Conferenza Volontariato Giustizia Fvg: in carcere per aiutare, ma anche per interrogarsi di Giorgio Pilastro Ristretti Orizzonti, 9 marzo 2012 Fidan è kosovaro. Ha 23 anni, da 16 in Italia. È agli arresti domiciliari nella Casa Joana di Farra d’Isonzo. Alla fine della pena - lo sa già - verrà espulso nel suo Paese. “Non finirò mai di ringraziare Casa Joana: non ce l’avrei fatta tra quattro mura”. Mihai è rumeno. È detenuto nel carcere di Pordenone. “Pensavo di non farcela. All’inizio è dura, poi ci si abitua. Ti dimentichi che c’è un mondo fuori. Ti fanno diventare pigro, passivo, senza speranza. Tutto per un errore. La speranza, però, è vita e la dignità è forza”. Sabato 3 marzo nel Centro Balducci di Zugliano (Ud) si è tenuta l’Assemblea della Conferenza Regionale del Volontariato Giustizia del Fvg: accoglie nove associazioni che svolgono attività di volontariato nelle carceri regionali. Era giusto iniziare la cronaca dell’incontro dando voce a loro: ai detenuti. Pierluigi Di Piazza, animatore del Centro Balducci, all’inizio dei lavori ha voluto sottolineare come qualsiasi discorso sulle carceri debba necessariamente partire dalle vite e dalle storie di coloro che lì dentro sono rinchiusi. E tutti un po’ conoscono la situazione drammatica in cui si trovano i luoghi di detenzione in Italia ed anche nella nostra Regione. La Conferenza, come ha spiegato il suo presidente, Alberto de Nadai, ha il compito di essere un riferimento per le associazioni di volontariato che vivono a contatto con il mondo del carcere, ma anche quello di “far conoscere all’esterno le problematiche relative a questo mondo”. In particolare, quest’anno il confronto è stato sulle esperienze alternative al carcere e sul dopo pena. Temi difficili. Complessi. Le numerose relazioni da parte di tutte le associazioni presenti hanno disegnato un quadro sufficientemente esaustivo su tutta l’attività svolta da questi gruppi nei confronti dei detenuti. Cosa fa, come opera il volontariato in carcere? Quali sono i progetti avviati e seguiti? E, soprattutto, quali sono i problemi, quali le prospettive? L’attività di volontariato nelle carceri è una realtà concreta e consolidata in tutte le strutture detentive della Regione. Il tema del sostegno ai detenuti comporta due distinti momenti: dentro le mura durante la detenzione e nel periodo successivo, quello post detentivo. Quest’ultimo non meno problematico. Anzi, forse maggiormente critico, proprio per evitare le recidive. Dentro al carcere i problemi sono di ordine assistenziale (vestiario, denaro, ecc.) o relazionale (ascolto, dialogo, ecc.). Oppure di sostegno per i permessi premio. I temi del dopo carcere sono soprattutto casa e lavoro. Entrambi estremamente complessi. Le questioni relative alle misure alternative impattano con le strutture di accoglienza disponibili: poche rispetto alle esigenze. Ci sono iniziative formative per avviare al lavoro gli ex detenuti. “Ma è dura, dura, dura”, ha commentato Alessandro Castellari della cooperativa sociale Oasi di Pordenone, “fuori c’è il rifiuto”. Alcuni interventi, poi, mirano alla prevenzione. Nei confronti, ad esempio, di ragazzi considerati a rischio, come ha spiegato Miriam Kornfeind, coordinatrice della Comunità di San Martino al Campo di Trieste. Ma non si tratta solo di strutture, case e lavoro. Anche di cultura. L’Associazione Icaro di Udine, ad esempio, svolge nella casa circondariale di Udine un’attività di coinvolgimento culturale (incontri, giornali interni, conferenze, ecc.). Iniziative concrete. Specchio di una realtà attiva. Che deve fare i conti con carenze strutturali ed anche di risorse. Ma, soprattutto, lo ricordava Giovanna Facchino della San Vincenzo di Udine, con una realtà, quella del carcere, considerata spesso come una “discarica sociale” nella quale “ammucchiare i rifiuti della società”. Non a caso il recente decreto legge che ha modificato alcune norme sulla carcerazione è stato chiamato svuota carcere. “Si svuotano le cantine”, ha dichiarato il presidente della Conferenza, “si svuotano dalle cose”. Nelle carceri ci sono persone. “E i volontari”, ha chiosato Alessandro Pedrotti, della Conferenza Volontariato Giustizia del Trentino Alto Adige, “in carcere ci vanno, certamente, per aiutare, ma anche per interrogarsi, come testimoni privilegiati di una realtà”. Già, interrogarsi. Ad esempio, perché in Italia c’è bisogno di volontari nelle carceri? Perché a Zugliano si sono sentite molte progettualità, iniziative, confronti che dovrebbero coinvolgere la società intera e non solo un gruppo di volonterosi? Ed ancora. Come mai le testimonianze di Fidan e Mihai devono porsi, necessariamente, in una dimensione emotiva e non su quella di un civile confronto di diritti, doveri e responsabilità? Giustizia: il ministro Severino; per le detenute madri trovare soluzioni alternative Italpress, 9 marzo 2012 “Il problema della detenzione femminile e delle madri detenute con i loro bambini merita particolare attenzione”. È quanto scrive in una lettera indirizzata agli organizzatori del convengono, che si è svolto questa mattina nei musei capitolini, dedicato all’attività di Leda Colombini, il ministro della Giustizia, Paola Severino. “Studi approfonditi dimostrano che i bambini che vivono in carcere soffrono di disturbi legati al sovraffollamento, alla mancanza di spazio, alla carenza di socializzazione che incidono sul loro sviluppo emotivo e cognitivo. Il carcere, infatti, anche nelle situazioni migliori, è incompatibile con le esigenze di socializzazioni e di corretto sviluppo psico-fisico del bambino”. “Il fenomeno della detenzione delle madri con i loro bambini - prosegue Severino - costituisce un problema sociale, che richiede uno sforzo collettivo per individuare soluzioni in grado contemperare le esigenze di eseguire la sanzione penale irrogata alle madri e quella di garantire un’infanzia serena ai loro figli”. Il ministro suggerisce una possibile soluzione partendo proprio dall’esperienza della Colombini: “L’unica soluzione realmente praticabile ed efficace sembra poter essere individuata come Leda stessa suggeriva, nella attivazione di sistemi alternativi al carcere. È necessario ripensare il sistema delle sanzioni i Italia, tendo conto del fatto che il carcere non è l’unico luogo in cui è possibile scontare la pena. Siamo consapevoli che molto altro ancora si può e si deve fare per attuare l’auspicio di Leda Colombini che i bambini non varchino più la soglia del carcere”. Garante Infanzia: parole Severino monito condivisibile “Ho apprezzato e condivido le parole del Ministro Severino, il problema delle madri in carcere con i figli merita veramente particolare attenzione”. Queste le parole di Vincenzo Spadafora, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, che ha commentato la lettera del Ministro Severino inviata oggi alla cerimonia di Commemorazione per Leda Colombini, tenutasi in Campidoglio. “Troppi sono ancora i casi di madri recluse con i propri figli, in condizioni non idonee - ha continuato Spadafora - se teniamo conto che nel nostro Paese la legge prevede che fino al decimo anno di età del figlio, la madre condannata dovrebbe poter usufruire di strutture diverse rispetto al carcere. La neonata Autorità Garante si impegnerà da subito a far sì che, nel minor tempo possibile, si riduca il numero di madri in carcere con i propri bambini”, ha assicurato il Garante. “Per fortuna alcune strutture d’eccellenza sono già presenti in Italia e serviranno da esempio per garantire sempre più disponibilità in tal senso. Anche per questo ho chiesto al ministro Severino un incontro per approfondire insieme le problematiche condivise con il suo ministero”, ha concluso Spadafora. Giustizia: la dura vita delle donne condannate per reati del “4-bis”… e dei loro figli Redattore Sociale, 9 marzo 2012 Sull’onda emotiva provocata dagli omicidi dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dal 1992 è stato creato un “regime differenziato” per l’ottenimento dei benefici penitenziari. Si sono stabilite cioè delle limitazioni e degli obblighi per coloro che sono condannati per delitti di particolare gravità, indicati all’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario: mafia, organizzazione terroristica, omicidio, rapina, ecc. È il tema affrontato dal mensile “Terre di mezzo” nel numero di aprile. Nel loro caso il 4 bis determina un “trattamento diverso” rispetto agli altri ristretti. E a subirne le conseguenze sono soprattutto i loro bambini. Se infatti il figlio di un detenuto è condannato a essere inesorabilmente “figlio di un dio minore”, lo sarà doppiamente se quel genitore ha commesso un reato previsto dal 4 bis. Come illustrano bene le testimonianze di due donne detenute alla Giudecca, a Venezia. “Ho atteso 20 mesi prima di parlare con i miei figli e i miei genitori che vivono in Albania - racconta Mimoza. Mi sono permesse solo due telefonate al mese e dopo più di un anno e mezzo che non sentivo la loro voce, poterli chiamare è stata un’emozione fortissima. Non ero più abituata a sentirmi chiamare mamma, e non è stato facile”. Poco il tempo, molte le cose da dirsi. “Mi pareva di avere appena iniziato quando l’agente mi ha detto passate ai saluti - prosegue Mimoza. Mia madre mi stava spiegando che cosa era accaduto in quei venti mesi e non mi ero resa conto che i minuti erano volati. Non ricordo cosa abbia detto io e cosa loro, ma mi sembra di non essere riuscita a parlare di nulla in quei dieci minuti: sono così pochi, soprattutto per quelli come me che hanno la famiglia tanto lontana”. Altrettanto toccante il racconto di Luminita. “Per due anni ho fatto quattro telefonate al mese, nonostante fossi in regime di 4 bis. Nei tre istituti dove ero stata reclusa, infatti, si erano sbagliati. Poi un giorno, se ne sono accorti e mi hanno tolto le due chiamate di ‘troppo’. Ma che cosa potevo dire a quel punto a mio figlio che ha 12 anni? Che avevano fatto una legge nuova per cui non potevo più chiamarlo ogni sabato ma solo due volte al mese? E poi che cosa riuscirò mai a chiedere a mio figlio in venti minuti al mese? Forse solo come stai, come vai a scuola, e poco altro. E lui, come ha fatto oggi, mi risponderà: ho capito che sei in carcere, approfitta di questi pochi minuti, non voglio più sentirti piangere...”. Giustizia: la perizia accusa “Giuseppe Uva morì dopo botte in caserma”, ignorate le prove di Sandro De Riccardis La Repubblica, 9 marzo 2012 Giuseppe Uva non è morto per i farmaci somministrati, perché “la condotta dei sanitari non ha rilevato errori o inosservanze”. E le ragioni della sua morte nell’ospedale di Varese, a 43 anni, il 14 giugno 2008, vanno ricercate prima dell’arrivo in pronto soccorso, quando il “Pino”, alle 3 di notte, venne fermato ubriaco dai carabinieri con il suo amico Alberto Biggiogero, e rimase tre ore in caserma, vittima di “una tempesta emotiva”. Proprio Biggiogero, unico testimone mai sentito in procura, ricorda “un via vai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Giuseppe che echeggiavano per la caserma assieme a colpi dal rumore sordo”. Da lì Alberto chiamò il 118: “Stanno massacrando un ragazzo”. Ma i militari, richiamati dall’operatore, assicurano di non aver bisogno di un’ambulanza. Ora è la perizia medico-legale dei professori Davide Ferrara, Angelo Demoni e Gaetano Thiene, ordinata dal tribunale, a smentire in molti punti la ricostruzione del pm Agostino Abate che aveva individuato nei farmaci la causa della morte, e per questo aveva mandato a processo per omicidio colposo due medici del pronto soccorso di Varese (uno archiviato). Per i periti, la morte di Uva fu scatenata da “stress emotivo” dovuto all’alcool insieme alle “misure di contenzione fisica” e alle “lesioni traumatiche auto ed etero-prodotte”. Sulle lesioni che hanno portato all’infarto, scrivono i periti, “non è possibile fare ulteriori osservazioni” perché c’è “assoluta mancanza di documentazione inerente il periodo tra il fermo delle 3 e la relazione medica che prescrive il Tso”, fino “all’accesso in pronto soccorso alle 5.48”. È vero - continuano - che l’arresto cardiaco è avvenuto in Psichiatria, quando Uva era sedato “ma l’evento aritmico fatale è insorto nella fase di risoluzione della tempesta emotiva, nella fase di recupero”. Sul corpo, i periti trovano infatti “escoriazioni prodotte dall’urto contro un corpo contundente”, lesioni “espressione di una forza di lieve entità, con l’eccezione dei tessuti molli pericranici”, cioè in testa, “ove l’intensità appare fotograficamente di maggiore rilevanza”. Fotograficamente, perché - ed è un’altra critica alla procura - “la valutazione delle lesioni è esclusivamente fondata sulla documentazione clinico-ospedaliera e fotografica dei consulenti del pm”. Per l’avvocato della famiglia Uva, Fabio Anselmo, “la perizia è un macigno sul pm che dopo oltre tre anni non ha aperto un fascicolo su quanto successo in caserma”. I periti sostengono anche che Uva soffrisse di emorroidi e a questo riconducono la vasta presenza di sangue intorno all’ano, senza però escludere che sia stata provocata dai colpi inferti quella notte. Già la perizia genetico-forense del professor Adriano Tagliabracci, a dicembre, aveva riscontrato numerose tracce biologiche nello stesso punto, ma anche tracce biologiche estranee, di altre persone, come se in tanti avessero toccato quel corpo. “Uva è stato violentato?”, si chiede Luigi Manconi presidente dell’associazione “A buon diritto”. “E cosa è accaduto in caserma quella notte? Come è possibile che per quasi quattro anni la procura abbia ignorato testimonianze e prove che potevano portare alla verità?”