È sempre più difficile in carcere trovare un appiglio per attaccarsi alla vita Il Mattino di Padova, 12 novembre 2012 Qualche giorno fa un giovane detenuto è morto nella Casa di reclusione di Padova per aver inalato del gas. C’è veramente un degrado senza precedenti oggi nelle carceri, ci sono troppe persone ammassate senza la possibilità di intravedere una speranza per il loro futuro. Già la carcerazione in condizioni "decenti" segna in ogni caso le persone, le logora nel corpo e nella mente, fiacca la loro voglia di reagire e di ritrovare un motivo per vivere, ma quando le condizioni di detenzione sono indecenti come in questi ultimi anni, spesso non si riesce a trovare nessun appiglio per attaccarsi alla vita: perché le giornate per la gran parte dei detenuti passano nell’ozio più distruttivo, e non ci sono operatori che li possano seguire, sono pochissimi gli educatori, ancora meno gli psicologi. A raccontare la galera dove si muore di disperazione è un detenuto che ha visto morire un suo compagno per quel gas col quale cercava forse di stordirsi, e una donna che invece ce l’ha fatta, ha trovato la forza di vincere la depressione e di sopravvivere a una esperienza come quella della detenzione, che rischia di essere devastante per chi non ha energie e risorse sufficienti per reagire di fronte alla disperazione, alla solitudine, all’abbandono. Un ragazzo che conosco è uscito dal carcere, ma ha dovuto pagare un caro prezzo È successo ancora. È morto un detenuto. Questa volta mi ha toccato da vicino, perché è successo nella stessa sezione dove sto scontando la mia pena. Lo conoscevo. Ho potuto constatare che dopo il "fatto" la monotonia ha ripreso il suo corso fra i detenuti ben prima di quanto potessi immaginare. Ho notato l’indifferenza generale, una forma di cinismo verso questi eventi che ormai si sta insinuando gradualmente sempre di più anche in noi detenuti. Ma questo non è del tutto vero, più che altro siamo "obbligati" a comportarci cosi. È il sistema: non ci permette di protestare, esprimere il nostro disagio, siamo costretti a reprimere i nostri pensieri, la nostra rabbia verso chi in un certo qual modo è corresponsabile per tutte queste morti in carcere. Questo ragazzo è morto a 26 anni. Si dice che forse non voleva uccidersi inalando il gas del fornelletto, ma solo "sballarsi". Io credo invece che voleva soltanto fuggire dalla tortura alla quale lo Stato lo aveva sottoposto perché trovato in possesso di sostanze stupefacenti. Quindi non si è ucciso, è stato ucciso. L’indomani qualcuno leggendo il giornale, un articoletto di poche battute, avrà pensato: "Un rifiuto della società in meno". Purtroppo questa è la verità, questo è quello che pensa tanta gente. A quella gente io vorrei far capire che se in Italia ci sono tanti di questi "rifiuti sociali" forse è anche colpa di chi dà il consenso a guidare il nostro Paese a persone che, con il loro modo di governare, stanno solo contribuendo a crearne sempre di più, di questi "rifiuti". E non solo ne creano sempre di più, ma li trasformano in "rifiuti pericolosi": perché se un individuo entra, magari per un piccolo furto, in un sistema carcerario come quello attuale, che non gli dà la possibilità di essere rieducato, allora quell’individuo uscirà peggio di prima, pieno solo di rabbia repressa. È lì che esce fuori il "rifiuto sociale pericoloso". Scrivo queste cose con cognizione di causa, perché è quello che è successo a me. Sono entrato la prima volta in carcere per un furto in appartamento… ora mi ritrovo qui per una serie di rapine. E per lo stato sono un individuo "socialmente pericoloso". Con questo non voglio discolparmi, perché so di meritare una condanna per i reati che ho commesso, ma qualcun altro forse ha qualche responsabilità, oltre a me. Direi quindi che attualmente le carceri italiane sono "fabbriche di mostri", strutture nelle quali le persone spesso vengono plasmate in modo talmente negativo, che nella maggior parte dei casi si trasformano, evolvendosi in veri e propri criminali. Andrea Z. In carcere ho rischiato di farmi sommergere dalla sofferenza Nel febbraio 2008, attraversando i numerosi cancelli di ingresso del carcere, non sentivo nulla. Né rabbia, né paura, né impotenza. Ero assente. Non volevo gridare, né piangere. Nei primi due anni di carcere non ho versato una lacrima. Quella stessa depressione di cui soffrivo in libertà in carcere diventava il mio pane quotidiano. Con una mano stringevo forte questa depressione e con l’altra mi imbottivo di psicofarmaci. Non ero nemmeno capace di fare un urlo di dolore quando aprivo la posta di mio figlio e le sue parole, i suoi disegni mi invitavano ad alzarmi dalla branda e a cominciare a camminare e lottare per la mia vita e la mia libertà, almeno quella della mia testa. Poi mi sono resa conto del messaggio che mio figlio voleva trasmettermi. Marcivo ancora in questa sofferenza, ma almeno il dolore mi invitava a scrivere. Quello che non potevo dire a nessuno a voce, lo scrivevo. Scrivevo poesie. Poi le rileggevo. Così mi sono resa conto che c’è tanto, tanto dolore in me. Con piccoli passi ho lasciato libere le lacrime e ho abbandonato piano piano la terapia. Ho abbandonato quel nido di sofferenza prendendo, come stampelle per iniziare un nuovo cammino, lavoretti banali come i giochi di bambini, e la mia esistenza così riprendeva a girare come un mulino. Più giravo, più trovavo la luce, e così sono riuscita a uscire dal mio torpore e ad arrivare alla finestra. Aggrappata a quelle sbarre ruggini non mi sono più sentita ristretta mentalmente, ma le ho strette bene tra le mani con tutta la mia forza e mi sono detta: voi non mi costringerete a essere chiusa, voi diventerete il mio trampolino e io riuscirò a salire in alto, e non scenderò più! Mi liberavo in questo modo ogni giorno di più dal passato e mi ripromettevo di essere un’altra. Questa mia lunga latitanza da me stessa si colmava ogni giorno con una nuova scoperta di me. Passati altri due anni e otto mesi mi sono ricostruita tutta, e quella donna che tempo prima era entrata in carcere depressa e sofferente e che non sapeva nulla di se stessa, l’ho seppellita tra quei muri. Non so come ho fatto, però ho capito che "Io" ora lo posso scrivere con la maiuscola. Nonostante sia appena uscita dal carcere, dove, si sa, le persone vivono compresse, posso dire di essermi sentita sempre, nonostante tutto, "libera" di poter conoscermi, e a questo di sicuro non hanno contribuito il carcere e la condizione di ristretta. Perché quel dolore che provi in carcere non fa altro che seppellirti dal primo giorno senza lasciarti spazio per respirare. Tutto quello che sono riuscita a fare è perché ho trovato la forza di alzarmi dal fango in cui vivevo. Ora quella donna che in carcere ha rischiato di farsi sommergere dalla sofferenza è rimasta "là" e io sono uscita tutta un’altra persona. Sorridevo, quando sono uscita dal carcere, guardando attorno a me e dritto avanti. Anche se ancora non riesco a vedere i miei figli, ho in tasca la voglia di lottare per loro come non ho mai fatto, e anche per me! La mia strada non si ferma qui. Tra le mani avrò tutta la mia vita, e mi resterà però il ricordo di quelle sbarre, tanto forte da non farmi dimenticare mai quella sofferenza! Luminita G. Tributo a Pier Cesare Bori, un uomo straordinario Ristretti Orizzonti, 12 novembre 2012 Che qualcuno possa scrivere finalmente un libro, che tutti possano leggere, in cui si insegni chi, dove, quando e perché ha fatto cose veramente buone per il carcere in questi anni. Pier Cesare Bori ha lavorato per allargare a tutti il confine dell’ethos, del silenzio riflessivo, portandoli in uno dei luoghi più improbabili. E lo ha fatto con una intelligenza, discrezione e naturalità eccezionali, rovesciando l’ottica imperante di tanti che, come scribi, rincorrono la visibilità ed i primi posti. Che sarebbe successo se molti di più avessero fatto altrettanto, invece che seguire le vie dello scontro e della provocazione. L’esperienza didattica svolta da Bori nella casa circondariale Dozza dall’ottobre del 1998, soprattutto con stranieri, privilegiava, paradossalmente, il silenzio come strumento di partecipazione vicendevole, la meditazione riservata come la più alta forma di comunicazione, armoniosa come una musica virtuale che, tuttavia, tutti potevano udire per accordarsi ad essa come componenti di un coro muto ma profondamente sincronico ed espressivo. È evidente come nell’inesauribile dibattito sul carcere e sul sistema penale si possano scorgere laceranti contraddizioni tra ciò che dovrebbe essere e ciò che di fatto viene realizzato dal sistema. Nel suo libro "L’idea di giustizia", Amartya Sen cita più volte Wittgenstein, sostenendo la tesi che un mondo più intelligente è senz’altro un mondo migliore, e che nella lotta per un mondo meno ingiusto dobbiamo riconoscere la pluralità delle domande di giustizia. Questa era una delle strade che Bori aveva percorso, individuando l’etica come fattore fondante, nel contempo domanda e risposta di giustizia, e nella "Regola aurea", l’antico principio presente in tante tradizioni "non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te", come il punto d’approdo di un percorso condiviso finale tra persone che, prima di tutto, si ascoltano tra loro. L’etica della responsabilità personale, del prendersi cura