lui mi ha confermato più volte che, leggendo le carte processuali, quello di Ambrogio sembra essere un nuovo caso Tortora. Io so bene le torture vissute in quegli anni da Tortora, so cosa vuol dire soffrire per qualcosa che non si è fatto, ed è per questo che ho deciso di sposare la causa di Ambrogio”. Lo afferma la radicale Rita Bernardini, deputato eletto da indipendente con il Pd. Inoltre, aggiunge, “conosco personalmente lui e la moglie e mi fido al 100% del giudizio di Rossodivita. Ambrogio è detenuto in carcere anche se non ci sono riscontri rispetto alle accuse che gli vengono contestate e, inoltre, non c’è stata alcuna volontà da parte dei giudici di voler tener presente le prove fornite dalla difesa. Sostengo Luigi Crespi nella sua decisione di intraprendere lo sciopero della fame per attirare l’attenzione sul caso di Ambrogio, essendo il tema della legalità e della giustizia la vita per i Radicali non potrei fare altrimenti. Io stessa, fra l’altro, sono al ventunesimo giorno di sciopero della fame per chiedere al governo l’amnistia e l’indulto”. “Il mio obiettivo - conclude la Bernardini - non è poi tanto diverso da quello di Luigi: condivido a pieno la sua battaglia per far rientrare l’Italia nello stato di diritto. Per questo ho deciso di lottare con Luigi e con tutta la famiglia di Ambrogio Crespi”. Per la liberazione di Ambrogio Crespi è stato aperto un blog www.ambrogiocrespi.it su cui è possibile firmare una petizione online. Giustizia: carcere ai giornalisti, l’Europa preoccupata per la situazione italiana di Francesco Grignetti La Stampa, 15 novembre 2012 L’ultimo tentativo “in articulo mortis” spetta a Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello: per salvare Sallusti dal carcere, e per salvare la faccia in Europa, cercheranno di mettere una pezza allo strappo di due giorni fa, quando una maggioranza senza volto di 131 senatori ha votato per ripristinare il carcere peri giornalisti. Gasparri ha un diavolo per capello: “Sia chiaro che io non ho votato per il carcere. Non ero e non sono d’accordo. Detto questo, il voto c’è stato e non lo posso stracciare”. Ed ecco la modifica escogitata dal capogruppo del Pdl: lasciare il carcere per i giornalisti e toglierlo ai direttori; per questi ultimi, in caso di diffamazione dovuta non da un loro articolo ma da un “omesso controllo”, resterebbe esclusivamente la multa. Eppure la strada del ddl, a questo punto, come ammette lo stesso Gasparri, è “impervia”. Meglio sarebbe dire che il ddl Diffamazione è virtualmente deceduto. E non è un male, vista l’accoglienza che il voto ha avuto fuori dai confini. “Sto seguendo il dibattito in corso al Senato con grande preoccupazione”, dice dal Consiglio d’Europa il commissario per i diritti umani, Nils Muiznieks. Muiznieks ricorda bene che s’è partiti dall’ipotesi di una legge che superasse quello che in Italia il codice penale prevede fin dal 1948 e che depenalizzasse la diffamazione “portando così l’Italia in linea con gli standard del Consiglio d’Europa”. Secondo gli standard europei, infatti, i giornalisti “non devono andare in carcere per le notizie date, e la diffamazione dovrebbe essere sanzionata solo attraverso misure proporzionate previste nel codice civile”. E invece, a sorpresa, il Senato ha rovesciato il tavolo. “Malauguratamente - conclude Muiznieks - adesso sembra che la nuova legge mantenga in vigore la possibilità della prigione per i giornalisti. Un grave passo indietro per l’Italia, che peraltro invierebbe un messaggio negativo ad altri Paesi europei in cui la libertà dei media è seriamente minacciata”. Un voto sorprendente. La ministra Paola Severino lancia un appello: “Il mio auspicio è che possa riprendere il dibattito parlamentare che porti a un consolidamento della linea dell’esclusione del carcere”. Invita a bilanciare: “Da una parte il diritto-dovere di informare e dall’altra il diritto di riparazione, come la rettifica”. Il Pdl si dibatte ora tra la tenaglia dell’Europa, e l’incudine dell’insurrezione dei giornalisti. Ma anche la Lega si trova a fronteggiare una certa inquietudine interna. Il segretario comunale di Ravenna, Luciano Fosci, si è dimesso per protesta: “Penso che combattere la diffamazione della carta stampata con il carcere sia una lesione grave della democrazia e della libertà di pensiero. Mi chiedo se non sia una sorta di punizione visto l’esposizione delle malefatte sbattute in prima pagina”. Il Pd è ormai convinto che non se ne farà niente. “Credo che non sia accettabile una pena di questo tipo. Non posso dimenticare però che il buon nome dei cittadini deve essere preservato”, commenta Pier Luigi Bersani. E intanto è scontro rusticano tra Francesco Rutelli e Franco Siddi, il segretario della Fnsi. Siddi: “Come un colpo di lupara”. Rutelli: “Intimidazione. Gli è scappata la frizione. Spero che oggi qualcuno prenda posizione contro questo linguaggio. Sono dichiarazioni gravissime”. Giustizia: Alessandro Sallusti; spero di andare in carcere… mi riposerò Dire, 15 novembre 2012 Meglio il carcere che i domiciliari. La pensa così il direttore de “Il Giornale” Alessandro Sallusti, che oggi a “Un Giorno da Pecora”, su Radio2, ha raccontato ai conduttori Sabelli Fioretti e Lauro le sensazioni riguardo quello che dovrebbe essere il suo imminente arresto. “Spero di andare in carcere, se mi hanno condannato immagino che ci andrò”, ha esordito Sallusti. Quando accadrà? “In una data imprecisata tra questo sabato e il prossimo, anche