Giustizia: Bernardini (Radicali); il Ministero vuole smantellare gli Istituti Penali Minorili? Adnkronos, 11 novembre 2012 “Sarebbe l’ennesima distruzione di quel poco di decente che c’è nell’illegalità persistente del mondo penitenziario”. Pieno sostegno arriva dalla deputata radicale Rita Bernardini al sit-in dei sindacati di Polizia penitenziaria Sappe - Osapp - Sinappe - Ugl che si terrà martedì prossimo, 12 novembre, a Torino, davanti al carcere minorile Ferranti Aporti. La Bernardini ribadisce sul suo blog che “le condizioni di detenzione e di lavoro dell’istituto minorile sono state già denunciate quando nel luglio scorso la delegazione radicale alla Camera ha chiesto chiarimenti con un’interrogazione in merito ai ripetuti pestaggi subiti da un ragazzo da parte dei suoi compagni di detenzione”. Tuttavia - continua la deputata - “nessuna risposta è ancora arrivata dal Ministro della Giustizia e sono stata costretta a chiedere la calendarizzazione in Commissione Giustizia di questo atto di sindacato ispettivo, secondo quanto previsto dall’art. 134 del Regolamento quando il Governo è inadempiente”. “Oggi - continua - vengo a conoscenza dell’esasperazione del personale, che subisce, proprio per carenza di organico, “turni massacranti, mancata osservanza degli accordi sindacali, episodi di violenza trattati con leggerezza, visite fiscali in odio di chi soffre patologie dipendenti da causa di servizio, mancanza di equità nelle turnazioni, tensioni e conflitti” e perfino “utilizzo improprio delle telecamere per controllare il personale”. Sarà per questi motivi che il Ministro Severino ancora non ha risposto? E, a proposito di istituti minorili, devo presentare un’altra interrogazione per avere conferma o meno di una squallida operazione di cui si parla negli ambienti dell’Amministrazione per la quale gli istituti minorili saranno smantellati e sostituti con “repartini” nelle carceri per adulti?” si chiede la Bernardini. “Sarebbe - conclude - l’ennesima distruzione di quel poco di decente che c’è nell’illegalità persistente del mondo penitenziario. Il ministero della Giustizia lo ha già fatto con la chiusura del carcere di Marsala e di quello a custodia attenuata di Laureana di Borrello, per non parlare dei “piccoli manicomi” che sta via via aprendo nelle carceri in spregio alla sbandierata chiusura degli Opg”. Giustizia: “licenza di tortura”? in Italia c’è… e le foto di Claudia Guido ce la fanno vedere di Filippo Vendemmiati www.innocentievasioni.net, 11 novembre 2012 La tortura vista dagli occhi dei familiari delle vittime di soprusi e violenze di stato. Venti ritratti, senza sangue o violenza diretta, ma sguardi di dolore alla ricerca di verità, che ci dicono che quello che è capitato a loro in questo paese potrebbe accadere a chiunque, spesso senza motivo apparente, nell’indifferenza e nel silenzio. Gli occhi guardano ciò che noi non vediamo, ma ora possiamo immaginare. Claudia Guido, ventinovenne fotografa di Padova, questa mostra l’ha voluta fortemente. Ha girato per due anni l’Italia, ha conosciuto le persone, ha stretto con loro anche rapporti di intima amicizia, ha raccolto fondi sul web attraverso un video, hanno risposto e donato in tanti e dopo aver stampato e allestito i pannelli, ora ci sarà anche un catalogo. “La prima” si è svolta nel salone d’onore del Municipio di Ferrara dal 4 al 13 ottobre nell’ambito del Festival di Internazionale. Accompagnano l’esposizione le didascalie di alcuni giornalisti: Checchino Antonini (Liberazione), Dean Bulletti (Chi l’ha visto), Cinzia Gubbini (Il Manifesto), mentre alcuni scrittori “di fama e di impegno civile” dopo aver inizialmente accettato, hanno successivamente rinunciato. Proprio in questi giorni il percorso della legge per l’introduzione in Italia del reato di tortura ha subito ancora una volta un’interruzione quasi irrimediabile. Il Senato infatti , dopo quasi due giorni di discussione, ha deciso di rinviare in Commissione per “ulteriori approfondimenti” il testo di legge messo a punto dal relatore Felice Casson. A bloccare l’iter ci hanno pensato Lega, Pdl e Udc, timorose che l’introduzione del reato, così come è previsto e formulato nella Convenzione Onu ratificata dall’Italia nel 1988 e mai applicata, possa limitare l’azione delle forze dell’ordine. Particolare preoccupazione desta l’articolo 1 che parla di “reiterate lesioni o sofferenze fisiche o psichiche ad una persona”. “C’è chi vuole che la tortura in Italia non sia un reato”, ha commentato Felice Casson. “Non ci resta che la voce dell’arte per ridare voce alle vittime degli abusi di potere, ha scritto Patrizia Moretti, mamma di Federico,. In Italia la tortura è ancora ammessa e io e tanti altri lo sappiamo”. “Durante l’estate si erano accese nuove speranze, mi dice Claudia, a sentire alcuni parlamentari sembrava prossima l’approvazione della legge. Sarebbe stato bello assegnare a questa mostra il valore di una battaglia civile che aveva raggiunto positivamente l’obiettivo e invece siamo tornati indietro, anche se in pochi se ne sono accorti. Non ci stupisce, vorrà dire che avremo ancora più voglia di portare in giro queste fotografie e di lanciare più forte la denuncia. Oggi sono andata a ritirare pannelli e stampe e provo un’emozione fortissima. Tutta la mia indignazione, la mia rabbia, la mia voglia di cambiare le cose ora hanno una forma, oltre che una sostanza. La posso toccare, guardare, spostare. Voglio mostrarvi tutto quello che io ho visto in questi due anni, voglio che vi arrivi tutto il rispetto che provo per queste persone per il loro vissuto e per la vita che li aspetta. Spero che vi arrivi tutto, perché nonostante io conosca queste foto a memoria, centimetro per centimetro, vederle stampate grandi e importanti mi ha emozionata come se non le avessi mai viste prima. Portate un amico che non sa niente di tutto questo e due anni di lavoro avranno un senso. Perché le foto ai famigliari? Perché il mio coinvolgimento in queste storie era diventato inarrestabile dal momento in cui avevo conosciuto i familiari di Federico Aldrovandi. La loro assoluta normalità mi ha colpita profondamente. Un conto è sentir parlare o leggere di un caso di cronaca, altra storia è avere consapevolezza dei suoi protagonisti. Come ti sei avvicinata alla famiglia Aldrovandi e cosa ti ha più colpito? Con lo zaino in spalla, un progetto in mano e in punta di piedi. Ci siamo piaciuti molto, subito. Mi colpisce ogni giorno il loro non voler essere considerati vittime o coraggiosi. Patrizia dice spesso che il problema non è quello che è accaduto a lei, ma a Federico. Io non riesco ad immaginare un amore più forte e puro di questo. È nato un rapporto molto intimo, in particolare con Patrizia. Era indispensabile alla “ tua missione” di fare foto? Io e Patrizia ci siamo trovate, a volte mi sembra che ci siamo riconosciute in mezzo ad un milione di persone. Non era certo necessario per farle una foto significativa, anzi nell’aspetto pratico del progetto ha reso tutto più difficile: gestire emotivamente indignazione e senso civico non è come gestire sentimenti di affetto profondo e protezione. Sembrerà incredibilmente banale (ci piace esserlo) ma credo che quello che ci ha tanto unite sia la capacità che abbiamo di divertirci moltissimo insieme. Non c’è sangue, ma i loro occhi cosa esprimono? Sangue. Quello che hanno visto e annusato sui corpi senza vita dei loro figli, fratelli, padri. Perché il ritratto? Perché si possa riflettere come di fronte ad uno specchio. Sono ritratti decontestualizzati, nulla fa capire chi sono queste persone ed è stata una scelta precisa. Chiunque può immedesimarsi in queste fotografie, spero che questo insinui almeno un dubbio