Giustizia: liberare le carceri… il 25 aprile mettiamoci in marcia per l’amnistia di Valentina Ascione Gli Altri, 30 marzo 2012 Sono trascorsi sette anni dalla Marcia di Natale per l’amnistia, la giustizia e la libertà che vide centinaia di persone sfilare a Roma davanti alle sedi delle massime istituzioni della Repubblica, al purgatorio penale di Regina Coeli, tra i simboli dell’emergenza carceraria, per poi concludere il proprio cammino al Quirinale: residenza del garante dei princìpi costituzionali così apertamente calpestati nelle nostre galere, dove allora se ne stavano ammassati circa 60mila detenuti in spazi sufficienti per appena 42mila. Era il 2005 e in testa al corteo si potevano riconoscere volti tra i più popolari della politica e delle istituzioni accanto ai radicali Pannella e Bonino, capifila dei promotori. Con quell’iniziativa si intendeva sollevare l’attenzione sulla disastrosa condizione delle carceri e dell’amministrazione della giustizia: “la più grande questione sociale del nostro Paese”, si disse. Da allora nessun passo in avanti è stato fatto. L’indulto varato l’anno successivo, senza il supporto di un provvedimento contestuale di amnistia, ha visto vanificati i suoi effetti benefici. E nel corso degli anni la situazione si è dunque ulteriormente aggravata. Ecco perché nel mese di Aprile ci si rimetterà in marcia per le medesime ragioni e con gli stessi obiettivi. Le nostre prigioni da Terzo Mondo che scoppiano per la pressione del sovraffollamento - che oggi sfiora il tasso del 150 per cento - costituiscono la naturale appendice di una crisi, quella della giustizia, drammaticamente degenerata in cancro. Un cancro che anno dopo anno si è esteso divorando gli ingranaggi di questa macchina ormai ferma, bloccata, schiacciata dal peso di milioni di processi pendenti: quasi 10 tra civili e penali. Si calcola che le sole pratiche relative all’arretrato della giustizia civile occuperebbero una superficie pari a 74 campi di calcio. Un ritardo che scoraggia gli investimenti, ostacola la ripresa economica e che, secondo le stime della Banca d’Italia, ci costa ogni anno un punto percentuale di Pil. E il conto delle pendenze nella giustizia penale è altrettanto salato. Se infatti per arrivare alla fine di una causa civile ci vogliono in media 2645 giorni, ovvero sette anni e tre mesi, una volta nel tunnel di un processo penale non s’intravede la luce prima di quattro anni e nove mesi: ben 1753 giorni. Tempi inaccettabili, che si riflettono nel numero abnorme dei detenuti in attesa di giudizio che si aggira intorno al 42 per cento delle 66mila persone attualmente recluse negli istituti di pena del paese: un’anomalia tutta italiana - come ha dovuto riconoscere lo stesso ministro della Giustizia Paola Severino - ma soprattutto una violazione manifesta dei diritti umani che non può passare indenne al vaglio degli organismi internazionali di garanzia. Come emerge con spietata chiarezza dal resoconto delle violazioni della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo accertate dalla Corte, che vedono l’Italia al secondo posto su 47 paesi membri del Consiglio d’Europa, dopo la Turchia e prima della Russia, con 2166 ricorsi, ma sul gradino più alto del podio per numero di condanne subite a causa dell’eccessiva durata dei processi: 1155 fino allo scorso anno. Numeri che sulla carta fanno impallidire, ma che nella vita dell’Italia e degli italiani affondano come una lama nella carne viva, tratteggiando il profilo di uno Stato “criminale” più che diritto. Sono decine di milioni, si stima addirittura il 30 per cento della popolazione, coloro che nel nostro paese attendono la decisione di un giudice. Milioni di vite, tra accusati, presunte vittime e loro familiari, tenute in ostaggio per anni e anni da una giustizia lumaca. Ed è proprio il paradosso di uno Stato manchevole, inadempiente, incapace di rispettare le sue stesse leggi, uno Stato che si pone di fronte ai propri cittadini nella posizione di “delinquente abituale”, che non solo legittima, ma fortifica la proposta dei radicali di un’amnistia come atto di governo e non di clemenza. Il solo strumento tecnico, previsto dalla Costituzione, in grado di riportare la Giustizia italiana nel perimetro della legalità. Di decongestionare carceri nelle quali i detenuti, sottoposti a condizioni di vita degradanti, si ammalano da giovani e muoiono, si fanno del male o si uccidono. O si appellano agli strumenti di tutela internazionali contro un trattamento che dovrebbe essere rieducativo e si configura invece, sempre più, come “tortura legalizzata”. Il solo strumento, l’amnistia, per restituire dignità al lavoro del personale e a tutte le componenti della comunità penitenziaria; sollevare subito i magistrati dal fardello dei processi arretrati. E sconfiggere l’amnistia di fatto e di classe della prescrizione che ogni anno vede andare in fumo circa 170mila procedimenti, 500 al giorno, a vantaggio esclusivo di chi può contare su una brillante assistenza legale. E costosa. Nessuno dei provvedimenti messi in campo finora permetterà allo stesso modo di sbloccare e riavviare la macchina della Giustizia. Non le leggi che si propongono di vuotare il mare con il cucchiaino, né la riapertura di istituti chiusi da tempo o un piano di edilizia penitenziaria che rischierebbe di divenire banchetto per affamati cacciatori di appalti, mentre reparti o intere strutture restano inutilizzate per carenza di personale. Costruire nuove carceri per far spazio ai detenuti di oggi e a quelli che verranno significherebbe, in un contesto nel quale la popolazione reclusa si compone per lo più di poveri e tossicodipendenti, continuare a investire sulla logica della carcerazione come principale risposta al disagio sociale: la logica che ha fatto da stella polare alle politiche securitarie attuate negli anni precedenti e a una forma esasperata di panpenalismo. L’emergenza in corso richiede, invece, una drastica inversione di rotta. Il potenziamento delle pene alternative al carcere, cui le statistiche sulla recidiva attribuiscono risultati di gran lunga migliori rispetto alla detenzione. E un piano di incisiva depenalizzazione. Sono queste le misure che dovrebbero seguire a un’amnistia per aprire finalmente la strada a una riforma strutturale della giustizia. Per tornare a uno Stato di diritto. Giustizia: intervista a Emma Bonino “la peste italiana contagia l’Europa” di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 marzo 2012 “La peste della malagiustizia italiana ha valicato le Alpi e contagiato le istituzioni internazionali, in particolare quelle europee. Tanto da indurre la Gran Bretagna a proporre una restrizione delle modalità di ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, intasata dai processi pendenti sull’Italia”. L’allarme è stato lanciato ieri dalla vicepresidente del Senato, Emma Bonino, durante la conferenza stampa tenuta alla Camera dai Radicali per annunciare che la “Seconda marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà” inizialmente prevista per il giorno