se la procura di Milano vorrebbe non accadesse”. Potrebbe comunque richiedere l’affidamento ai servizi sociali o agli arresti domiciliari? “Entrambe le soluzioni presentano dei problemi: la prima perché io non mi faccio rieducare da nessuno, la seconda perché passare un anno e quattro mesi in casa è una condanna ben peggiore del carcere”. Dove dovrà presentarsi? “A San Vittore”. Cosa porterà con sé in cella? “Il pigiama no perché non lo uso”. Porterà dei libri? “No nemmeno”. E cosa farà in galera? “Mi riposerò, dormirò”. Oggi ripubblicherebbe il pezzo incriminato? “L’articolo non era pieno di bugie, aveva una inesattezza e non era infamante. Non ho fatto nessuna rettifica perché non mi è stata chiesta, nemmeno dal magistrato”. Chiederebbe scusa a chi si è sentito infamato da quell’articolo? “No, perché devo chiedere scusa? Nessuno ha chiesto la smentita o mi ha chiesto di fare le mie scuse. È stata mandata solo una precisazione” ad un’agenzia che “Libero” non aveva, quindi non poteva saperlo”, ha ribadito a Radio2 il direttore de “Il Giornale”. Sardegna: in arrivo 180 detenuti in regime di 41-bis ed altri 600 dell’Alta Sicurezza di Anthony Muroni L’Unione Sarda, 15 novembre 2012 Roberto Calogero Piscitello ha rassicurato tutti: “Non c’è alcun rischio di infiltrazione di organizzazioni criminali sul territorio sardo”. L’arrivo del direttore generale del settore Detenuti e trattamenti del ministero della Giustizia Roberto Calogero Piscitello faceva, già da solo, presupporre che l’occasione fosse importante. E, infatti, martedì nella scuola di Polizia penitenziaria di Monastir sono iniziati i corsi di formazione del personale che dovrà essere impiegato nelle nuove strutture di Uta, Massama, Bancali e Nuchis. Nuovi carceri e nuove esigenze con le quali occorrerà confrontarsi sin da subito. Incontrando gli agenti, infatti, il direttore generale ha ufficializzato una decisione che era nell’aria da settimane, sin dalla prima denuncia pubblica del parlamentare del Pdl Mauro Pili. Arrivano i mafiosi. “A Uta arriveranno 90 detenuti in regime di 41 bis e altrettanti saranno destinati al carcere sassarese di Bancali”. Ma c’è di più: altri 400 detenuti classificati “Alta Sicurezza 3” (tra loro anche qualche sardo) sarà invece destinato a Massama e Nuchis. Il direttore generale, che ha parlato anche di un confronto costante e di un sostanziale accordo con i rappresentanti sindacali degli agenti della Polizia penitenziaria, avrebbe anche smentito l’esistenza di pericoli di contaminazione mafiosa: “L’economia sarda non è certo appetibile per gli investimenti delle organizzazioni criminali e ogni rilevamento statistico fin qui effettuato ci ha detto che non c’è stato aumento di reati nelle zone di detenzione dei carcerati in regime di 41 bis”. La denuncia. Della situazione dei detenuti nei penitenziari sardi ha parlato ieri la presidente dell’associazione “Socialismo, diritti, riforme” Maria Grazia Caligaris: “In Sardegna nei 12 istituti penitenziari sono ristrette 2.118 persone (52 donne) rispetto a 2.007 posti letto; 901 sono stranieri e 470 in attesa di giudizio; 215 non sono ancora comparsi davanti a un Gip mentre i definitivi sono 1.629. Dati diffusi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e si riferiscono alla situazione del 31 ottobre 2012”. Carceri affollate. L’ex consigliera regionale fa notare anche che “ciò che rende invivibile la permanenza dentro le strutture penitenziarie dell’Isola è la distribuzione nei singoli istituti. Nel carcere di Buoncammino a Cagliari convivono oltre 530 detenuti (345 è invece la capienza regolamentare). Un sovraffollamento reso ancora più difficile trattandosi di una struttura risalente alla fine dell’800, che non consente di svolgere adeguate attività. Non solo, l’eccessivo numero di carcerati sta portando al collasso la dotazione dei beni indispensabili: reti e materassi usurati hanno bisogno di esser rinnovati e talvolta mancano le lenzuola. La situazione è così difficile che sempre più spesso sono investite del problema le associazioni di volontariato. Non è raro che qualche detenuto rinunci al materasso perché sfondato”. Le carenze. Problemi vengono segnalati anche a proposito degli organici nei Tribunali: “È evidentemente insufficiente - ha concluso la Caligaris - il numero dei magistrati di sorveglianza. Gli uffici inoltre devono soddisfare le richieste derivanti dall’accesso alla legge “svuota carceri”, con una serie di passaggi burocratici che non alleggeriscono il numero dei cittadini ristretti e moltiplicano il lavoro dei magistrati e degli assistenti sociali. Risulta quindi fondamentale sia ridurre i tempi di attesa della prima sentenza sia creare condizioni di vivibilità dentro gli istituti”. Emilia Romagna: Garanti Detenuti e Infanzia incontrano nuovo Capo Giustizia Minorile Ristretti Orizzonti, 15 novembre 2012 La Garante regionale per le persone ristrette, Desi Bruno, e il Garante regionale per l’Infanzia e l’adolescenza, Luigi Fadiga, hanno incontrato a Roma Caterina Chinnici, nuovo capo del dipartimento per la Giustizia minorile del ministero della Giustizia. Scopo dell’incontro, una valutazione degli istituti e dei servizi facenti capo al Centro Giustizia minorile di Bologna, perché possano garantire a tutti i minori dell’area penale, tanto interna quanto esterna, il rispetto dei diritti previsti dalla Convenzione dei Diritti del Fanciullo e dagli altri strumenti internazionali in materia di minorenni privati della