su chi le guarda. Potrei essere io? Due anni di lavoro, vissuti con queste persone, con il loro dolore e le loro ansie, come? Come un funambolo, in bilico. Ogni tanto si cade. La rete che ti salva è quella composta dalla famiglia di fatto che si è venuta a creare in questi anni. Fotografia come impegno? Potrei parlare di rispetto nei confronti della fotografia, anche se suona forse altezzoso. Un mezzo così potente va usato con cautela, il suo utilizzo commerciale è prevalentemente pornografico, il suo utilizzo artistico si sta invece evolvendo in opere ben confezionate ma spesso prive di contenuti. Quando è impegno spesso è farcito di forzature. Io cerco di evitarlo: avrei potuto inserire elementi in questi ritratti che esplicitassero il messaggio, per esempio mettendo in mano alla famiglia Aldrovandi dei manganelli rotti. Sarebbe stato più “sfruttabile” ma anche patetico. Illustri scrittori impegnati inizialmente offerto il loro contributo, ma poi sono scomparsi, perché? Cosa dici loro? La verità è che non so proprio il perché. Quello che vorrei dirgli è semplicemente che forse hanno perso un’occasione preziosa ma alla fine ho trovato collaborazione in persone che hanno sempre avuto a cuore queste storie e il cui lavoro sia in passato che oggi aiuta davvero queste famiglie. Sono molto orgogliosa della loro partecipazione e della loro fiducia nei miei confronti. Hai chiesto aiuto e finanziamenti dalla rete. Quanto è stato importante, che cosa ha significato? Salvezza? Ho iniziato questo progetto due anni fa. Lavoravo come commessa e ho finanziato tutto con il mio stipendio, per due anni. Da marzo non ho più avuto questa possibilità e davanti all’ipotesi di non concludere il progetto ho tentato l’ultima spiaggia: il Crowd Funding. Mi sono iscritta ad una comunità di artisti e ho presentato un progetto chiedendo un finanziamento collettivo, hanno contribuito quasi un centinaio di persone, da un dollaro fino a 500. In totale più di 3000 dollari. Riesci oggi a scattare foto “normali”, ritratti di gente comune, di amici che si fondono in un paesaggio circostante che chiede giustizia per non meditare vendetta? Ora che ci penso direi di no, o perlomeno in questo periodo è successo di rado che facessi foto non inerenti al progetto. Questo mi serve anche a capire dove sbaglio, non sono stata molto brava a mettere paletti, a distinguere in maniera netta ciò che è passione, lavoro, protesta, ambizioni artistiche, denuncia, dovere civico, sentimenti. Ho fatto molta confusione. Forse è il punto di forza di questo lavoro, ma è anche un limite che mi ha messo in crisi molto spesso. Una fotografa a cui ti ispiri? Non si tratta di sola ispirazione, preferisco pensare che Letizia Battaglia mi abbia insegnato qualcosa. Certo la considero la più grande fotografa italiana ma quello che ho imparato da lei va oltre la fotografia. Letizia Battaglia ha dato sempre priorità alla denuncia. Le è costato molto, sia personalmente (minacce di morte da parte della Mafia) ma anche artisticamente, ad oggi in Italia non gode assolutamente della considerazione che meriterebbe per il suo immenso lavoro, ma nonostante questo ha sempre continuato ad esporsi semplicemente per dovere di cittadino. E si vede in ogni suo scatto. Giustizia: domani ministro Severino visita il carcere femminile della Giudecca a Venezia Adnkronos, 11 novembre 2012 Il ministro della Giustizia Paola Severino si recherà lunedì 12 novembre a Venezia per due impegni. Nel corso della mattinata visiterà la Casa di reclusione femminile Giudecca, struttura penitenziaria, ospitata da un antico convento del 1300, che registra la presenza anche di donne con figli. Nel pomeriggio, dalle ore 17, la guardasigilli parteciperà alla tavola rotonda sul tema “Il sistema carcerario e le misure alternative: realtà e prospettive”, organizzata dall’Associazione Azione Futuro presso la sala convegni della Cassa di risparmio di Venezia a Mestre. L’incontro, moderato da Ugo Bergamo, segretario generale dell’associazione, oltre all’intervento della ministro Severino, prevede la partecipazione del presidente del tribunale di sorveglianza di Venezia, Giovanni Maria Pavarin, della direttrice della Casa circondariale di Venezia, Immacolata Mannarella, e di Daniele Grasso e Renato Alberini, rispettivamente presidente dell’Ordine degli avvocati e della Camera penale cittadini. Lettere: io digiuno per il carcere… di Leonardo Fiorentini (Ecologisti e Reti Civiche - Verdi Europei di Ferrara) www.estense.com, 11 novembre 2012 Le carceri non sono Grand Hotel. Non lo sono mai state: non lo erano ai tempi di Cesare Beccaria, non lo erano ai tempi di Castelli Ministro di Giustizia (sigh!), non lo sono ancor di più oggi, quando il sovraffollamento sta facendo scoppiare le carceri italiane. Non basta un televisore in una cella progettata per due persone che ne ospita 4, 5 o forse 6 ad aumentare le “stelle” della struttura. Soprattutto se sempre più spesso in carcere nel nostro paese ci finiscono gli ultimi, i poveracci, come se la detenzione fosse utilizzata come una sorta di discarica sociale. Leggi criminogene, come la Fini-Giovanardi sulle droghe che incarcera anche i semplici consumatori o la Bossi-Fini sull’immigrazione generano decine di migliaia di ingressi ogni anno, senza che vi siano reali offese alla sicurezza dei cittadini. Il carcere in un sistema penale equilibrato dovrebbe essere riservato ai criminali realmente pericolosi per la società: gli altri dovrebbero poter scontare la propria pena con percorsi alternativi alla carcerazione, che peraltro come testimoniano i numeri, sono molto più efficaci nell’abbassare la percentuali di recidività e garantire il pieno recupero nella società. Ma altre leggi nate sotto l’”emergenza securitaria” dell’ultimo decennio, come per quel che riguarda proprio la recidiva, impediscono di attuare con efficacia il principio della risocializzazione del condannato che la nostra Costituzione pone come cardine della pena. La soluzione non è certo costruire nuove carceri, o ingrandire gli attuali costruendo nei pochi spazi liberi all’interno del recinto, come si sta facendo per quello di Ferrara. Come scrive il Garante dei Diritti dei Detenuti di Ferrara “l’ampliamento del carcere di Ferrara, così come è stato pensato riduce, non amplia gli spazi utilizzabili”, facendo gravare il raddoppio della capienza “regolamentare” sulla perdita di molti spazi comuni in cui sono concentrate le attività sociali e lavorative dei detenuti (a partire dagli spazi aperti, ad esempio gli orti). La strada maestra è nel breve un decreto legge contro il sovraffollamento delle carceri, che cancelli subito le norme della legge sulle droghe che incarcerano per fatti di lieve entità e impediscono l’uscita dei tossicodipendenti. Le altre richieste al Parlamento e all’Amministrazione Penitenziaria sono le seguenti: approvazione della legge sull’introduzione del reato di tortura, approvazione della legge sull’affettività in carcere, approvazione dell’istituzione della figura del Garante nazionale dei diritti dei detenuti, applicazione integrale del Regolamento del 2000 per assicurare condizioni di vita dignitose. Per questo oggi (ieri, ndr) digiuno, aderendo alla mobilitazione nazionale promossa da Franco Corleone che ieri ha lanciato con una lettera aperta un appello al Governo sottoscritto fra gli altri da Don Andrea Gallo, Don Armando Zappolini, Patrizio Gonnella, Giorgio Bignami, Stefano Anastasia, Luigi Manconi, Mauro Palma, Luca Zevi, molti Garanti dei detenuti e numerosi operatori del settore. Vicenza: detenuto dà fuoco alla cella e getta olio bollente sugli agenti accorsi in suo aiuto Ansa, 11 novembre 2012 Ha dato fuoco alla cella del