di Pasqua si terrà a Roma il 25 aprile, giorno della Liberazione. “Un modo per valorizzare quella data, perché se i valori conquistati non li difendi ogni giorno nel contesto attuale, rischi che ti svegli un bel giorno e non ci sono più”. Presidente Bonino, dunque i problemi della giustizia italiana diventano europei? Prendendo spunto dai 150 mila casi pendenti di fronte alla Corte europea, la presidenza di turno britannica del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa propone una modifica della Convenzione europea dei diritti umani e di conseguenza della Corte, in modo da renderne più difficile l’accesso. Dobbiamo sapere che dal 1959 al 2010, la Corte ha condannato l’Italia 2.121 volte. Più di noi solo la: Turchia, con 2.573 mentre la Russia ne ha solo 1.079. Riguardo invece l’irragionevole durata dei processi, l’Italia balza al primo posto con 1.139 violazioni, tanto che nel 2010 il Comitato dei ministri ha sottolineato per il nostro Paese il “grave pericolo per lo stato di diritto” che si materializza nella “negazione dei diritti sanciti dalla Convenzione”. Purtroppo davanti a questi moniti e sanzioni l’Italia fa spallucce. L’8 marzo scorso, il Comitato dei ministri ha di nuovo richiamato l’Italia sulle carceri, sulla durata dei processi e sui risarcimenti, perché il numero dei ricorsi è raddoppiato negli ultimi tre anni (da 7.150 a 13.750) facendoci passare dal quinto al terzo posto, dopo la Russia e la Turchia. Infine, oltre ai ricorsi, abbiamo più di 2000 processi pendenti. Sicché l’Inghilterra ha pensato bene di proporre la restrizione del ricorso alla Corte europea... C’è una riunione ministeriale il 19 aprile a Brighton dove la Gran Bretagna andrà con questa proposta. Io ho presentato un’interpellanza per sapere quale posizione intende prendere il nostro governo in merito. È una proposta che va fermata perché davvero inconcepibile, soprattutto per i Paesi dove lo stato della giustizia è comatoso. E poi perché sono già in corso riforme operative stabilite dal protocollo 14 e che stanno dando buoni frutti. In ogni caso, una cosa è migliorare l’efficienza, altra è limitare il ricorso. Anche la vicepresidente della Commissione europea, Viviane Reding, ha ricordato oggi che la lentezza dei processi costano all’Italia un punto di Pil. Il problema della giustizia non è prioritario per la nostra immagine in Europa? Questo è un cancro ormai evidente in tutto il mondo. Non solo perché lo dice l’Europa ma anche perché il cattivo funzionamento della giustizia costa alle imprese 2,3 miliardi di euro, e costo della giustizia in Italia supera i 4 miliardi di euro contro i 3,3 della Francia e i 2,9 della Spagna: 70 euro per abitante da noi a fronte dei 56 della Francia dove la durata media di un processo civile è della metà. Quindi l’immagine italiana è ormai anche quella del crollo istituzionale. La malagiustizia blocca lo sviluppo economico di questo Paese. I famosi investitori esteri che Monti va cercando anche nell’estremo oriente, saranno più scoraggiati da questo che dall’articolo 18, o no? Sull’articolo 18 la penso diversamente da voi del Manifesto, ma sì, è così. Da noi ci vogliono in media mille giorni perché una causa civile prenda il via in primo grado. In più la giustizia civile ormai è una giustizia per censo: se hai soldi otterrai la prescrizione, altrimenti no. A proposito di prescrizioni: 500 al giorno, 165 mila annue che costano allo stato 85 milioni di euro l’anno. Un’amnistia l’anno. Non regolamentata. Lei stessa però ha ammesso che, come al tempo della Prima marcia per la giustizia del 2005, anche quest’anno si è raggiunta un’aggregazione molto importante attorno alla proposta di amnistia ma poi non si riesce a smuovere le cose. Perché? C’è una specie di barriera dovuta al fatto che l’amnistia è un provvedimento troppo impopolare. Mi chiedo però che leader politico è quello che deve solo seguire un’ondata di popolo? C’è anche chi, come il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, sostiene che per l’amnistia non c’è la maggioranza qualificata necessaria e che la colpa della lungaggine dei processi è della prescrizione facile. Sono argomenti che si ripetono da tempo. So anch’io che ci sono leggi da riformare urgentemente - la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi, innanzitutto - ma non c’è la maggioranza nemmeno per fare questo. L’amnistia, che non è solo un atto di clemenza, è prevista dalla Costituzione proprio per dei casi di emergenza come questo. È chiaro che si continua ad agitare uno spauracchio e se questi dati che voi pubblicate non diventano la base di un confronto pubblico, l’opinione pubblica non crescerà mai in consapevolezza. Anche le leggi sull’immigrazione e sulle droghe seguono l’ondata populista. Col risultato che le carceri oggi si riempiono della cosiddetta “spazzatura sociale”. Ammesso poi che si condivida la proposta di Vietti e che si riesca ad eliminare le 500 prescrizioni al giorno, rimangono tutti gli altri problemi, a cominciare dal numero di processi aperti. Arriviamo alla marcia per l’amnistia e la giustizia: avete scelto il 25 aprile. Ma non si rischia di sminuire così il significato della festa della Liberazione? No al contrario. È una valorizzazione. I valori fondanti della Repubblica italiana, che sono la giustizia e la libertà, devono essere difesi anche oggi. Ma se il carcere diviene strumento di privazione della dignità e se per i detenuti l’habeas corpus non esiste più, allora c’è un deficit di democrazia. Giustizia: intervista a Luigi Manconi “liberi per l’indulto, solo un terzo torna in carcere” di Nicola Mirenzi Gli Altri, 30 marzo 2012 Se le persone sapessero come è andata veramente con l’indulto le assicuro che non sarebbero ostili all’amnistia”. Quando il Parlamento italiano votò a larghissima maggioranza la legge che condonò la pena di determinati reati, Luigi Manconi era sottosegretario alla giustizia. Anche per questo si ricorda bene il clima di larghe intese nel quale quella legge nacque. Ma si ricorda altrettanto bene la velocità con la quale quella stessa legge venne rinnegata dalle medesime persone che poco prima l’avevano votata. Da sociologo qual è Manconi snocciola dati su dati per mostrare la ragionevolezza della battaglia che conduce da anni per ripristinare le regole minime di civiltà nelle carceri italiane: “Lei sa che nella città di Parma nessuno degli indultati ha commesso di nuovo un reato?” No, non lo sapevo. So però che appena si pronuncia la parola indulto o amnistia le persone rabbrividiscono. Il fatto è che nel discorso pubblico - e tanto più nel senso comune - l’amnistia e l’indulto sono vissuti come una bizzarra ed eccentrica anomalia. Invece stiamo parlando di provvedimenti solennemente previsti dalla nostra Carta costituzionale. Sono cioè strumenti che l’ordinamento giuridico del nostro Paese ritiene indispensabili. Eppure c’è gente che ancora ce l’ha con Prodi per averlo lasciato fare, l’indulto. Questo è un altro stereotipo da sfatare. L’indulto fu una legge di iniziativa parlamentare, non del