libertà. I Garanti hanno espresso la loro “viva preoccupazione” per la situazione dell’Istituto Penale per i minorenni di Bologna, dove non sono ancora terminati i lavori di ristrutturazione ed è ancora aperto, benché inattivo, il relativo cantiere. Ciò preclude ai ragazzi la fruizione degli spazi esterni, con forte compromissione del diritto allo sport, al gioco ed alle altre attività ludiche o formative possibili all’esterno. Finché perdura questa situazione, è augurabile che il numero dei ragazzi sia ridotto al minimo. I Garanti hanno dato atto dei positivi sforzi compiuti dal nuovo direttore dell’Istituto, che ha dovuto affrontare una situazione difficile. Hanno osservato però che nel corso della loro ultima visita, avvenuta nelle ore pomeridiane, la maggior parte dei ragazzi era in cella senza svolgere alcuna attività; che le celle sono a quattro o cinque letti ed appaiono trascurate e con i muri di recente imbiancati ma già pieni di scritte, che l’insieme dalla struttura ha una forte connotazione carceraria, dove risulta privilegiata la sicurezza sulla risocializzazione e sul rispetto dei diritti-doveri. Quanto al personale, i Garanti hanno raccomandato al Capo dipartimento che la polizia penitenziaria a contatto con i ragazzi sia dotata di specifiche attitudini e preparazione, capace di rispettare i diritti e di far rispettare i doveri dei minori ristretti. Il Centro di pronta accoglienza è apparso in condizioni molto buone, idoneo a garantire ai minorenni arrestati o fermati un impatto non violento e corretto con la struttura, nell’attesa dell’interrogatorio da parte del Gip. Per l’area penale esterna già esiste una buona interazione tra Ufficio di Servizio sociale per i minorenni e servizi dei Comuni e delle Asl. Sarebbe auspicabile da parte della Magistratura un maggiore ricorso alla sospensione del processo con messa alla prova. Infine, Desi Bruno e Luigi Fadiga hanno prospettato l’opportunità di valutare ubicazioni alternative al grande e sproporzionato complesso edilizio di via del Pratello, cercando accordi con il Comune e l’Università o altre istituzioni cittadine, al fine di offrire agli istituti e servizi facenti capo al Centro Giustizia minorile di Bologna una sede più funzionale e più rispettosa dei diritti dei minori. Da parte sua, Caterina Chinnici ha affermato di condividere la valutazione preoccupata dei Garanti, pur sottolineando i segnali positivi conseguenti alla nuova direzione del Centro Giustizia Minorile e dell’Istituto penale. Ugualmente condivide l’urgenza che i lavori del cantiere abbiano termine, e a tale scopo ha in programma un incontro col Provveditore Opere Pubbliche. Durante la sua visita all’Istituto, avvenuta senza preavviso, ha trovato le celle in buone condizioni e un clima generale positivo. Per quanto riguarda il personale di polizia penitenziaria, sono in corso procedimenti disciplinari dei quali è necessario attendere l’esito. Chinnici ha poi detto di condividere le prospettive di superamento della comunità ministeriale anche attraverso una maggior collaborazione con la Regione e con gli enti locali, e manifesta interesse per una ubicazione alternativa degli istituti e servizi facenti capo al ministero della Giustizia. Il Capo dipartimento Giustizia minorile ha poi preannunciato un incontro, a Bologna, nel quale saranno coinvolti tutti i soggetti istituzionali interessati al problema dei minori dell’area penale, compresi i due Garanti regionali. Salerno: detenuto di 58 anni muore in ospedale, oggi l’autopsia disposta dal magistrato di Luigi Colombo La Città di Salerno, 15 novembre 2012 È morto nella sezione detenuti dell’ospedale “Ruggi” di Salerno il 58enne Carmine Todesco di Montercovino Rovella, dove era stato ricoverato per un intervento. Un decesso avvenuto per cause ancora non chiare. Tant’è che il pubblico ministero, immediatamente informato dell’accaduto, ha disposto l’autopsia sul corpo dell’uomo per fare luce sulla vicenda. Incarico che è stato affidato al medico legale Giovanni Zotti che con ogni probabilità nella stessa giornata di oggi procederà con l’esame nella sala mortuaria dell’ospedale di via San Leonardo. Todesco era ricoverato da quattro giorni nella sezione detentiva in attesa di un banale intervento chirurgico. Non soffriva, da quanto si apprende, di particolari patologie. Nella tarda serata di martedì ha accusato un malore e subito sono stati allertati i medici dagli agenti della polizia penitenziaria, cui è affidato il delicato compito di sorvegliare i detenuti ricoverati. Purtroppo per lui non c’è stato nulla da fare. Dell’episodio è stata immediatamente informata la procura della Repubblica. Il pm di turno, com’è prassi nei casi di decessi di persone sottoposte alla detenzione carceraria, ha deciso di disporre un esame autoptico per stabilire con esattezza la causa della morte ed accertare eventuali responsabilità nell’accaduto. È toccato al suo legale, l’avvocato Maurizio De Feo, il triste compito di avvertire la famiglia dell’uomo della morte del loro congiunto. Tedesco sarebbe dovuto uscire dal carcere nei prossimi mesi. Scontava una pena per reati contro il patrimonio. L’ultima volta fu arrestato nel settembre dello scorso anno dai carabinieri perché sorpreso a rubare biciclette da corsa del valore complessivo di circa 3mila euro. Si tratta in ogni caso di un episodio che mette evidenza nuovamente la difficile situazione dei carcerati. L’ultimo episodio in ordine di tempo che ha destato