. Giustizia: Giuseppe Uva è stato violentato? di Luigi Manconi L’Unità, 9 marzo 2012 L’interrogativo dopo gli accertamenti disposti dal giudice sui vestiti indossati quella notte “tracce di sangue sui pantaloni”. All’obitorio la sorella Lucia si accorse che gli avevano messo il pannolone. Giuseppe Uva subì violenza sessuale, quella notte del 14 giugno del 2008? La vicenda del quarantatreenne morto dopo essere stato trattenuto per oltre tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese, è arrivata a una svolta decisiva. Ripetutamente abbiamo denunciato l’incompletezza delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Varese e ora, grazie al deposito della perizia ordinata dal giudice sugli indumenti indossati da Uva quella notte, sembra che si possa intravedere un barlume di verità. Una verità che apre scenari inquietanti. Gli elementi conosciuti permettono di riassumere la vicenda come segue. Verso le 2.30 del 14 giugno 2008 Uva e il suo amico Alberto Biggiogero vengono fermati dai carabinieri mentre spostano al centro di una strada delle transenne, bloccando la viabilità. Vengono portati in caserma e insieme ai carabinieri assistono all’operazione sei poliziotti (l’intera forza di pattugliamento della città per la notte), i quali restano oltre tre ore all’interno dell’edificio. Biggiogero, testimone oculare di tutta la vicenda e autore di un dettagliato esposto-denuncia, descrive metodi “forti” utilizzati dai militari durante il fermo e le successive ora passate dentro la caserma. Oltre alle minacce e alle intimidazioni nei suoi confronti, Biggiogero, che è rimasto nella sala d’aspetto, sente provenire da un’altra stanza le “urla disperate” di Uva e il suono di colpi sordi. In un momento in cui rimane solo chiama il 118 per richiedere un’ambulanza, ma l’operatore con cui parla telefona in caserma per chiedere conferma e i carabinieri negano che ci sia bisogno di un intervento medico, liquidando la questione con un “si tratta di due ubriachi”. Solo verso le 5.30 viene chiamata la guardia medica e alle 6.00 un’ambulanza porta Uva in ospedale con una richiesta di Trattamento sanitario obbligatorio: un dispositivo di legge ideato per persone con malattia mentale che rifiutano le cure. Uva, nonostante mai avesse avuto problemi di salute mentale, viene trasferito nel reparto psichiatrico e trattato con psicofarmaci. La motivazione del Tso è la seguente: durante la permanenza in caserma Uva avrebbe messo in atto pratiche autolesive, lanciandosi contro il muro, sbattendo la testa contro il pavimento, contro i tavoli e contro gli stivali degli uomini che cercavano di tenerlo fermo. Durante il ricovero in psichiatria, alle 10.30 di quello stesso giorno, Uva muore. La descrizione, fatta da Lucia Uva, del corpo del fratello all’obitorio è la seguente: il naso deformato, un bozzo dietro la testa, un livido enorme sulla mano, la schiena e il fianco completamente blu. Ma c’è un dettaglio che più di tutti è rimasto impresso nella sua mente: suo fratello indossava un pannolone. Lucia Uva prende i pantaloni di Giuseppe e si accorge delle grandi macchie rosse nella zona del cavallo e delle tasche posteriori. La prima cosa che fa è togliere il pannolone dal corpo del fratello. E quello che vede è, se possibile, ancora più atroce: un rivolo di sangue esce dall’ano e spostandogli il pene nota i testicoli viola e tumefatti. Da quel momento, per Lucia Uva è impossibile pensare che sia stato Giuseppe ad autoinfliggersi quelle lesioni. Le indagini, decisamente carenti sulla parte relativa alla permanenza di Uva in caserma, si concentrano sui medici e sulla somministrazione degli psicofarmaci ritenuti incompatibili con lo stato etilico di Uva. Del fascicolo aperto contro ignoti a seguito della denuncia di Alberto Biggiogero non si sa ancora niente e Biggiogero, in questi quasi quattro anni, mai è stato ascoltato. Nell’ottobre del 2011 il giudice ha disposto degli accertamenti sui vestiti indossati da Uva quella sera e la riesumazione del corpo per effettuare una nuova autopsia. I primi risultati, discussi nell’udienza del 5 marzo dal perito incaricato dal giudice, non sembrano lasciare spazio a dubbi. Nella parte conclusiva della relazione troviamo scritto che sui pantaloni di Uva “oltre a sangue sono presenti cellule pavimentose con nucleo che possono essere derivate dalla regione anale o dalle basse vie urinarie”. Ma ulteriori considerazioni medico-scientifiche indirizzano verso la prima ipotesi, la “regione anale”. E in che modo può essere spiegata la presenza di sangue, proveniente da quella regione, sui pantaloni di Uva? Le ipotesi, di fronte all’evidenza dei risultati, non sono molte. Quella evidenziata da alcuni, ovvero che il sangue possa derivare dal collasso di emorroidi, non risulta confermata, dal momento che finora tale patologia non era stata rilevata. Resta l’interrogativo più inquietante: Giuseppe Uva ha subito violenza sessuale? Se sì, questa sarebbe avvenuta o nel corso di quelle ore trascorse in caserma o in quelle successive, passate tra l’ambulanza, il pronto soccorso e il reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo di Varese. Non solo: secondo un’altra perizia, non sarebbero stati i farmaci somministratigli a provocare il decesso, bensì una condizione di stress indotta da “stato di intossicazione etilica acuta; misure di contenzione fisica; lesioni traumatiche auto e/o etero prodotte”, che ha provocato l’arresto cardiaco. I periti, circa i fattori che hanno provocato il forte stress non possono fare ipotesi per “l’assoluta mancanza di documentazione inerente il periodo compreso tra il fermo” e il “conseguente accesso presso il pronto soccorso”. Dunque, a quanto di terribile tutto ciò evoca, si aggiunga il fatto che a queste tragiche ipotesi si arrivi solo ora. Giustizia: intervista a Giuseppe Gulotta, assolto dopo 22 anni di carcere di Francesco Ferro Gli Altri, 9 marzo 2012 Assolto dopo 22 anni di carcere per la strage di Alcamo Marina del gennaio 1976, costretto a furia di botte a confessare ritrattò, ma il giudice non volle credergli. Il mio incubo inizia il 12 febbraio 1976. Avevo diciotto anni. Quel giorno due carabinieri bussarono alla porta di casa chiedendo di me e mi ordinarono di seguirli in caserma perché dovevano fare degli accertamenti. Pensavo di andare a compilare dei moduli relativi ad una domanda che avevo presentato per essere arruolato nella guardia di finanza”. Assolto dopo ventidue anni di carcere, Giuseppe Gulotta è stato scarcerato lo scorso 13 febbraio grazie alla sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria che l’ha ritenuto estraneo alla strage nella casermetta di Alcamo Marina avvenuta il 26 gennaio del 1976, nella quale furono uccisi i carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. “Arrivato nella caserma di Alcamo - racconta - sono rimasto chiuso un paio d’ore in una stanza senza che nessuno mi dicesse nulla. Poi, attorno alla mezzanotte, la porta si è aperta e sono entrati almeno dieci carabinieri che hanno iniziato a pestarmi a sangue. Picchiavano con tutta la rabbia che avevano in corpo e sono andati avanti per tutta la notte. Ero convinto di morire, ero terrorizzato”. Come la picchiarono? Mi hanno legato ad una sedia e da li mi hanno letteralmente massacrato. Calci, pugni in faccia, nella schiena e nello stomaco. E mi sputavano in faccia. Sono arrivati anche a puntarmi la pistola in volto per cercare di farmi confessare di essere stato l’autore della strage nella caserma di Alcamo Marina, dicendo che altri avevano fatto il mio nome e che quindi mi avrebbero arrestato lo stesso. Ogni volta rispondevo alle domande, dicevo che della strage sapevo solo quello che avevo letto o sentito in televisione. E ricominciava la tortura. Avevo la bocca così piena di sangue che mi sembrava di soffocare. Poi lei confessò? Solo al mattino. Dopo l’ennesimo pestaggio sono svenuto e, quando sono rinvenuto, ho detto ai carabinieri di finirla perché non ce la facevo più, e che avrei detto tutto quello che volevano. A questo punto è stato redatto un verbale di confessione e sono convinto che quel verbale era stato compilato prima delle mie dichiarazioni. Cinque pagine che contenevano una ricostruzione del delitto con particolari che non ho mai riferito. Poi venne portato in carcere... Sì, e lì, interrogato dal giudice per la convalida, d’istinto ho ritrattato il verbale firmato in caserma, dichiarando di aver firmato solo perché per tutta la notte mi avevano torturato. Credevo finalmente di avere di fronte una persona che mi avrebbe ascoltato, e invece l’incubo è andato avanti. La denuncia delle violenze subite non è servita a nulla, e hanno solo richiesto una visita medica in carcere per verificare le mie condizioni di salute. Il medico ha scritto un certificato dichiarandomi guaribile in una settimana, ma non ha specificato da cosa erano causate le ecchimosi che avevo sul viso e su tutto il corpo. Ecco, da quel preciso istante, io non sono stato più creduto e mi sono fatto 22 anni di carcere da innocente. Come è riuscito a resistere rinchiuso in cella? Come ho fatto non lo so neppure io. Ero un ragazzino che ogni volta che sentiva i passi delle guardie carcerarie avvicinarsi alla cella pensava, anzi sperava, che stessero per venire a comunicarmi che la detenzione era terminata con tanto di scuse da chi mi aveva incriminato per un macroscopico sbaglio. È stata una speranza o un’illusione, chiamatela come volete, che non mi ha mai abbandonato e mi ha permesso di sopravvivere alla mostruosità della galera. Poi incontravo tutte le settimane i miei genitori che mi dicevano di resistere perché mi avrebbero liberato presto. Dovevo crederci o per me sarebbe stata la fine. Quando il giudice ha pronunciato la parola ergastolo mi è cascato il mondo addosso. Anche se, dal giorno della condanna definitiva a quella dell’arresto sono passati settanta giorni e avrei potuto anche tentare la fuga. Tanto a quel punto non avevo più nulla da perdere. Mi spiego meglio. La sentenza di condanna definitiva è del 19 settembre 1990 mentre il mio arresto è avvenuto il 27 novembre. Di tempo ne ho avuto per fuggire. Invece ho accettato la sentenza e il carcere a vita sperando che prima o poi la giustizia, quella vera, sarebbe arrivata. Si è mai sentito vittima dì un complotto? All’epoca no. Oggi mi rendo conto che ho fatto 22 anni di carcere per nascondere non so cosa... non so davvero cosa ci sia dietro gli omicidi dei due carabinieri; so solo che i veri colpevoli sono rimasti impuniti. Certo mi sono chiesto come mai l’ex brigadiere Renato Olino abbia atteso il 2007 per denunciare le torture sui detenuti e estorcere dichiarazioni non vere. I dubbi sono cresciuti in maniera esponenziale quando ho saputo che Olino aveva reso le identiche dichiarazioni già nel 1976 però, allora, nessuno stranamente ne parlò. Ora esiste un’indagine sui delitti nella caserma di Alcamo; poi c’è una seconda inchiesta sullo strano suicidio in carcere di Vesco e cioè della persona che mi avrebbe accusato della strage. E una terza strada investigativa che porta a Peppino Impastato e ai dossier che aveva raccolto sul delitto. Il carcere l’ha cambiata? La reclusione l’ho vissuta in solitudine. L’ora d’aria che ci veniva concessa non la utilizzavo e rimanevo in cella perché non volevo contatti con altri detenuti. Mi sono isolato e spesso ho avuto pensieri terribili che mi frullavano in testa. Poi arrivava la notte e allora i pensieri mi assalivano e piangevo come un bambino. La notte dietro le sbarre è il momento più brutto perché resti solo con le tue paure. Le lacrime che trattenevo di giorno per non mostrarmi debole quando si spegnavano le luci mi rigavano il viso come fossi stato un bambino. Ha mai pensato al suicidio? Qualche volta pensavo che, di fronte a una condanna all’ergastolo, non mi avrebbe più creduto nessuno e che era inutile lottare per difendere la mia innocenza. Sono entrato in depressione: non mangiavo più e ho anche pensato di togliermi la vita. Poi ho trovato la forza per reagire e sono riuscito a dare un senso alle mie giornate. Giuseppe Vesco, prima di essere trovato morto in carcere in circostanze poco chiare, la accusò della strage. Secondo quella confessione, estorta sotto tortura, Giovanni Mandala avrebbe forzato la porta della caserma con la fiamma ossidrica mentre a sparare sarebbe stato lei assieme al 17enne Gaetano Santangelo. Il 16enne Vincenzo Ferrantelli avrebbe, invece, messo a soqquadro le stanze dopo l’esecuzione. Che rapporti aveva con Vesco e gli altri giovani accusati del delitto? Conoscevo Vesco così come frequentavo Ferrantello e Santangelo perché abitavamo nella stessa strada ad Alcamo. Con Ferrantello e Santangelo eravamo amici e assieme si andava al cinema o al bar. A Vesco, invece, mi ero avvicinato nel 1975 ma con lui più che amicizia si deve parlare di conoscenza. I magistrati mi parlavano di Brigate Rosse e di estremisti. Ma quale estremismo... io facevo il muratore per portare soldi a casa perché vengo da una famiglia umile. I miei genitori erano contadini e a me la politica non è mai interessata e non interessa neppure oggi. Campania: scoppiano le carceri… è seconda regione più affollata Il Velino, 9 marzo 2012 Sono disponibili gli ultimi dati sulla presenza di detenuti nelle carceri italiane. I numeri fotografano il collasso della Giustizia che continua a non riuscire a risolvere alla radice il problema del sovraffollamento delle celle. Le statistiche dell’amministrazione penitenziaria aggiornate al 29 febbraio, riguardano i soggetti in esecuzione penale. La tabella non entra nel merito dei singoli istituti, ma è noto che case circondariali come quelle di Poggioreale e Secondigliano, sono tra le più affollate in assoluto. Su venti regioni, il primato dell’eccessiva presenza di detenuti va alla Lombardia che distribuisce in 19 penitenziari ben 9.388 reclusi a fronte di una capienza di 5.384. Segue la Campania. 