governo Prodi. L’unico partito che compattamente vi si oppose fu la Lega Nord. Coerentemente alla sua natura autoritaria, forcaiola e schiettamente reazionaria. I partiti che si dichiararono ostili videro nelle proprie file comportamenti difformi da quelle decise nelle segreterie. Dall’Italia dei valori ai Comunisti italiani ad Alleanza Nazionale. Voglio ricordare che a votare a favore ci fu Altero Matteoli. E poi anche nel partito meno garantista della sinistra italiana - i Comunisti italiani - vi furono posizioni o di astensione o voto favorevole. Infatti la legge venne approvata con una maggioranza amplissima. E poi cos’è successo? È successo che questa legge ha conosciuto il più rapido e ampio disconoscimento da parte dei tantissimi padri e madri che l’hanno generata. C’è stato un immediato meccanismo di ripulsa. Che ha portato al disconoscimento e alla diffamazione. Una maggioranza così ampia che nel tempo più breve e praticamente nella sua totalità rifiuta di riconoscere la propria creatura, l’abbandona, la mette nella ruota dei conventi, la lascia in un cassonetto, se ne vergogna. È stato uno scandalo politico vero. Di quelli che riguardano la profonda moralità istituzionale, non le mani pulite. Qualcuno che l’ha continuata a sostenere c’è stato? So per certo che non l’hanno disconosciuta Romano Prodi e Giorgio Napolitano. Che pure non l’avevano votata. Ma se le cose non andarono così bene non sarà anche perché il provvedimento aveva dei limiti? Sicuramente. Quello più grande fu che l’indulto non venne accompagnato da un contestuale provvedimento di amnistia. Questo accadde perché il fuoco di fila contro quel provvedimento fu così violento e immediato che intimidì quanti avevano sempre ritenuto necessario combinare insieme l’uno e l’altro provvedimento. Ci furono poi dei limiti nel favorire l’integrazione di coloro che uscivano, nell’assicurare loro sostegno, assistenza, orientamento. Però le vorrei proporre un paradosso basato su dati di realtà. Prego. Se noi prendiamo una città come Parma, scopriamo che delle decine di persone che uscirono dal carcere nessuno commise un nuovo reato. Io credo che se la popolazione di quella città venisse a conoscenza di questo dato darebbe un giudizio positivo di quel provvedimento. Siccome così non è, coloro che commettono reato a seguito dell’indulto diventano la prova del fallimento dell’indulto. Una bugia? Una vera e propria menzogna. Una falsificazione profonda dei dati di realtà. A me è capitato appena qualche mese fa di leggere due editoriali di due importanti giornali nazionali che entrambi davano per scontato il fallimento del provvedimento sulla base del fatto dato per acquisito che “tanto gli indultati sono tornati tutti in galera”. Io e Giovanni Torrente abbiamo condotto una ricerca su questo. Vuole sapere cosa abbiamo scoperto? Sì. Ebbene, tra coloro che hanno beneficiato dell’indulto hanno commesso nuovo reato il 33,6%. Che è una percentuale elevatissima. Ma noi abbiamo un parametro al quale comparare questa percentuale: la recidiva ordinaria, ossia quella di coloro che escono dal carcere senza beneficiare di nessuna misura d’indulto. In questo caso il dato è superiore al 68%. Si rende conto? La percentuale del 33,6% - che è elevatissima - è pur sempre meno della metà della percentuale ordinaria. Come si spiega questa mistificazione e demonizzazione? Alla luce di un altro dato. Che mi pare non abbia bisogno di nessun commento. Nel 2005 lo spazio dedicato alle notizie di cronaca nera e alle cronache criminali su tutti i telegiornali nazionali era intorno all’11%. Nel 2006 e fino al 2007 salì a 23%. C’è bisogno di aggiungere altro? Date queste premesse, come è possibile oggi fare accettare all’opinione pubblica l’amnistia? Intanto dicendo che il provvedimento di amnistia non presenta i falsi pericoli che hanno accompagnato quelli dell’indulto. Nel senso che il provvedimento non agisce liberando persone che sono detenute ma agisce facendo diventare legale quel meccanismo di prescrizione extra legale che l’attività giudiziaria nella sua crescita abnorme produce quotidianamente. Oggi ci sono più o meno 500 prescrizioni al giorno. Sono del tutto irrazionali. Nel senso che per metà sono affidati al caso per metà sono affidati a meccanismi classisti. Si tratta dunque di intervenire con la ragione. Perché l’Italia si è avvitata intorno a questo problema della pena? Quello della pena nel nostro paese, diventando una tragica questione umanitaria, ha impedito che si pensasse a essa in maniera adeguata ai tempi: come una grande questione morale. Perché una volta che tu hai assolto alla prima urgenza - impedire che un criminale faccia male a terzi - bisogna provare a riflettere cosa sia la pena in un sistema democratico. Si è arrivati invece al punto che per la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica la pena è un sinonimo di vendetta, di rivalsa sociale, di livellamento delle disparità. Perfino un succedaneo della lotta politica. Giustizia: intervista al procuratore Santi Consolo “non c’è bisogno di nuove carceri” di Davide Varì Gli Altri, 30 marzo 2012 Nuove prigioni? Non credo che vi sia urgenza. Anzi, dirò di più: noi dobbiamo cercare di uscire da questa suggestione emergenziale. Non si combina mai nulla di buono in condizioni del genere...”. Santi Consolo, attuale procuratore di Catanzaro, è una persona saggia e pacata. Nei suoi lunghi anni al Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ne ha viste di tutti i colori e deve essersi fatto un’idea precisa circa lo stato dei nostri istituti di pena. Insomma, basta carceri dottor Consolo? Eppure la situazione è esplosiva... Nessuno vuol negare il sovraffollamento delle nostre carceri. Io dico soltanto che questo problema non va affrontato come un’emergenza. L’emergenza, per quel che ne so io, è una situazione improvvisa e di breve durata. Ma quello del sovraffollamento dei nostri istituti di pena è un problema che ci trasciniamo da anni, da decenni. E quindi, come se ne esce? Nella mia esperienza pregressa ho potuto verificare che molte strutture rimangono inutilizzate o sono state abbandonate. Prima di impegnarsi in nuove “imprese” molto costose dobbiamo fare un censimento serio e scrupoloso dell’esistente. Dobbiamo razionalizzare le risorse e renderle più efficienti e vivibili. È chiaro a tutti che alleggerendo l’affollamento di alcuni istituti si diminuirebbe la tensione. La qualità della vita di tutti gli attori coinvolti migliorerebbe, su questo non ci piove. E anche il personale, spesso in grande difficoltà, potrebbe lavorare con più serenità. Ma non è il caso di pensare a nuove strade per diminuire la pressione nelle carceri? Fino a non molto tempo fa si parlava di depenalizzare alcuni reati. Un dibattito morto e sepolto. Non sarebbe ora di resuscitarlo? Le soluzioni sono molte. Per quanto mi riguarda potrei anche essere d’accordo con la proposta della ministra Severino di far scontare a casa gli ultimi 18 mesi di detenzione. Sono d’accordo anche per quel che riguarda un maggior uso dei domiciliari