allarme è accaduto nelle scorse settimane, quando due detenuti furono ricoverati d’urgenza sempre al “Ruggi” per una sospetta overdose. Anche in questo caso furono gli agenti della penitenziaria ad accorgersi dei due distesi sul pavimento della loro cella privi di sensi. Il direttore del carcere ha avviato un’indagine interna sull’accaduto, anche perché i due erano rinchiusi nella sezione dedicata ai tossicodipendenti. Nonostante ciò riuscirono a procurarsi della droga, probabilmente eroina, e consumarla senza essere notati. Di droga, all’interno della struttura carceraria di Fuorni, ne era già circolata in passato. In quest’ultimo caso, si sospetta che possa essere stata fatta passare grazie ai parenti di altri detenuti che sono riusciti in qualche modo ad eludere i controlli di sicurezza. Sull’episodio il deputato dei Radicali Rita Bernardini ha anche presentato un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia Paola Severino Sanremo (Im): detenuto ucciso da emorragia interna, ma i familiari denunciano pestaggio Agi, 15 novembre 2012 Sarebbe stata una emorragia gastrointestinale, conseguente a un’ulcerazione dello stomaco, a uccidere, ieri, nel carcere di Valle Armea, a Sanremo, Sami Bernini Amor, algerino di 28 anni. È quanto si apprende dopo l’effettuazione dell’esame autoptico sulla salma del giovane dal medico legale Alessandro Zacheo. Sempre secondo quanto si apprende l’esame diagnostico ha tolto ogni dubbio su altre ipotesi di decesso. I familiari denunciano “aveva lividi sul corpo”, smentite dal carcere Tensioni si sono verificate, stamani, alla camera mortuaria di Sanremo, dove è in corso l’autopsia nei confronti di Sami Bernini Amor, 28 anni, deceduto ieri in carcere a Valle Armea, ufficialmente per un attacco di cuore, anche sei i familiari sostengono che sia stato picchiato, perché la salma presentava parecchi lividi. Stamani un nutrito gruppo di connazionali della giovane vittima ha dato in escandescenze, fuori dalla camera mortuaria, rendendo necessario l’intervento di diverse pattuglie della polizia e dei carabinieri, per il mantenimento dell’ordine pubblico. È stata anche danneggiata a pugni una porta dell’obitorio. I familiari del giovane - in particolare la fidanzata - sono convinti che quest’ultimo sia stato picchiato. La verità su quanto accaduto si saprà soltanto all’esito della perizia autoptica. Il direttore del carcere Francesco Frontirré, afferma quanto segue: “Non aveva alcun livido addosso, c’erano anche i medici che lo hanno visitato. Ieri ho assistito alla posa dentro la bara del giovane e non mostrava segni di percosse. Se, poi, quei lividi siano consequenziali alla morte o al massaggio cardiaco praticato per circa quaranta minuti è un altro paio di maniche. Lividi, dunque, dovuti ai soccorsi e non certamente alle percosse”. Sappe: tossicodipendenti hanno bisogno di cure piuttosto che di reclusione È morto in cella a Sanremo per un malore un detenuto tossicodipendente. Aveva 28 anni, era algerino ed era in carcere per reati connessi alla tossicodipendenza. “Un’ennesima tragedia che deve fare riflettere. Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe è fermamente impegnato per incrementare l’utilizzo del ricorso alle misure alternative al carcere delle persone tossicodipendenti recluse”. Lo dichiara Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Nelle carceri italiane - prosegue Martinelli - più del 25% circa dei detenuti è tossicodipendente ed anche il 20% degli stranieri ha problemi di droga. Nonostante l’Italia sia un Paese il cui ordinamento è caratterizzato da una legislazione all’avanguardia per quanto riguarda la possibilità che i tossicodipendenti possano scontare la pena all’esterno, i drogati detenuti in carcere sono tantissimi. La legge prevede che i condannati a pene fino a sei anni di reclusione, quattro anni per coloro che si sono resi responsabili di reati particolarmente gravi, possano essere ammessi a scontare la pena all’esterno, presso strutture pubbliche o private, dopo aver superato positivamente o intrapreso un programma di recupero sociale. Nonostante ciò queste persone continuano a rimanere in carcere. Noi riteniamo sia invece preferibile che i detenuti tossicodipendenti, spesso condannati per spaccio di lieve entità, scontino la pena fuori dal carcere, nelle Comunità di recupero, per porre in essere ogni sforzo concreto necessario ad aiutarli ad uscire definitivamente dal tragico tunnel della droga e, quindi, a non tornare a delinquere. I detenuti tossicodipendenti sono persone che commetto reati in relazione allo stato di malattia e quindi hanno bisogno di cure piuttosto che di reclusione”. Marsala (Tp): Camera Penale scrive Napolitano: “chiusura del carcere in controtendenza” La Sicilia, 15 novembre 2012 “Un intervento estremo, prima di subire quella che riteniamo un’ingiustizia”. È così che il presidente della Camera Penale, avvocato Diego Tranchida, commenta l’iniziativa di inviare una lettera aperta al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per chiedergli di intervenire con urgenza per evitare la chiusura delle carceri di Piazza Castello, decisa con un decreto del maggio scorso dal Ministero della Giustizia, contestato da alcune interrogazioni parlamentari e che ha già provocato la perdita di alcuni posti di lavoro. “Nei giorni della proclamata emergenza carceraria e dello stato di quotidiana illegalità in cui si trovano i detenuti in Italia - scrive Tranchida - il Ministro della