17 carceri, 8.034 detenuti rispetto a posti per al massimo 5.793 persone. Si contendono il gradino più basso del podio a righe, la Sicilia e il Lazio. Nell’estremo sud dello stivale, ci sono 27 penitenziari: 7380 detenuti mentre ne potrebbero essere ospitati 5.454. Nella regione della Capitale invece, 14 le case circondariali: 6.742 persone dietro le sbarre mentre la capienza massima è di 4.838. Se si guardano con attenzione le cifre, al di la della triste classifica, è facile notare che la disparità è molto ampia più o meno in tutte le regioni italiane. Campania: Antigone a Caldoro; su Opg attivarsi per rispettare termini chiusura Ansa, 9 marzo 2012 Si avvia il processo di chiusura dei due Ospedali psichiatrici giudiziari campani (Napoli e Aversa) ed è indispensabile attivarsi per rispettare i termini di chiusura entro il marzo del 2013. Per questo il Comitato Stop Opg Campania scrive al presidente della Giunta regionale, Stefano Caldoro, nella sua duplice veste di presidente e Commissario alla Sanità. Lo rende noto Dario Stefano Dell’Aquila, componente di Antigone Campania, associazione che assieme al Forum della Salute Mentale e della Cgil costituisce il Comitato campano. “Siamo preoccupati - si legge nella lettera - dell’effetto paradosso che potrebbe avere l’articolo sugli Opg inserito nella nuova Legge Emergenza Carceri approvata in via definitiva in questi giorni, qualora l’auspicata chiusura dei sei attuali Opg trovasse soluzione con la messa a punto di nuove strutture regionalizzate per i folli-rei (mini Opg) e con il mero trasferimento in queste di gran parte degli internati della singola regione, senza attivare da parte dei Dipartimenti di Salute Mentale percorsi di presa in carico individualizzati”. “Perciò, oltre a segnalare l’urgenza di una legge che abolisca gli articoli del codice penale sull’imputabilità del malato di mente autore di reato, abbiamo proposto al Governo e alla Conferenza delle Regioni di erogare immediatamente alle Regioni i finanziamenti, previsti dal richiamato articolo della nuova legge allo scopo di finanziare progetti terapeutico-riabilitativi individualizzati (Ptri) a favore degli attuali internati negli Opg. Utilizzando questi budget individualizzati di cura, i Dipartimenti di salute mentale di origine dovranno prendere in carico, attraverso le strutture e i servizi già oggi presenti e disponibili, i soggetti da dimettere dagli Opg”. Per questi motivi i componenti del Comitato chiedono un confronto con il governatore della Regione Campania. Secondo i dati del Comitato Stop Opg nei due Ospedali psichiatrici giudiziari della Campania sono internate circa 330 persone. Sono 173 i cittadini campani internati in Ospedali psichiatrici giudiziari, 8 delle quali donne. Sono circa 1.200 le persone internate nei sei Opg italiani, 90 delle quali donne. Lazio: De Pasquale (Consulta Femminile); basta bambini dietro le sbarre 9Colonne, 9 marzo 2012 “Negli istituti penitenziari femminili del Lazio Civitavecchia, Rebibbia, Latina e Paliano le donne detenute sono circa il 10% della popolazione carceraria della regione, parliamo di donne giovani, meno giovani, straniere o italiane che si sono trovate a fare i conti con la detenzione carceraria, la sanzione più severa che il nostro attuale ordinamento giuridico prevede, una realtà che Leda Colombini conosceva molto bene, tanto da dedicare a queste donne gran parte della sua vita con un amore che non è venuto mai meno”. Ad affermarlo Federica De Pasquale, vice presidente della Consulta Femminile per le Pari Opportunità della Regione Lazio che ha partecipato in Campidoglio all’incontro organizzato per ricordare Leda Colombini. De Pasquale ha ricordato il tragico problema dei bambini da 0 a 3 anni detenuti insieme alle madri: “Oggi in Italia i bambini detenuti sono 55 e di questi 15 si trovano proprio nel carcere di Rebibbia, è mia convinzione che neppure uno solo di questi piccoli debba vivere una tale esperienza che considero come una violazione dei diritti umani”. “Occorre - conclude la vice presidente - andare oltre il concetto della detenzione negli Icam, gli istituti di custodia attenuati per le detenute madri, perché restano comunque strutture penitenziarie. Spero che presto il Ministro della Giustizia possa dar seguito a quella parte della normativa nazionale che prevede la detenzione in strutture come le case famiglia, sicuramente luoghi più a misura di bambino, così come auspico una migliore regolamentazione per quanto riguarda i criteri per le visite e l’assistenza”. Molise: detenuto morto a Compobasso; l’Asrem risponde sulla sanità penitenziaria www.termolionline.it, 9 marzo 2012 L’Asrem riscontra l’esposto del Vice-Presidente della Commissione Lavoro, Michele Petraroia, sul decesso di un uomo di 40 anni nel carcere di Campobasso e sulle disfunzioni del sistema sanitario negli Istituti Penitenziari del Molise. Per l’Asrem sulla morte di Luigi c’è un’inchiesta aperta della Magistratura per accertarne la dinamica, le cause e le eventuali responsabilità, nel mentre puntualizza che al passaggio delle competenze sanitarie dal Ministero della Giustizia alla Regione, sono stati potenziati i servizi e migliorate le risposte verso i 520 detenuti nelle carceri molisane. Per chi ha avuto modo di visitare direttamente gli Istituti di Pena della Regione, ascoltare la voce dei reclusi che lamentano cure, presenze del medico, ritardi nelle visite specialistiche e negli esami di laboratori, problemi per i farmaci, per i denti, gli antidepressivi e altre difficoltà similari che attengono le carenze di personale e di strutture, non è semplice fermarsi alla risposta dell’Asrem. Per questo il Vice-Presidente della Commissione Lavoro presterà la necessaria attenzione versi i richiami dei sindacati degli agenti di polizia penitenziaria, nei confronti delle associazioni umanitarie che operano nelle carceri e sulle sollecitazioni del personale medico ed infermieristico in servizio presso gli Istituti di Pena di Larino, Campobasso e Isernia. E proporrà l’inserimento nel nuovo Piano Sanitario Regionale 2012 - 2014 di specifiche proposte sulla stabilizzazione degli infermieri, sulla verifica di una reale e prolungata presenza di medici all’interno delle carceri, su una strutturazione di laboratori specialistici negli Istituti e infine su una semplificazione burocratica per le visite dei detenuti all’esterno del carcere. Roma: detenuta lamenta dolori; le dicono che ha aria in pancia, ma in realtà è un tumore Agenparl, 9 marzo 2012 Lamentava forti dolori addominali, ma secondo il medico del carcere non aveva nulla di grave, solo aria nella pancia. Ulteriori accertamenti, effettuati dopo diversi giorni a fronte del persistere del dolore, hanno invece evidenziato un sospetto carcinoma, una massa di tipo cistico di oltre 30 centimetri , più due altre formazioni a carico dell’ovaio. La donna è stata così sottoposta a un intervento chirurgico per asportare ovaie, utero e appendice: ancora qualche giorno di ritardo e non ce l’avrebbe fatta. Il caso, che vede protagonista una detenuta del carcere romano di Rebibbia, è oggetto di un’interrogazione parlamentare presentata dalla deputata radicale in commissione Giustizia Rita Bernardini. I.d.G, reclusa con ancora sei anni da scontare e ammessa al lavoro esterno (articolo 21 o.p.), prestava servizio in un laboratorio del Consorzio Artemisia poco distante dall’istituto, dove lavorava pelle e cuoio. Ed è proprio alla presidente volontaria del Consorzio che la donna si era rivolta alla comparsa dei dolori, il 14 gennaio scorso. Su sua indicazione, la detenuta si era così fatta visitare dal medico del carcere, il quale “in modo alquanto infastidito” le aveva detto che non c’era nulla di grave, ma semplicemente aria, come riferito l’indomani da I.d.G. alla volontaria. Rassicurazioni erano arrivate anche dalla radiologa del carcere che alcuni giorni più tardi aveva eseguito l’ecografia addominale riscontrando la presenza nella pancia di aria e liquido, mentre il 20 gennaio la dottoressa di turno a Rebibbia le aveva consigliato di sottoporsi a una Tac in una struttura privata posta all’esterno e di concordare con un medico, sempre privatamente, un ricovero per fare ulteriori accertamenti. Il giorno successivo la detenuta, in preda a dolori fortissimi, viene portata al pronto soccorso del policlinico Umberto I dove le viene diagnosticato un “sospetto carcinoma ovario”. In particolare l’Eco Addome evidenzia “un abbondante versamento ascitico fino allo scavo pelvico”, mentre la Tac mette in risalto una “massa di tipo cistico di oltre 30 centimetri che comprime sigma e dislocazione utero e vescica, pancreas, reni e area mesenterica”. Più due “altre formazioni a carico dell’ovaio”. “Il diritto alla salute, sancito dall’articolo 32 della Costituzione, rappresenta un diritto inviolabile della persona umana, insuscettibile di limitazione alcuna ed idoneo a costituire un parametro di legittimità della stessa esecuzione della pena, che non può in alcuna misura svolgersi secondo modalità idonee a pregiudicare il diritto del detenuto alla salute ed alla salvaguardia della propria incolumità psico-fisica”, si legge nell’interrogazione di Rita Bernardini. Ma “il trattamento sanitario riservato alla detenuta in questione non è conforme alle leggi dello Stato”, continua da deputata radicale che ai Ministri della Giustizia e della Salute chiede di fare chiarezza sulla vicenda segnalata, “al fine di individuare eventuali responsabilità e assicurare un’adeguata tutela del diritto alla salute dei detenuti”. Roma: Uil; carcere Regina Coeli al collasso, proclamato stato di agitazione Dire, 9 marzo 2012 “Lo scorso 28 febbraio 2012, si è potuto raggiungere un accordo sindacale, per rivisitazione dell’organizzazione del lavoro, raschiando il barile dell’organico di Polizia Penitenziaria presente con 394 rispetto alle 600 unità previste, chiedendo agli ultracinquantenni della Polizia Penitenziaria a dover riscendere in campo nel turno notturno, ai riformati parziali a dare il proprio contributo seppur la legge permette di essere esentati dai turni notturni e servizi di un certo rilievo. Pur avendo chiuso la quinta e la sesta sezione, la popolazione detenuta presente supera le 1.100 unità, con 8 detenuti sottoposti alla sorveglianza a vista, e viene utilizzata ogni stanza anche diversa dalla classica cella, pur di ospitare i ristretti, si è costretti ad utilizzare anche le salette adibite ai corsi scolastici. Praticamente possiamo dire che Regina Coeli è al totale collasso, senza possibilità di soluzione. Eppure basterebbe che il vicino Dipartimento, disporrebbe con provvedimento urgente, l’invio di un contingente delle 2.000 unità presenti nella loro sede di servizio, tra l’altro distaccate dai vari istituti penitenziari come la stessa Regina Coeli, e aiutare la stessa ad affrontare l’intera emergenza. Sarebbe sufficiente che mandassero le mancanti 180 unità alla CC Rieti o 60 alla CC Velletri per permettere l’apertura definitiva