salvo verificare la reale pericolosità della persona beneficiaria. E poi penso alle nuove tecnologie, ai nuovi sistemi di sorveglianza. Insomma, soluzioni ce ne sono tante. Serve solo un po’ di buona volontà. Giustizia: in arrivo depenalizzazione e sospensione del procedimento con messa alla prova di Antonio Ciccia Italia Oggi, 30 marzo 2012 Incardinato alla Camera il disegno di legge. Sospensione per irreperibilità dell’imputato. Reati puniti con multa trasformati in illeciti amministrativi. Depenalizzare gli atti contrari alla pubblica decenza e il turpiloquio; e anche il disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone; e ancora l’atto di indirizzare qualcuno a un soggetto non abilitato a effettuare attività creditizie (per operazioni di prestito, per esempio) così come i compensi indebiti per avviare al lavoro. Sono questi alcuni dei reati che il disegno di legge delega sulla depenalizzazione, approvato a fine anno dal governo ma incardinato solo da pochi giorni alla camera, vuole escludere dall’elenco dei reati per derubricarli in illeciti amministrativi. L’obiettivo è la riforma del sistema penale, ormai tanto sproporzionato quanto inefficace sul piano preventivo. Il disegno di legge si occupa non solo del diritto penale sostanziale, ma introduce anche altre deleghe legislative finalizzate a risolvere il problema delle carceri: per esempio, la sospensione del procedimento con messa alla prova e pene detentive non carcerarie. Viene inoltre ridefinita su basi garantiste l’istituto della sospensione del processo per assenza dell’imputato. Depenalizzazione Il disegno di legge prevede la trasformazione in illeciti amministrativi dei reati per i quali la legge attualmente prevede la sola pena pecuniaria (multa o ammenda). Ci sono alcune eccezioni per materie: condotte di vilipendio comprese tra i delitti contro la personalità dello stato; reati in materia di edilizia e urbanistica, ambiente, territorio e paesaggio, immigrazione, alimenti e bevande, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, sicurezza pubblica e circolazione stradale. I nuovi illeciti amministrativi saranno puniti con sanzioni pecuniarie comprese tra 300 euro e 15.000 euro e con sanzioni interdittive consistenti nella sospensione di facoltà e diritti derivanti da provvedimenti dell’amministrazione, che rispondono a finalità di prevenzione speciale. È prevista la misura ridotta: nei casi in cui sia stata applicata la sola sanzione pecuniaria sarà possibile definire la procedura mediante il pagamento, anche rateizzato, di un importo pari alla metà della stessa, limitando così la contestazione del provvedimento e, con essa, il contenzioso giurisdizionale. Probation Il disegno di legge disciplina la sospensione del procedimento con messa alla prova: non si applica la pena se il colpevole supera un periodo di prova controllata e assistita. L’istituto è previsto per reati di minore allarme sociale. Si tratta dell’estensione di un istituto già applicato nel processo penale a carico di imputati minorenni. II disegno prevede che la sospensione possa essere concessa dal giudice quando si procede per reati per i quali è prevista la pena pecuniaria o una pena detentiva non superiore a quattro anni. È prevista la prestazione, non retribuita e di durata non inferiore a dieci giorni, del lavoro di pubblica utilità in favore della collettività, da svolgere presso enti pubblici o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. Decarcerizzazione Il disegno di legge introduce due nuove pene detentive non carcerarie: la reclusione e l’arresto presso l’abitazione o altro luogo di privata dimora, anche per fasce orarie o giorni della settimana. La misura andrà da quindici giorni e a quattro anni, nel caso di delitti, e da cinque giorni a tre anni, nel caso di contravvenzioni. Queste due nuove sanzioni andranno a sostituire la reclusione e l’arresto in caso di condanne per reati puniti con pene detentive non superiori a quattro anni. Il giudice potrà prescrivere particolari modalità di controllo, attraverso mezzi elettronici o altri strumenti tecnici. Imputati irreperibili Il disegno di legge disciplina la sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili, in attuazione del principio di effettiva conoscenza. Così l’Italia si adegua alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha avuto occasione di condannare più volte lo stato italiano. Il provvedimento prevede che, quando la citazione a giudizio non è stata notificata all’imputato a mani proprie o di persona convivente o presso il domiciliatario, il giudice dovrà rinnovare la citazione e, se neppure in questo modo è possibile notificare l’atto all’imputato, sospendere il dibattimento. La sospensione del dibattimento comporta la sospensione della prescrizione per un periodo pari a quello previsto per la prescrizione del reato. Giustizia: Cassazione; vittima errore giudiziario ha diritto risarcimento danno esistenziale www.altalex.com, 30 marzo 2012 Cassazione penale , sez. IV, sentenza 20.03.2012 n° 10878. La corte di appello di Brescia aveva liquidato ad un cittadino detenuto ingiustamente, una somma per danno biologico, una somma per danno esistenziale (consistente nel deterioramento dei già difficili rapporti familiari, specie con la figlia) e una somma per danno morale. Il Ministero, tra i motivi di ricorso, ne espone uno proprio sulla presunta illegittimità della liquidazione del danno esistenziale “essendo lo stesso soltanto un ordinario danno non patrimoniale, chiamato con altro nome”. La Corte precisa al riguardo che non si ha alcuna duplicazione di liquidazione, ma una diversificazione delle voci costituenti un unico danno, che viene quindi liquidato con una somma costituita da due diverse e distinte operazioni di valutazione; in sostanza la somma complessiva, anche se non esplicitamente unificata deriva da due addendi, entrambi giustificati come denominazione e come liquidazione. Il Collegio sul punto ribadisce il principio (sentenza 18 marzo 2009, n. 22688) per cui, se è vero che le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza 11 novembre 2008, n. 26972 hanno statuito che non è ammissibile nel nostro ordinamento il danno definito “esistenziale”, e che non può essere liquidato separatamente sol perché diversamente denominato, non è men vero che non può non tenersi conto nella liquidazione del danno non patrimoniale, nella sua globalità, di tutte le peculiari sfaccettature di cui si compone nel caso concreto, quali: l’interruzione delle attività lavorative e di quelle ricreative, l’interruzione dei rapporti affettivi e di quelli interpersonali, il mutamento radicale peggiorativo e non voluto delle abitudini di vita. Questa decisione sottolinea l’importanza non tanto della denominazione della categoria di danno, che rimane unica (non patrimoniale) quanto della necessaria liquidazione di ogni pregiudizio subito e rientrante in quella categoria. Ad avviso dello scrivente, senza addentrarsi nella letteratura giuridica sulle tipologie di danni e se sia o non ammesso