Giustizia ha deciso di chiudere il carcere di Marsala sol perché i costi non coprono i benefici, non per sovraffollamento o per emergenza. E ciò, proprio ora che appare necessario utilizzare ogni struttura penitenziaria, anche la più piccola, per non aggravare la drammaticità del sovraffollamento e i costi umani. Proprio ora che alla città è stata risparmiata la chiusura del suo Tribunale. Si confida, pertanto, in un suo adeguato intervento per scongiurare la definitiva chiusura della Casa Circondariale”. A intervenire è anche il neo rieletto deputato all’Ars Baldo Gucciardi, che sottolinea come tutto stia avvenendo nonostante i rilievi giunti in questi mesi da più parti sull’insostenibilità del provvedimento, sia dal punto di vista dell’affollamento carcerario, sia per ciò che riguarda i disagi causati ai tanti operatori costretti a trasferimenti di sede difficilmente conciliabili con la delicatezza e le difficoltà del servizio svolto. “Risulta inspiegabile la chiusura di una casa circondariale senza la previsione di nuove strutture, alla luce del dramma che in Italia è rappresentato dal sovraffollamento delle carceri - scrive Gucciardi - e quello marsalese risulta l’unico carcere siciliano ad essere soppresso. Ho già inviato una nota al ministro della Giustizia, al Presidente della Regione e al responsabile nazionale Giustizia del Pd, affinché si individuino percorsi che ne consentano il rilancio”. Intanto al carcere tre persone hanno perso il lavoro: gli infermieri a parcella Vito Pantaleo ed Anna Culcasi e il 60enne Vito Pipitone, impiegato della ditta I.A.S. Morgante Srl di Trieste, che curava la fornitura del vitto ai detenuti. “Il 6 novembre - dice - è stato il mio ultimo giorno di lavoro, dopo 13 anni di attività al carcere per la mensa. Alla mia età che speranze ho di trovare un’altra occupazione?”. Reggio Calabria: detenuti a confronto con magistrato e familiare di vittima della mafia di Mario Nasone Ristretti Orizzonti, 15 novembre 2012 Quasi tre ore di confronto serrato, a volte duro, carico di emotività e di momenti di forte emozione. È con questo stato d’animo che è stato vissuto il secondo incontro al carcere di Reggio promosso dal Centro Servizi al Volontariato, dal Tribunale di Sorveglianza e dalla Casa Circondariale, sui temi del reato, della pena e della giustizia riparativa. Un incontro per certi versi anomalo tra detenuti - la maggior parte ancora in attesa di giudizio - con un Pubblico Ministero, Stefano Musolino, titolare di diverse inchieste in corso sulla criminalità organizzata, inchieste che vedono coinvolti anche diversi soggetti ristretti proprio nel carcere di Reggio. Incontro anche con un familiare di vittima della ndrangheta, il figlio Antonio del Maresciallo della Polizia penitenziaria Filippo Salsone di Brancaleone barbaramente ucciso nel 1986 mentre dal carcere di Reggio rientrava a Brancaleone con la sua famiglia. L’incontro si è aperto con le introduzioni dell’educatore Emilio Campolo, del Presidente del Csv Mario Nasone, e del Direttore Maria Carmela Longo che hanno sottolineato la valenza formativa degli incontri programmati tesi a favorire una crescita culturale ed una maggiore consapevolezza sulle scelte di vita che ogni detenuto è chiamato a fare per sé e per la propria famiglia. Antonio Salsone ha espresso la sua emozione di ritrovarsi tra le “mura amiche” del carcere dove veniva con la madre a trovare il padre, un uomo che ha definito “persona normale”, un fedele servitore dello Stato che sapeva che sarebbe stato ammazzato ,ma che non ha desistito fino all’ultimo dal suo dovere di fare rispettare nelle carceri la legalità e le regole della legge contro chi voleva esercitare soprusi ed intimidazioni. Ha raccontato ai detenuti la vicenda del padre con una serenità che ha colpito profondamente i detenuti affermando che come famiglia non hanno mai nutrito sentimenti di rancore e di vendetta, anche se tutt’oggi continuano a chiedere giustizia ed in particolare che gli autori dell’omicidio di Filippo Salsone, ancora sconosciuti, siano individuati e processati. Crede nella funzione rieducativa della pena e del dovere dello Stato di offrire una seconda chance a chi ha sbagliato. Ai detenuti, nel rispetto di quello che sarà per ognuno la conclusione dell’iter processuale, ricorda che prima di arrivare alla giustizia riparativa è necessario riconoscere l’errore, la rottura del patto di legalità con lo Stato distrutto con la commissione del reato, riscoprire i valori autentici della vita e poi sarà possibile avviare un percorso di riconciliazione. In questo percorso i familiari delle vittime possono svolgere un ruolo importante per aiutare con la loro testimonianza a ricomporre queste fratture. Il confronto con Stefano Musolino, Magistrato della Dda della procura di Reggio Calabria, è stato più acceso e vibrante, risentendo ovviamente della sofferenza e della rabbia di chi vive una condizione di imputato e di carcerazione preventiva spesso non accettata e chiede efficienza, rapidità ed equità alla Magistratura inquirente. Il Magistrato non si è sottratto al confronto, pur non potendo ovviamente entrare nel merito delle singole vicende processuali, riconoscendo che errori giudiziari sono sempre possibili ma che il nostro sistema giudiziario è garantista. Ha esordito in modo diretto parlando da reggino ai reggini, mettendo il dito in quella che rappresenta la vera piaga della nostra comunità: la ndrangheta. Ha ricordato che anche Lui