diventa così un esempio di relazione, un modello per reintrodurre la dignità nella società attraverso le azioni quotidiane e, contemporaneamente un potente fattore terapeutico di cambiamento. La profonda fiducia che esprimeva nell’essere umano lo spingeva a incontrare ciascuno per quello che è. Non basta amare l’umanità in generale, bisogna incontrarli uno ad uno, gli uomini, le donne. I suoi "Passi verso un ethos condiviso" sono diventati strada illuminante per i suoi tanti compagni di viaggio rimasti dietro le sbarre della Dozza, che lo hanno potuto fisicamente seguire, a volte, solo attraverso la fantasia o il sogno. La sua delicatezza, mista alla tranquilla forza che sapeva emanare, permettevano alle persone, anche le più diffidenti, di raccontarsi, e la sua straordinaria capacità relazionale lo guidava in questa delicatissima impresa, mai richiesta, sempre spontaneamente offerta da chi aveva avuto il privilegio di conoscerlo. Perché Bori aveva una particolare dimestichezza con alcune tra le componenti fondamentali della relazione, il silenzio e l’attesa, che significa che l’altro può veramente raccontarsi a me quando sono diventato qualcuno per lui. Sapeva che è necessario amministrare nei tempi lunghi quell’apparente sensazione di sincerità immediata che si può ricevere da una persona. Uno spazio delicatissimo, da tutelare, perché il giorno che quella persona ci farà veramente entrare nella sua intimità dobbiamo entrarci con lo stesso atteggiamento con cui si entra in un luogo sacro; possiamo solo sederci e non fare domande e rispettare in silenzio quello che ci fa vedere. Valgono le regole di qualsiasi relazione: quanti anni ci vogliono per costruire un vero rapporto? Molti anni, molti sospetti, perché il sospetto è la capacità di delimitazione verso l’altro. Perché allora dovremo avere una grande familiarità con una persona che viene da noi, per la quale non siamo nessuno? Abbiamo diritto di violare l’intimità di un altro solo perché è in carcere, o in stato di necessità? Sovente, la caratteristica centrale dell’istituzionalizzazione è la perdita della responsabilità (definibile anche come perdita di contrattualità sociale e di potere), è un processo che priva le persone delle parti più attive del proprio io. La chiave del trattamento dovrebbe stare, in primis, nella capacità da parte dell’istituzione di attivare processi di responsabilizzazione della persona, se si desidera realmente perseguire le finalità della riabilitazione. Alla domanda "Che cosa insegni?" aveva risposto: "la disciplina, la liberazione e l’innalzamento del desiderio, in sé e negli altri, attraverso la cultura, nel senso più alto (lettura dei grandi testi e auto-coltivazione: Bildung). È la dignità dell’uomo, come viene insegnata dall’umanesimo. La fede nella conoscenza, la liberazione attraverso il sapere, la fiducia in se stessi: essenziali strumenti per i costruttori di pace. Un vero messaggio rinnovatore questo, avveratosi alla Dozza, mentre si continua ad investire in strumenti di morte, pensando che spendere denaro pubblico nell’acquisto di F-35 garantirà maggiore sicurezza alle persone, mentre si riduce all’osso la scuola, si decurta la sanità e si prosciugano al minimo le risorse per la riabilitazione, ragionamento che equivale a costruire la pace con gli armamenti. Di questo tipo di pensiero e tanto altro siamo debitori a Pier Cesare Bori, la cui scomparsa ci rende più soli nel perseguire, senza indugio, quei Passi che portano ad un’etica ed al rispetto, che è dovuto ad ogni persona, di non è possibile fare a meno, come norma fondante di ogni relazione e di ogni istituzione nelle quali ci sono uomini affidati alla responsabilità di altri uomini. Elisabetta Laganà Garante per i diritti delle persone private della libertà del Comune di Bologna Giustizia: allarme educatori; con spending review sistema sbilanciato su ordine-sicurezza Ansa, 12 novembre 2012 Nel sistema carcerario italiano gli educatori sono troppo pochi: "l’ultima immissione in ruolo di direttori di istituto risale al 1997 e di direttori di Uepe", ossia gli Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna, "risale al 1998", mentre, "di contro, dal 2005 al 2012, sono stati immessi in ruolo 516 commissari di polizia penitenziaria cui è stato attribuito il compito di assicurare ordine e sicurezza all’interno degli istituti, avvalendosi del corpo di polizia". La spending review produrrà, quindi, "un effetto devastante" in questo quadro caratterizzato da scelte che "testimoniano in modo evidente un’attenzione prevalente dell’Amministrazione penitenziaria alla garanzia dell’ordine e della sicurezza". È quanto rilevano i funzionari giuridico-pedagogici delle carceri in una lettera inviata al ministro della Giustizia, Paola Severino, e al capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino. Le cifre riportate nella lettera parlano di 415 dirigenti, 1.007 funzionari giuridico-pedagogici (educatori), 1.062 funzionari di servizio sociale a fronte di 516 commissari e 37.127 poliziotti penitenziari. E questo indica una sproporzioni - sostengono i firmatari - rispetto alle finalità di "rieducazione del condannato" che gli istituti carcerari dovrebbero avere. Negli ultimi anni "si è assistito ad un nuovo trend ascendente di episodi gravemente conflittuali, sempre drammatici e talvolta sanguinosi, fra i detenuti e fra detenuti e operatori. Il caso Cucchi è diventato emblematico", si legge nella lettera. E ancora: rispetto "alla carenza di personale di polizia, l’esperienza di altri paesi europei ci dimostra che il rapporto numerico agente/detenuto in Italia è fra i più alti e che forse il problema è piuttosto di tipo culturale ed organizzativo. Ad ulteriore riprova di ciò, si segnala che in l’Italia, di contro, il rapporto numerico personale addetto al trattamento/detenuto è fra i più bassi: ed è proprio quel personale che viene considerato da questo Governo in esubero". Giustizia: Severino; amnistia? pensare a interventi strutturali per ridurre la recidiva Agi, 12 novembre 2012 L’amnistia da sola non basterebbe, alle carceri italiane servono provvedimenti che radichino gli effetti positivi nel tempo. Il ministro della Giustizia, Paola Severino, rispondendo a Fabio Fazio, durante la registrazione di "Che Tempo Che Fa", ha detto di poter "anche essere favorevole" all’amnistia, "da un punto di vista ideale", ma di non esserlo "dal punto di vista strutturale". "Non possiamo pensare solo all’amnistia - ha spiegato -, ma anche a come evitare che le carceri si riempiano di nuovo, cosa che avverrebbe comunque nel giro di qualche anno, e a come evitare la recidiva che è il fenomeno più grave". In questo quadro, il ministro ha chiarito che "una soluzione strutturale passa attraverso il lavoro in carcere, che è veramente fondamentale per ridurre la recidiva a percentuali bassissime. Noi pensiamo anche - ha concluso - a misure alternative perché il carcere sia l’ultima risorsa alla quale si ricorre quando non ce ne sono altre". Giustizia: Vendola; amnistia provvedimento necessario per deflazionare carceri Asca, 12 novembre 2012 "L’amnistia è un provvedimento oggi necessario". Lo ha detto Nichi Vendola, intervistato da Radio Radicale. "Credo che le condizioni delle carceri siano l’ennesimo campanello d’allarme sul nostro stato di decadimento", ha spiegato Vendola aggiungendo che "avremmo bisogno di un provvedimento robusto di deflazione di queste carceri sovraffollate, e di riconsiderare il codice penale, per liberare le carceri riempite anche dalla legge Giovanardi, da quel proibizionismo che è funzionale soprattutto alle mafie". Giustizia: Amnesty; in Italia situazione detenuti molto dura, orrore per sgomberi Rom Adnkronos, 12 novembre 2012 A lanciare l’allarme sulle condizioni di vita per i detenuti in Italia, è Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, intervenuto oggi ai "Dibattiti Adnkronos". Parlando poi della situazione dei diritti civili nei paesi della primavera araba, Noury ha detto di "essere molto preoccupato per la situazione, che in Libia e Siria e fuori controllo, in un momento delicato in cui molti di quei paesi stanno riscrivendo la costituzione". Altro tema trattato negli studi dell’Adnkronos è quello degli sgomberi dei Rom, dai loro campi: "Tra 20 anni - dice Noury - si guarderà con orrore a quello che stiamo facendo nelle nostre città". La distruzione delle case, anche baracche, dei nomadi dimostra che invece di dare diritti, noi li stiamo togliendo". "È una cosa sbagliata considerare un’emergenza la sorte di 150 mila persone, piuttosto che farsi carico di rispettare i loro diritti", conclude l’esponente di Amnesty. Giustizia: Sappe; il Governo ha ottenuto pochi risultati nella lotta a criticità delle carceri Adnkronos, 12 novembre 2012 “I detenuti presenti nelle nostre carceri nei giorni della nascita del governo tecnico erano 68.047 (alla data del 30.11.2011); pochi giorni fa, il 31 ottobre 2012, erano 66.811: un decremento di soli 1.236 soggetti, una flessione pressoché impercettibile se si considera che i posti letto regolamentari detentivi sono poco più di 45mila”. È quanto afferma Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe, sottolineando che “a un anno dall’insediamento del governo Monti, è possibile sostenere che l’esecutivo tecnico in carica ha ottenuto ben pochi risultati