carcere di Vicenza in cui è recluso e successivamente ha lanciato olio bollente sugli agenti accorsi per salvarlo. È successo questa mattina, protagonista un detenuto 40enne di nazionalità serba. Tre i poliziotti rimasti feriti, uno lievemente, gli altri due, colpiti dal liquido bollente, sono stati portati al pronto soccorso. Un detenuto che si trovava nella cella di fronte ha avuto un attacco epilettico, probabilmente a causa del fumo. L’autore del gesto è indagato per reati legati al traffico di stupefacenti. Sulla vicenda si è espresso Eugenio Sarno, segretario generale Uil Penitenziari. “Il bilancio, o meglio il bollettino di guerra, degli agenti penitenziari feriti causa aggressioni da parte dei detenuti, dal 1 gennaio 2012 ad oggi, si aggrava ogni giorno di più. Con quest’ultimo episodio supereremo la soglia dei 160 agenti feriti che hanno riportato diagnosi superiori ai 5 giorni. È evidente - continua Sarno - che questo è il tributo che il Corpo di polizia penitenziaria paga soprattutto in ragione delle condizioni degradanti che caratterizzano la gran parte della carceri italiane”. “Premesso che nulla può giustificare la violenza, appare opportuno sottolineare come oggi a Vicenza siano ristretti circa 370 detenuti a fronte di una capienza fissata in 345. Ancora aspettiamo -sottolinea- che Monti collochi nell’agenda del Consiglio dei Ministri una sessione dedicata al sistema carcere, come aveva pomposamente annunciato prima della pausa estiva. Tra stanziamenti ridotti , blocco del turn over della polizia penitenziaria e sforbiciate agli organici degli operatori il futuro del pianeta carcere in Italia è destinato a caratterizzarsi di morte e violenza; altro che rieducazione e risocializzazione”. Lucca: prevenzione ai suicidi in carcere, il programma funziona di Alessandro Petrini Il Tirreno, 11 novembre 2012 Il carcere di San Giorgio all’avanguardia nella prevenzione dei tentativi di suicidio e negli atti di autolesionismo dei detenuti. Un successo frutto del protocollo messo a punto dall’Asl 2 con la casa circondariale. L’ultimo suicidio al San Giorgio risale a dieci anni fa, come spiega il direttore del carcere Francesco Ruello, ma “spesso - prosegue - assistiamo ad atti di autolesionismo e anche a tentativi che poi fortunatamente non vanno a buon fine. Nel nostro istituto c’era già una spiccata sensibilità verso questo problema e si adottavano prassi e procedure specifiche. Questo passaggio però è importante perché formalizza ufficialmente una serie di comportamenti da tenere”. Così dal 3 maggio nel carcere sono garantite 18 ore la settimana di presenza dello psichiatra mentre sulle 24 ore è assicurato presidio di continuità medica assistenziale. In più uno psicologo sempre per l’Asl minimo tre giorni a settimana. Roberto Sario, direttore di psichiatria nell’Asl 2, spiega che il nuovo protocollo si basa essenzialmente sui momenti dell’accoglienza dei nuovi arrivati e sulla presa in carico. Proprio la prima fase, effettuata dalla polizia penitenziaria, dal medico di guardia e dall’infermiere di turno, è la più delicata e individua subito i bisogni sociali e di salute dei detenuti e a coinvolgere gli operatori in un progetto condiviso. La presa in carico riguarda detenuti a rischio in fase di accoglienza ma anche quelli presenti in struttura che abbiano manifestato disagio psicologico. Il San Giorgio nasce come convento e non come carcere, per questo ha limiti strutturali e ristrettezze esaltate in negativo dal sovraffollamento. “La capienza sarebbe di 113 detenuti - prosegue Ruello - oggi ne abbiamo 129, tutti uomini nel programma di media sicurezza, di cui 62 italiani e 67 stranieri. La capienza regolamentare è di circa 140 unità, la soglia di tolleranza è a 199 persone”. Se il sovraffollamento delle carceri è generalizzato, per il direttore sanitario Asl 2 Joseph Polimeni non deve essere un alibi: “Vogliamo fare bene la nostra parte e questo protocollo è un atto dovuto che ci consente di rivedere l’organizzazione sanitaria del carcere”. Chieti: un lavoro dopo la pena, detenuti a lezione Il Centro, 11 novembre 2012 “Prima non sapevo fare niente, il posto in cui sono nato non offre opportunità. Quando uscirò da qui potrò dire: io so fare questo”. L’entusiasmo di Vincenzo Tammaro, 25 anni, campano, detenuto a Madonna del Freddo, basta da solo a presentare il progetto della Regione per l’inserimento socio-lavorativo di detenuti ed ex detenuti. Dal 20 settembre scorso Tammaro ed altri undici detenuti sotto i 40 anni sono gli allievi del corso da grafico impaginatore. Quattrocento ore di lezione, 3 ore al giorno, per imparare un mestiere che potranno spendere una volta scontata la pena. In più altri sette tra ex reclusi e detenuti in regime di articolo 21, ovvero coloro che possono uscire dal carcere durante il giorno, lavoreranno per un anno in aziende ed enti locali. Per accedere al finanziamento regionale di quasi 200 mila euro si è costituita l’Ats (Associazione temporanea di scopo), che vede come capofila l’ente di formazione e consulenza Focus, insieme a Voci di dentro, Smile Abruzzo, Radar interinale, Cna Abruzzo, Comune di Chieti ed Ente d’ambito Foro-Alento. Grazie ai fondi regionali i detenuti studenti avranno una borsa di studio di 2.400 euro, mentre gli ex detenuti lavoratori riceveranno per 12 mesi una borsa lavoro di 500 euro oltre ad un contributo per l’alloggio in caso di necessità. In più i tre più meritevoli del corso da grafico avranno un premio di 2 mila euro. Il progetto è stato presentato ieri mattina nella casa circondariale di Madonna del Freddo, fra l’entusiasmo dei partecipanti e di tutti gli operatori coinvolti. Dalla direttrice Giuseppina Ruggero, al magistrato di sorveglianza Maria Rosaria Parruti, agli agenti di polizia penitenziaria guidati dal comandante Valentino Di Bartolomeo. Tutti, nonostante le risorse sempre più esigue, si impegnano per garantire armonia e collaborazione fra tutti gli ospiti. E sono ben ripagati dalla soddisfazione dei partecipanti al corso, selezionati dagli educatori e scelti da una commissione esterna in base alla motivazione, alle capacità e alla pena che resta da scontare. Obiettivo del progetto è permettere di spendere le competenze acquisite durante la reclusione per riacquistare la libertà, iniziare una vita nuova con un lavoro vero che consenta di mantenere se stessi e la famiglia. “Sono a Chieti da un anno e mezzo ed è molto diverso da Poggioreale, dove stavo prima”, racconta ancora Tammaro, “Qui ho preso la terza media, ora sto facendo il corso di informatica che diventa sempre più interessante più si va avanti”. E il futuro fuori sembra più vicino e roseo. Oristano: nelle celle di Massama arrivano altri detenuti, sono tutti ad “altissimo rischio” L’Unione Sarda, 11 novembre 2012 Il “carico” è in viaggio da ieri sera e arriverà a Massama questa mattina. E così le celle del nuovo carcere di Oristano si riempiranno in un attimo. Chi siano i detenuti che stanno per essere sbarcati in Sardegna ancora non si sa di preciso. Ma le indiscrezioni raccolte a tarda sera lasciano pochi dubbi sulla loro pericolosità. La notizia del loro arrivo sarebbe dovuta rimanere top secret ma certi movimenti all’interno del nuovo penitenziario oristanese non sono sfuggiti. Prima della conferma che il carcere di Massama da questa mattina funzionerà a pieno regime. Di certo, infatti, c’è che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha dirottato in Sardegna due aerei carichi di detenuti. La maggior parte dei quali destinata al nuovo penitenziario di Oristano. Oggi dunque sarà una giornata di grande lavoro. Non solo per smistare i carcerati nelle celle allestite nei tre piani della nuova