come reggino ha vissuto il dramma dei morti ammazzati che vedevi uscendo di casa, ha visto le ferite che drammaticamente hanno segnato in questi anni la città e la provincia fino ad arrivare addirittura agli scioglimenti dei Comuni per mafia. Al di là delle responsabilità personali di ogni detenuto ha chiesto di riconoscere che nel nostro territorio c’è un problema ndrangheta, un fenomeno che impedisce investimenti produttivi nella nostra terra, la possibilità di fare libera impresa e quindi di garantire un futuro di lavoro nella legalità anche ai loro figli. Di fronte ad una città che sta andando alla malora ognuno si deve porre la domanda: cosa posso fare io? A chi tra i detenuti contestava come l’associazione mafiosa sia diventato il capo d’imputazione che oggi si attribuisce con estrema facilità ha chiesto che l’unica strada per evitare questo è quella di rifiutare il rapporto con il mafioso, anzi il mafioso deve diventare il mio nemico, da lui devo stare lontano. Provocatoriamente ha affermato che il mafioso è peggio del pedofilo che in carcere viene invece emarginato e disprezzato. Che vi sono tanti malati di ndrangheta proprio per questo rapporto di vicinanza che contagia negativamente. Nel dibattito è emerso anche il tema dei figli dei mafiosi, uno di questi prendendo la parola ha chiesto cosa deve fare per riscattarsi uno come lui che porta un nome pesante e quindi anche il rischio concreto di essere perseguito dalla legge per questa appartenenza. Il Magistrato ha riconosciuto la difficoltà di chi vive questa condizione, ma ha chiesto anche a loro di fare una scelta, di prendere le distanza dal modello di vita del padre, di tenersi lontano dai meccanismi della vita mafiosa e di sperimentare percorsi esistenziali di vita alternativi. Tanti lo hanno fatto e quindi è possibile. Riconosce che lo Stato deve fare di più per offrire opportunità a chi si vuole redimere. Ha ricordato infine che come Associazione Magistrati recentemente hanno visitato il carcere per conoscere meglio le condizioni di vita della popolazione penitenziaria ed ha assicurato il loro impegno ad essere vicini al carcere ed a sostenere i programmi di recupero sociale e lavorativo che si decideranno. Concludendo i lavori Mario Nasone ringraziando i detenuti per la partecipazione attiva all’incontro ha espresso l’auspicio che il l’incontro porti frutto in ognuno dei presenti per potere insieme sperare e costruire un futuro diverso per la nostra comunità nel segno della legalità, della giustizia sociale partendo dall’assunzione delle proprie responsabilità personali. Firenze: 200 detenuti parteciperanno a una gara podistica all’interno di Sollicciano Redattore Sociale, 15 novembre 2012 Saranno circa duecento, per lo più uomini, i detenuti del carcere di Sollicciano che nella mattinata di lunedì prossimo daranno vita alla prima corsa podistica che si correrà all’interno dell’istituto penitenziario fiorentino. Il progetto è stato ideato dall’associazione sportiva Gs Le Torri insieme al Quartiere 4 del comune di Firenze e alla Casa circondariale e sostenuta dalla regione. La gara si svolgerà all’interno del carcere, dunque al chiuso, sfruttando un percorso di circa 3,5 chilometri. La gara maschile si svolgerà intorno alle 9.30 sulla distanza di 7 chilometri (due volte il percorso), le donne correranno su 3,5 chilometri. Tutti i partecipanti indosseranno pettorine numerate. Regolarità della gara e correttezza del comportamento dei concorrenti saranno controllate da giudici Uisp. L’associazione Le Torri si è recata all’interno del carcere per incontrare i detenuti e dare loro qualche suggerimento di base su allenamenti e alimentazione. “Applicare il valore dello sport in un contesto così difficile come il carcere - ha detto l’assessore regionale allo sport Salvatore Allocca - è fondamentale perché lo sport è emancipazione, relazione, amicizia. Speriamo che questa iniziativa sperimentale possa diventare lo spunto per crearne altre, in campo sportivo e non. E speriamo anche di poter essere in grado di contribuire in maniera più importante alla loro organizzazione”. Immigrazione: Spigarelli (Ucpi); Cie una bruttura da eliminare, 18 mesi sono una follia Adnkronos, 15 novembre 2012 I Cie, Centri di Identificazione ed Espulsione per immigrati sono “una bruttura da eliminare”. Lo sottolinea Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, ospite dei Dibattiti Adnkronos. Con una delegazione dell’Ucpi, Spigarelli ha visitato il Cie di Gradisca. “Quello che ho visto lì non l’ho visto in molte carceri. L’immagine è quella dello zoo di Roma, dove ci sono le tigri in gabbia e poi hanno a disposizione un giardinetto di cemento dove possono stare un po’ a prendere il sole. Non so se altri Cie siano nelle medesime condizioni, ma è semplicemente una bruttura da eliminare”. “Io mi rendo conto - aggiunge Spigarelli - che c’è un problema di controllo degli immigrati clandestini, pero quella è una pena più afflittiva della pena detentiva. Siccome non è detenzione, non ci sono neppure i benefici della detenzione. In carcere, se ti comporti bene, hai perlomeno la speranza di avere la liberazione anticipata. Che tu ti comporti bene o male, non cambia nulla, rimani lì fino a 18 mesi. Il controllo - conclude - deve essere fatto rispettando i diritti umani e soprattutto facendo in modo che non si sconti una pena iper afflittiva senza aver commesso reati. E 18 mesi sono troppi, sono una follia”. Droghe: Consulta; “ex