un terzo tipo di danno (esistenziale), risulta fondamentale, per l’avvocato, la completa allegazione di tutti i pregiudizi, la rappresentazione al giudice di ogni conseguenza subita e della relativa prova del danno non patrimoniale, senza preoccuparsi tanto di indicare le voci di danno, le categorie, i titoli (esistenziale o non). Meglio i contenuti senza titoli che non chiedere un danno esistenziale senza specificare il tipo di pregiudizio subìto. Sarà il giudice ad accertare se quei pregiudizi siano meritevoli di tutela e quindi risarcibili e con quale voce o classificazione. Nel caso di specie, il danno da interruzione dei rapporti affettivi e di quelli interpersonali è stato dedotto e riconosciuto, e liquidato sotto il profilo del danno non patrimoniale come voce autonoma, ma in considerazione di una ritenuta sfaccettatura del danno non patrimoniale globalmente inteso. Sul danno conseguente alla detenzione la Corte accoglie il primo motivo del ricorso del danneggiato, riconoscendo il risarcimento anche del danno conseguente alla detenzione, negato dalla corte di appello in base all’inammissibilità di doppia liquidazione, in base al criterio risarcitorio e a quello equitativo, avendo essa scelto quello risarcitorio. La Corte chiarisce che la riparazione per l’errore giudiziario, come quella per ingiusta detenzione, non ha natura di risarcimento del danno ma di semplice indennità o indennizzo in base ai principi di solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale o ingiustamente condannato. Anche se ora l’art. 643 c.p.p. non contempla più l’aggettivo “equa” (riparazione), non è inibito al giudice della riparazione fare riferimento anche a criteri di natura risarcitoria che possono validamente contribuire a restringere i margini di discrezionalità inevitabilmente esistenti nella liquidazione di tipo esclusivamente equitativo, limitandolo alle voci non esattamente quantificabili. In pratica, secondo la Corte di Cassazione, nella riparazione per errore giudiziario, il giudice può utilizzare sia il criterio risarcitorio sia quello equitativo (come si trattasse di un tertium genus rispetto alle due forme di ristoro, come del resto più di un autore ha ravvisato). La proclamata incompatibilità dell’adozione del criterio risarcitorio e di quello equitativo, pena una inammissibile duplicazione di liquidazione, viene meno, ragionevolmente, in relazione a danni non quantificabili con esattezza, come per esempio quello arrecato dalla condanna ai rapporti tra padre e figlia, per il quale la liquidazione dovrà tener conto, con giudizio esclusivamente equitativo, del danno differenziale. In conclusione, il danno conseguente alla detenzione va liquidato autonomamente anche in ossequio alla dizione letterale dell’art. 643 c.p.p. e nella liquidazione andrà utilizzato un criterio equitativo senza i limiti stabiliti dall’art. 315 c.p.p., per la riparazione del danno da ingiusta detenzione. Giustizia: il Papa ai detenuti; i vostri volti hanno lasciato in me un segno profondo di Angela Ambrogetti www.korazym.org, 30 marzo 2012 Oggi sarai con me in paradiso. E il tema di riflessione della Via Crucis di Rebibbia per il 2012. Ma quest’ anno c’è qualcosa in più. Dopo la visita del Papa a dicembre scorso anche per la Pasqua Benedetto XVI ha voluto essere vicino a chi si prepara alla Settima Santa in carcere. Così è arrivata la sua parola. “Ricordo i volti che ho incontrato e le parole che ho ascoltato, e che hanno lasciato in me un segno profondo” si legge nel teso letto dal cardinale Vallini. Il Papa è stato particolarmente coinvolto dalla visita a Rebibbia anche perché spesso si parla delle sofferenze dei detenuti nella sua “famiglia” . Lo aveva ricordato proprio nella visita pre natalizia: “Nella mia famiglia ci sono quattro memores, quattro consacrate laiche, che hanno molti amici che fanno volontariato in carcere. Con loro si parla spesso di voi, dei vostri problemi, e vi assicuro non in modo negativo.” La Via Crucis si è svolta nella piazza antistante alla cappella del carcere intitolata a “Dio Padre nostro”. La croce è stata portata da 14 ospiti, mentre i commenti sono affidati a tre detenuti, ai volontari, agli operatori penitenziari e agli scout. Una occasione di rinascita perché, scrive il Papa “il carcere serve per rialzarsi dopo essere caduti, per riconciliarsi con se stessi, con gli altri e con Dio, e poter poi rientrare di nuovo nella società”. E porta ad esempio le cadute di Gesù che ci fanno capire “che Lui ha condiviso la nostra condizione umana, il peso dei nostri peccati lo ha fatto cadere; ma per tre volte Gesù si è rialzato e ha proseguito il cammino verso il Calvario; e così, con il suo aiuto, anche noi possiamo rialzarci dalle nostre cadute, e magari aiutare un altro, un fratello, a rialzarsi”. La forza di Gesù era la certezza dell’ amore del Padre che “lo consolava ed era più grande delle violenze e degli oltraggi che lo circondavano.” E per questo, conclude la sua riflessione il Papa “non abbiamo paura di percorrere la nostra “via crucis”, di portare la nostra croce insieme con Gesù. Lui è con noi. E con noi c’è anche Maria, sua e nostra madre. Lei rimane fedele anche ai piedi della nostra croce, e prega per la nostra risurrezione, perché crede fermamente che, anche nella notte più buia, l’ultima parola è la luce dell’amore di Dio”. Significativa la data del messaggio: 22 marzo, un giorno prima della partenza per il viaggio in Messico e a Cuba dove il Papa ha pregato proprio per i detenuti davanti alla Madonna della Carità del Cobre. Nel suo cuore non c’erano solo i prigionieri di quel paese, ma anche i volti di quelli incontrati a Rebibbia pochi giorni prima di Natale. “Sull’onda della visita del Santo Padre a Rebibbia, sono state tante le adesioni quest’anno” ha detto Don Sandro Spriano, cappellano dell’Istituto di pena. “La nostra è una meditazione sul paradiso e alla celebrazione prendono parte circa trecento detenuti”. Lazio: l’Assessore Cangemi; dalla Regione 130mila euro per salute detenuti Adnkronos, 30 marzo 2012 “Il progetto Salute nelle carceri che abbiamo finanziato con lo stanziamento di 130mila euro è stato pensato per promuovere la salute e il benessere dei detenuti della nostra regione, con l’intento di raggiungere l’uguaglianza di trattamento e la possibilità di accesso alle cure sanitarie dei detenuti rispetto ai cittadini non privati della libertà personale”. Lo ha dichiarato l’assessore ai rapporti con gli enti locali e alle politiche per la sicurezza della Regione Lazio, Giuseppe Cangemi, alla presentazione, tenutasi oggi presso la casa circondariale di Rebibbia nuovo complesso, del bilancio dell’iniziativa Salute nelle carceri, progetto finalizzato alla prevenzione e cura sanitaria per i detenuti del Lazio. “Sono state elaborate schede di rilevazione - ha aggiunto Cangemi, che ha portato a tutti i presenti il saluto della presidente della Regione Lazio, Renata Polverini - sulle condizioni sociali e sanitarie di ciascuna persona prima e durante lo stato di detenzione. Sono state