per contrastare questa grave criticità”. “In Liguria, poi, è andata ancora peggio - prosegue il sindacalista - perché ci sono più detenuti di undici mesi fa: il 30 novembre 2011 nelle 7 carcere liguri avevamo 1.848 detenuti, oggi ne abbiamo 1.924. E anche sul fronte della delinquenza minorile la situazione è oggettivamente allarmante, se si pensa che pur non essendoci un carcere minorile in regione è stato registrato un flusso di utenza per circa 100 minori arrestati e transitati dal Centro di prima accoglienza di Genova”. Dal 1 gennaio al 30 giugno 2012, fa notare Martinelli, “in Liguria 21 detenuti hanno tentato il suicidio (erano stati 33 in tutto il 2011), 218 gli atti di autolesionismo - ingestione di corpi estranei, chiodi, pile, lamette, pile; tagli diffusi sul corpo e provati da lamette, 14 i ferimenti e 54 le colluttazioni”. Giustizia: "affaire" Lander, un caso basco a Roma e un’interrogazione per il ministro di Samir Hassan Il Manifesto, 12 novembre 2012 Che fosse una boutade ben orchestrata lo si era capito già il 13 giugno scorso, quando la Garbatella si era svegliata in un clima da fiction allestito per arrestare Lander Fernandez Arrinda, presunto militante dell’Eta; che dietro la domanda di estradizione avanzata in seguito da Madrid si nascondesse una volontà politica anziché un’istanza di giustizia era altrettanto palese, vista l’estraneità di Lander ai legami che gli sono imputati. Ciò che invece affiora negli ultimi giorni, evidenziando una grave responsabilità del ministro Severino, è la subordinazione della Corte d’Appello a questo maquillage che, dopo quasi 5 mesi, comincia ad assumere tratti grotteschi. In un fax giunto lo scorso 30 ottobre a Kepa Mancisidor, legale di Lander a Bilbao, il rappresentante dell’ambasciata spagnola Manuel Garda Castellon richiedeva urgentemente al-l’Audiencia National di Madrid ulteriori prove sulla colpevolezza di Lander, sintomo che le poche informazioni raccolte non sono ad ora sufficienti a tenere in piedi l’impianto accusatorio. Ma due elementi destano sospetto. In primo luogo, come si evince dallo stesso fax, la richiesta di ulteriori mezzi istruttori avviene su invito del sostituto procuratore Catalani e della presidente della IV sezione della Corte d’Appello di Roma, dott.ssa Russo. Una sollecitazione, quindi, che determina una perdita di imparzialità e terzietà della Corte, oltre ad essere prova di una forte anomalia: la richiesta di supplementi dei materiali istruttori, infatti, può essere effettuata direttamente all’Audiencia National solo dalla Corte stessa o dal ministro di Grazia e giustizia, mentre la Procura - che in questo caso ha agito fuori dalle proprie competenze - può provare a richiedere materiali integrativi solo attraverso canali diplomatici. Passiamo alla seconda stranezza. La richiesta di "ulteriori mezzi istruttori" dovrebbe dimostrare sia la "concreta appartenenza" di Lander a Eta, sia la pericolosità del fatto addebitatogli (che ricordiamo risale al 2002, quindi ampiamente prescritto secondo il nostro ordinamento) in relazione alla presenza di persone in prossimità del luogo del reato e alla loro incolumità. Ipotesi, però, già smentite dalla documentazione prodotta in passato dalle autorità spagnole e ora in possesso del collegio difensivo di Lander. L’unica verità, dunque, è che Lander, ormai da due anni in Italia, è agli arresti domiciliari da quasi 5 mesi senza che le autorità spagnole (e italiane) abbiano presentato uno straccio di prova che renda credibile l’impianto accusatorio. Non è un caso quindi che l’affaire Lander abbia attirato su di sé la solidarietà delle reti sociali e politiche basche e italiane; ma anche l’impegno a fare chiarezza di molte personalità politiche. È il caso degli onorevoli Donatella Poretti e Marco Perduca (Radicali) che giovedì scorso hanno presentato un’interrogazione parlamentare al ministro Severino nella quale, sulla scorta degli elementi dedotti dal fax, si interroga la guardasigilli sulla conformità della Corte d’Appello "alle ordinarie procedure di estradizione". I due senatori hanno poi chiesto "se il Ministro non ritenga che sussistano le condizioni per revocare il regime di libertà vigilata a cui è sottoposto Lander Fernandez Arrinda, per permettergli di ricominciare a svolgere le sue attività lavorative e la sua vita ordinaria, o in subordine non possa esser previsto un attenuamento del regime di arresti domiciliari". Il prossimo 13 novembre, infatti, è fissata l’udienza che deciderà sulla revoca delle misure detentive cui è sottoposto Lander; per questo motivo, a Piazzale Clodio, la rete di solidarietà Un Caso Basco a Roma ha organizzato un presidio di sostegno a partire dalle ore 9.00. Liguria: assessore Politiche sociali Rambaudi a convegno su sostegno a detenuti Asca, 12 novembre 2012 Lunedì 12 novembre alle 15, presso la sede della Regione Liguria, l’assessore alle politiche sociali, Lorena Rambaudi parteciperà al convegno di presentazione delle iniziative di supporto a detenuti, persone in esecuzione penale esterna e minori sottoposti a provvedimenti penali, per migliorare la qualità della vita in carcere. All’iniziativa prenderanno parte, tra gli altri, Antonio Pappalardo, dirigente interregionale giustizia minorile, Giovanni Salamone, provveditore amministrazione penitenziaria per la Liguria, Luigi Pagano, vice capo dipartimento amministrazione penitenziaria. Avellino: stop a lezioni in carcere Ariano Irpino, detenuti in cella venti ore al giorno di Gianni Vigoroso www.ottopagine.net, 12 novembre 2012 La comunicazione arriva dall’istituto Covotta che per carenza di organico non ha più la possibilità di tenere i corsi destinati alla scuola media. Niente istruzione in carcere, detenuti costretti a rimanere in cella per quasi 20 ore al giorno. Accade nel penitenziario di Ariano Irpino, dove ad essere penalizzata è la fascia più debole. La comunicazione è arrivata dall’istituto comprensivo Covotta, che in una nota a firma del dirigente scolastico Alfonsina Manganiello annuncia per la carenza di organico, l’impossibilità di poter svolgere i due corsi per la scuola media. Da qui la lettera da parte del direttore del carcere arianese Gianfranco Marcello, indirizzata alla direzione scolastica regionale di Napoli, all’ufficio scolastico regionale per la Campania ambito territoriale di Avellino e al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Nella comunicazione, si evidenzia l’assoluto danno che verrebbe arrecato alla popolazione detenuta, sia sotto l’aspetto che attiene alla perdita di opportunità trattamentali, ma anche in termini di ulteriore diminuzione della libertà personale provocata dalla mancanza delle attività scolastiche. Da un lato l’istruzione che costituisce, alla luce della normativa costituzionale, un imprescindibile elemento del trattamento del reinserimento sociale, dall’altro la scarsità di tali attività comporta anche la nefasta conseguenza di far permanere il detenuto in cella per lunghe ore vista anche la difficoltà di programmare attività alternative, con le ovvie conseguenze negative sullo stato di salute fisico e psicologico. La lettera di Marcello si conclude con la speranza che ognuno tra gli enti preposti, faccia la sua parte per consentire il regolare svolgimento di tutti i corsi scolastici destinati alla popolazione detenuta. Un fatto gravissimo se si pensa soprattutto al livello qualitativo eccellente maturato da questa struttura negli anni. La scuola è la base fondamentale per la rieducazione in carcere. Nonostante la mancanza d’istruzione, il carcere si conferma vivo e operativo grazie all’impegno, esperienza e professionalità del direttore Gianfranco Marcello e di tutto il personale che opera all’interno a partire dalla polizia penitenziaria che ha sempre dimostrato un livello di lungimiranza elevatissimo oltre che professionale. Con estremi sacrifici da parte di tutti, si sta portando avanti grazie alla preziosa collaborazione dell’istituto Guido Dorso il corso di ceramica all’interno della struttura. Sono state allestite due aule e i detenuti particolarmente motivati sono impegnati attivamente nella lavorazione dell’argilla. Di recente a dare maggiore impulso a queste attività si è aggiunto l’apporto del Rotary con la presentazione del corso per pizzaioli che partirà a fine mese. L’appello del direttore Gianfranco Marcello: "I detenuti non possono manifestare, io ho il dovere e l’obbligo di protestare per loro e lo farò fino in fondo". Oristano: Ugl rilancia allarme sul carcere, mancano agenti e non è garantita la sicurezza L’Unione Sarda, 12 novembre 2012 Grande attesa ieri a Massama per l’arrivo di detenuti ad alta sicurezza. Il trasferimento di mafiosi e camorristi, reduci dal periodo di carcere duro previsto dal 41 bis, è stato però rinviato di qualche giorno. Resta comunque molta preoccupazione per le condizioni della struttura. Anche ieri, con la pioggia caduta per l’intera giornata, non sono mancati i problemi con le infiltrazioni d’acqua nelle celle persino sopra un quadro elettrico. Una situazione che, già qualche settimana fa, ha spinto i rappresentanti dell’Ugl a far sentire la propria voce. All’amministrazione penitenziaria sono stati chiesti interventi urgenti per far fronte a queste carenze strutturali. E soprattutto l’appello è stato lanciato al Ministero per chiedere un potenziamento