Cirielli” incostituzionale, in reati lievi attenuante prevale su recidiva Ansa, 15 novembre 2012 Nei giudizi sui reati “di lieve entità” relativi al traffico e alla detenzione di droga, è illegittimo che le attenuanti non possano prevalere sulla recidiva. Lo ha stabilito la Consulta che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 69, quarto comma, del codice penale nella parte in cui vieta che prevalgano sulla recidiva le attenuanti previste nel testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti, prevenzione, cura e riabilitazione delle tossicodipendenze. L’art. 69 del Codice Penale riguarda il concorso di circostanze aggravanti, attenuanti e recidiva. A rivolgersi alla Corte Costituzionale lamentando la violazione degli articoli 3, 25 e 27 della Costituzione, è stato, il 24 ottobre 2011, il Tribunale di Torino nell’ambito di un giudizio abbreviato nei confronti di una persona accusata di avere illegalmente detenuto e ceduto 0,40 grammi di cocaina. All’imputato è contestata la recidiva reiterata, avendo subìto quattro condanne per fatti commessi dall’ottobre del 2006 al febbraio del 2010, relativi a vari episodi di cessione illecita di stupefacenti. Il Tribunale di Torino sostiene che valgano le attenuanti previste dall’art. 73, comma 5, del testo unico in materia di stupefacenti: scarso quantitativo della droga, prezzo di vendita irrisorio, imputato in condizioni di vita difficili e che ha lealmente ammesso l’addebito. E ritiene che la norma censurata sia in contrasto con il principio di uguaglianza perché “conduce, in determinati casi, ad applicare pene identiche a violazioni di rilievo penale enormemente diverso”. La Consulta con la sentenza n. 251 depositata oggi, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, ha sostanzialmente accolto quest’impostazione. Birmania: amnistia per 452 detenuti, ma nessun prigioniero politico verrà rilasciato Agi, 15 novembre 2012 Il governo birmano ha amnistiato 452 prigionieri come gesto di buona volontà alla vigilia della storica visita di lunedì prossimo del presidente Usa, Barack Obama. Non è chiaro, dicono attivisti e il principale partito d’opposizione, se tra coloro che saranno rimessi in libertà ci saranno anche detenuti politici. Secondo una fonte del ministero dell’Interno, ci potrebbero essere alcun “prigionieri di coscienza”. Obama è il primo presidente americano a visitare il Myanmar, l’ex Birmania, un segno tangibile dell’appoggio statunitense alla politica riformista adottata dal governo succeduto alla giunta militare; un riconoscimento che però, secondo alcuni, è arrivato troppo presto, considerato il gran numero di prigionieri politici ancora dietro le sbarre e l’incapacità del governo di evitare i sanguinosi scontri etnici tra buddisti e la minoranza musulmana nello stato Rakhine, lo scorso mese. Il presidente Thein Sein ha assunto le redini del Paese nel marzo 2011 alla guida di un governo civile, ancora composto però in massima parte da militari legati al regime militare. Da allora sono stati liberati, circa 700 birmani - secondo i dati dell’Associazione per l’Assistenza ai Prigionieri politici - condannati per attivismo politico. La principale formazione dell’opposizione, La Lega Nazionale per la Democrazia guidata dalla Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, sostiene che circa 330 birmani, tra i quali anche membri del partito, rimangono dietro le sbarre per motivi politici. La visita ufficiale di Obama, che inizia lunedì, rientra nel tour che il presidente Usa farà dal 17 al 20 novembre nel sud-est asiatico e in cui toccherà anche Tailandia e Cambogia. Nessun prigioniero politico rilasciato Tra i 452 detenuti beneficiati oggi da un’amnistia in Birmania, non compare nessun prigioniero politico. Lo ha calcolato l’Aapp (Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici), un gruppo con sede in Tailandia, definendo il provvedimento “la peggiore amnistia vista finora”. Tra i prigionieri liberati “con l’intenzione di aiutare a promuovere la buona volontà e la relazione bilaterale” - la formula usata dai media statali - figurano anche 10 stranieri. Se davvero non verrà rilasciato nessun prigioniero politico, come finora è confermato anche dalla “Lega nazionale per la democrazia” di Aung San Suu Kyi, l’Aapp calcola che siano 283 i detenuti di coscienza ancora dietro le sbarre. La liberazione di nuovi prigionieri politici - dopo i quasi 800 rilasciati dal maggio 2011 - era attesa in vista della storica visita di Barack Obama, che il 19 novembre diventerà il primo presidente statunitense in carica ad arrivare in Birmania. Il viaggio - che porterà Obama anche in Tailandia e Cambogia - rientra nell’ambito della strategia del “perno sull’Asia”, anche in funzione di contenimento dell’influenza cinese nella regione. Washington ha costantemente chiesto il rilascio di tutti i rimanenti prigionieri politici. Nonostante tale risultato non sia ancora stato raggiunto, gli Usa hanno comunque già premiato le progressive aperture di Thein Sein sospendendo la maggior parte delle sanzioni economiche contro il Paese. Turchia: deputata curda Leyla Zana aderisce a sciopero fame detenuti Tm News, 15 novembre 2012 La deputata Leyla Zana, figura simbolica della lotta per i diritti dei curdi in Turchia, si è unita allo sciopero della fame lanciato due mesi fa da centinaia di detenuti curdi. “La signora Zana ha cominciato il digiuno nel suo ufficio in Parlamento” ha detto una delle collaboratrici della deputata