implementate azioni informative e formative sulla salute per chi vive e per chi lavora in un istituto penitenziario, attraverso incontri individuali e di gruppo. Sono stati realizzati opuscoli informativi sulle principali patologie che possono manifestarsi nella realtà penitenziaria, tradotti in 4 lingue (inglese, romeno, arabo, spagnolo). In alcuni casi sono state rilevate situazioni di criticità (ad esempio nevi melanocitari con richiesta di esame istologico), segnalati immediatamente ai referenti sanitari interni delle Asl Rma e Rmb”. Il progetto, sostenuto dall’Assessore Cangemi, in collaborazione con il San Camillo Forlanini e le Asl Rmb, Rme e Rmh, è durato sei mesi ed è consistito in screening specialistici, attività di formazione ed informazione e assistenza psicologica ai detenuti di Regina Coeli, Rebibbia nuovo complesso, Rebibbia sezione femminile, Rebibbia terza casa, Casale del marmo e della casa circondariale di Velletri. Taranto: detenuto 40enne suicida in cella. I sindacati denunciano una “situazione insostenibile” Ansa, 30 marzo 2012 Un detenuto romeno di circa 40 anni si è ucciso impiccandosi nel bagno della sua cella nel carcere di Taranto, con una corda ricavata dalle lenzuola. L’uomo era in attesa di giudizio per reati contro il patrimonio. Lo rendono noto i sindacati Osapp e Sappe della polizia penitenziaria. Ieri nel carcere di Taranto una detenuta campana di 46 anni era morta probabilmente per un infarto. A nulla sono valsi i soccorsi portati dal personale di polizia penitenziaria e sanitario che hanno cercato, anche con la respirazione artificiale, di salvare la vita del detenuto romeno, che era solo nella cella della prima sezione. La denuncia. Secondo il vice presidente nazionale dell’Osapp, Domenico Mastrulli, Taranto a fronte di una capienza regolamentare di 315 detenuti (di cui 24 donne) ospita 716 detenuti (di cui 37 donne). “Il Sappe - sottolinea il segretario Federico Pilagatti - è ormai stanco di gridare, purtroppo senza esiti positivi, la grave situazione in cui versa il penitenziario del capoluogo jonico. Celle nate per ospitare un solo, al massimo due detenuti - osserva - ne arrivano stabilmente ad averne quattro, con un solo agente che deve attendere alla sicurezza di quasi 90 detenuti, e con un organico carente di almeno 50 unità. Genova: detenuto 52enne tenta d’impiccarsi, ricoverato in rianimazione in gravi condizioni La Nuova Sardegna, 30 marzo 2012 Ha cercato di togliersi la vita in carcere impiccandosi alle sbarre della finestra dopo aver tentato di uccidere la moglie. Domenico Trogu, 52 anni, un ex finanziere in pensione, originario di Atzara nel cuore della Barbagia ma da tempo residente a Genova, è ricoverato in rianimazione con prognosi riservata nell’ospedale di Genova. Le sue condizioni sono considerate molto serie, anche se non correrebbe pericolo di vita. Trogu ha cercato di togliersi la vita impiccandosi nella cella del carcere di Marassi, dove era detenuto da poche ore dopo aver cercato di uccidere la moglie in preda a un raptus di follia. L’ex finanziere era stato arrestato dai carabinieri della compagnia San Martino di Ronco Scrivia, un paese dell’entroterra ligure, al comando del maggiore Breda, con la pesante accusa di tentato omicidio. Nel corso della serata di martedì. Domenico Trogu aveva cercato per tre volte di strangolare la moglie, Angela I., 49 anni, anche lei sarda di Ilbono in Ogliastra, ricoverata in ospedale in osservazione: le sue condizioni di salute non sarebbero gravi. La donna è stata per tre volte vittima di improvvise, inspiegabili e violente crisi di follia del marito che ha cercato di strangolarla. Al terzo tentativo, quando la donna stava ormai soccombendo, a casa era arrivato uno dei figli della coppia che era riuscito a intervenire appena in tempo nella lite, soccorrendo la mamma e allontanando il padre. Nell’abitazione dei Trogu, erano arrivati immediatamente i carabinieri, allertati dai vicini di casa preoccupati per le urla che provenivano dalla casa e avevano arrestato l’ex finanziere. L’uomo non era stato in grado di spiegare i motivi del gesto e così, dopo una serie di accertamenti clinici, Domenico Trogu era stato accompagnato in carcere. Nel primo pomeriggio di ieri, forse in preda a un’altra crisi e probabilmente dopo essersi conto di quel che aveva fatto, Domenico Trogu ha cercato di togliersi la vita impiccandosi alle sbarre della finestra con il lenzuolo. A salvarlo sono stati compagni di cella che hanno immediatamente dato l’allarme. Napoli: medici penitenziari senza contratto, a rischio l’assistenza sanitaria ai detenuti www.napolicittasociale.it, 30 marzo 2012 “Sarebbe l’unico caso in Italia”, denunciano il rappresentante dei medici carcerari, Camillo De Lucia, e il presidente del Sindacato medici italiani (Smi), Giuseppe Del Barone. A dicembre scade la proroga per l’incarico a 100 medici specialistici che effettuano il servizio e, ad oggi, sostiene il sindacato, l’Asl Napoli 1 pare intenzionata a non concederne un’altra per il 2013. “Un fatto molto grave che equivarrebbe al licenziamento di 100 medici e che metterebbe seriamente a rischio l’assistenza per i detenuti che forniscono le loro prestazioni negli istituti di pena di Poggioreale, Secondigliano, nel carcere minorile di Nisida e nell’Ospedale psichiatrico di Napoli”, accusa De Lucia. La questione si trascina da anni. Fino al 1999 i medici penitenziari dipendevano dal ministero di Grazia e giustizia. Con la riforma della medicina penitenziaria sono stati assegnati al Sistema sanitario nazionale. Da allora mentre nelle altre Regioni d’Italia hanno provveduto a delibere l’assorbimento di questi medici nelle Asl, in Campania il passaggio non è ancora avvenuto. Per far fronte al ritardo e garantire la dovuta assistenza ai detenuti i cento medici impiegati nei penitenziari si sono visti concedere delle proroghe. La prossima scadrà il 31 dicembre, e, stando a quanto denuncia il presidente del Sindacato medici italiani Del Barone, ancora non sono arrivate rassicurazioni sul fatto che possa essere confermata per il 2013: “Secondo qualcuno - spiega Del Barone - questa proroga non verrà confermata. Speriamo che non sia così, ma nel caso questa ipotesi fosse confermata sarebbe un fatto estremamente grave”. Non ci sono certezze, dunque. Se non dovesse esserci la proroga cosa accadrebbe? “I detenuti non potrebbero usufruire delle visite specialistiche in carcere, ma dovrebbero prenotarle in un ospedale cittadino”, spiega De Lucia, “ Saranno tre i problemi: aumenterebbe il sovraffollamento negli ospedali, ci sarebbe un ingente spreco di risorse per il trasporto di questi pazienti e, inoltre, una decina di medici che hanno il solo incarico negli istituti di pena resteranno senza un lavoro”. Il Sindacato medici italiani (Smi) promette battaglia. È proprio dei giorni scorsi un vertice tra i rappresentanti dei medici penitenziari con Del Barone, Luigi De Lucia, Salvatore Marotta e Mario Iovane dello Smi. Nell’incontro è stata inaugurata la nuova componente sindacale dei penitenziari con