del Nuovo Penitenziario costato 50 milioni di euro o del Nuovo padiglione costato oltre 1 milione di euro e far defluire qualche centinaio di detenuti tra gli oltre 1.100 di Regina Coeli. Ma questo sembra non interessare molto lo stesso Dap, dove in questi ultimi anni ha sempre avuto un confronto poco disponibile rispetto ad un emergenza che dovrebbe coinvolgerla sia con gli uomini a sua disposizione del Dap, Uspev, ecc. sia con provvedimenti di altro genere che possa aiutare un Carcere che oramai e fuori ogni possibilità di riuscire a risolvere i gravi deficit che si ritrova. La Uil (con la maggioranza delle organizzazioni sindacali), si è assunta la responsabilità, di poter raschiare il barile, per evitare nel limite del personale presente di evitare situazioni di eventi critici (suicidi, evasioni, ecc.), andando incontro all’esigenze di sicurezza e prevenzione della Direzione, seppur servirebbe un intervento del Dap decisivo ad affrontare una situazione cosi grande e non più risolvibile con quanto presente alla Casa circondariale Regina Coeli. Per questi motivi, siamo costretti ad indire lo Stato di agitazione e probabilmente con probabili azioni pubbliche perché l’amministrazione penitenziaria si assuma la responsabilità e tuteli il personale di Polizia penitenziaria sottoposto ad un carico di lavoro senza precedenti negli ultimi 30 anni”. È quanto si legge in una nota della Uil. Bari: il Comune cerca di riprendersi i finanziamenti per la costruzione del nuovo carcere di Raffaele Lorusso La Repubblica, 9 marzo 2012 . Dopo il dirottamento dei fondi (circa 45 milioni) verso la costruzione di strutture ritenute più urgenti, annunciato dal direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta, il sindaco Michele Emiliano ha incontrato ieri a Palazzo di Città il magistrato Alfonso Sabella, già direttore del Dap, di cui continua a far parte, per cercare di riannodare i fili del dialogo. Nessuna dichiarazione ufficiale, ma a quanto è dato sapere Emiliano ha chiesto a Sabella di sostenere il progetto per la costruzione del nuovo carcere a Bari e l’assegnazione delle risorse già stanziate. Un ulteriore tentativo per trattenere un finanziamento che nelle intenzioni del direttore del Dap dovrebbe servire a completare 17 padiglioni, già in avanzato stato di costruzione. Di certo, l’amministrazione comunale non si rassegna. Dopo aver dato il via libera alla realizzazione di una struttura carceraria “leggera” (per detenuti in attesa di giudizio) nella zona di Santa Rita, Palazzo di Città vuole portare in porto il progetto. Anche perché l’obiettivo del sindaco è costruire una struttura più ampia che consenta di chiudere l’attuale carcere in corso Alcide De Gasperi. La battaglia per un penitenziario degno di questo nome si lega a quella per ottenere uffici giudiziari idonei. La situazione sempre più precaria delle strutture ieri ha spinto la Giunta barese dell’Anni a convocare d’urgenza un’assemblea, alla quale è intervenuto anche il presidente del tribunale, Vito Savino. “Dopo 45 anni di servizio alla giustizia non avrei mai immaginato di dovermi occupare di problemi condominiali, di funzionamento dell’impianto di riscaldamento e dei condizionatori”, ha detto. Savino ha auspicato una decisione dell’amministrazione comunale sulla localizzazione degli uffici giudiziari. “Più di quello che ho fatto con interventi pesanti nei confronti dell’amministrazione comunale, non posso fare - ha continuato. La nostra debolezza è che il servizio giustizia non può essere interrotto e di questo abusano coloro che sono obbligati a intervenire per assicurare un servizio decente in strutture decenti. Non ho mai condiviso prese di posizione riguardo la localizzazione del Palazzo di giustizia. Ho sempre riconosciuto che è una competenza esclusiva dell’amministrazione comunale, però la scelta deve essere fatta”. Il presidente dell’ordine degli avvocati di Bari, Manuel Virgintino, ha proposto un ricorso alla Corte di giustizia europea, non escludendo la possibilità di scendere in piazza. Il procuratore aggiunto di Bari, Pasquale Drago, ha descritto l’inidoneità del palazzo di via Nazaria dove “il personale amministrativo lavora nel disordine, nella polvere, nell’umidità e nei giorni più freddi con il riscaldamento spento”. Ma il problema è che, per il rappresentante della Procura, non si possono sospendere le udienze per protesta: “Non si può né per quelle con i detenuti - ha spiegato - né per quelle delle sezioni distaccate. La Procura è costretta a lavorare 24 ore su 24 e a far lavorare quasi tutto il personale in servizio”. Per i presidenti delle Camere penale e civile, Egidio Sarno e Mario Spinelli, l’unica soluzione è non rassegnarsi. L’avvocato Francesco Paolo Sisto, deputato pdl, ha annunciato la presentazione di un’interrogazione parlamentare sulla base di un documento congiunto. Nei prossimi giorni, l’Anm convocherà un nuovo incontro per la definizione di iniziative concrete. Venezia: il Sindaco; stop al nuovo carcere, ma Santa Maria Maggiore è al collasso La Nuova Venezia, 9 marzo 2012 “Dal ministero o dalla Regione non abbiamo ancora ricevuto alcuna formale comunicazione ma se il nuovo carcere non si realizzerà più resta il problema del sovraffollamento della casa circondariale di Santa Maria Maggiore, un tema tutto da affrontare da parte del governo”. Così il vicesindaco di Venezia, Sandro Simionato commenta la notizia secondo cui il vecchio piano carceri che prevedeva la realizzazione di una nuova struttura carceraria, prima a Campalto, poi alla Bazzera, non si realizzerà più. I tagli imposti dal governo Monti hanno ridotto il piano a 2.423 posti in più rispetto ai 9.150 previsti riducendo i fondi a 446,8 milioni di euro ,ha spiegato di recente il ministro Severino: previsti 17 nuovi padiglioni in carceri esistenti e 4 nuovi istituti penitenziari, oltre a Bolzano. E ieri mentre le assessore Rey e Agostini hanno incontrato le detenute della Giudecca per il “Marzo donna”, è tornato l’allarme di Veneto Radicale: Venezia è vicino al collasso. “La situazione di S. Maria Maggiore è al limite del collasso, oltre 350 detenuti a fronte di una capienza di 168, agenti in drammatica carenza di organico, operatori impossibilitati ad operare in modo efficace, carenza di fondi anche per il materiale d’igiene. Ora che l’alibi del nuovo istituto è venuto meno, i fondi congelati saranno ridati a S.M. Maggiore?”, ricorda Franco Fois che chiede la riapertura dell’istituto a custodia attenuata chiuso dal 2008 per lavori di manutenzione e invita il governo a ragionare sulla proposta radicale di amnistia. Bolzano: Rita Nuzzaci… la donna che comanda il carcere; ecco la mia vita dietro le sbarre Alto Adige, 9 marzo 2012 Una donna alla direzione di un carcere non è un’eccezione: dei 14 penitenziari del Triveneto solo 5 sono diretti da uomini. Anna Rita Nuzzaci, alla guida della struttura bolzanina di via Dante, parla di un ricambio generazionale che sta aprendo molta strada alle donne: “Finalmente valgono le doti personali e la professionalità, anche se resta un muro di sbarramento ai ruoli centrali di potere, ancora riservati agli uomini”. Nei nove anni alla direzione del carcere di Bolzano ha vissuto e gestito emergenze, come la rivolta dei detenuti del gennaio scorso, ma anche momenti di profonda umanità, fatti di iniziative commoventi che hanno regalato alle mura di via Dante un po’ di colore. “Quando sono arrivata, ero al mio primo incarico, in precedenza ero sempre stata vice, ed ero la prima donna a dirigere questa struttura”. L’equilibrio nella gestione delle risorse diventa la sua parola d’ordine. “Al contrario di quanto ci si possa immaginare, l’uso della forza è un elemento secondario nella quotidianità di un penitenziario, prima di tutto servono scelte ponderate, e una gran dose di buon senso”. La sua strategia è diretta verso il depotenziamento dei motivi d’insofferenza dei detenuti, piuttosto che nella repressione delle proteste. “Qui teniamo le celle aperte per una buona parte della giornata in modo che i detenuti siano liberi di muoversi e socializzare, anche se questa scelta impone una maggiore attenzione del personale di sicurezza”. Avere un po’ più spazio riduce di molto le possibilità di conflitto. “Un penitenziario è un luogo di dolore. Una lezione di un mio vecchio capo che non ho mai dimenticato è che il carcere non fa bene a nessuno, né a chi è vigilato né a chi vigila”. Per questa ragione spogliarsi del ruolo istituzionale si fa difficile al rientro a casa, quando si è solo mamma e moglie. “Non riesco fino in fondo a separare le due vite - ammette la direttrice - fortunatamente in casa non ci domandiamo più chi è che porta i pantaloni, questi ruoli li abbiamo superati”. Nella vita lavorativa la professionalità ha preso il sopravvento sui possibili pregiudizi di genere. “All’inizio c’è stato un momento di conoscenza reciproca con gli altri operatori della struttura - racconta: per tutti una donna al comando era una novità, poi il fatto che fossi donna è passato in secondo piano, tant’è che mi chiamano “direttore”. Le iniziative per il recupero e la formazione dei detenuti della gestione precedente sono state potenziate, e ne sono state ideate di nuove. “Purtroppo questa struttura così vecchia impone dei limiti rigidi di spazio, che pur con la migliore delle intenzioni rendono impraticabili moltissime delle attività che in altri penitenziari si svolgono normalmente”. Ma nel piccolo mondo di via Dante, però, ci sono stati momenti di distensione grazie al coinvolgimento dei detenuti in attività artistiche, culinarie, e formative di ogni genere. Forse è proprio in questa sensibilità che si intercetta l’anima femminile della direzione. “Dovevamo dare una rinfrescata al muro di cinta - racconta Nuzzaci - e abbiamo deciso di fare un corso per i detenuti in modo da coinvolgerli, poi abbiamo organizzato delle piccole squadre per intonacare e pitturare, ed erano molto contenti di fare qualcosa”. Così è nata l’idea di rifare anche qualche corridoio interno: “Ma in quel caso abbiamo diviso le pareti in quadri e le abbiamo assegnate a chiunque volesse dipingerci qualcosa, hanno partecipato tutti”. Dei murales, ormai sbiaditi dal tempo, Anna Rita Nuzzaci conserva delle belle foto che rivede ogni tanto con piacere: “C’era un ragazzo che faceva il tatuatore di professione, era un disegnatore eccezionale, ha fatto dei murales incredibili”. Poi sono nati i corsi di cucina, con tanto di esame finale e commissione di esperti: “I ragazzi si appassionano, studiano e alla fine si organizza una specie di buffet che loro preparano come se fosse un ristorante da gambero rosso, e pensare che lo fanno con i mezzi ridotti che possiamo fornire”. Le idee per il futuro sarebbero tantissime. “Ma aspettiamo la nuova struttura...”. Napoli: Alfonso Papa (Pdl) torna a Poggioreale… per una visita ispettiva Il Velino, 9 marzo 2012 Il deputato del Pdl Alfonso Papa è tornato nel carcere di Poggioreale in qualità di parlamentare nell’esercizio del sindacato ispettivo. In quel carcere, dove Papa è stato detenuto per 101 giorni a causa dell’inchiesta sulla P4, “la situazione - dichiara il deputato al termine della visita ispettiva - è drammatica a causa del nuovo picco di presenze: oltre 2.700 persone stipate in celle che potrebbero ospitarne 1.200 al massimo. Alla disperazione dei detenuti fa da contraltare quella degli agenti penitenziari impegnati in una missione quasi eroica per supplire alle gravi carenze della Asl e del ministero. Circa la metà dei detenuti è in attesa di giudizio, presunti innocenti privati della libertà personale in attesa di giudizio. Inoltre - continua Papa - oltre il 60 per cento dei ristretti si ritrova lì per la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, un dato questo che dimostra l’assoluta insensatezza di misure proibizioniste e carcerogene che ingolfano i tribunali e gonfiano le galere in nome della furia repressiva. Quanto al decreto cosiddetto svuota carceri - conclude il deputato Pdl - a Poggioreale ad oggi ne hanno beneficiato per tornare in libertà soltanto 31 detenuti, un numero risibile a conferma che quel decreto è un timido palliativo e nulla di più”. Voghera (Pv): detenuto tenta il suicidio, è il terzo in un mese La Provincia Pavese, 9 marzo 2012 Cresce il disagio nelle carceri italiane, anche nella casa circondariale di via Prati Nuovi, dove nel giro di un mese ci sono stati tre tentativi di suicidio o comunque atti autolesionistici. L’altro pomeriggio, pochi minuti dopo le 17, una squadra del 118 ha dovuto intervenire nel carcere di Voghera per soccorre un detenuto di 21 anni. Il giovane, probabilmente durante uno dei servizi di lavoro in cucina, si era procurato del detersivo e lo aveva ingerito: per fortuna non una grossa quantità, ma abbastanza comunque da stare parecchio male, con convulsioni e conati