del personale. "Se arriveranno nuovi detenuti, sarà indispensabile che vengano mandati a Massama anche altri agenti - ha ribadito il segretario regionale dell’Ugl Salvatore Argiolas - altrimenti non saremo in grado di garantire le condizioni di sicurezza". Oltre a mafiosi e camorristi, nel carcere di Massama dovrebbero essere trasferiti anche i detenuti che al momento si trovano a Macomer. Il penitenziario del Marghine, infatti, sembra destinato a chiudere e i carcerati, tra cui anche molti terroristi legati alla jihad islamica, dovrebbero arrivare nell’Oristanese. Venezia: il ministro Severino visita l’Istituto di pena femminile della Giudecca Ansa, 12 novembre 2012 Il ministro della Giustizia, Paola Severino, si è recata questa mattina a visitare la Casa di reclusione femminile Giudecca di Venezia. La struttura è ospitata da un antico convento del 1300. In una sezione a sé stante, il carcere registra anche la presenza di donne con figli. Nel carcere, Severino ha incontrato le detenute e si è intrattenuta nei laboratori delle cooperative dove le detenute lavorano realizzando prodotti di sartoria, cosmetica o occupandosi di lavanderia e stireria. Il ministro ha anche visitato l’Orto delle meraviglie (dove è stato girato un film francese) e dove vengono coltivate le erbe (produzione biologiche) per la cosmesi. Infine, ha visitato la nuova struttura Icamm (Istituto a custodia attenuata per le detenute madri con figli). Lavoro in carcere e misure alternative sono per ministro una priorità per affrontare in maniera strutturale il problema dei penitenziari italiani. Al termine della visita il ministro della Giustizia si è fermata per incontrare e salutare il personale di polizia penitenziaria che lavora nella struttura. Il carcere femminile della Giudecca ospita una settantina di detenute rispetto a una capienza regolamentare di cento posti. Quattro le donne con figlio, altrettanti i bambini. Livorno: sopralluogo Idv al carcere delle Sughere "servono soldi e più personale" Il Tirreno, 12 novembre 2012 Il capogruppo regionale Marta Gazzarri in visita al carcere di Livorno: "Con l’apertura del nuovo padiglione i problemi aumenteranno". "Le Sughere un anno dopo la mia ultima visita. Stesse strutture che cadono a pezzi, stesse gravissime carenze di fondi per qualsiasi attività rieducativa o ricreativa per i detenuti, stessa incertezza sul suo futuro". Questo il commento di Marta Gazzarri, capogruppo Idv in Consiglio regionale della Toscana, a seguito del sopralluogo alle carceri di Livorno. "Oggi ci sono 138 detenuti e 140 agenti e la situazione è, come facilmente intuibile, molto migliorata. Con l’apertura del nuovo reparto però il numero degli agenti resterà inalterato. Una notizia choc che porterà di nuovo la struttura livornese, segnata dai cronici problemi dovuti alla carenza di fondi, al collasso. In attesa della nuova sezione che dovrebbe aprire tra circa sei mesi e che ospiterà altri 200 detenuti, momentaneamente accantonato quindi il problema del sovraffollamento, resto fortemente perplessa sul ruolo che andrà a coprire le Sughere in futuro". "Proprio la carenza di fondi - ha continuato Gazzarri - fa sì che chiunque si trovi a vivere le Sughere, che sia per scontare la pena o per lavoro, tocchi con mano una situazione emergenziale. Basti pensare che la manutenzione della struttura e dei mezzi per il trasporto carcerario è praticamente inesistente. Dati alla mano, gli agenti parlano di soli 500 mezzi presenti in Italia di cui 130 attivi, 120 in attesa della manutenzione e gli altri definitivamente accantonati. Come si può pensare di garantire la sicurezza in queste condizioni? I fondi a disposizione dei penitenziari sono esigui ed è necessario prevedere un piano straordinario di manutenzione che possa restituire un minimo di vivibilità". Senza soldi - ha concluso Gazzarri - "è impensabile pensare ad un percorso civile di riscatto per i detenuti. Una riorganizzazione complessiva del sistema carcerario è oggi più che mai necessaria e questa non può che andare a vantaggio di tutti". Palermo: carcere Pagliarelli; mancano mezzi per trasportare i detenuti alle udienze Italpress, 12 novembre 2012 A lanciare l’allarme su quella che si profila come una vera e propria emergenza è la direttrice Vazzana. Rischio concreto di paralisi dei servizi operativi al carcere Pagliarelli di Palermo. Mancano i mezzi funzionanti per trasportare i detenuti alle udienze, un’operazione quest’ultima che nei prossimi giorni potrebbe bloccarsi del tutto. Stessa situazione per le ambulanze, sono solo garantite le urgenze sanitarie. A lanciare l’allarme su quella che si profila come una vera e propria emergenza per l’istituto penitenziario è la direttrice Francesca Vazzana che fa sapere come "il rischio di inadempienza delle movimentazioni non potrà essere scongiurato". Una situazione di crisi annunciata che trova le sue origini anche qui nella carenza di risorse disponibili che costringe a tirare la cinghia su quelle che comunque rappresentano delle priorità quali appunto i ricoveri programmati da tempo. I mezzi, siano essi cellulari o mezzi di soccorso, si guastano ma non ci sono i soldi per ripararli. Così alla direttrice non è rimasta altra arma in mano che quella di scrivere, tra gli altri, al presidente della Corte d’appello Vincenzo Oliveri, all’avvocato generale Ignazio De Francisci, al presidente del Tribunale Leonardo Guarnotta ed al Procuratore Capo Francesco Messineo. A mancare all’appello sono proprio i fondi destinati "alla traduzione e al piantonamento dei detenuti". Così alla direttrice il difficile compito di vagliare attentamente ogni operazione per non paralizzare completamente le attività. Un’operazione difficile che comunque non può essere considerata come un rimedio ma soltanto una soluzione tampone per evitare il collasso stesso dei servizi che riuscirà a far andare avanti la macchina del Pagliarelli ancora per qualche giorno, al termine dei quali se non arriveranno i mezzi richiesti, i detenuti non potranno né partecipare alle udienze né recarsi in ospedale. Torino: nota Centro Giustizia Minorile in risposta a protesta dei Sindacati di Polpen Comunicato stampa, 12 novembre 2012 del Centro per la Giustizia Minorile del Piemonte, Valle D’Aosta, Liguria e Massa Carrara sulla manifestazione con sit-in del 12 novembre 2012 delle Organizzazioni Sindacali di polizia penitenziaria Sappe, Osapp, Sinappe e Ugl. Nella mattinata odierna si è svolta, davanti al Ferrante Aporti, una manifestazione con sit-in indetta il 28 ottobre da quattro delle otto Organizzazioni Sindacali della polizia penitenziaria. Le motivazioni di tale protesta risultano, ad oggi, incomprensibili all’Amministrazione della Giustizia Minorile. Evidenzio, innanzitutto, una palese violazione delle corrette relazioni sindacali in quanto la manifestazione è stata indetta tre giorni dopo l’avvenuta convocazione, da parte dell’Amministrazione, di ben quattro incontri aventi come punti all’ordine del giorno tematiche concordate tra le parti (Amministrazione e OO.SS.) e concordemente calendarizzate. L’Amministrazione aveva, inoltre, accolto la richiesta di procedere ad audizioni di tutto il personale di polizia penitenziaria operante presso l’Istituto Ferrante Aporti, finalizzate ad accertare il presunto "stato di malessere" denunciato da alcune organizzazioni sindacali; tali audizioni sono state per gran parte effettuate, e sono tuttora in corso. Nel merito del comunicato sindacale del 28 ottobre, evidenzio che i cosiddetti "turni di lavoro massacranti" sono stati da me effettivamente riscontrati in sede di controllo successivo sui "turni di lavoro effettuati" presso il carcere minorile, ma non certo sui "turni di lavoro programmati": sola quest’ultima ipotesi, se vera, avrebbe certamente comportato la violazione, da parte della Direzione dell’Istituto minorile, del vigente Accordo Quadro Nazionale del comparto polizia penitenziaria. I discostamenti tra i turni di lavoro programmati e quelli realmente effettuati sono dovuti, com’è noto alle stesse OO.SS., ad un insufficiente numero di unità di Polizia Penitenziaria effettivamente in servizio presso l’Istituto Ferrante Aporti, considerato che ben 17 poliziotti sono stati progressivamente "distaccati", negli ultimi anni, in altre regioni d’Italia a cura del Dipartimento Giustizia Minorile. Di tale questione ho già investito il competente Direttore Generale del Personale - dott. Luigi Di Mauro - ed il Capo del Dipartimento Giustizia Minorile - dott.ssa Caterina Chinnici. Il problema dell’insufficienza di organico dovrà, peraltro, essere necessariamente affrontato e risolto in tempi brevi - da parte della competente Direzione generale del Personale - a motivo dell’ormai prossimo trasferimento del carcere minorile nella nuova palazzina recentemente ristrutturata - ubicata nel medesimo complesso demaniale Ferrante Aporti - che sarà consegnata all’Amministrazione entro gennaio 2013: passare da un carcere con due sezioni e 29 posti a un carcere con quattro sezioni e 48 posti non potrà certo realizzarsi a parità di personale di polizia penitenziaria. Sempre nel merito del comunicato sindacale, ho avuto modo di accertare che, in vari casi di scostamenti tra i turni di lavoro effettuati e quelli programmati, gli improvvisi cambiamenti di turno si sono resi necessari per "malattia" comunicata ad ultim’ora dal poliziotto che avrebbe dovuto prendere servizio e pertanto, in questi casi, la Direzione dell’Istituto non ha potuto che chiedere turnazioni di lavoro straordinarie ad altre unità di personale, con eventuale "sacrificio" del riposo spettante. In realtà, l’unica richiesta che non è stata accolta dall’Amministrazione al tavolo sindacale del 12 ottobre, né successivamente, è la "rimozione del Sostituto del Comandante di Reparto", sia perché - obiezione di metodo - non è materia soggetta a contrattazione sindacale, sia perché - obiezione di merito - l’Amministrazione non ha ad oggi riscontrato alcun motivo per sollevare dall’incarico il citato Sostituto del Comandante di Reparto. A questo punto, com’è noto, le quattro OO.SS. hanno "alzato il tiro" chiedendo addirittura la rimozione di tutti i vertici locali e regionali dell’Amministrazione - compreso il sottoscritto. All’Amministrazione della Giustizia Minorile preme render noto che il fosco e drammatico quadro dipinto dalle quattro Organizzazioni Sindacali che hanno indetto il sit-in del 12 novembre non corrisponde alla realtà dei fatti. In proposito ritengo opportuno render pubblico di aver richiesto al competente Dipartimento Giustizia Minorile di valutare l’opportunità di un’ispezione ministeriale allo scopo di fugare ogni dubbio, con parametri oggettivi di valutazione applicabili da una specifica Commissione d’inchiesta, circa quanto denunciato dalle quattro Organizzazioni Sindacali firmatarie del comunicato congiunto. In ultimo, ritengo doveroso render noto che quando, come avvenuto negli anni 90, una figura apicale dell’Istituto Ferrante Aporti, nel caso specifico il Comandante della Polizia Penitenziaria, aveva determinato effettivamente un pessimo clima all’interno dell’Istituto, sia con riferimento alla gestione del personale che alla gestione dei detenuti, l’Amministrazione indagò e provvide di conseguenza. Purtroppo la cattiva gestione di quegli anni del Corpo di Polizia Penitenziaria dell’Istituto di Torino compromise anche i rapporti interistituzionali, fino ad allora ottimi, con l’Amministrazione comunale, con conseguente sospensione dei protocolli d’intesa allora vigenti. Fin dal mio insediamento alla Direzione del Centro Giustizia Minorile del Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e Massa Carrara, avvenuto nel 2006, ho posto in essere una serie di azioni per riprendere positivi rapporti interistituzionali con il Comune, la Provincia e la Regione, azioni che hanno prodotto, come tangibile risultato, la sottoscrizione di nuovi protocolli d’intesa con gli enti territoriali che, di nuovo, hanno riavviato la collaborazione con l’Istituto Ferrante Aporti. Dott. Antonio Pappalardo Dirigente del Centro per la Giustizia Minorile del Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e Massa Carrara Roma: "Oltre la pena", incontro sulle carceri promosso dalla San Vincenzo di Maria Elena Finessi www.romasette.it, 12 novembre 2012 Obiettivo puntato sui problemi del sistema carcerario nell’incontro promosso dalla San Vincenzo. Il capo del Dap Tamburino: "Quando un uomo commette un reato anche la società deve interrogarsi". Farsi "voce" dei detenuti "non può limitarsi al mero sostegno materiale ma richiede di farsi carico dei problemi sociali" e di impegnarsi maggiormente al loro superamento, come "significa pure denunciare le storture evidenti alla luce dei valori etici irrinunciabili e non negoziabili, primo fra tutti la dignità della persona". Don Sandro Spriano, da 22 anni cappellano nel carcere romano di Rebibbia, così sintetizza il ruolo del volontario cristiano all’interno delle strutture detentive. "Il fine principale non è portare calzini nuovi al detenuto ma nutrire la sua formazione, che è quella di un uomo che porta in sé la duplice sofferenza di sentirsi denudato dinanzi alla società e a Dio, giacché è stato capace magari di uccidere, e di vedersi privare della propria libertà". Intervenendo all’incontro di studio "Oltre la pena, l’uomo e la sua dignità" organizzato l’11 novembre a Roma dalla Società San Vincenzo de Paoli con lo scopo di formulare proposte operative sui problemi che attanagliano il sistema penitenziario italiano, il sacerdote offre la distinzione tra una giustizia umana e una giustizia che trova invece il suo cardine nel Vangelo. Là dove la prima risponde a domande del tipo: "Quale legge è stata infranta?" e "Qual è la punizione prevista?", la seconda sposta invece l’attenzione sulla sofferenza dell’uomo, sia esso reo o vittima, interrogandosi su "come curare" quel dolore. Una cura che deve passare attraverso la carità. "Una giustizia che si fonda sul perdono e che non vuol dire, però, buonismo o azzeramento della colpa: è piuttosto un cammino con il quale si riconosce il proprio errore, anche se non porta necessariamente alla riconciliazione con la vittima". Nell’affrontare il tema del sovraffollamento, "risultato di una serie infinita di storture che fanno gridare allo scandalo", come denunciano i volontari della San Vincenzo, al tavolo dell’incontro, al quale hanno preso parte anche Michele Riondino (docente di Diritto penale canonico, famiglia e minori alla Pontificia Università Lateranense) e Daniela De Robert (presidente della onlus Volontari in carcere - Caritas), si chiedono se servono davvero nuove carceri o se sono più utili differenti metodi sanzionatori. "L’articolo 27 della Costituzione - chiarisce Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria - parla di carcere come pena che deve tendere alla rieducazione del condannato ma non dice invece chi deve assolvere questo compito. Ed è invece vitale perché il dettato della norma può divenire realistico quando la società prende parte a questa difficile impresa: quando un uomo commette un reato anche la società deve interrogarsi rispetto ai modelli etici offerti. Non può tirarsene fuori". "Dinanzi alla pretesa folle di voler inserire escludendo, di voler responsabilizzare deresponsabilizzando, poiché in carcere il detenuto di fatto non decide più per sé, si prova il percorso della riconciliazione. Da anni - racconta Maria Pia Giuffrida, dell’Osservatorio permanente sulla giustizia riparativa presso il Dap - si stanno sperimentando modelli di giustizia ripartiva". La mediazione penale è sempre più indicata come prassi utile al superamento dei conflitti, con l’obiettivo di creare una relazione tra il reo e la vittima, tra i quali costituire un’intesa volta alla realizzazione da parte del condannato di attività riparative, da non confondersi però con i cosiddetti lavori di pubblica utilità o lavori socialmente utili. E perché avvenga il rinsaldamento del patto di cittadinanza che è stato infranto, non può mancare il sostegno del reo nella riflessione sul reato commesso. "Dunque vanno bene le attività sociali o teatrali per gestire la giornata carceraria, allentare le tensioni ed evitare la crisi - conclude Giuffrida, ma la giustizia riconciliativa è altra cosa e nasce dalla necessaria responsabilizzazione verso la vittima e la società stessa". Pavia: laboratori e ludoteca in carcere, per agevolare l’incontro dei detenuti con i figli La Provincia Pavese, 12 novembre 2012 Essere padre dietro le sbarre. Dover trovare le parole giuste per spiegare ai figli perché non si può andare a scuola, al parco insieme, al cinema. Con i minuti contati per comunicare con loro in un luogo che non è la casa, la famiglia. Per un padre la detenzione apre una ferita che ora un progetto, partito in ottobre alla casa circondariale di Torre del Gallo , vorrebbe aiutare a rimarginare. "Ti presento la mia famiglia" è un programma di promozione di una genitorialità responsabile in carcere condotto da Ce.co.psy, centro consulenza psicologica di Pavia in collaborazione con A. Ge. e con Irsef. In carcere entreranno in campo professionisti che accompagneranno i detenuti in una serie di progetti su misura. Da ottobre a giugno ogni venerdì nell’aula didattica del carcere si svolgono due gruppi di auto-mutuo-aiuto per genitori di bimbi da 3 a 6 anni e dai 7 ai 10 anni. Un’occasione di incontro tra detenuti che condividono lo stesso problema e che possono sperimentare anche momenti di solidarietà e condivisione. Sempre a partire da ottobre, fino a giugno, funzionerà uno sportello di consulenza individuale per genitori con figli con più di 10 anni. Da Dicembre sono previsti un laboratorio espressivo e la creazione di uno "Spazio Neutro" con ludoteca che ha lo scopo di recuperare e agevolare relazioni tra figli e genitori, nell’ambito di situazioni critiche. Incontri protetti alla presenza di educatori che hanno il compito di sostenere emotivamente il bambino e l’adulto. Sarà realizzato ogni settimana all’interno della ludoteca della casa circondariale. Progetti approvati grazie alla disponibilità della direzione del carcere, del servizio di polizia penitenziaria e degli educatori e psicologi che lavorano da anni a stretto contatto con i detenuti. Dal prossimo mese sarà inaugurato anche uno "Spazio mamma-bimbo" all’interno della sala rilascio colloqui in cui le moglie e le compagne dei detenuti potranno incontrare un educatore e confrontarsi con lui sulla realtà della carcerazione. L’educatore aiuterà la mamma a riflettere insieme su come comunicare al bambino la situazione in cui si trova il padre, le suggerirà