il tesseramento di 45 professionisti ed è stato preparato un documento consegnato al presidente della Regione, Stefano Caldoro, e al suo consigliere per la Sanità, Raffaele Calabrò. “Chiediamo un incontro urgente con la Regione - dice Del Barone. Chiediamo la conferma che ci sarà ancora la proroga per i medici carcerari che fanno capo all’Asl Napoli 1 e che venga creato un osservatorio permanente dedicato alla sanità carceraria”. Pordenone: progetto per nuovo carcere, ipotesi di San Vito al Tagliamento è ultima spiaggia Messaggero Veneto, 30 marzo 2012 Nella storia senza fine del nuovo carcere di Pordenone torna prepotentemente l’ipotesi di una localizzazione a San Vito al Tagliamento, in un quadro finanziario preoccupante, con il rischio che l’intera operazione vada in fumo. Oggi in giunta regionale il presidente, Renzo Tondo, porterà una modifica alla delibera di generalità che, sostanzialmente, include la caserma Dall’Armi di San Vito al Tagliamento, sdemanializzata e ceduta dallo Stato alla Regione e da questa al Comune, come possibile sito dove realizzare la struttura. Una scelta che fa seguito a colloqui avuti al ministero della Giustizia con il prefetto Angelo Sinesio, nuovo commissario per il sovraffollamento delle carceri al posto di Franco Ionta, nominato dal governo Monti. Il progetto di Pordenone, pur essendo da tempo al vertice delle priorità, non godrebbe di concrete risorse finanziarie. Per realizzare la struttura da 450 posti ci vogliono 40 milioni 500 mila euro. Anche considerando che la Regione si era impegnata a stanziarne 20, ce ne vogliono almeno altrettanti. Per questo motivo la strada che la giunta intende perseguire è quella di mettere sul piatto della bilancia anche il sito di San Vito al Tagliamento, per il quale i costi sarebbero inferiori visto che si tratta di una caserma dismessa. Il ministero, peraltro, sarebbe pronto a derogare rispetto al modello che intende adottare per tutti i nuovi padiglioni, ovvero strutture in grado di ospitare 450 persone, puntando su un edificio più piccolo e magari attingendo ai fondi per la riqualificazione di caserme dismesse. Un cambio in corso d’opera che risponde anche al pressing politico della Lega nord, da tempo contraria alla realizzazione del carcere in Comina. Perplessità avanzate sia sul sito, sia sulle dimensioni della struttura. In tal senso, in passato era stata avviata anche una raccolta di firme per stoppare l’operazione, sostenuta, invece, dal Pdl, in particolare attraverso il deputato Manlio Contento. “La modifica alla delibera di generalità - spiega l’assessore regionale pordenonese, Elio De Anna - non cancella in toto il capoluogo, ma certo introduce l’opzione di San Vito al Tagliamento che, in tempi di risorse carenti, appare più praticabile”. In sostanza, a fronte dei tagli sia al bilancio statale, sia a quello regionale, San Vito diventa il sito prioritario, con buona pace di Pordenone e di coloro che negli anni hanno sostenuto la necessità che il penitenziario non fosse collocato a molta distanza dal Palazzo di giustizia. Sempre che le risorse vengano effettivamente trovate e che la prospettiva del trasloco dal castello di piazza della Motta, struttura inadatta e sovraffollata, non sfumi nuovamente e a quanto pare definitivamente. Proprio in un’intervista al Messaggero Veneto di qualche mese fa il presidente della Provincia, Alessandro Ciriani, aveva giudicato favorevolmente l’ipotesi della realizzazione del carcere a San Vito soprattutto se, come pare, ci sarebbe un pool di aziende disponibile a realizzarlo in project financing e quindi a costi ridotti per lo Stato. Diversa la linea del Comune di Pordenone, che ha vincolato urbanisticamente l’area di via Castelfranco Veneto. A questo punto potrebbe uscire dal cassetto l’ordinanza congelata dall’ex sindaco di sgombero del castello che però il ministero potrebbe sanare con il trasferimento di una parte dei detenuti e il pagamento di una multa. Rieti: Sappe; il 3 aprile manifestazione davanti al carcere per i gravi problemi dell’istituto Comunicato stampa, 30 marzo 2012 Un carcere nuovo, moderno, ma sotto utilizzato per mancanza di Personale di Polizia Penitenziaria. E le altre carceri del Lazio sovraffollate ed invivibile. Alle soluzioni tampone adottate dall’Amministrazione Penitenziaria, il Sappe risponderà con una manifestazione che si terrà davanti al carcere reatino il prossimo 3 aprile. “Il carcere di Rieti è l’emblema della disorganizzazione dell’Amministrazione Penitenziaria: si aprono nuovi carceri senza poliziotti penitenziari, e questo vuol dire disagi e disservizi per coloro che lavorano in quel penitenziario. Il Dap pensa di risolvere questa grave situazione con soluzioni tampone, mandando in servizio temporaneo del Personale da altre sedi, ma lì serve Personale in pianta stabile, non a tempo. Per questo manifesteremo martedì 3 aprile davanti al carcere in concomitanza con la manifestazione che terremo nelle stesse ore a Roma davanti al Dap”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria. “In un anno la situazione delle carceri è rimasta sostanzialmente invariata: 67.600 erano un anno fa, 66.400 sono oggi” prosegue. “E questo nonostante la legge sulla detenzione domiciliare, voluta dal Ministro Guardasigilli Alfano, che ha fatto uscire circa 5mila persone dalle patrie galere, e la legge del Governo recentemente approvata dal Parlamento, che prevede il ricorso alla detenzione in carcere come extrema ratio, disponendo gli arresti ai domiciliari o nelle camere di sicurezza della Forza di Polizia che ha operato l’arresto. Non vediamo nulla di concreto, nessun intervento risolutivo dal Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino. Il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria non ci sta. Per rispetto di chi in carcere lavora nella prima linea delle sezioni. Le carceri scoppiano, nelle carceri si muore e i poliziotti sono sempre più stressanti e stanchi di questo stato di cose e di questa inerzia. Per questo scenderemo in piazza a Roma, martedì 3 aprile davanti alla sede dell’Amministrazione Penitenziaria. Per chiamare alle proprie responsabilità chi guida il Dap e coloro che siedono al Governo e in Parlamento”. “Il Sappe” conclude “terrà il sit-in per denunciare i gravi problemi con i quali quotidianamente si confronta la Polizia penitenziaria e che alimentano tensione - come i costanti e continui eventi critici -, gli straordinari, gli avanzamenti di carriera, gli assegni di funzione e le missioni non pagate e, da ultimo, l’assurda riforma che farà andare in pensione i poliziotti a 70 anni. Tutto questo nell’indifferenza dell’Amministrazione Penitenziaria e delle Istituzioni. Grideremo in piazza la nostra rabbia. E se nulla cambierà, non è escluso che manifesteremo anche il giorno della Festa del Corpo a Roma, il prossimo 18 maggio, per chiedere attenzione all’unica persona che si è dimostrata attenta e sensibile ai nostri problemi, il Capo dello Stato”. Cagliari: Graziano Mesina, 40 anni trascorsi in carcere, chiede allo Stato i salari arretrati