struttura. Un’equipe di medici è stata allertata e oggi dovrà occuparsi di tutte le visite previste per ciascuno dei nuovi reclusi. I nuovi carcerati destinati a essere rinchiusi a Massama sono considerati ad altissimo rischio. Si tratta, secondo le poche indiscrezioni che filtrano dalla direzione, di camorristi e mafiosi, tutti soggetti che hanno appena finito di scontare il periodo di carcere duro previsto dal 41bis. Il timore, nell’Oristanese, è quello di pericolose infiltrazioni, legate soprattutto all’arrivo dei parenti dei detenuti che potrebbero scegliere di insediarsi tra la città e i paesi dell’hinterland. L’arrivo dei detenuti ad alta pericolosità nel penitenziario di Oristano era stata denunciata già pochi giorni dopo l’apertura della nuova struttura. E la notizia aveva innescato subito un fiume di proteste. Ma è solo l’inizio perché nelle prossime settimane a Massama dovrebbero arrivare anche i terroristi che ora sono reclusi nel penitenziario di Macomer. Si tratta di un gruppo di arabi accusati di terrorismo internazionale e collegati a una rete di attivisti jihadisti. Il carcere della città del Marghine, infatti, è destinato a essere chiuso nel giro di pochi mesi e per questo i detenuti dovrebbero esser trasferiti tutti a Oristano. Insieme a mafiosi e camorristi che arriveranno stamattina. Sassari: bimbi in carcere con le madri e sovraffollamento, legali in sciopero per i reclusi La Nuova Sardegna, 11 novembre 2012 Una giornata dedicata ai problemi dei reclusi, alle loro condizioni di vita talvolta al limite della disumanità. Anche la Camera penale di Sassari - l’organismo che rappresenta gli avvocati penalisti - aderisce all’astensione nazionale indetta dall’Unione camere penali per il 22 novembre. È l’occasione per protestare contro il sovraffollamento. E i legali sassaresi hanno triste familiarità con questi problemi, per la particolarità di San Sebastiano, da molti definito uno dei peggiori - per condizioni strutturali - carceri d’Italia. Il 22 novembre, quando i penalisti si asterranno dalla celebrazione delle udienze (a parte quelle che hanno come imputati i detenuti), in tribunale sarà tenuta invece una assemblea aperta a quanti sono interessati ai problemi dei reclusi, al loro diritto a una detenzione che non sia punitiva, ma una via alla riabilitazione. I penalisti e i loro esponenti, presieduti da Gabriele Satta, potrebbero stilare una relazione finale con i dati sulle criticità di San Sebastiano. Si tratta di nodi ormai annosi, che non sembrano poter essere sciolti prima del trasferimento alla nuova struttura di Bancali (ancora in costruzione). Anzitutto: il sovraffollamento. Se fino ai primi di ottobre, grazie all’apertura del carcere di Nuchis, a Tempio, il trasferimento di alcuni reclusi da Sassari aveva portato una boccata d’aria tra le celle di via Roma, il livello rischia di salire di nuovo. Dopo quel trasferimento c’erano 100 detenuti, ora sono 160, entro la capienza regolamentare. Oltre questa cifra però si supera la soglia “tollerabile”, oltre la quale ai detenuti inizia davvero a mancare lo spazio vitale. Non è un caso che a metà ottobre, quattro che occupavano una cella hanno impedito agli agenti di far entrare un quinto detenuto. Non ne potevano più. Ma sono stati denunciati per resistenza. E poi c’è il piccolo dramma dei baby-detenuti: ci sono quattro mamme carcerate con altrettanti figlioletti. Per loro, non ci sono misure alternative al carcere. Napoli: Papa (Pdl); a Secondigliano Valter Lavitola non riesce a trovare farmaci Il Velino, 11 novembre 2012 “Si apprende da organi di stampa che Valter Lavitola nel corso dell’udienza di ieri ha lamentato le difficoltà connesse al reperimento di farmaci di cui lo stesso dichiara di avere assoluto bisogno”, dichiara il deputato del Pdl Alfonso Papa. “Lavitola, che ho conosciuto durante una visita ispettiva a Poggioreale, è stato successivamente trasferito a Secondigliano, dove le stesse difficoltà sono state denunciate a più riprese, già in passato, da diversi detenuti. Mi auguro - conclude Papa - che il penitenziario campano provveda quanto prima a porre rimedio, provvederò direttamente ad accertarmi della risoluzione di tale problema”. Palermo: detenuto non depone a processo mafia, Tribunale e Dap rimpallano responsabilità Adnkronos, 11 novembre 2012 Il trasferimento del detenuto dal carcere dell’Aquila al carcere Ucciardone di Palermo costa troppo e salta così la deposizione del dichiarante Rosario Cattafi al processo al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. La deposizione di Cattafi era stata chiesta nell’ultima udienza dal pm Antonino Di Matteo. Questa mattina il colpo di scena nel carcere Ucciardone di Palermo. Era tutto pronto per l’udienza ma il presidente della IV Sezione penale Mario Fontana ha fatto sapere alle parti che ci sono stati “problemi per la traduzione a Palermo di Rosario Cattafi, problemi connessi anche ai costi della traduzione”. Il presidente, a questo punto, ha chiesto alle parti di sentire Cattafi in videoconferenza ma il pm Antonino Di Matteo e l’avvocato dei due imputati, Basilio Milio si sono opposti chiedendo di sentire Cattafi di persona “questo ufficio insiste nel sentire Cattafi di presenza non solo per la prevedibile complessità degli argomenti che saranno affrontati ma perché, durante la deposizione, ci sarà la necessità di acquisire una prova diretta esibendo al dichiarante un album fotografico”. Da qui la necessità di ascoltare di persona, Rosario Cattafi, detenuto per mafia nel carcere dell’Aquila. Alla richiesta del pm si è associato anche l’avvocato di Mori e Obinu, Basilio Milio: “Faccio mie le dichiarazioni del pm e chiedo di sentire in aula Cattafi non solo per la delicatezza dell’esame ma anche per vagliarne l’attendibilità”. Sentite le parti il presidente del Tribunale Fontana “ritenuta l’assoluta necessità di procedere all’esame diretto di Cattafi” ha ordinato la traduzione del dichiarante al carcere Ucciardone di Palermo per il prossimo 3 dicembre. Cattafi è stato interrogato nelle scorse settimane dai pm del processo Mori. Il detenuto, che è anche un avvocato, ha raccontato ai pm che indagano anche sulla trattativa tra Stato e mafia che l’ex vicepresidente del Dap, Francesco Di Maggio, quando Cattafi era in carcere, lo avrebbe incaricato di parlare con il boss Nitto Santapaola per chiedergli di fermare le stragi mafiose in cambio di benefici carcerari. Cattafi ha anche detto di essere in possesso di due registrazioni che proverebbero il contenuto delle dichiarazioni. I pm di Palermo ritengono che le dichiarazioni di Cattafi si inseriscano nella ricostruzione ipotizzata dalla stessa Procura sulla trattativa tra Stato e mafia. Dap: la traduzione non è stata effettuata per espressa disposizione dell’AG In merito alla notizia di agenzia “Mafia: Dap senza soldi, salta deposizione teste a processo Mori”. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria chiarisce che la traduzione del detenuto Rosario Cattafi, in regime di 41bis, dall’Aquila a Palermo, per deporre all’udienza di oggi 10 novembre nel processo al generale Mori e al colonnello Obinu, non è stata effettuata per espressa disposizione dell’Autorità Giudiziaria. L’udienza odierna era infatti finalizzata a sentire le parti processuali per verificare la necessità della traduzione in aula, atteso che di norma la partecipazione al processo di detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis dell’OP avviene tramite il sistema di videoconferenza. Pertanto, continua la nota del Dap, non corrisponde al vero che la traduzione non sia avvenuta per carenza di soldi. Foggia: evade detenuto piantonato in ospedale, sospesi i due agenti che lo sorvegliavano Adnkronos, 11 novembre 2012 Stanotte verso le 3,30, un detenuto italiano R.F. di 31 anni di Bitonto, in provincia di Bari, in carcere per rapina ed altri reati, è evaso dal reparto di chirurgia d’urgenza degli Ospedali Riuniti di Foggia. Lo rende noto Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Il detenuto, che avrebbe finito di scontare la pena nel 2015, era legato alla criminalità dell’hinterland barese. “Sfruttando un momento di rilassamento del personale di polizia penitenziaria”, è scritto in una nota del Sappe, è riuscito a fuggire, nonostante fosse stato ricoverato ai sensi dell’articolo 17 del regolamento penitenziario, cioè per imminente pericolo di vita. Lo stesso era stato operato nello stesso nosocomio circa una decina di giorni fa. “Il Sappe - rileva Pilagatti - non ci sta poiché ancora una volta a pagare saranno quelli meno colpevoli poiché da anni, si denuncia la mancata apertura del reparto blindato presso l’ospedale di Foggia per poter piantonare i detenuti in completa sicurezza. Infatti il detenuto era ricoverato in reparto con un altro paziente. Cosa sarebbe successo se l’evasione avesse portato ad azioni cruente al paziente ricoverato insieme all’evaso?” Altra cosa denunciata sempre dal Sappe riguarda “la carenza di uomini per le scorte ed i piantonamenti dei detenuti. Infatti per piantonare il detenuto evaso, la previsione della scorta era di tre uomini, mentre ne erano presenti due. Così ogni giorno centinaia di traduzioni che trasportano detenuti come pure le decine di piantonamenti di detenuti in ospedale vengono fatte in dispregio delle norme, a causa della carenza di personale di polizia penitenziaria, ma tutto ciò non interessa a nessuno, se non quando accadono fatti come quello di stanotte ove un detenuto, ha avuto la possibilità di fuggire proprio per questa rete che è rotta e che nessuno vuole riparare”. Osapp: detenuto evaso dall’ospedale, sospesi i due agenti Il vicesegretario generale nazionale dell’Osapp: “Come sempre accade si cercano responsabilità altrove e non nell’anello debole della catena penitenziaria”. Sono stati sospesi dal servizio in via cautelare i due agenti di polizia penitenziaria di servizio nell´ospedale di Foggia dove è evaso un detenuto che era stato sottoposto ad intervento chirurgico. Lo rende noto con un comunicato il vicesegretario generale nazionale dell´Osapp, Mimmo Mastrulli. “Come sempre accade - afferma Mastrulli - si cercano responsabilità altrove e non nell´anello debole della catena penitenziaria. Un peso così forte non si può abbattere sulle sole spalle dei servitori dello Stato”. Il sindacato di polizia penitenziaria Osapp chiede “maggiore attenzione per quanto riguarda la sanità nelle carceri”. L’assistenza ai reclusi - si sottolinea - deve avvenire nelle carceri con la creazione di reparti blindati di degenza ospedaliera specializzati completi di personale specialistico, medici ed attrezzature idonee secondo le direttive europee”. Brindisi: dibattito “Riforma carceraria, umanità e dignità”, si è svolto venerdì sera www.brundisium.net, 11 novembre 2012 Un dibattito sulla “Riforma carceraria, umanità e dignità” è stato dato venerdì sera dall’Associazione “Azzurro Italia - Movimento per la terra e per la vita” che ha invitato illustri e competenti esperti in materia. Sono intervenuti, infatti, il Sindaco di Bari, Michele Emiliano, in qualità di magistrato, l’on. Luigi Vitali, membro della commissione Giustizia della Camera, l’on. Sergio D’Elia, segretario nazionale dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino” nonché esponente di spicco dei Radicali, il Presidente del Movimento “Azzurro Italia”, Attilio Miani, giornalista di Euronews. Ha moderato i lavori Nicola Frugis. Dopo un breve saluto di Teodoro Tramacera, presidente del comitato di Brindisi di “Azzurro Italia”, che ha illustrato le finalità del movimento, si è aperta la discussione, partendo dal richiamo del Presidente della Repubblica sul Parlamento affinché approvi le proposte sulle pene alternative, preoccupato della situazione esplosiva che va montando nelle carceri per il sovraffollamento. Emiliano ha illustrato le motivazioni per cui non ritiene opportuno un provvedimento di amnistia o indulto, convinto che tale soluzione non risolverebbe il problema. A suo giudizio è necessario intervenire nel settore della giustizia e, quindi, anche sulle carceri in maniera completa e decisa. L’On. Vitali ha tracciato il percorso che il Parlamento sta percorrendo in merito, mettendo in risalto le difficoltà che impediscono l’approvazione di questa importante riforma che richiede la maggioranza dei due terzi dei parlamentari e il disinteresse di tanti colleghi che non ritengono prioritario l’argomento. L’On. D’Elia, impegnato da sempre su queste tematiche, ha posto l’accento sulle condizioni assurde di invivibilità in cui versano i detenuti, non solo a causa del sovraffollamento ma anche a causa della scarsità dei servizi minimi che possa dare dignità al sistema. Ha, quindi, sostenuto la necessità di un intervento immediato che porti all’approvazione dell’amnistia e dell’indulto. Le conclusioni sono state tratte del dal Presidente di “Azzurro Italia”. Attilio Miani, che ha fatto una sintesi degli interventi offrendo spunti di riflessione. Nel chiudere i lavori Nicola Frugis ha evidenziato che su un tema cosi delicato l’opinione pubblica è poco sensibile e che lo stato delle carceri viene spesso trattato marginalmente, mentre, al contrario, il ripristino di condizioni di vivibilità nelle carceri è fondamentale per una nazione che vuole definirsi civile. Cinema: “Oscura immensità”… il delitto che divide tra grazia e vendetta di Magda Poli Corriere della Sera, 11 novembre 2012 Un grigio polveroso sembra avvolgere la scena divisa in due, da una parte una modesta cucina, dall’altra una cella. Grigio che contiene in sé il bianco e il nero, il bene e il male, anche colore delle ceneri, della mediocrità, di uno stato d’animo appannato, depresso e in questa atmosfera il regista Alessandro Gassman ha immerso “Oscura immensità” di Massimo Carlotto tratto dal suo romanzo “L’oscura immensità della morte”, la scena è di Gianluca Amodio. Grazia, perdono, vendetta, temi che si intrecciano in questo noir dalle molte profondità. L’autore con parole asciutte scava nella sfaccettata psicologia del dolore e un pensiero si evidenzia, come, in certi casi, la sofferenza sia un minimo comun denominatore che unisce assassino e vittima in una spirale con poche vie d’uscita. E poi, chi deve perdonare un assassino, il parente della vittima o lo Stato? Un assassino ha diritto a una seconda possibilità? Solo lo Stato lo può dire, e i parenti? Condannati a un ergastolo di dolore? Temi, interrogativi, riverberi di pensieri che nascono da uno spettacolo teso, intelligentemente ritmato, ricco di inventiva e ben recitato che oppone il grigio Silvano Contin, la vittima, annichilito da un dolore senza speranza, al carnefice, il rapinatore, Raffaello Beggiato che ha gli ucciso il figlio di otto anni e la moglie. L’assassino, che copre col cinismo il buio della sua vita, si ammala di cancro, gli rimane poco da vivere, vuole morire da libero davanti a un panorama. Chiede perdono a Contin ma questi non può darglielo. Confronti aspri, la libertà e la vendetta matura, terribile e il colpo di scena finale non servirà a distogliere Contin da “l’oscura immensità della morte”. Bravo Giulio Scarpati nel fare sentire come sotto le ceneri di Contin ribolla un magma di dolore, e altrettanto efficace Claudio Casadio, un Beggiato calcolatore e strafottente ma anche rassegnatamente disperato. Cinema: “Milleunanotte” documentario sulla vita nel carcere Dozza… tra sogni