il modo migliore per preparare il figlio all’incontro con il genitore detenuto e a sfruttare il tempo insieme. Massa Carrara: Garante Infanzia della Toscana visita carcere femminile di Pontremoli Adnkronos, 12 novembre 2012 Una visita che si "inserisce nell’azione di conoscenza delle realtà che nella nostra regione ospitano, a vario titolo, minori". Dopo associazioni e comunità educative, il Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Regione Toscana, Grazia Sestini, lunedì 12 novembre a partire dalle ore 10.30, si recherà al carcere femminile di Pontremoli (Massa). Sezione distaccata della Casa di Reclusione di Massa Carrara, ex casa mandamentale, accoglie in particolare ragazze di etnia rom. La visita vuole essere anche un "gesto di attenzione verso un luogo particolare nella settimana che precede la giornata internazionale dei diritti dell’infanzia il 20 novembre prossimo" anticipa Sestini. "La convenzione di New York, infatti, all’art. 37 richiama il fatto che il minore detenuto deve essere trattato tenendo conto delle esigenze della sua età". Avellino: Sappe; detenuto affetto da epatite C prende a morsi due agenti Il Ciriaco, 12 novembre 2012 Il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria Sappe denuncia ancora una volta un’aggressione avanzata da parte di un detenuto ai danni del personale, durante il servizio di sorveglianza: "Presso il carcere di Bellizzi Irpino un detenuto di origini napoletane, con posizione giuridica di definitivo avente fine pena fissato all’anno 2016, e in cella per reati di rapina ed altro, ha aggredito due Assistenti Capo di Polizia Penitenziaria con pugni, calci e morsi con una violenza inaudita. I malcapitati colleghi hanno dovuto fare ricorso alle cure del caso per le lesioni riportate, presso il pronto soccorso dell’Ospedale Civile del capoluogo irpino, ove sono stati refertati con prognosi e specifica profilassi in quanto il detenuto risulta essere affetto da epatite C". Il Sappe esprime la propria vicinanza e solidarietà ai colleghi coinvolti nello spiacevole episodio "che va ad allungare la serie delle aggressioni cui sono vittime gli appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria che ormai devono fare i conti, durante il proprio servizio, con quotidiane tensioni ed atti di intolleranza da parte dei detenuti, che scaturiscono da una emergenza irreversibile in cui versa il sistema penitenziario nazionale a causa dell’abnorme ed insostenibile sovraffollamento che rende sempre più insufficiente l’organico dei Poliziotti Penitenziari che attualmente presta la propria attività lavorativa negli istituti di pena". Torino: Sappe; agente aggredito da detenuto, ha rischiato la frattura del setto nasale Ansa, 12 novembre 2012 Un agente di polizia penitenziaria in servizio nel carcere torinese delle Vallette è stato aggredito da un detenuto. Lo comunica il sindacato autonomo Sappe specificando che l’agente, colpito al volto da una testata, ha rischiato la frattura del setto nasale. "Un’aggressione - commenta il segretario generale, Donato Capece - tanto violenta quanto improvvisa ed ingiustificata, che alza l’asticella sull’ormai superato livello di vivibilità delle carceri italiane. Ed è disarmante che l’Amministrazione penitenziaria non abbia soluzioni concrete per contrastare questa violenza quotidiana contro i poliziotti penitenziari". L’aggressore è un africano che era stato arrestato con l’accusa di spaccio: il sospetto è che per sfuggire ai controlli avesse ingerito gli ovuli con la sostanza stupefacente. Rom: il Garante Marroni; lezioni di legalità all’Università Tor Vergata con Cosimo Rega Dire, 12 novembre 2012 Si è parlato di legalità, di riscatto sociale e della funzione rieducativa del carcere nel corso di un incontro organizzato all’Università di Roma Tor Vergata cui, spiega una nota, hanno partecipato il garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni e Cosimo Rega, uno degli attori detenuti protagonisti del film "Cesare deve morire" dei fratelli Taviani, che ha conquistato l’Orso d’oro al Festival di Berlino e altri importanti riconoscimenti nazionali e internazionali tra cui quello di rappresentare il cinema italiano per la scelta delle "nomination" agli Oscar. L’incontro - cui hanno partecipato decine di studenti - è stato organizzato dalla facoltà di Lettere e filosofia, all’interno dell’Aula verde di Tor Vergata, per presentare il libro "Sumino ‘o Falco, autobiografia di un ergastolano", scritto dallo stesso Cosimo Rega, peraltro studente della stessa università: "Da quando ho conosciuto l’arte la cella è diventata nà prigione - questa la frase che chiude il film e che Cosimo Rega ha ripetuto ai ragazzi raccontando il percorso che lo ha portato dalla prigione a essere un artista apprezzato- Sarò davvero libero quando potrò guardare negli occhi alcuni orfani e dire che è tutta colpa mia". Al dibattito, all’insegna di tematiche quali la colpa, il perdono e il senso della pena da scontare in carcere, hanno partecipato anche Marina Formica, vicepreside della facoltà di Lettere e filosofia di Tor Vergata, e Fabio Pietrangeli, insegnante di Letteratura italiana. "L’ho conosciuto - ha detto Marroni - proprio in occasione di uno spettacolo teatrale, nel 1985. Cosimo ha compiuto un percorso di riabilitazione completo, fatto di voli e cadute, speranze e illusioni, vittorie e sconfitte, ma alla fine è riuscito ad arrivare dove tutti speravamo arrivasse: all’inizio di una nuova vita. Io credo che, per lui, ci siano anche le condizioni per avanzare una richiesta di grazia al capo dello Stato". Parma: sfida di calcio in via Burla, i detenuti battono studenti e istruttori di Margherita Portelli www.gazzettadiparma.it, 12 novembre 2012 Dopo lo "scontro" in campo, c’è l’incontro "al banco". In una saletta del carcere attigua alla piccola palestra in cui ci si è affrontati fino all’ultima rete, detenuti e studenti, semplicemente, fanno merenda. Si è concluso così il primo torneo di calcio "La Burla" organizzato dall’Ausl di Parma e dalla sezione locale della Uisp, grazie al sostegno della Fondazione Cariparma. Ieri mattina, nel campo degli istituti penitenziari di Parma, si è giocata la finale tra la rappresentativa esterna dei ragazzi dell’istituto Giordani e degli istruttori Uisp, e una squadra formata da giocatori delle prime classificate dei due gironi interni al carcere. Alla fine hanno avuto la meglio i detenuti in casacca blu, ma la vittoria vera - non c’è neanche bisogno di dirlo - è stata di tutti. L’occasione di incontro e integrazione con le persone che vivono l’esperienza detentiva, è un arricchimento utile ai ragazzi delle scuole, mentre il semplice svago di un torneo di calcio ha regalato ai carcerati un momento di distrazione, senz’altro utile percorso di recupero connaturato alla detenzione. Le squadre di calcio di via Burla sono composte da vari atleti, in particolare dagli iscritti ai corsi di "Avviamento alla corsa" e "Multisport" organizzati dalla Uisp nell’ambito del progetto "La promozione del benessere psicofisico negli istituti penitenziari di Parma", realizzato dall’azienda Usl in collaborazione con Fondazione Cariparma. "Il rispetto delle regole, lo stare insieme, la riscoperta dei rapporti interpersonali: per queste ed altre ragioni il progetto ci sta a cuore, e sta andando avanti nel migliore dei modi" ha specificato la vicedirettrice del carcere, Lucia Monastero, che ha premiato i carcerati a conclusione del torneo insieme alla direttrice del distretto di Parma dell’Ausl, Giuseppina Ciotti, e agli assessori allo Sport di Provincia e Comune, Walter Antonini e Giovanni Marani. Direttore di gara d’eccezione, il "super fischietto" internazionale Alberto Michelotti. "Io ormai mi posso dire di casa, perché è dai tempi delle carceri di San Francesco che arbitro partite fra detenuti - spiega -. E continua a essere per me una grandissima gioia". "Una bella esperienza di integrazione che può contare su un’apprezzabile rete di collaborazione" ha specificato Antonini. "Bisogna ricordarsi che prima ancora di essere carcerati, questi sono ragazzi, parte integrante della comunità" ha aggiunto Marani. Per la Fondazione Cariparma, era invece presente il presidente Carlo Gabbi, che ha rassicurato: "La Fondazione continuerà ad aiutare i più deboli, per quanto è nelle sue possibilità". Reggio Calabria: l’effige della Madonna della Consolazione è "tornata" in carcere di Mario Nasone (Presidente Csv Due Mari) www.telereggiocalabria.it, 12 novembre 2012 Una giornata di festa e un intenso momento di condivisione nella Casa circondariale di Reggio Calabria dove l’effige della Madonna della Consolazione è tornata dopo quattro anni per portare speranza alle persone detenute. La comunità carceraria tutta, la direttrice Maria Carmela Longo, i detenuti, gli operatori e i volontari, insieme per pregare e condividere un momento molto speciale. Un appuntamento emozionante che si ripete periodicamente dai primi anni Novanta ma che rappresenta anche un’occasione particolare. L’effige della patrona di Reggio Calabria, infatti, viaggia dall’Eremo al Duomo e viceversa durante le due Processioni cittadine annuali, oltre le quali essa viene portata fuori solo nell’occasione di visita ai detenuti in carcere, come avvenuto nei giorni scorsi. Qui il suo cuore Misericordioso accoglie le preghiere ed i