di vomito. Gli agenti di polizia penitenziaria si sono subito accorti dell’accaduto e hanno fatto intervenire il medico del carcere. Una volta appurato che si trattava di un’ingestione di sostanze pericolose, il medico ha preferito far trasportare d’urgenza il paziente al pronto soccorso di Voghera, dove è stato sottoposto a una normale lavanda gastrica. In tarda serata si è ristabilito ed è stato riaccompagnato in carcere, dove ha passato un paio di giorni in infermeria. Ieri sera è tornato in cella. Una decina di giorni prima un altro detenuto aveva tentato di avvelenarsi anche lui con del detersivo, ma in aggiunta aveva ingerito anche dei cocci di vetro o delle lamette da barba che si era procurato in qualche modo. Anche lui è stato dichiarato fuori pericolo quasi subito: più che altro aveva tagli in bocca. Un altro principio di avvelenamento si era verificato circa un mese fa. “Non si tratta di veri tentativi di suicidio - affermano gli agenti di polizia penitenziaria. Sono piuttosto quelli che noi chiamiamo “atti dimostrativi”, proteste o tentativi di richiamare l’attenzione su di sé. In realtà tra la sorveglianza di noi agenti e il pronto intervento delle strutture mediche del carcere, i rischi reali sono sempre molto contenuti”. Porto Azzurro (Li): l’Asl potenzia il servizio per i detenuti Il Tirreno, 9 marzo 2012 Telemedicina e banda larga sbarcano a Forte San Giacomo. Il tutto per potenziare e tutelare la qualità della salute anche ai reclusi. Il penitenziario di Porto Azzurro, infatti, è uno dei tre penitenziari della provincia di Livorno dove dalla prossima settimana inizieranno i lavori per la creazione delle infrastrutture tecniche necessarie a portare direttamente all’interno delle strutture carcerarie un’offerta sanitaria sempre più vicina a quella a disposizione degli altri cittadini. Monica Calamai è il direttore generale dell’Asl 6. Dice: “Si tratta di un altro passo in avanti nel lungo cammino di assunzioni di responsabilità dell’assistenza sanitaria portata avanti dall’azienda su tutto il proprio territorio, carceri comprese. Il nostro compito, fuori e dentro le mura penitenziarie, è quello di assicurare cure efficienti al servizio delle persone a prescindere dalle loro condizioni. Con questa novità estendiamo qualità e quantità dei nostri servizi all’interno della realtà carcerarie, un’opportunità fino a poco tempo fa assolutamente impensabile”. Asti: detenuti prendono “testimone” di campagna radicale per un Garante delle carceri Notizie Radicali, 9 marzo 2012 Ieri pomeriggio il senatore radicale Marco Perduca, il segretario dell’Associazione radicale Adelaide Aglietta Salvatore Grizzanti e il membro della Direzione nazionale di Radicali Italiani Giulio Manfredi hanno visitato la Casa circondariale di Quarto d’Asti. Ecco la dichiarazione al riguardo di Salvatore Grizzanti e Giulio Manfredi: “Le condizioni della struttura sono leggermente migliorate, positivo anche l’inserimento di 25 nuove unità della Polizia Penitenziaria che consentono una migliore gestione da parte della direzione. Le noti dolenti sono da rilevare per quanto riguarda le possibilità di lavoro per i detenuti: a causa delle poche commesse vengono meno le possibilità di impegnare detenuti nell’officina interna che produce arredi urbani, mentre rischia di fallire il progetto di agricoltura biologica nel quale tante risorse sono state investite a causa degli improvvisi tagli da parte del Ministero. Per evitare questo chiediamo al Comune di Asti di disporre l’aiuto economico necessario affinché tutto non venga perduto. Da oggi il testimone del digiuno a staffetta per chiedere che venga finalmente nominato il garante regionale per i diritti dei detenuti passa dai Radicali alla comunità penitenziaria di Asti, in particolare ai novanta rinchiusi nelle sezioni ad alta sicurezza che hanno fatto propria la battaglia. Sono gli stessi detenuti che un mese fa ci scrissero per comunicarci del loro ricorso al Magistrato di Sorveglianza di Torino contro il sovraffollamento della struttura di detenzione. Il ricordo non ha ancora avuto una risposta ma vogliamo sottolineare la presa di coscienza di chi passa dal delinquere all’utilizzo di strumenti del diritto e della nonviolenza”. Pisa: detenuti intervengono a favore degli infermieri, per scongiurare il loro licenziamento Il Tirreno, 9 marzo 2012 I detenuti della Casa circondariale di Pisa intervengono a favore degli infermieri che lavorano presso l’Istituto al fine di scongiurare il loro licenziamento. I motivi sono molteplici: innanzitutto necessitano di conservare il loro posto; poi per noi detenuti la loro presenza è importante per il loro grado di professionalità e sensibilità umana. Inoltre conoscono già le nostre patologie e sanno come districare le esigenze dei diversi detenuti malati e non ovvero hanno acquisito un’esperienza tale da sapere riconoscere le varie patologie anche quelle che necessitano una cura placebo, pertanto è importante avere al servizio persone competenti che sanno trattare con i loro pazienti e che per anni si sono dedicati con devozione e passione a questa atipica condizione e contesto dove ci vuole molto amore per il prossimo e loro lo dimostrano tutti i giorni con santa pazienza. Sono insostituibili, la loro opera va oltre al semplice fatto di somministrare delle medicine: hanno maturato una professionalità e un rapporto di fiducia e stima fra tutti noi detenuti degni di ricevere un plauso e un encomio piuttosto che vedere anni di sacrifici spazzati via dalla burocrazia. Massa Carrara: istituita la figura del garante dei detenuti Il Tirreno, 9 marzo 2012 Tecnicamente si chiama “garante dei diritti delle persone private della libertà personale”, la semplificazione linguistica lo definisce “garante dei detenuti”: è la figura istituita dalla Provincia di Massa-Carrara sulla base di una legge regionale del 2009. Requisiti, compiti, modalità di nomina sono stabiliti da un regolamento approvato dal consiglio provinciale. “Dopo un percorso che ha coinvolto tutti i soggetti interessati finalmente arriviamo all’istituzione di questa importante figura - ha commentato Domenico Ceccotti, assessore provinciale alle politiche sociali. Una iniziativa già concretizzata in altre amministrazioni provinciali: essere detenuto, a qualsiasi titolo, non implica un venir meno di quelli che sono i diritti fondamentali di ognuno. È questa, quindi, la figura più idonea per verificare che alle persone private della libertà personale siano garantite ed erogate tutte le prestazioni finalizzate al recupero, alla reintegrazione sociale e all’inserimento nel mondo del lavoro, assicurando la finalità rieducativa della pena”. Il garante, nominato dal presidente della Provincia sulla base di un avviso pubblico, svolgerà la sua attività a favore delle persone detenute negli istituti penitenziari. Salerno: dopo il carcere le detenute di Fuorni pronte a rinascere La Città di Salerno, 9 marzo 2012 Sono le “donne dentro”. Ma il loro sguardo è ancora fiero, pronto a posarsi su tutto ciò che le aspetta fuori, una volta scontata la pena. Ma è necessario l’impegno di tutti, istituzioni per prime. Ieri mattina anche le 28 detenute del carcere di Fuorni hanno festeggiato il loro 8 marzo grazie all’iniziativa dell’associazione radicale “Maurizio Provenza”, presieduta da Donato Salzano. Ad omaggiarle, nel giorno che celebra il coraggio e la forza delle donne, pure il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, che ha partecipato all’incontro volto a spezzare la routine carceraria e a dare conforto e speranza alle detenute, alcune delle quali giovanissime. “Sappiamo che quando si esce inizia un altro calvario - ha affermato il primo cittadino - che la fatica per riprendere una parvenza di normalità è doppia, ma l’amministrazione comunale cercherà di essere vicina nel vostro percorso di reinserimento nella società civile”. Il Comune ha infatti, per ora, finanziato alcuni laboratori attivati all’interno della casa circondariale per stimolare la creatività e l’operosità dei detenuti e, stando alle parole del sindaco, è pronto a continuare il percorso iniziato. Anche il direttore del carcere, Alfredo Stendardo, ha salutato con gioia il rinnovato interesse dimostrato dalle istituzioni locali verso la realtà penitenziaria che, ha sottolineato, “insiste sul territorio cittadino, fa parte della città e, in quanto tale, deve richiamare l’attenzione di tutti. Perché, in questo momento di crisi, il carcere da solo non ce la fa”. Alla mattinata di festa hanno aderito anche i laici di Azione Cattolica, associazione presieduta a Salerno da Peppe Pantuliano il quale ha sottolineato l’importanza degli “spazi di relazione” da ricreare, e promuovere, anche in realtà difficili come quella delle carceri. L’incontro di ieri è stato anche occasione per Paky Memoli, medico e consigliere comunale, di iniziare con le detenute un percorso in difesa della salute. La mattinata, durante la quale non sono mancati momenti di poesia e musica ispirati alla figura della donna, si è conclusa con l’intervento della musico terapeuta Alessandra Totoli che ha illustrato i benefici che può apportare il canto a chi vive una situazione di disagio. Grande la soddisfazione di Salzano, organizzatore dell’incontro promosso a pieni voti da tutti i partecipanti. Rimini: Radicali; visita di Rita Bernardini al carcere…. si può fare qualcosa subito di Ivan Innocenti Notizie Radicali, 9 marzo 2012 Nel secolo passato mentre nei campi di concentramento e di sterminio si attuavano le tragiche strategie di stato, fuori la popolazione continuava la sua quotidianità; nessuno sapeva, si interessava, chiedeva o sospettava. Succede oggi qualcosa di simile nella nostra città? Il 19 febbraio le porte del carcere cittadino si sono aperte per l’ennesima visita ispettiva che ha visto l’Onorevole Rita Bernardini, Radicale, con altri rappresentanti delle istituzione e cittadini visitare la realtà dei reclusi sotto la tutela della nostra repubblica. Anche sul territorio del nostro comune esiste una grave realtà di “tortura di stato” che vede centinaia di persone essere recluse nella illegalità più evidente. Sovraffollamento, condizioni igieniche inumane, negazione del diritto al lavoro, impossibilità di istruirsi. Tutto questo è negato nonostante la nostra costituzione preveda che il carcere sia occasione di rieducazione ed emancipazione. Oggi il carcere è occasione di ulteriore ingiustizia e degrado e restituisce alla società persone peggiori di quando sono entrate. Negato è poi per i meno abbienti comunicare con la famiglia. Non basta privarli della libertà in modo illegale, si nega con orgoglio la telefonata per evitare di sperperare risorse dei contribuenti (parole della direttrice del carcere di Rimini). Le stesse risorse senza discutere sono invece usate per “torturare” i detenuti in custodia dello stato. Tortura riservata in Italia anche a decine di migliaia di detenuti in carcerazione preventiva, incarcerati senza processo e che per il 50% la legge riconoscerà poi innocenti. Questa situazione è ben documentata; documentati sono gli oltre 700 suicidi di detenuti e gli oltre 80 suicidi del personale carcerario dal 2000 ad oggi in Italia; documentate sono le condanne che puntualmente la corte di giustizia europea commina al nostro paese. A seguito della visita ispettiva l’Onorevole Rita Bernardini ha depositato interrogazione sul carcere riminese. Indegne le condizioni delle sezione che abbiamo vistata e apostrofata dallo stesso Comandante del carcere “il Bronx”, non per la pericolosità dei detenuti ma per lo stato fatiscente della struttura. Su questo punto l’Associazione Coscioni con il parlamentare Bernardini hanno richiesto accesso agli atti al presidente della regione Errani per poter sapere se gli organi sanitari deputati abbiano mai visitato la sezione come da loro obbligo e se si come mai sia ancora aperta. Anche la visita alle celle di sicurezza della questura (oggetto anch’esse di interrogazione parlamentare) hanno evidenziato una situazione di necessità. I fermati posso essere trattenuti in cella fino a 3 giorni ma non è previsto un materasso e le celle sono prive di finestre. Sempre più sono evidenti gli effetti dell’amnistia di classe che permette ai ricchi e potenti di essere impuniti mentre i più poveri e privi di strumenti e mezzi sono facilmente condannati, trasformando così le nostre carceri in autentiche discariche sociali. Questa amnistia anche quest’anno grazierà oltre 170.000 processi non portando a giudizio finale gli imputati. È chiamata impropriamente Prescrizione. Questa descritta è la situazione dell’oggi, di ieri e dell’altro ieri. Tragicamente lo sarà anche del domani. Mi chiedo quale significato abbia avuto l’agosto scorso la visita del Vicesindaco di Rimini Lisi. Che sia stata una visita di cortesia alla Direttrice? Come