e speranze Tm News, 11 novembre 2012 L’attualità, il problema delle carceri e del loro sovraffollamento irrompono domani al Festival Internazionale del Film di Roma con il documentario “Milleunanotte”, in concorso nella sezione specifica di Prospettive Italia, girato nel Penitenziario Dozza di Bologna e diretto da Marco Santarelli. Il film racconta la vita che scorre nella sezione giudiziaria del carcere, tra rassegnazione e speranza, in un tempo sospeso che non passa mai e una “domandina” da scrivere. Nel gergo carcerario la “domandina” è la richiesta che devono fare i detenuti per poter incontrare il loro avvocato, un familiare, fare una telefonata o chiedere di lavorare e seguendo queste richieste il film entra nelle storie personali di alcuni detenuti e esplora la complicata burocrazia che regola il carcere. Santarelli ha raccontato che l’idea gli è venuta dopo l’incontro con uno dei monaci volontari che opera alla Dozza, il penitenziario italiano con il maggior numero di stranieri.”Ho passato sei settimane filmando i colloqui degli educatori e dei mediatori culturali con i detenuti, la vita di “rotonda e di braccio”, le ore di socialità in cella - ha dichiarato il regista - ho filmato al penale e nella sezione giudiziaria, dove si trova chi è in attesa giudizio e dove si concentrano le storie più drammatiche”. Poi l’incontro con una detenuta è stato fondamentale: “Ha ottenuto l’autorizzazione dal giudice di sorveglianza per tornare alcuni giorni a casa dai figli e quando il permesso è arrivato, ho deciso di seguirla nel suo viaggio di ritorno” ha raccontato Santarelli. Il titolo del film nasce da una sua “ossessione personale per il tempo. Milleunanotte è l’inizio di una lettera d’amore di una detenuta giunta alla sua mille e una notte in carcere”. Cinema: al Festival Film Roma “Milleunanotte” in carcere, tra suicidi e sogni di normalità di Alessandra Magliaro Ansa, 11 novembre 2012 Ha costruito una specie di corda con i lacci delle scarpe e si è impiccato alla finestra della sua cella: è morto così, appena tre giorni fa, un uomo di 31 anni, originario della Repubblica Dominicana che nel carcere bolognese della Dozza, doveva scontare una pena di cinque anni per traffico illecito di sostanze stupefacenti. È, nell’indifferenza, l’ennesimo suicidio di un detenuto, il 52esimo dall’inizio dell’anno, testimone ultimo di una situazione penitenziaria tragica. Della vita quotidiana “dentro”, tra le storie personali dei detenuti e i labirinti burocratici delle “domandine” che scandiscono la vita dietro le sbarre parla Milleunanotte, il documentario di Marco Santarelli, oggi al Festival di Roma in Prospettive Italia, girato proprio al Dozza. È, il penitenziario con il maggior numero di detenuti stranieri, oltre il 60%, con una popolazione tre volte superiore alla capienza regolamentare, dunque oltre il limite della tollerabilità. A presentare il film, prodotto da Pulsemedia con Ottofilmker, oltre al regista, una mediatrice culturale araba e una donna che ha scontato una pena di 4 anni. Milleunanotte segue il percorso di chi arriva, chi è dentro, chi torna fuori magari solo per un permesso. C’è Agnes che ha ottenuto di tornare a casa per cinque giorni, a San Pancrazio in Alto Adige, un viaggio di andata e ritorno, che serve a tentare di riprendere il filo di una vita normale. Ecco, la ‘normalità è quello che finisce per diventare il sogno di chi è dentro. Sogna una vita normale Miriam che ha preferito tornare in carcere piuttosto che disintossicarsi perché così puoi dividere la cella con Vivian, la sua compagna e sognare un futuro, di un lavoro e di una casa. Lo stesso sogno di Armand, un giovane albanese finito dentro con la sua fidanzata italiana: si sposeranno in carcere e intanto si vedono due volte al mese nella sala dei colloqui. Per gli stranieri, che sono moltissimi, la burocrazia delle “domandine” s’impara a fatica, le mediatrici culturali Fatima e Zackia provano ad aiutarli. Non è facile: Ibrahim ad esempio ha smesso di curarsi, rifiuta le medicine non ce la fa più, nessuno va a trovarlo, vuole solo lasciarsi morire, per questo ha cominciato lo sciopero della fame. “Ho passato sei settimane filmando i colloqui con i detenuti, le ore di socialità in cella, e nella sezione giudiziaria dove si trova chi è in attesa di giudizio e dove si concentrano le storie più drammatiche”, racconta Santarelli che ha intrapreso questo viaggio doloroso grazie all’incontro con Ignazio, un monaco che è tra i tanti volontari del Dozza. Cinema: Valeria Golino è Armida Miserere, morta suicida nel carcere che dirigeva www.primapaginamolise.com, 11 novembre 2012 Diventa un film la vita di Armida Miserere, la direttrice di molte carceri italiane morta suicida a Sulmona dieci anni fa. Armida Miserere era molisana di Casacalenda dove ha trascorso la sua infanzia. La pellicola, che si chiamerà “Come il vento”, si gira proprio in questi giorni e uscirà il prossimo anno. La regia è di Simon Puccioni e i protagonisti sono Valeria Golino e Filippo Timi. Le riprese, che sono alle battute finali, si svolgono tra Pianosa, Grosseto, Civitavecchia, Palermo e Roma. Fatto singolare: il film è realizzato con il contributo delle Regioni Toscana, Sicilia e Puglia, ma non partecipa proprio il Molise. A dare il volto a quella che è stata una delle prime donne direttrici di carcere, chiamata durante la sua carriera a dirigere i penitenziari più “caldi” d’Italia a contatto con i peggiori criminali, terroristi e mafiosi del nostro tempo, sarà Valeria Golino. Filippo Timi invece veste i panni del suo compagno, che fu ucciso dalla camorra. Armida Miserere iniziò la sua carriera a 28 anni nel carcere di Parma, e per vent’anni (gli anni difficili della mafia, del terrorismo , della P2), ricoprì l’incarico di direttore in vari carceri d’Italia; Voghera, luogo di detenzione delle terroriste “irriducibili”, Pianosa in mezzo a boss mafiosi, l’Ucciardone a Palermo, poi Torino, Ascoli Piceno, Spoleto, Lodi, San Vittore a Milano e infine Sulmona. Era una donna impegnata con serietà nel suo lavoro, tanto da essere spesso chiamata a risolvere situazioni in carceri difficili, ma per la sua concezione intransigente del carcere si era fatta una fama da dura, tanto da essere soprannominata “la femmina bestia” (all’Ucciardone), o “il colonnello”. In un’intervista rilasciata al settimanale “Io donna” nel novembre 1997 aveva chiarito le sue idee circa il ruolo del carcere, che deve sì recuperare il detenuto restituendolo poi “cambiato” alla società, ma deve comunque “essere un carcere e non un grand hotel”. Nella stessa intervista, attirandosi molte critiche, aveva definito “boiate” i trattamenti risocializzanti, anche se in anni successivi aveva attenuato questo giudizio negativo, tanto da aver sostenuto percorsi di rieducazione come alcune edizioni di “IngressoLibero”, in collaborazione con l’Associazione Sulmonacinema, e corsi scolastici da effettuare in carcere anche per i detenuti di alta sicurezza. Il 19 aprile 2003 Armida Miserere, questa donna dura, discussa, che incuteva timore ma anche rispetto e che godeva dell’amicizia di magistrati come Giancarlo Caselli e Alfonso Sabella, si uccise con un colpo di pistola alla testa nella sua abitazione annessa al carcere di Sulmona. Accanto a lei solo il suo cane e sul letto la foto del suo compagno Umberto Mormile, educatore carcerario, ucciso in un agguato di camorra nel 1990 a Milano. Questo lutto l’aveva segnata per sempre, anche perché associato alla rabbia e all’angoscia di non aver potuto per tanti anni avere giustizia, pur avendo fin dall’inizio comunicato i suoi sospetti poi rivelatisi veritieri. I responsabili della morte di Umberto Mormile furono