pensieri di affidamento delle persone in attesa di giudizio, delle persone poste in una condizione di privazione della libertà personale, di madri, padri e figli lontani dai propri cari. Una Santa Messa officiata da monsignor Salvatore Nunnari, reggino di nascita ed oggi arcivescovo metropolita di Cosenza - Bisignano, e animata dal coro "Libera Mente" ha preceduto il passaggio del Quadro per i corridoi del carcere reggino. Un momento di preghiera in cui Monsignor Nunnari ha suggerito una profonda riflessione sulla vita e sulle possibilità che a ciascun uomo e ciascuna donna possono schiudersi lungo la via della conversione. Non esiste Libertà lontano dalla Verità. Un appuntamento molto atteso, quest’anno preceduto dal primo di un ciclo di incontri, promossi dalla Casa circondariale reggina in collaborazione con il Centro Servizi al Volontariato dei Due Marì di Reggio ed il Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria, dal titolo "Reato, pena, vittime del delitto e giustizia riparativa: un percorso possibile". Introdotti dalla direttrice della Casa circondariale reggina Maria Carmela Longo e dal presidente del Csv reggino Mario Nasone, monsignor Salvatore Nunnari e Deborah Cartisano, figlia di Lollò Cartisano fotografo sequestrato a Bovalino, in provincia di Reggio Calabria, ed il cui corpo venne ritrovato a distanza di 10 anni dal rapimento avvenuto nel 2003 a Pietra Cappa in Aspromonte, hanno incontrato i detenuti di media sicurezza. "Al di là delle azioni, in ogni uomo c’è sempre un cuore", dice monsignor Nunnari che, nelle ultime pagine della propria riflessione pastorale in cui si appella agli uomini di mafia, ha ricordato la fulgida figura di don Pino Puglisi, ucciso a Palermo dalla mafia nel settembre 1993, il quale diceva che: "Ogni cuore ha i suoi tempi che neppure noi riusciamo a comprendere2. Un invito instancabile all’incontro con Cristo nella conversione e nel perdono. Una testimonianza forte ed intensa è stata poi resa da Deborah Cartisano che ha saputo trasformare il suo dolore in impegno, la sua voce in speranza anche per le altre vittime di mafie che insieme a Libera hanno trovato la forza di spezzare il muro del silenzio e di raccontare la loro storia, rendendola inestimabile patrimonio comune. Dopo anni di appelli e lettere fu infatti un carceriere del padre a rispondere alla giovane Deborah consentendole di trovare i resti del corpo del papà. Lì, a Pietra Cappa, oggi vi è una lapide dove vengono posti dei fiori, perché anche da un cuore di pietra può nascere un fiore. Il cambiamento è possibile. Presenti all’incontro, unitamente cappellano che segue la comunità carceraria reggina monsignor Giacomo D’Anna, anche l’assessore alla Cultura ed alla Legalità della provincia di Reggio Calabria, Eduardo Lamberti Castronuovo, la consigliera di Parità Daniela De Blasio, l’avvocato Agostino Siviglia dell’Ufficio Garante dei Diritti delle persone Detenute di Reggio. Così anche, e soprattutto, dentro il carcere si opera affinché si maturi una cittadinanza responsabile, consapevole dei diritti propri come anche di quelli violati della vittime. Un incontro di esperienze necessario per un autentico percorso di rieducazione e cambiamento che nelle prossime settimane vedrà impegnate le persone detenute presso la casa circondariale reggina negli incontri con il sostituto procuratore della Dda reggina Stefano Musolino ed Antonio Salsone, figlio del maresciallo della Polizia Penitenziaria Filippo Salsone assassinato a Brancaleone (Rc) nel febbraio del 1986, il prossimo mercoledì 24 novembre, ed i magistrati Piergiorgio Morosini e Daniela Tortorella, il prossimo lunedì 3 dicembre. Droghe: sulla legalizzazione della cannabis il silenzio francese… e quello italiano di Roberto Spagnoli Notizie Radicali, 12 novembre 2012 Un piccolo gruppo di liceali francesi ha scelto la cannabis come argomento di ricerca e di discussione per il loro corso educazione civica. Assicurano di non farne personalmente uso, ma tutti i giorni vivono insieme a giovani consumatori di marijuana e conoscono tutti i luoghi dov’è possibile trovarla. Con quattro solide argomentazioni dimostrano che il loro ministro, Vincent Peillon, aveva ragione quando, qualche mese fa, dichiarava che "la cannabis è un grosso problema". L’unica soluzione, per loro, è la legalizzazione. Non la depenalizzazione, perché "non risolve il problema del traffico, ma, al contrario, lo farebbe aumentare, perché il consumo sarebbe tollerato". La legalizzazione, invece, avrebbe molti benefici. Primo: lo Stato ne ricaverebbe un introito economico, come con le sigarette, e in tempi di crisi non è un aspetto trascurabile. Secondo: si saprebbe ciò che si fuma, la "droga di stato" avrebbe una qualità migliore e sarebbe un po’ meno pericolosa per la salute rispetto a quella attualmente consumata. Terzo: cesserebbe il traffico illegale e tutta la violenza che comporta, rendendo le periferie delle città più sicure. Quarto: la maggior parte dei giovani fuma cannabis e dunque, in ogni caso, con la repressione il traffico illegale non si fermerà. Gli studenti hanno studiato a fondo la questione e hanno anche indicato alcune condizioni per la legalizzazione: si potrebbe per esempio, limitare la quantità che potrebbe essere acquistata, inoltre si potrebbe vietarne la vendita e il consumo in strada, cioè si dovrebbe acquistare la cannabis in negozi autorizzati e la si dovrebbe consumare in case private. Resterebbero però due problemi da risolvere. Il primo è il divieto della vendita ai minorenni, che secondo gli studenti sarebbe impraticabile: "Si fuma dall’età del liceo e infatti il divieto di vendita di sigarette ai minori non funziona". L’altro problema è quello del passaggio a sostanze più forti: in effetti, dicono i liceali francesi, la legalizzazione potrebbe non evitare questo fenomeno, però fanno notare che così com’è possibile un consumo di alcol consapevole, andrebbe specificato che la cannabis deve essere consumata con moderazione. Quanto ai possibili effetti nocivi per la salute, in particolare sulle facoltà cerebrali che, secondo alcuni studi scientifici, sarebbero compromesse in età adulta dall’uso di cannabis durante l’adolescenza, i ragazzi sorridono e ribattono che a rendere stupidi è proprio tutta la questione dell’erba così come viene proposta. E domandano: "È meglio passare la serata girando per locali fino a sbronzarsi o farsi due canne?". Così ha scritto Sandrine Blanchard sul sito di Le Monde sabato scorso in un pezzo che concludeva notando che il ministro Vincent Peillon si è fatto severamente riprendere per le sue dichiarazioni sulla cannabis, ma i giovani liceali trovano invece normale che il loro ministro dell’educazione si esprima su questo argomento. L’appassionato dibattito in classe continua... ma silenzio!, terminava l’articolo. Di sicuro, però, il silenzio francese è un po’ diverso da quello italiano. A Parigi, infatti, un ministro ha sollevato la questione, anche se è poi stato rapidamente rimesso in riga, e una sua collega di governo ha annunciato che molti comuni sono pronti a partire con la sperimentazione delle sale di autoconsumo. In Italia, invece, il silenzio della politica è quasi totale. La gente discute delle questioni che la riguardano, che toccano la vita quotidiana delle persone, si tratti di scelte di fine vita o di tempi per il divorzio, di libertà di cura o di droghe leggere, mentre la politica, se lo fa, è solo per proporre leggi restrittive e proibizioniste. Così, c’è chi è costretto a lottare duramente, magari anche a fare disobbedienza civile andando incontro a conseguenze penali, anche solo per ottenere il rispetto di un diritto, come quello di ottenere un accesso più facile e più economico a farmaci che sono legali anche da noi. Che lo facciano dei politici è cosa che fa solo onore al loro lavoro, che siano costretti a farlo dei malati e cosa che, invece, dovrebbe far vergognare un Paese che insiste a definirsi civile. Libia: Amnesty; migranti sono sottoposti ad abusi e torture, ora peggio che con Gheddafi Ansa, 12 novembre 2012 Stranieri senza diritti, chiusi in carcere e spesso anche torturati. In un nuovo documento diffuso oggi, Amnesty International ha denunciato che in Libia i cittadini privi di documenti di soggiorno rischiano sfruttamento, detenzioni arbitrarie e a tempo indeterminato, pestaggi e, in alcuni casi, anche la tortura. Il documento, intitolato "Siamo stranieri, non abbiamo alcun diritto" è basato su una serie di visite effettuate dall’organizzazione in Libia tra maggio e settembre, e descrive la sofferenza di rifugiati, richiedenti asilo e migranti nel paese nordafricano. Durante i 42 anni di regime del colonnello Gheddafi, i cittadini stranieri - specialmente quelli provenienti dall’Africa subsahariana - avevano vissuto nell’incertezza di politiche mutevoli e nel timore di essere arrestati arbitrariamente, finire in carcere a tempo indeterminato e subire torture. La loro situazione è peggiorata dopo il conflitto del 2011, nel clima generale di assenza di legalità in cui potenti milizie armate continuano ad agire al di fuori della legge. Le autorità non contrastano il razzismo e la xenofobia, alimentati ulteriormente dalla percezione, assai diffusa tra i libici, che il deposto governo abbia usato "mercenari africani" per stroncare la rivolta. "È una vergogna