è possibile che a fronte di tanta ingiustizia e illegalità presente sul territorio del suo Comune non sia seguita alcuna azione? Come è possibile che le istituzioni cittadine tollerino tale situazione sul proprio territorio senza attivarsi almeno nella denuncia e presa di distanza da questa realtà? Che i riminesi siano ignari complici alla pari degli ignari dell’evidenza dei campi di concentramento e sterminio? Forse anche le nostre istituzioni sono complici come le scimmiette che non Vedono, non Sentono ma soprattutto non Parlano? La rinnovata richiesta (inevasa dal 2009) del consigliere Gallo Vincenzo di istituire il garante dei detenuti può essere un primo passo contro questa indifferente complicità che è vergogna e crimine della nostra comunità cittadina e nazionale. Catania: accolto reclamo per “detenzione inumana” nel carcere di piazza Lanza da Flora Bonaccorso www.messinaweb.tv, 9 marzo 2012 Nel ricorso, evidenziata assenza della Regione Sicilia rispetto alle cure sanitarie ai detenuti. Il Magistrato di Sorveglianza di Catania, Salvatore Meli, ha accolto il reclamo di un detenuto recluso nell’istituto di Piazza Lanza per stato di detenzione inumana e degradante. Il Magistrato si è dichiarato incompetente rispetto alla richiesta di indennizzo per danno morale, rinviando al giudice civile. Il detenuto è assistito dall’avvocato Vito Pirrone, presidente dell’associazione nazionale forense, che nel ricorso, presentato il 13 dicembre scorso, chiede infatti l’indennizzo di euro 1.000 a carico del Ministero della Giustizia e dell’Amministrazione penitenziaria, oltre al ripristino delle condizioni di legalità e di umanità della detenzione a cominciare dal riscaldamento nei mesi invernali, il rispetto dei limiti di capienza nelle celle e servizi sanitari adeguati. “Nell’istituto di piazza Lanza - denuncia l’avvocato Pirrone - il detenuto non può accedere ai locali esterni alla cella se non per 1-2 ore al giorno. Non può lavorare, non può socializzare, non può svolgere alcun tipo d’esercizio fisico e mentale e nemmeno passeggiare nella “gabbia” destinata a spazio comune, salvo alcune rare eccezioni. Lo spazio vivibile all’interno della cella, escluso quello occupato da letti e bagno, è di circa 1,5 metri quadrati per ogni detenuto, costretto così a rimanere seduto o disteso per oltre venti ore giornaliere. Una detenzione di questo tipo, oltre che fiaccare lo spirito e la mente più del lecito che si deve attendere dall’espiazione della pena, avvilisce e annulla anche la remota possibilità di una vera risocializzazione”. Condizioni di detenzione inumana per i detenuti, ma anche condizioni gravose per i parenti e il personale penitenziario: i parenti che intendono mantenere i rapporti con il loro congiunto detenuto (molto spesso in custodia cautelare in attesa del processo) loro malgrado sono anch’essi accomunati in questa perdita di dignità, costretti a sopportare estenuanti file lungo il muro di cinta dell’istituto penitenziario, senza potersi proteggere dal sole o dalle intemperie”, spiega l’avvocato Pirrone, aggiungendo: “purtroppo, la situazione non è migliore per il personale penitenziario: anch’esso vive in una situazione lavorativa degradante e disumanizzante ed è costretto a turni maggiorati”. Infine, l’avvocato Pirrone critica l’atteggiamento del Governo regionale: “In Sicilia, purtroppo, al detenuto viene negato il diritto alla salute. Infatti, è oltremodo grave che la Regione Sicilia non abbia recepito detto passaggio di competenze creando un vuoto di assistenza sanitaria”. Genova: detenuto un anno in carcere ingiustamente, verrà risarcito con 100mila euro Ansa, 9 marzo 2012 Dopo aver scontato quasi un anno di carcere pur essendo innocente un ecuadoriano di 23 verrà ora risarcito con 100 mila euro. Il ragazzo era stato arrestato nel 2008 con l’accusa di rapina, lesioni e danneggiamento di un’auto dopo una rissa e venne scarcerato il 14 maggio 2009 quando dal processo emerse che aveva solo cercato di aiutare un amico rimasto ferito nella risa. Il suo avvocato presentò allora una proposta di riparazione per ingiusta detenzione che venne prima accolta in appello e poi impugnata in cassazione dell’avvocato di stato e poi parzialmente respinto dalla suprema corta. Oggi però è arrivata la sentenza definitiva della terza sezione della corte d’appello di Genova che ha deciso di liquidare al giovane la cifra richiesta. Genova: condanna per corruzione ex direttore carcere, assolto da accusa violenza sessuale Ansa, 9 marzo 2012 La Corte d’Appello di Genova ha confermato la sentenza di primo grado, due anni e mezzo di reclusione, per l’ex direttore del carcere di Pontedecimo, Giuseppe Comparone, di 61 anni, che era stato accusato di concussione e di violenza sessuale nei confronti di una detenuta marocchina (aggravata dall’abuso di autorità). Nel processo con rito abbreviato il gup Silvia Carpanini aveva ritenuto sussistente il reato di corruzione al posto della concussione, assolvendolo invece dalla violenza sessuale. Era stata la detenuta a denunciare l’allora direttore del carcere. I giudici di secondo grado oggi hanno disposto però la trasmissione degli atti alla Procura perché valuti, in base alle sue dichiarazioni, se la donna sia responsabile dei reati di corruzione e calunnia. L’avvocato Gianfranco Pagano che assiste la donna ha commentato: “È assurdo che chi ha denunciato una violenza passi da vittima a imputato, perché è evidente che una persona detenuta non potrà mai fare libere scelte in quanto si trova in stato di soggezione”. Roma: il Sindaco Alemanno; le carceri non siano luoghi di vendetta, ma di redenzione Adnkronos, 9 marzo 2012 “Le carceri non siano luoghi di vendetta, ma di redenzione, non luoghi di chiusura, ma di riabilitazione. La persona non deve essere cancellata. Quello che è importante è la dignità senza la quale non possiamo chiamarci comunità”. È quanto ha dichiarato il sindaco di Roma Gianni Alemanno intervenendo al convegno che si è svolto nella sala Pietro da Cortona ai Musei Capitolini, “Il pensiero per Leda simbolo del riscatto delle donne e dell’impegno civile. Incontro con il suo mondo”, dedicato a Leda Colombini, parlamentare, consigliera e assessore regionale, figura esemplare del mondo del lavoro e del volontariato per 20 anni presidente dell’associazione “A Roma Insieme” per il volontariato in carcere a favore dei diritti delle donne detenute e dei loro bambini. Presenti, tra gli altri all’incontro, Umberto Marroni, capogruppo Pd in Campidoglio, l’assessore alle Politiche sociali e per la famiglia della Provincia di Roma, Claudio Cecchini, Giuseppe Cangemi, assessore alla Sicurezza della Regione Lazio. E, riguardo poi a Leda Colombini, il sindaco di Roma ha aggiunto: “Non ho conosciuto Leda Colombini, ma dalla sua esperienza ho capito come la grande tradizione comunista sia stata particolarmente e consapevolmente radicata tra i più umili attraverso opere di solidarietà concrete e vissute”. Brescia: “Palla al piede”; premio letterario indetto dall’Associazione Carcere e Territorio Giornale di Brescia, 9 marzo 2012 “Palla al piede” è stata lanciata. In tutte le scuole superiori bresciane, grazie anche al patrocinio dell’Ufficio scolastico provinciale, sono stati diffusi i moduli per la partecipazione e il regolamento del Premio letterario promosso per il secondo anno, dall’Act, l’Associazione carcere e territorio. La proposta - come spiega il presidente Carlo Alberto Romano - viene dall’idea di diffondere, soprattutto tra i giovani, la sensibilità ai temi della legalità, con particolare attenzione alle “questioni” della pena e del reinserimento di chi ha “sbagliato” infrangendo la legge. Il Premio letterario fa parte delle iniziative per i 15 anni di attività dell’Act. Ed in particolare, fa parte del progetto che l’associazione sta attuando in alcune scuole bresciane. Il tema delle carceri e dei carcerati è particolarmente delicato e complesso, soprattutto in Italia. Ma resta anche una delle questioni “sensibili” per una società che voglia non fermarsi alla sola “punizione”, ma punti al reinserimento. Non è un atteggiamento buonista - spiega il prof. Romano - ma un interesse concreto di tutta la società: chi sta in carcere prima o poi uscirà ed è nell’interesse di tutti, anche di chi badi solo alla sicurezza, di fare in modo che chi esce non torni a delinquere. E accadrà così solo se si saranno poste le premesse per un reinserimento reale, a partire dal rapporto tra il carcere e le risorse che il territorio può mettere a disposizione. Tra i molti progetti avviati, anche quello che riguarda il tema delle “genitorialità” di chi finisce in carcere, che viene affrontato nell’intervista che pubblichiamo qui a fianco. Offrire occasioni di riflessione, attingere alla fantasia dei ragazzi: questa la sfida del Premio. Il titolo - Palla al piede - è stato scelto proprio per l’ambivalenza del messaggio: da una parte il peso di una situazione difficile, che tiene prigionieri; dall’altra parte il significato di una chance da giocarsi personalmente... Il concorso è aperto ad ogni genere letterario (noir, thriller, horror, rosa, fantasy, storico, politico, poliziesco, religioso, ecc...). Possono partecipare poeti e scrittori con testi in lingua italiana. Le opere devono essere spedite per posta in forma cartacea oppure per e-mail entro il 6 aprile. Qui si può trovare il regolamento dell’iniziativa. La partecipazione è aperta a tutti gli studenti delle Scuole Secondarie. Il testo dovrà contenere la parola “carcere” sebbene possa anche non trattare tale argomento. La giuria sarà presieduta dal prof. Carlo Alberto Romano e sarà composta da giornalisti, docenti, esperti ed operatori del settore. Verranno premiate le prime tre opere, scelte dalla giuria, più un’opera, votata sul web (sarà predisposta una pagina proprio su questo sito). Alla prima opera andrà un gioiello in oro, alla seconda e alla terza un gioiello in argento, personalizzati, offerti da VAI Milano. Gioiello d’argento all’opera più votata sul web. Le opere di maggior rilievo (anche non vincitrici) verranno pubblicate dal Giornale di Brescia. Verona: due iniziative per i detenuti, organizzate da Garante e Associazioni di volontariato Ristretti Orizzonti, 9 marzo 2012 Nel pomeriggio di venerdì 9 marzo, un gruppo di persone detenute della Casa Circondariale di Montorio, accompagnato dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Margherita Forestan e dal presidente dell’associazione “Progetto carcere 663” Maurizio Ruzzenenti, è stato in visita al Teatro Romano e al Museo Archeologico di Verona. L’iniziativa, realizzata grazie al sostegno dell’assessorato alla Cultura del Comune di Verona e alla collaborazione della Magistratura di Sorveglianza, rientra nel progetto di recupero sociale delle persone che hanno deviato rispetto alle regole di convivenza civile. Incontro con Roberto Vecchioni Sabato 10 marzo il cantautore Roberto Vecchioni sarà a Verona per un incontro con le persone detenute della Casa Circondariale di Montorio. L’iniziativa è promossa dall’associazione “La Fraternità” in collaborazione con la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Verona Margherita Forestan, con la direttrice della Casa circondariale Mariagrazia Bregoli e la dirigente dell’area pedagogica Enrichetta Ribezzi. A partire dalle 9.30, all’interno del carcere di Montorio, Vecchioni incontrerà due gruppi di detenuti, con i quali si intratterrà per raccontarsi in parole e musica. Immigrazione: reclusi in Cie di Lamezia “ci mandino via… senza tenerci in questa galera” Redattore Sociale, 9 marzo 2012 Visita alla struttura di Pian del Duca, che attualmente ospita 52 persone. Dalle sbarre trapela il malcontento: “Qui ci sentiamo come animali”. Il mediatore culturale: “Molti sono qui per spaccio e per la cultura araba è un fatto molto grave”. La capienza massima è di 55 persone, attualmente sono 52 gli stranieri reclusi nel Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Pian del Duca, alla periferia sud-est di Lamezia Terme. Sono tutti uomini e provengono soprattutto dall’Africa Settentrionale (le regioni del Maghreb) ma vi sono anche senegalesi, ghanesi e rumeni; l’età dei trattenuti del centro va dai 20 ai 50 anni. Grazie all’autorizzazione concessa dalla prefettura di Catanzaro, ci è stato consentito di parlare con i detenuti del centro, nel momento in cui erano tutti fuori nel cortile circondato dalla recinzione di sicurezza. Ad accompagnarci nella visita i sovrintendenti di polizia Giovanni Bruno e Salvatore Leotta, insieme al mediatore culturale Ammar Fatnassi e a Raffaello Conte, presidente della cooperativa sociale “Malgrado tutto” che gestisce il centro da diversi anni. Dalla rete di protezione e dalle sbarre gli stranieri in attesa di espulsione hanno sfogato tutta la loro rabbia, hanno espresso tutta la precarietà e la