all’Afp, sottolineando che l’iniziativa è a tempo “indefinito”. La deputata, 51 anni, potrebbe continuare la protesta nella sua circoscrizione elettorale di Diyarbakir, nel sud est dell’Anatolia a maggioranza curda, ha proseguito. Un altro importante deputato curdo, Ahmet Tark, ha detto al quotidiano Hurrieyt di aver tentato senza successo di dissuadere la Zana dallo sciopero della fame, “in ragione delle sue cattive condizioni di salute”. La deputata, che nel 1995 vinse il premio Sakharov per i diritti umani del Parlamento europeo, ha passato un decennio in carcere, dal 1994 al 2004, insieme ad altri tre ex deputati curdi, con l’accusa di collaborare con il Partito del lavoratori del Kurdistan, il Pkk, braccio armato della ribellione curda in Turchia. Prima della Zana, cinque altri deputati curdi, membri del partito filo curdo per la Pace e la Democrazia (Bdp), hanno iniziato uno sciopero della fame per attirare l’attenzione sulla sorte dei circa 700 detenuti curdi che rifiutano il cibo, alcuni di loro dal 12 settembre. Il governo di Ankara ha fatto un primo passo per tentare di fermare la protesta, depositando un progetto di legge che autorizza gli imputati curdi a usare la loro lingua madre per difendersi in tribunale. Ma l’apertura è stata giudicata insufficiente dai militanti della causa curda, che chiedono innanzitutto la fine dell’isolamento a cui è costretto il leader del Pkk in carcere Abdullah Ocalan, che sconta dal 1999 una pena all’ergastolo. Siria: avvocato diritti umani denuncia; oltre 100mila in carcere con accusa di terrorismo Aki, 15 novembre 2012 Sono “più di 100mila” i siriani che negli ultimi mesi sono stati trasferiti al Tribunale del terrorismo, una corte creata lo scorso luglio dal governo di Damasco e che ha sostituito i “tribunali straordinari”, ossia le corti marziali, basati sullo stato d’emergenza in vigore da decenni nel Paese. A lanciare l’allarme è l’avvocato Anwar al-Bunni, noto attivista per i diritti umani ed ex detenuto politico nelle carceri del regime del presidente Bashar al-Assad. “Secondo le ultime statistiche trapelate, che non sono certe, sono oltre 100mila i cittadini trasferiti al Tribunale per il terrorismo”, ha spiegato Bunni, che è anche presidente del Centro siriano per gli studi e le ricerche giuridiche. In molti casi, “agli avvocati non è permesso seguire i detenuti”, ha aggiunto Bunni, precisando che questo divieto vale anche per le donne. “La direzione del carcere femminile ha respinto la nostra richiesta di difendere un’imputata trasferita al Tribunale per il terrorismo”, ha rivelato. Bunni ha messo in evidenza che questo Tribunale “è esente da vincoli in base alla stessa legge che lo ha costituito”, esprimendo il suo rifiuto di “attribuire legittimità giuridica a un tribunale che questa legittimità non ce l’ha e nel quale sono assenti le condizioni per un processo giusto, ossia la neutralità, la trasparenza, la giustizia e il diritto alla difesa”. L’avvocato ha quindi ricordato che “la questione dei detenuti è motivo di grande sofferenza per i siriani e la loro liberazione è inscindibile dalla liberazione di tutti i siriani” dal regime. Pakistan: eseguita condanna a morte di un soldato, si interrompe moratoria dal 2008 Aki, 15 novembre 2012 Le autorità pakistane hanno eseguito una condanna a morte risalente a quattro anni fa ai danni di un soldato, Muhammed Hussain, condannato nel 2008 per aver ucciso un suo superiore. Si tratta della prima pena capitale eseguita in quattro anni in Pakistam. Il condannato è stato impiccato all’interno di un carcere nella provincia del Punjab all’alba di oggi dopo che erano state respinte la richiesta di grazia formulata al presidente Asif Ali Zardari nel dicembre 2011 e al capo di Stato maggiore Ashfaq Kayani. Con la sentenza odierna si interrompe quella che ormai era data come una moratoria di fatto delle esecuzioni capitali dal dicembre 2008. Negli ultimi anni, infatti, ogni tre mesi l’ufficio della presidenza pakistana diffondeva una lettera con la quale congelava le condanne a morte in corso. Gli attivisti per i diritti umani sottolineano come un elemento di criticità nel caso di Hussain sia stato il processo condotto da un Tribunale militare e che per questo il presidente Asif Ali Zardari non sia stato intenzionato a intervenire. Gli attivisti per i diritti umani hanno quindi espresso la loro preoccupazione per l’impiccagione, ammettendo che non è però chiaro se questo significa che il governo abbia deciso di abbandonare l’intenzione di abolire la pena di morte nel Paese. Pakistan: un uomo di 25 anni condannato a morte per insulti a Maometto e al Corano Agi, 15 novembre 2012 Un uomo di 25 anni è stato condannato a morte per blasfemia a Chitral, nel Pakistan nord-occidentale, prima sentenza capitale del genere da due anni dopo la vicenda analoga di Asia Bibi, una donna di fede cristiana e madre di cinque figli, riconosciuta colpevole nel novembre 2010 di aver espresso giudizi sprezzanti su Maometto, e tuttora in carcere in attesa del verdetto di appello. Nel marzo 2011, durante un alterco, il giovane Hazrat Ali Shah, appartenente alla minoranza sciita, avrebbe rivolto insulti al Profeta e al Corano. Arrestato, ha ricevuto la condanna dopo un anno e mezzo di processo, durante il quale sono state decisive le testimonianze di alcuni compaesani del suo villaggio, quelli con cui stava appunto litigando: prima di essere giustiziato, dovrà inoltre scontare dieci anni di reclusione.