che le violazioni dei diritti umani dell’epoca di Gheddafi ai danni dei cittadini stranieri, specialmente quelli di origine subsahariana, non solo siano proseguite ma siano persino peggiorate. Le autorità libiche devono riconoscere quanto siano gravi e diffuse le azioni delle milizie e prendere misure per proteggere tutti i cittadini stranieri dalla violenza e dagli abusi, a prescindere dalla loro origine o dal loro status", ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. "Abbiamo ripetutamente avvisato le autorità libiche della minaccia posta dalle milizie. Sollecitiamo nuovamente il governo a metterle sotto controllo e a chiamarle a rispondere delle loro azioni, ad adottare provvedimenti concreti contro il razzismo e la xenofobia e a tener conto di quanto la Libia dipenda dal lavoro dei migranti", ha aggiunto Sahraoui. Dal documento emerge che i richiedenti asilo e i rifugiati rischiano di essere arrestati in casa, in strada, nei mercati o ai posti di blocco. Alcuni vengono fermati mentre cercano di imbarcarsi per l’Europa o di attraversare il deserto. A effettuare la maggior parte degli arresti non sono le forze di polizia, ma le milizie armate che a volte agiscono con violenza, sequestrando telefoni, soldi e altri beni di valore. I cittadini stranieri sono inoltre esposti all’estorsione, allo sfruttamento e al lavoro forzato sia dentro che fuori i centri di detenzione. A volte sono detenuti in varie strutture, compresi i centri ufficiali di trattenimento per i migranti irregolari così come siti improvvisati quali hangar o basi militari. Tra maggio e settembre 2012, Amnesty International ha visitato nove centri di detenzione in tutta la Libia nei quali, nel periodo in questione, si trovavano circa 2700 cittadini stranieri, tra cui donne incinte, madri coi loro figli piccoli e minori non accompagnati, in cella insieme ad adulti sconosciuti, tutti detenuti per reati d’immigrazione. Nel settembre 2012, un gruppo di cittadini somali ha tentato invano di evadere dal centro di detenzione di Khoms. Sono stati catturati e picchiati duramente da uomini in borghese. Uno di loro, il 19enne Mohamed Abdallah Mohamed, ha raccontato di essere stato preso a calci, trascinato, colpito con pugni a un occhio e picchiato con bastoni e fucili. Ha riportato gravi ferite, tra cui una all’occhio sinistro. Nei centri di detenzione, privi di personale femminile, le donne sono inoltre esposte al rischio di violenza sessuale e violenza di genere. Iran: nelle carceri un inferno, tra torture e scioperi della fame di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2012 "Domani venite a riprendervi il corpo, comprate una tomba e non rilasciate interviste". Queste le parole con cui i familiari di Sattar Beheshti hanno appreso, il 6 novembre, della morte in carcere del loro congiunto. Il giorno dopo, l’hanno sepolto. Chi ha potuto vedere il suo corpo in quell’occasione, ha notato tracce di sangue rappreso sui piedi e sulle ginocchia e lividi sul viso e in testa. Beheshti, 35 anni, curatore del blog "La mia vita per il mio Iran", era stato arrestato il 30 ottobre nella sua abitazione di Robat Karim, a sud ovest della capitale Teheran, da agenti della Polizia informatica (un reparto istituito nel 2011 per vigilare sulla blogosfera e punire autori e contenuti ritenuti contrari alla sicurezza e alla morale del paese), presentatisi senza mandato e puntando una pistola contro la madre che protestava. Il giorno prima dell’arresto, aveva scritto sul suo blog: "Mi hanno inviato questo messaggio: dillo a tua madre che presto dovrà vestirsi a lutto, visto che non tieni chiusa quella tua boccaccia". Su quel blog, aveva attaccato la Guida suprema, l’ayatollah Khamenei, accusandolo di distrarre con una vuota retorica filopalestinese un’opinione pubblica disillusa dai casi di corruzione e dai fallimenti delle politiche economiche. Tra i suoi ultimi post, un’analisi della politica dell’Iran nei confronti del Libano e un plauso alla decisione del Parlamento europeo di conferire il Premio Sakharov 2012 al regista Jafar Panahi e all’avvocata per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, su cui torno dopo. Dopo l’arresto, Beheshti è stato portato al centro di detenzione di Kahrizak, poi nel famigerato carcere di Evin, dove ha presentato una denuncia. Nel testo, che è diventato pubblico, lamentava di essere stato arrestato senza mandato e di essere stato torturato durante gli interrogatori. Chi lo ha incrociato, a Evin, nel braccio 350 destinato ai prigionieri politici, ha riferito che aveva delle ferite ai polsi, segno che poteva essere stato appeso per le braccia al soffitto, uno dei metodi di tortura più diffusi in Iran e negli altri paesi della regione. La sera del 1° novembre, dopo aver trascorso qualche ora nell’infermeria del carcere, è stato trasferito in un luogo sconosciuto. I familiari di Baheshti vivono queste giornate nel terrore, in una sorta di arresti domiciliari in casa della sorella. Alcuni telefoni cellulari sono stati sequestrati e le altre utenze sono state messe sotto controllo. L’abitazione è circondata da macchine della polizia e gli agenti controllano ingressi e uscite, consentiti solo a una ventina di parenti stretti che avevano preso parte ai funerali. Nelle carceri iraniane, la tortura è praticata con regolarità. Lo ammettono, parzialmente, anche le stesse autorità iraniane. Addirittura nel 2009 il centro di detenzione di Kahrizak venne chiuso per un po’ di tempo dopo che alcuni prigionieri erano stati torturati a morte. Secondo Human Rights Watch, dal 2009 i decessi di attivisti per i diritti umani in carcere, attribuibili alla tortura, sono stati almeno 13. La situazione è terribile anche a Rejaei Shahr, come racconta questa testimonianza dall’interno del braccio della morte. Sempre a Evin, nove detenute politiche hanno portato avanti per diversi giorni uno sciopero della fame per protestare contro le perquisizioni arbitrarie e altre vessazioni subite in carcere. La protesta è cessata il 5 novembre, dopo che le prigioniere hanno ottenuto garanzie da parte della direzione di Evin di un miglioramento delle condizioni detentive e di un’indagine interna sui trattamenti cui erano state sottoposte. Continua invece a rifiutare il cibo, dal 17 ottobre, Nasrin Sotoudeh. Protesta perché da mesi non le fanno abbracciare i figli, che può incontrare solo attraverso un vetro divisorio. Pochi giorni fa, è stata trasferita dalla sezione generale al braccio d’isolamento 209, reparto sotto la supervisione del ministero dei Servizi segreti. Ultim’ora: il parlamento iraniano, rispondendo alle sollecitazioni delle organizzazioni per i diritti umani, ha reso noto che sulla morte di Sattar Beheshti verrà avviata un’inchiesta e che le conclusioni saranno rese pubbliche. Turchia: deputati e detenuti curdi in sciopero della fame per Ocalan Adnkronos, 12 novembre 2012 Sono diversi i deputati curdi che hanno aderito allo sciopero della fame indetto da oltre otto settimane da circa 700 tra attivisti e detenuti per chiedere la fine dell’isolamento di Abdullah Ocalan, il fondatore del Pkk attualmente in carcere per una condanna all’ergastolo. Il sindaco di Diyarbakir, città a maggioranza curda nel sud est della Turchia, ha annunciato di aver smesso di mangiare da ieri. Anche cinque parlamentari curdi hanno aderito all’iniziativa. Ocalan si trova in isolamento in un carcere su un’isola vicino a Istanbul dal 1999. I suoi avvocati non hanno avuto accesso all’isola per 15 mesi. Con lo sciopero della fame, gli attivisti chiedono inoltre che a Ocalan sia consentito parlare in un’aula di tribunale. La lingua curda è stata oggetto di severe restrizioni in Turchia ed era vietata a scuola fino all’inizio di quest’anno, quando il premier Recep Tayyip Erdogan ha deciso di riammetterla come materia facoltativa. Il governo turco ha affermato che nessuno dei detenuti si trova in condizioni di salute critiche per lo sciopero della fame intrapreso e che continuano a consumare acqua e bevande zuccherate. Diversi esponenti del Partito del popolo repubblicano, principale voce dell’opposizione, hanno però dichiarato che alcuni prigionieri incontrati presentano i sintomi della malnutrizione. Il governo, riferiscono media locali, sta trattando con alcuni membri del Partito di pace e democrazia, principale partito curdo, per metter fine a questo sciopero della fame collettivo. Arabia Saudita: decapitato omicida, 64esima persona giustiziata da inizio anno Tm News, 12 novembre 2012 Un saudita, condannato per l’omicidio di un connazionale, è stato decapitato con la sciabola nella provincia orientale dell’Arabia saudita. Lo ha annunciato il ministero dell’Interno. Mohamed al Shammari era stato condannato a morte per aver ucciso a colpi d’arma da fuoco Mohammed al Anzi a seguito di una lite, ha aggiunto il ministero in un comunicato pubblicato dall’agenzia ufficiale Spa. La sua decapitazione porta a 64 il numero di esecuzioni eseguite in Arabia saudita dall’inizio dell’anno, secondo il ministero dell’Interno. Nel 2011, 76 condannati a morte erano stati giustiziati nel regno, secondo l’Afp, per Amnesty International invece almeno a 79 esecuzioni. Lo stupro, l’omicidio, l’apostasia, il furto a mano armata e il traffico di droga sono passibili della pena capitale in Arabia saudita, che applica in maniera rigida la Sharia.