individuati solo 11 anni dopo, nel 2001, in relazione a un maxiprocesso contro ndrangheta e camorra a Milano, e il rinvio a giudizio alla Prima Corte d’Assise era stato fissato per il maggio 2003. Ma Armida si era già uccisa. Sri Lanka: 27 morti in una rivolta nel carcere massima sicurezza Agi, 11 novembre 2012 È di almeno 27 morti e 43 feriti il tragico bilancio della rivolta nel più grande carcere dello Sri Lanka. I detenuti erano riusciti a impossessarsi delle armi di alcuni agenti dei reparti speciali durante una perquisizione delle celle alla ricerca di merci di contrabbando. I disordini nel penitenziario di massima sicurezza di Welikada sono i più gravi dal 1983, quando 50 detenuti Tamil furono massacrati dagli altri prigionieri cingalesi. Nel riferire il bilancio della rivolta al Parlamento, il ministro per le Carceri, Chandrasiri Gajadeera, ha annunciato l’istituzione di una commissione d’inchiesta. C’è stata una sparatoria di molte ore tra i detenuti e gli uomini della Special Task Force (STF) della polizia, che avevano condotto l’ispezione in cerca di droga e cellulari. I prigionieri sono riusciti a impossessarsi di 82 armi, tra cui fucili d’assalto, dopo aveva assaltato l’armeria del penitenziario. Svizzera: detenuto di 24 anni si è impiccato nel carcere ginevrino di Champ-Dollon www.ticinonews.ch, 11 novembre 2012 Un 24enne di nazionalità georgiana è deceduto oggi pomeriggio nel carcere ginevrino di Champ-Dollon. Il corpo privo di vita è stato trovato nella sua cella dal personale di sorveglianza; in base ai primi elementi il giovane si è impiccato, ha comunicato il Dipartimento cantonale della sicurezza. Sospettato di danneggiamento e violazione di domicilio, egli si trovava a Champ-Dollon da quasi un anno. Turchia: settecento detenuti curdi in sciopero della fame nell’indifferenza dei media di Riccardo Bottazzo www.meltingpot.org, 11 novembre 2012 L’ultima volta che sono passato per Istanbul, all’incirca un anno fa, sono andato a trovare uno dei cosiddetti “avvocati di Öcalan”. Uno di quelli ancora a piede libero, intendo. Si chiama, o si chiamava, Mazlum Dinç. Dico così perché non so più niente di lui. Quando gli ho chiesto di scambiarci le mail per tenerci in contatto mi ha sorriso e mi ha chiesto se davvero pensavo che lui, un “avvocato di Öcalan”, potesse avere una mail senza che il governo turco gliela chiudesse dopo un paio di giorni. Mazlum aveva appena inoltrato l’ennesima formale richiesta di incontrare il suo cliente, tenuto segregato nell’isola prigione di Imrali. E la sua insistenza, mi spiegò, era già sufficiente per farlo finire in galera con l’accusa di essere un simpatizzante del Pkk. Lo stesso destino degli altri 36 avvocati di Öcalan che, prima di lui, sono finiti dietro le sbarre. Lui - e aveva il coraggio di scherzarci su - era il numero 37. Il suo cliente, Abdullah Öcalan, è stato arrestato il 15 febbraio 1999. Le ultime sue notizie risalgono al luglio del 2011. Quando uno dei suoi avvocati - ora in galera pure lui con l’accusa di aver fatto da tramite tra Öcalan e il Pkk - era riuscito ad incontrarlo per pochi minuti. Il leader curdo stava male. Imbottito di droghe e psicofarmaci, senza possibilità di parlare con nessuno (è l’unico prigioniero dell’isola e gli è vietato scambiare due parole con i carcerieri), senza neppure poter leggere un libro o un giornale, o scrivere non dico una lettera ai figli, ma neppure su un suo quaderno. Eccolo qua, il “terrorista” Öcalan. Già, perché, come mi ha spiegato l’amico Muzlum, scrivere il suo nome senza la definizione di “terrorista” a precederlo, basta e avanza per far finire in galera qualsiasi giornalista. Altra categoria che, al pari di quella degli avvocati, ci mette niente a farsi trasferire di forza dalla scrivania alla cella, nel Paese di Erdogan. Erdogan. Quello che l’Europa addita come un fulgido esempio di traghettatore di democrazia nell’Islam. Non stupiamoci. Si diceva lo stesso di Mubarak e Ben Alì, e sappiamo che brutta fine hanno fatto. Fatto sta che in tutto questo scoppio di democrazia, avvocati, giornalisti e anche sindaci scomodi diventano presto detenuti. Detenuti altrettanto scomodi, però. Da due mesi, perlomeno 700 prigionieri politici curdi stanno portando avanti uno sciopero della fame sino ad ammazzarsi. Il tutto nel menefreghismo più cosmico dei media nostrani. Raccattando le pochissime notizie che si trovano in rete, non posso non ripensare al mio amico Muzlum e alla gentilezza con cui mi porgeva il tè aromatizzato mentre a voce bassa mi raccontava di come ogni mattina, andando al lavoro, salutasse la moglie e i figli col trasporto dell’ultimo addio. “Attendo di giorno in giorno la chiamata del procuratore. Basta una semplice e apparentemente innocua richiesta di presentarsi di persona per firmare un documento o rilasciare una dichiarazione. Poi ti trattengono con la scusa di accertamenti sino a che montano l’accusa che sei legato al Pkk per il solo fatto di che ti ostini a difendere il signor Öcalan. A questo punto la galera non te la toglie più nessuno”. Quanti sono i prigionieri curdi in attesa di giudizio o detenuti senza giusto processo nelle carceri turche? Nessuno può dirlo con certezza. Il Governo turco non dà nessuna statistica per il semplice motivo che per lui i curdi non esistono. Si tratta solo di banditi, terroristi, delinquenti comuni. Neanche il Kurdistan esiste. La catena montuosa dalle cime perennemente innevate e i grandi altipiani che si aprono ad est del Paese sono abitati solo da “turchi di montagna” che si ostinano a chiamarsi diversi e a parlare una lingua che non esiste, neppure come dialetto. Prima di fare tappa ad Istanbul e rientrare in Italia, ero stato a Diyarbakir per seguire qualche udienza del processo ai 155 sindaci accusati di essere... curdi. Il dibattimento è stato brevissimo. Il primo imputato ha preso la parola per rispondere ad una domanda e il giudice gliela ha immediatamente tolta e lo ha rispedito in cella con tutti i suoi compari. Aveva parlato in curdo. Il processo però è continuato lo stesso. L’unica voce era quella dell’accusa. Una voce turca. Poter difendersi nella propria lingua è, assieme alla cessazione dell’isolamento di Öcalan, la richiesta dei prigionieri curdi in sciopero della fame. Una richiesta che il governo di Erdogan non si sogna neppure di prendere in considerazione. Secondo un lancio di agenzia Ansa del 5 novembre, almeno 144 dei 700 detenuti che hanno aderito allo sciopero sarebbero oramai in condizioni definite “critiche”. Per alcune associazioni umanitarie, i numeri sarebbero ancora più alti e molti prigionieri sarebbero alimentati a forza con vitamine o medicinali. Difficile saperne di più perché i giornali turchi hanno avuto l’espresso divieto di parlare di questa storia e, come ho spiegato, da quelle parti un giornalista finisce agli arresti per molto meno. Sulla nostra sponda di Mediterraneo invece, dove i direttori di giornale costruiscono balle galattiche per lanciare campagne diffamatorie e la chiamano libertà di opinione, non è altrettanto facile per un giornalista finire in galera ma dei curdi che vanno a morire di fame non scrivono niente lo stesso. La censura la può fare lo Stato ma la può fare anche il menefreghismo. In entrambi i casi, l’informazione da diritto è diventata vittima. Afghanistan: inferno droga nel maggiore carcere del paese, 800 detenuti tossicodipendenti di Syed Anwer Ansa, 11 novembre 2012 Ingenti problemi di traffico e consumo di droga nel principale carcere dell’Afghanistan, con la complicità del personale carcerario. Il governo di Kabul è in subbuglio dopo che una recente e approfondita inchiesta nella prigione di Pul-i-Charkhi di Kabul, la maggiore del