desolazione di una condizione che è di detenzione vera e propria. “Se dobbiamo tornare a casa allora che ci mandassero via subito senza tenerci in questa galera”. Questo l’amara considerazione dei detenuti del Cie che, inchiodati alla rete di protezione, hanno gridato al mondo che “non è giusto vivere così. Qui ci sentiamo come animali - hanno affermato con toni concitati -. Nel centro non funziona niente, il cibo che ci danno fa schifo. Abbiamo un sapone al mese e un solo pacco di detersivo deve bastare per gli ospiti di ogni stanza”. A rigettare in toto le dichiarazioni dei trattenuti del centro è stato il mediatore culturale Ammar Fatnassi che da dodici anni vive ed opera in Calabria. “Chi si lamenta lo fa perché non vuole essere rimpatriato - ha commentato Fatnassi; molti di loro sono qui perché si sono macchiati del reato di spaccio e, per la cultura araba, chi vende droga è una persona che non ha più nessuna considerazione e nessun rispetto. Quindi, per queste persone, ritornare in patria significa non avere alcun futuro, vuol dire sapere di trovare tutte le porte chiuse sul piano lavorativo, familiare, sociale”. Fatnassi ha dato ragione ai trattenuti a proposito del periodo di permanenza in questo tipo di strutture. “I 18 mesi stabiliti dal governo - ha evidenziato l’operatore sociale - non hanno agevolato la procedura, né tanto meno accelerato i tempi dei rimpatri”. Contestata anche la critica sulla pulizia e sulla bontà del cibo: “Il centro viene mantenuto pulito e la cucina sforna degli ottimi pasti tutti i giorni - ha assicurato il mediatore -. A disposizione dei trattenuti vi è anche uno psicologo; inoltre, chi se lo può permettere nomina il suo difensore di fiducia, invece chi non ne ha la possibilità viene tutelato dall’avvocato d’ufficio”. All’interno del centro vi è un ambulatorio attrezzato che si avvale della consulenza di due medici e due infermieri che si alternano nei vari turni. Nodo fondi pesa su futuro gestione A garantire ordine e sicurezza al Centro di identificazione ed espulsione di Lamezia sono, ogni giorno, da 4 agenti della polizia di Stato che dipendono direttamente dal commissariato di pubblica sicurezza lametino e 10 uomini del reparto mobile di Reggio Calabria, i quali si alternano in cinque turni quotidiani. Vi è poi una postazione con 60 militari (12 a turno). Le autorità che vigilano sulla struttura garantiscono sul fatto che, attualmente, i trattenuti all’interno del Cie sono tutti maggiorenni. Il Centro di Pian del Duca ha 18 stanze, in ognuna vi risiedono 3-4 persone. Raffaello Conte, presidente della cooperativa “Malgrado tutto” che gestisce il centro spiega che ad ogni recluso del Cie vengono dati 5 euro al giorno per le sigarette, la pulizia personale, la ricarica telefonica. Per ogni straniero in attesa di espatrio, la prefettura eroga quotidianamente 43 euro “ma - afferma Conte - ci hanno fatto sapere che molto probabilmente la retta sarà abbassata a 30 euro. Se così sarà ci troveremo in notevole difficoltà perché già la gestione della struttura col budget attuale non è facile”. Conte rigetta in toto le lamentele dei detenuti del Cie e dichiara: “Provvediamo ogni giorno perché non manchi nulla a nessuno. Dall’assistenza medica a quella legale, dalla consulenza psicologica ad un buon pasto. Si tratta di persone che sono ormai portate a travisare la realtà della loro condizione, ad esagerare i loro problemi effettivi per cercare di fare colpo su chi di tanto in tanto viene a visitare la struttura”. Il gestore del centro afferma che, durante la giornata, gli stranieri in attesa di espulsione possono guardare la televisione che hanno in camera o giocare a pallone nel cortile, uno spiazzo all’interno della struttura incastrato fra cancelli e ogni sorta di protezione. Se l’assistenza medica riscontra che qualcuno dei reclusi ha una malattia infettiva, allora il malato viene mandato subito in ospedale perché la sua permanenza nella struttura non è più possibile. Se arrivano stranieri già malati si avvia la profilassi per la malattia e scatta, anche in questo caso, l’incompatibilità con la permanenza nel Cie. Conte tiene a puntualizzare: “Fra i trattenuti del centro ci sono persone che si sono macchiate di crimini gravissimi ma, nei loro confronti, tutti gli operatori della struttura hanno avuto sempre un comportamento umano e rispettoso dei diritti”. Conte ricorda inoltre che l’attuale Cie, ex Centro di permanenza temporanea, è stato il primo approdo per migliaia di profughi curdi circa quindici anni fa. “Siamo stati noi ad accogliere l’incredibile flusso migratorio che investì la costa ionica catanzarese e precisamente il paese di Badolato. Abbiamo fatto fronte alle grandi emergenze in ogni momento tra mille difficoltà di ogni genere”. Immigrazione: Radicali al Cie Torino; detenzione assurda, per chi non ha commesso reati Ansa, 9 marzo 2012 “La detenzione nei Cie continua a mostrarsi assurda innanzi tutto perché chi vi è recluso non ha commesso alcun reato”: lo ha detto il senatore radicale Marco Perduca, al termine di due giorni di visite nelle carceri piemontesi, insieme ai dirigenti radicali Giulio Manfredi e Igor Boni. Visitando il Cie di Torino, sicuramente ben gestito - ha aggiunto Perduca - ci si trova di fronte a storie di persone che hanno visti violati i propri diritti e che non hanno la minima idea di quale sarà il loro futuro”. Igor Boni e Giulio Manfredi hanno poi rilevato come “mentre nelle carceri regionali prosegue una situazione intollerabile, con l’eccezione positiva del Ferrante Aporti, e mentre nel Cie di Torino intere ali non sono più utilizzabili per i danneggiamenti dei giorni scorsi, la Regione dovrebbe cercare in tutti i modi di nominare il garante regionale delle carceri”. La delegazione radicale ha visitato ieri il carcere di Asti, dove sono reclusi 336 detenuti, 40 in meno dell’anno scorso, a fronte comunque di un’agibilità per 207 detenuti, e dove - hanno riferito i radicali - i detenuti delle due ali di sicurezza hanno aderito allo sciopero della fame indetto nelle scorse settimane dai radicali per ottenere la nomina del garante regionale. Oggi a Torino sono stati visitati, oltre al Cie, il carcere minorile Ferrante Aporti e le prime Camere di sicurezza realizzate in città. Nel pomeriggio è stato infine fatto un sopralluogo nel carcere di Vercelli. Turchia: abusi sessuali nel carcere di Pozanti; bambini-detenuti curdi trasferiti ad Ankara di Paola Sarappa www.osservatorioiraq.it, 9 marzo 2012 La situazione dei bambini curdi detenuti nel carcere di Pozanti si sta sbloccando. Stando a quanto ha dichiarato il ministro della Giustizia Sadullah Ergin, nella mattinata di ieri 199 minori sono stati trasferiti nel carcere di Sincan ad Ankara. Ma i genitori delle piccole vittime continuano a protestare e i giornalisti che aveva denunciato le violenze sono finiti dietro le sbarre. Questo avviene a distanza di poco più di una settimana dalle polemiche sulle accuse di abusi sessuali subiti dai minori curdi all’interno della struttura da parte di altri detenuti. La questione si è subito allargata andando ad aprire un dibattito sul motivo per cui i minori in questione siano stati inizialmente incarcerati. Inoltre, la struttura in questione non sarebbe adatta alla custodia di minori, poiché inizialmente pensata e costruita per degli adulti, senza contare che risulta sprovvista di telecamere per la videosorveglianza. Gli ispettori completeranno le indagini sulle accuse entro il fine settimana. Successivamente i risultati saranno condivisi in maniera dettagliata con la stampa, secondo quanto dichiarato dal ministro Ergin, secondo cui la prigione di Sincan sarebbe attualmente il luogo più appropriato per ospitare i ragazzi. “Nessuno ha mai promesso un paradiso. Stiamo cercando di fare il meglio secondo le nostre possibilità”, ha affermato. Il ministero di Giustizia del governo turco è finito nel mirino per aver ignorato le avvertenze circa maltrattamenti in carcere. Ergin ha ricordato alla stampa che le denunce partite nel 2010 da un deputato su dei presunti maltrattamenti e abusi nei confronti di minori nel carcere di Pozanti non sono poi state confermate dalle indagini compiute. Diversamente la pensa il “mondo curdo”: secondo il co-presidente del Partito della Pace e della Democrazia (BDP), Gültan Kisanak, gli incidenti emersi nel carcere di Pozanti sono solo un esempio dei tanti che affliggono la minoranza curda del paese. “Dobbiamo chiederci prima di tutto perché questi bambini sono in carcere. Negli ultimi 30 anni, lo Stato ha cercato di risolvere la questione curda attraverso la violenza, bruciando villaggi e costringendo milioni di persone a migrare. Questi bambini non sono in carcere per aver lanciato pietre. Sono i figli delle persone che sono state oggetto di violenza da parte dello Stato negli ultimi 30 anni”. “I bambini devono essere restituiti alle loro famiglie immediatamente. Il dolore e il trauma da loro subito è sufficiente. La ribellione non è qualcosa di cui vergognarsi. La gente si ribella proprio quando ha il senso della giustizia”, ha conclude Kisanak. Nel frattempo continuano ad emergere altri particolari circa gli abusi subiti dai bambini nella struttura detentiva. Uno dei testimoni, V.Y., che ha trascorso in prigione 4 mesi e mezzo all’età di 13 anni e che ora ne ha 17, dichiara: “Al nostro arrivo in carcere siamo stati costretti più volte ad attraversare, completamente nudi, i raggi x. I soldati colpivano le nostre dita mentre ci prendevano le impronte digitali. Poi ci hanno portato in una stanza buia dove siamo stati costretti a denudarci. Ci hanno versato addosso dell’acqua gelida e ci hanno percosso con i tubi di gomma”. V.Y. ricorda anche di essere stato stipato insieme ad altri 24 prigionieri in una cella originariamente creata per 14 persone e di essere stato costretto a chiamare i propri carcerieri “signori”. “I prigionieri malati non ricevevano cure mediche e i detenuti politici erano esclusi dalle attività sociali e dalle visite. Coloro che si ribellavano a tali trattamenti, venivano portati fuori dalle guardie e ritornavano con i pantaloni calati”. Il trasferimento dei detenuti minorenni nella prigione Sincan di Ankara non tranquillizza per niente le famiglie dei bambini, anzi. E per questo i genitori lanciano un appello: “Invece di trasferirli in una prigione lontana, dove non saremo in grado di far loro visita, dovrebbero migliorare le condizioni di Pozanti”. Nel frattempo arrivano notizie preoccupanti anche sul fronte della libertà di informazione, visto che si registrano una serie di arresti ai danni dei giornalisti dell’Agenzia “Diha”, la stessa che aveva riportato gli abusi sui minori nel carcere di Pozanti. Gran Bretagna: ex detenuti dovranno accettare lavoro “coatto”, per ottenere agevolazioni di Alessandro Proietti www.dirittodicritica.com, 9 marzo 2012 L’Inghilterra da anni si interroga su quali misure consentano un graduale e proficuo reinserimento al lavoro, evitando al contempo la reiterazione del reato. La ricetta sembra venire dal ministro del Lavoro inglese Chris Grayling, che martedì scorso ha illustrato i punti principali di un programma rivoluzionario e innovativo: accettare il piano di lavoro elaborato dal governo, con conseguenti vantaggi per l’ex galeotto assunto. In caso contrario, il lavoratore perderà l’indennità di servizio e i benefit previsti nel contratto. Un reinserimento coatto al lavoro, per tagliare gli elevati tassi di recidiva degli ex detenuti, un fenomeno che in Inghilterra desta molta preoccupazione. L’agenzia “Job Centre Plus”, in primo piano nella fornitura di servizi e informazioni per la ricerca di un lavoro nel Regno Unito, elaborerà un piano accelerato per il reinserimento immediato dell’ex detenuto. Allo stato attuale, la gran parte dei richiedenti, aderente al programma di lavoro, ha ricevuto sconti di pena dai 9 ai 12 mesi. Il ministero della Giustizia ha, inoltre, previsto una serie di sgravi fiscali per quelle aziende che assumono ex detenuti. La misura delle agevolazioni sarà proporzionale al numero dei nuovi assunti. I partecipanti al programma di lavoro riceveranno un’indennità di 5.600 sterline (6.700 euro) che li aiuterà a non commettere nuovamente delitti nel periodo del contratto di lavoro, due anni complessivamente. I datori di lavoro dovranno fornire indicazioni sulle opportunità di impiego per i detenuti, mentre questi sono in custodia cautelare, prima del rilascio. I dati, che fanno riferimento ai Dipartimenti di giustizia di Inghilterra e Galles, mostrano come un terzo dei carcerati, che aderiscono al programma, abbia dei precedenti penali con il 28% degli assunti che ha dei vantaggi e agevolazioni per lo stato di salute e disabilità. Nei due anni successivi all’uscita di prigione, circa il 75% dei detenuti inglesi ha chiesto di poter lavorare. I funzionari del ministero del Lavoro assicurano che tutti i 30mila carcerati, che finiscono di scontare la pena ogni anno, nei tre mesi successivi all’uscita di prigione chiederanno di poter aderire al programma di lavoro. Una ricerca governativa ha rivelato l’efficacia del progetto, con il 40% in più dei sussidi, rispetto alla media nazionale dei lavoratori, a disposizione degli ex carcerati. “Reinserire nel mondo del lavoro chi ha scontato la pena - ha detto il ministro Chris Grayling al Guardian - è fondamentale per affrontare la nostra sfida alla criminalità. Il tasso di recidiva in Gran Bretagna è molto alto e dobbiamo ridurlo. In passato - ha ammonito - non c’è stata una politica adeguata in tema di reinserimento al lavoro, il sostegno alle aziende è stato pressoché nullo e scarsi i vantaggi all’ex detenuto/dipendente che iniziava una nuova vita lavorativa”. Stati Uniti: 47enne giustiziato in Arizona, condannato per omicidio commesso nel 1991 Tm News, 9 marzo 2012 Robert Towery, 47 anni, è stato giustiziato ieri in Arizona (nel sud-ovest degli Stati Uniti) per mezzo di una iniezione letale. Lo si apprende dalle autorità penitenziarie. Towery era stato condannato a morte per l’omicidio, avvenuto nel 1991 nel corso di una rapina, di un uomo di 69 anni che conosceva bene. Si tratta dell’ottava esecuzione negli Stati Uniti dall’inizio dell’anno, la seconda in nove giorni in Arizona, uno stato che ha giustiziato 30 detenuti da quando ha reintrodotto la pena di morte nel 1976. Libia: avvocato ex premier Baghdadi; è in fin di vita per sciopero della fame Adnkronos, 9 marzo 2012 L’ex premier libico al-Mahmoudi al-Baghdadi, ultimo capo di governo sotto l’ex presidente Muammar Gheddafi, arrestato in settembre in Tunisia per essersi introdotto clandestinamente nel Paese, “è in fin di vita” per lo sciopero della fame intrapreso in carcere 12 giorni fa per protestare contro il suo mancato rilascio, nonostante una sentenza del tribunale di Tozeur che lo assolveva dalle accuse a lui rivolte. È quanto dice Mabruk Korshid, avvocato dell’ex premier. Il legale sottolinea che i medici che seguono il suo assistito, rinchiuso nel carcere di Marnaqiya a Tunisi, “hanno espresso estrema preoccupazione per la salute di Baghdadi, che è in stato di disidratazione avanzata”. Inoltre, lo sciopero della fame “ha aggravato le malattie croniche di cui già soffriva in precedenza”. Tuttavia, il responsabile libico “rifiuta il trasferimento in ospedale e dice di preferire la morte in carcere”, aggiunge Korshid. Alcune settimane fa il team della difesa di Baghdadi ha lanciato una campagna per richiedere alle autorità tunisine di disporre il suo rilascio immediato, anche alla luce delle sue precarie condizioni di salute. Ucraina: Timoshenko; visite di 3 giorni ogni 3 mesi; figlia e madre potranno vivere con lei Ansa, 9 marzo 2012 Alla ex premier ucraina, Iulia Timoshenko, è stato concesso di poter condividere con la figlia e la madre una cella apposita all’interno del carcere per tre giorni ogni tre mesi. Lo fa sapere l’agenzia Interfax citando la direzione del carcere femminile Kachaniv, a Kharkiv, dov’è rinchiusa la leader dell’opposizione. La prima visita di tre giorni sarebbe già prevista da domani a domenica prossima. “Secondo la legge ucraina - sostiene la direzione del carcere -, il detenuto ha diritto a un incontro di questa durata con i parenti più prossimi una volta ogni tre mesi. L’incontro si svolgerà in una cella speciale dove i visitatori potranno vivere con il condannato per non più di tre giorni”. Il 25 febbraio Timoshenko avrebbe avanzato una richiesta scritta alla direzione della casa circondariale perché le fossero concesse queste visite lunghe. Dietro le sbarre dal 5 agosto scorso, l’eroina della Rivoluzione arancione è costretta a letto da mesi da forti dolori alla colonna vertebrale. A ottobre, è stata condannata a sette anni di reclusione per abuso di potere per aver siglato nel 2009 un contratto con Mosca per le forniture di gas senza il consenso del governo da lei guidato e a un prezzo ritenuto svantaggioso da Kiev. La sentenza, considerata politicamente motivata da numerosi osservatori, è stata confermata in appello a fine dicembre. Russia: proteste per detenzione di due componenti del gruppo punk femminista Pussy Riot Adnkronos, 9 marzo 2012 Decine di persone hanno protestato di fronte alla questura di Mosca, ma anche di fronte alle chiese ortodosse della città, per chiedere la scarcerazione di due delle componenti del gruppo punk femminista delle Pussy Riot che sono state arrestate lo scorso fine settimana in seguito alla performance (‘preghiera punk’) lo scorso 21 febbraio nella cattedrale di Cristo il salvatore per protestare contro il sostegno assicurato dalla chiesa ortodossa a Vladimir Putin. Nadezhda Tololonnikova e Maria Alyokhina dovranno rimanere in carcere in attesa di processo per l’accusa di teppismo, fino al 24 aprile. E rischiano una condanna fino a sette anni di carcere. Le due musiciste, mamme di bimbi di quattro e cinque anni, hanno iniziato in carcere uno sciopero della fame. Il sostegno nei loro confronti cresce anche sulla rete, dove una petizione per la loro scarcerazione è stata firmata da tremila persone. Le ragazze della band si esibiscono sempre con un passamontagna colorato (oltre che con mini abiti e calze altrettanto colorate). La loro ultima esibizione ha destato tanto scalpore che perfino il premier eletto presidente Vladimir Putin ne ha parlato oggi, come di un evento “sgradevole per tutti i credenti”. Il nostro gruppo ha da tempo fatto arrabbiare le autorità, soprattutto dopo la canzone “Putin ha paura” (che era stata cantata sulla Piazza rossa, ndr), scrivono le ragazze della band collettivo sul sito del gruppo. “Noi non ci arrendiamo e non abbiamo intenzione di interrompere le nostre attività: abbiamo già scritto una nuova canzone e ora stiamo aspettando il momento giusto per parlare”. Afghanistan: carcere Bagram passerà da Usa ad afghani fra 6 mesi, firmato l’accordo Ansa, 9 marzo 2012 Gli Stati Uniti si sono impegnati a trasferire da qui a sei mesi al governo afghano il controllo della prigione di Bagram, una delle condizioni poste da Kabul per la firma del futuro accordo di partenariato strategico fra i due paesi. L’accordo è stato firmato oggi a Kabul fra il ministro afghano della Difesa, il generale Abdul Rahim Wardak, e il comandante della forza Nato (Isaf) e delle forze americane nel paese, il generale John Allen. Il trasferimento del controllo di Bagram, chiamata la “Guantanamo afghana”, ad una sessantina di chilometri a nord di Kabul, era stato chiesto da tempo dal presidente Hamid Karzai. Il generale Wardak ha salutato “un passo importante nel rafforzamento della sovranità nazionale” afghana, precisando che il trasferimento avverrà in maniera graduale nell’arco di sei mesi. Situata a fianco dell’immensa base americana di Bagram, la prigione per molti afghani è da dieci anni uno dei simboli dell’occupazione americana. Nel penitenziario sono detenuti circa 3.000 prigionieri, presunti talebani o terroristi di Al Qaida. La gestione Usa della prigione è stata sistematicamente criticata dal governo locale, in nome della sovranità nazionale, e dalle organizzazioni per i diritti dell’uomo, che denunciano detenzioni abusive. La prigione il mese scorso è finita al centro di uno scandalo, quando soldati americani hanno bruciato copie del Corano usate dai detenuti per scambiarsi messaggi. Un atto giudicato blasfemo, che ha scatenato violente proteste in tutto il paese, con almeno 30 morti nelle manifestazioni e sei americani uccisi da afghani. Sulla base dell’accordo firmato oggi, una volta assunto il pieno controllo del penitenziario le autorità afghane dovranno informare gli americani dei loro progetti di liberazione di prigionieri e “prendere favorevolmente in considerazione” le loro eventuali obiezioni. Gli americani manterranno per un anno una presenza tecnica, logistica e di consulenza. Gli afghani si impegnano dal canto loro a garantire l’accesso ai detenuti agli americani e alle agenzie dell’Onu. Iran: 10 detenuti rischiano impiccagione, tra i condannati a morte 2 donne e 2 afghani Adnkronos, 9 marzo 2012 Dieci detenuti sarebbero stati trasferiti in cella di isolamento nel carcere della città di Zahedan, nel sudest dell’Iran, in attesa di essere impiccati domani all’alba. Lo ha annunciato oggi il sito d’informazione degli attivisti per i diritti umani in Iran “Hrdai”, spiegando che tra i condannati a morte vi sono anche due donne e due cittadini afghani reclusi da diversi mesi. I dieci condannati sono stati riconosciuti colpevoli dal tribunale della rivoluzione di Zahedan di traffico di droga. Stando al sito, i familiari dei condannati sarebbero stati autorizzati a visitare per l’ultima volta i propri cari in carcere. Secondo i siti attivi nell’ambito dei diritti umani, negli ultimi due anni sarebbero state impiccate in Iran oltre 700 persone. Nella Repubblica Islamica vige il diritto penale islamico sciita che prevede la pena capitale per una serie di reati, tra questi anche il traffico di droga. Arabia Saudita: Amnesty International; rilasciare 6 oppositori politici detenuti da un anno Ansa, 9 marzo 2012 Amnesty International ha chiesto oggi all’Arabia Saudita di rilasciare sei uomini in carcere da un anno con l’accusa di aver cercato di organizzare una manifestazione per chiedere riforme democratiche, cinque dei quali, secondo l’organizzazione per i diritti umani, non sono mai comparsi davanti a un giudice. I sei erano stati arrestati dopo che su Internet erano circolati appelli per organizzare una “Giornata della rabbia” a Riad l’11 marzo del 2011. I sei detenuti, scrive in un comunicato Amnesty International, sono Khaled al-Johani, Fadhel Nimr Ayed al-Shammari, Bandar Muhammad al-Utaybi, Thamer Nawaf al-Ezi, Muhammad al-Wadani e un uomo che si ritiene si chiami Ahmed al-Abdul Aziz. L’organizzazione per i diritti umani afferma inoltre che solo uno degli arrestati, Khaled al-Johani, è comparso davanti a una Corte speciale per reati legati al terrorismo il mese scorso a Riad, ma il dibattimento è stato aggiornato ad aprile. Libano: detenuti Fatah al-Islam in sciopero della fame nel carcere di Rumiyeh Adnkronos, 9 marzo 2012 Protesta dei militanti del gruppo integralista islamico Fatah al-Islam rinchiusi nel carcere di Rumiyeh in Libano, spesso teatro di rivolte dei prigionieri. I detenuti, riferisce l’agenzia di stampa libanese Nna, sono in sciopero della fame da ieri sera per denunciare le violenze di cui sarebbe stato vittima uno dei militanti. I prigionieri, si legge, protestano per “il maltrattamento” di un militante del gruppo “durante il processo a suo carico in un tribunale militare”. Per evitare disordini all’interno del carcere, che si trova sulle colline a nordest della capitale Beirut, sono state rafforzate le misure di sicurezza. In passato il carcere di Rumiyeh, il più grande del Libano e notoriamente sovraffollato, è stato spesso teatro di proteste dei carcerati per chiedere migliori condizioni di vita e una riduzione delle pene. Fatah al-Islam è il gruppo che da maggio a settembre del 2007 ha combattuto contro le forze di sicurezza libanesi nel campo profughi palestinesi Nahr el-Bared, nei pressi di Tripoli, nel nord del Libano. Gli scontri di cinque anni fa sono costati la vita a 220 militanti, 171 soldati libanesi e 47 civili palestinesi. Perù: accordo Chiesa-Stato per l’assistenza religiosa nelle carceri Radio Vaticana, 9 marzo 2012 Promuovere, incoraggiare e sviluppare l’assistenza religiosa e le attività complementari legate al reinserimento sociale dei detenuti ospitati nelle carceri del Paese, attraverso l’azione della Pastorale carceraria in ciascuna giurisdizione ecclesiastica. Con questo intento, i rappresentanti della Conferenza episcopale peruviana (Cep) e dell’Istituto Nazionale Penitenziario del Perù (Inpe) hanno firmato un accordo che rinnova i legami di cooperazione tra le due istituzioni. Secondo quanto riferisce la Fides, l’incontro si è svolto il 7 marzo nell’auditorium della Conferenza episcopale, a Lima, alla presenza di mons. Salvador Piñeiro, arcivescovo di Ayacucho e presidente della Conferenza episcopale peruviana, del dottor Juan Jimenez Mayor, ministro della Giustizia, e del dottor Jose Luis Pérez Guadalupe, capo dell’Inpe. Allo stesso tempo - riferisce una nota dei vescovi - si cercherà di stabilire, attraverso i direttori delle prigioni e in coordinamento con la Commissione pastorale della Chiesa cattolica, quali siano i meccanismi e i requisiti necessari perché il programma di lavoro per la promozione umana e lo sviluppo personale, portato avanti dalla Commissione pastorale, sia accettato come parte del trattamento dei detenuti, maschi e femmine, e la loro partecipazione possa essere considerata nelle relazioni psicologiche e sociali.