paese con circa 7.500 detenuti, ha evidenziato un grave problema di traffico di droga e di tossicodipendenza della popolazione carceraria che, secondo più fonti, coinvolge direttamente anche il personale della sicurezza interna. Sarebbero proprio gli agenti di servizio, secondo quanto è stato possibile appurare, che, controllando il traffico di oppio ed eroina, vendono poi le dosi ai detenuti. Costruito fra l’inizio degli anni 70 e la fine degli anni 80, Pul-i-Charkhi è tradizionalmente un luogo off limits per la stampa, ma il ministero della Sanità, guidato dalla coraggiosa Soraya Dalil, ha deciso ora di cambiare registro. E lo ha fatto invitando un gruppo ristretto di giornalisti per una visita eccezionale delle strutture, con l’opportunità di discutere con detenuti, personale carcerario e responsabili governativi. Fino ad oggi il dibattito verteva sulle violazioni dei diritti umani e su casi di tortura che avevano provocato sanguinose rivolte e mobilitato le Ong umanitarie con denunce del mancato rispetto degli impegni presi dal governo. Ma recenti esplosioni di violenza hanno mostrato che i protagonisti prima di attaccare gli avversari, hanno fatto uso di stupefacenti. Negli anni scorsi, fra l’altro, Gli Usa avevano trasferito a Pul-i-Charki militanti catturati in Afghanistan e rinchiusi a lungo nelle loro prigioni di Bagram (125 casi), a nord di Kabul, e di Guantanamo Bay (32), nonostante il clima di emergenza permanente esistente in esso. In queste ore è emerso con la forza di uno tsunami il nuovo fenomeno della droga. “È vero - dice all’Ansa il Jailer (capo esecutivo della struttura carceraria) Amir Mohammad Jamshed - abbiamo oltre un decimo dei detenuti (800) che hanno problemi di tossicodipendenza”. Jamshed ci tiene però subito a smentire che siano gli agenti a rifornire i carcerati dello stupefacente: “Non sono i miei uomini a farlo ma i famigliari che quando vengono in visita nascondono la droga in mille modi e la fanno perfino trasportare ai loro bambini”. In presenza del ministro Dalil un responsabile dello staff medico del carcere ha spiegato che “una parte dei detenuti tossicodipendenti lo erano già prima di entrare, dopo periodi di detenzione in Iran o in altri paesi. Ma gli altri, che sono di più, hanno avuto il primo contatto con gli stupefacenti proprio qui a Pul-i-Charkhi”. Un detenuto, a cui i giornalisti hanno potuto parlare, ha confermato che trovare droga è molto facile. “Io non so come entra - assicura - ma ce n’è una grande disponibilità, come fossero caramelle”. È ancora il Jailer Jamshed, infine, a tentare di mettere i puntini sulle “i”: “Non neghiamo la presenza della droga. Ma stiamo facendo grandi sforzi per bloccarla. Non si deve dimenticare che partite di stupefacenti entrano anche nelle prigioni di Paesi sviluppati che dispongono di grandi mezzi repressivi. E noi, qui, facciamo quello che possiamo”. Laos: marcire in prigione per le proprie ideee… nell’indifferenza del mondo di Riccardo Noury www.cadoinpiedi.it, 11 novembre 2012 Dal 1999 tre prigionieri di coscienza sono detenuti nelle carceri laotiane. Devono scontare vent’anni per aver partecipato a una manifestazione studentesca. Finora inascoltati gli appelli internazionali. Thongpaseuth Keuakoun, Seng-Aloun Phengphanh, Bouavanh Chanhmanivong. Vi dicono qualcosa questi nomi? Probabilmente no, ma non fatevene una colpa. Quella, enorme, ce l’hanno le autorità del Laos, che dal 1999 tengono in carcere a marcire questi tre prigionieri di coscienza. E una colpa, non molto meno grande, ce l’hanno i paesi dell’Asem 9, il nono summit Asia-Europa, che si è svolto proprio a Vientiane, la capitale laotiana, il 5 e 6 novembre. All’ordine del giorno, la cooperazione tra le due regioni. L’appello di Amnesty International a liberare i tre prigionieri è rimasto inascoltato. Ma chi sono Thongpaseuth Keuakoun, Seng-Aloun Phengphanh, Bouavanh Chanhmanivong, ora cinquantenni? Il 26 ottobre 1999 la polizia del Laos organizza una retata contro studenti e insegnanti, colpevoli di essere scesi in strada per chiedere riforme economiche, politiche e sociali. Avevano risposto a un appello alla mobilitazione del Movimento degli studenti laotiani per la democrazia, fondato da Thongpaseuth Keuakoun nel febbraio del 1998. Volantini e manifesti, niente di più. Ma questo è bastato per processare i tre attivisti per “tradimento” e chiuderli dentro una cella della principale prigione del paese, quella di Samkhe, a Vientiane, dove le condizioni sono così dure che un quarto attivista, lo studente Khamphouvieng Sisaath, è morto nel settembre 2001 (qui trovate informazioni generali sulla situazione dei diritti umani in Laos). Non è neanche chiaro a quanti anni i tre prigionieri di coscienza siano stati condannati. Dopo un decennio di silenzio, inframezzato da informazioni contraddittorie, nel 2009 il governo laotiano ha comunicato che la sentenza inflitta nei loro confronti non era di 10 ma di 20 anni. Un anno fa, in una comunicazione inviata all’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e le politiche di sicurezza, Catherine Ashton, le autorità del Laos hanno annunciato che Seng-Aloun Phengphanh e Bouavanh Chanhmanivong sarebbero stati rilasciati entro quest’anno. Nessuna menzione di Thongpaseuth Keuakoun. L’anno sta finendo, e l’occasione dell’Asem 9 è stata mancata. Nel discorso inaugurale del presidente della Commissione europea, Barroso, le parole “diritti umani” non erano previste. Dopo la pubblicazione di questo post, mi è stato segnalato che un anno fa cinque esponenti radicali (Mellano, Manzi, Dupuis, Khramov e Lensi) si recarono in Laos e vennero arrestati proprio per aver chiesto il rilascio dei prigionieri laotiani. Lo segnalo volentieri e ringrazio per avermelo ricordato. Iran: parlamento indagherà sulla morte in carcere del blogger arrestato l’ottobre scorso Adnkronos, 11 novembre 2012 Il Parlamento iraniano indagherà sulla morte del blogger Sattar Behesti, avvenuta mentre si trovava in prigione. Il 35enne blogger era stato arrestato il 30 ottobre scorso con l’accusa di “azioni contro la sicurezza nazionale sui social network e su Facebook”. È stato il vice presidente del Parlamento iraniano, Mohammad Hasan Abutorabifard, ad annunciare oggi che la commisiione sulla sicurezza nazionale e la politica estera avvierà un’indagine. “La commissione sta raccogliendo informazioni sul caso e un suo rapporto sarà presentato al Parlamento e alla nazione”, ha detto, secondo quanto riporta l’agenzia Irna. Prima dell’annuncio il deputato Ahmad Tavakoli, un conservatore che si oppone al presidente Mahmoud Ahmadinejad, aveva criticato il silenzio del governo sulla vicenda: “qualcuno è morto e deve essere spiegato il perché”, ha detto. Amnesty International ha denunciato che Beheshti era stato minacciato il giorno prima dell’arresto. Dopo aver trascorso una notte nella famigerata prigione di Evin, dopo aver denunciato maltrattamenti alle autorità carcerarie era stato trasferito in una località segreta. Giordania: ex capo servizi segreti condannato a 13 anni per corruzione e riciclaggio Nova, 11 novembre 2012 L’ex capo dei servizi segreti giordani, Mohammed Dahabi, stato condannato oggi dal Tribunale di Amman a 13 anni e tre mesi di reclusione per corruzione e riciclaggio di danaro sporco. È stato ordinato anche il sequestro di un ingente quantitativo di denaro dal suo conto e da quello della moglie. Dahabi stato a capo dei servizi segreti giordani dal 2005 al 2009 ed stato destituito dopo un rapporto della sezione anti riciclaggio della Banca centrale di Amman. L’ex capo dell’intelligence stato arrestato il 9 febbraio scorso e il Tribunale ha respinto la richiesta di scarcerazione su cauzione.