di Mauro Lissia La Nuova Sardegna, 30 marzo 2012 Quarant’anni vissuti in carcere, tra evasioni avventurose e mesti ritorni: arrivato ai settant’anni di età Graziano Mesina, la primula rossa della Barbagia d’altri tempi, s’appresta a chiedere al tribunale che lo Stato gli riconosca un compenso giusto per il lavoro svolto dietro le sbarre come dipendente del ministero della giustizia. Il suo non è un azzardo e neppure una provocazione, perché una sentenza del giudice del lavoro di Cagliari che risale a ottobre del 2010 sancisce che il detenuto impegnato nel lavoro in prigione ha diritto agli aumenti stabiliti ai rinnovi contrattuali. L’amministrazione, dice la legge, deve pagargli i due terzi del salario dovuto in base alla sua mansione. Un caso nel 2010. Il primo a ottenere il riconoscimento di questo diritto è stato Giovannino Carta, condannato nel 1993 a 26 anni di reclusione dalla Corte d’Assise cagliaritana per aver ucciso due anni prima la moglie e il figlio. Tornato in libertà 17 anni dopo grazie alla buona condotta, Carta si era rivolto all’associazione Casa dei Diritti perché il suo salario, guadagnato col lavoro di falegname svolto in carcere, non era stato mai adeguato al contratto nazionale di lavoro. Gli avvocati Pierandrea Setzu e Renato Chiesa avevano ricorso al tribunale del lavoro, che aveva riconosciuto all’ex detenuto gli aumenti maturati negli anni. Da quel giorno i due legali hanno ricevuto una cinquantina di richieste fondate su casi analoghi e a giorni presenteranno alla cancelleria del tribunale un dossier ricco di nomi eccellenti della criminalità, tra ex ergastolani e personaggi legati a organizzazioni mafiose. La Uno bianca. Il nome di Mesina è fra questi, con lui i famigerati fratelli Fabio e Roberto Savi, più noti come fondatori della banda della Uno Bianca che mise a segno 103 delitti in Emilia Romagna tra il 1987 e il 1994. Poi la banda che rapì Giuseppe Vinci e l’ergastolano Mario Trudu, condannato per il sequestro Gazzotti. Tutti chiedono il riconoscimento degli aumenti contrattuali per il lavoro svolto in carcere, con gli arretrati maturati nel corso degli anni, quasi sempre decenni, trascorsi a espiare la pena. Nel caso di Carta, che ha rivendicato le differenze di retribuzione per gli anni che vanno dal 2002 al 2007, il ministero della Giustizia ha proposto un accordo di transazione che l’ex detenuto ha accettato: dodicimila euro. Ora si tratta di capire se il giudice del lavoro darà ragione anche a Mesina e a quanto ammonti l’eventuale rimborso, che andrebbe calibrato sugli anni effettivi di lavoro e non su quelli passati in stato di detenzione. Alla differenza tra quanto percepito e i due terzi del salario dovuto in base al contratto nazionale bisognerà comunque aggiungere quanto spetta a Mesina e agli altri ex detenuti per i periodi di malattia, più le indennità previdenziali e contributive. Come dire che il più famoso bandito sardo del dopoguerra potrebbe aver maturato tra le mura delle carceri italiane in cui ha vissuto più della metà della sua vita una discreta pensione di vecchiaia. La commissione. L’avvocato Setzu, diventato ormai con il collega Chiesa un riferimento per i detenuti che chiedono il riconoscimento dei propri diritti, ha spiegato che le mercedi - è questo il termine tecnico per indicare la retribuzione del detenuto lavorante - dei carcerati dovrebbero essere adeguate ogni anni secondo gli indici del consumo e le modifiche dei contratti collettivi nazionali di ogni categoria. Il compito è affidato a una commissione ministeriale, che però dal 1993 non ha mai più operato. Eppure - questa la tesi sostenuta dai due legali cagliaritani - l’articolo 36 della Costituzione “si pone in netto contrasto con l’illegittima prassi dell’amministrazione penitenziaria, stabilendo che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. La norma. Ma c’è dell’altro: la Costituzione “riconosce e tutela un diritto che riguarda tutti i lavoratori, senza operare discriminazioni nei confronti di quelli detenuti”. Non solo: l’articolo 22 dell’ordinamento penitenziario riconosce al detenuto lavoratore “una retribuzione che gli consenta un tenore di vita decoroso, non inferiore ai due terzi della retribuzione stabilita per gli altri lavoratori della stessa categoria dal contratto nazionale in vigore al tempo dell’avvenuta prestazione lavorativa”. Ed è su questo punto che i due legali della Casa dei Diritti hanno legato la citazione in giudizio davanti al tribunal del lavoro del ministero della giustizia: “Ad ogni modifica del contratto di categoria dev’essere adeguato il trattamento retributivo dei detenuti lavoratori alle dipendenze del ministero”. Honduras: 13 detenuti morti nel carcere di San Pedro Sula a seguito di una rivolta Ansa, 30 marzo 2012 Almeno 13 sarebbero i morti nel carcere San Pedro Sula nel nord dell’Honduras, lo rende Jose Ramirez capo della polizia nazionale, mentre secondo fonti locali la cifra sarebbe superiore ai 18. Una sommossa sarebbe scoppiata ed un incendio sarebbe divampato all’interno del penitenziario. Per diverse ore un gruppo di reclusi armati, barricati all’interno, ha impedito l’accesso ai pompieri. Secondo le prime ricostruzioni, si sarebbe trattato di un regolamento di conti tra bande rivali all’interno del carcere. Yair Mesa, commissario di polizia della città di San Pedro Sula, ha detto che la rivolta è ora sotto controllo: “La rivolta è stata domata senza la necessità di sparare colpi”, confermato dallo stesso Mesa al telefono dall’interno del carcere alle agenzie locali. Il vescovo Romulo Emiliani, arrivato fuori dal carcere, al quale gli era stato chiesto di fungere da negoziatore con i detenuti afferma che “queste tragedie sono destinate a ripetersi nel sistema penitenziario in Honduras perché sovraffollato”. “È noto da tempo che le autorità non hanno alcun interesse dello stato in cui riversano le prigioni. Sono una bomba ad orologeria che continuerà ad esplodere”, ha detto il vescovo. Svizzera: formazione in patria, invece del carcere, per favorire il rimpatrio dei detenuti stranieri info.rsi.ch, 30 marzo 2012 Per incoraggiare il ritorno volontario degli immigrati magrebini pluri-recidivi, i Cantoni potrebbero finanziare loro una formazione professionale in patria, secondo quanto ha spiegato oggi il direttore dell’Ufficio federale della migrazione (Ufm), Mario Gattiker, ai direttori cantonali di giustizia e polizia, in base a un progetto pilota elaborato da Ginevra. Ogni giorno di detenzione costa dai 400 ai 450 franchi, mentre l’aiuto al reinserimento professionale ammonta a 4’000 franchi al massimo, ha detto la consigliera di Stato ginevrina Isabel Rochat alla Rts, che ha illustrato i dettagli della procedura già in vigore nel suo cantone. I nordafricani autori di reati ricevono 1’000 franchi quando si trovano sul volo del rimpatrio e al loro arrivo questa somma viene impiegata per la loro formazione. Una volta che una Ong ha convalidato in loco la fattibilità del progetto, viene loro versata un’ulteriore somma, che può arrivare fino a 3.000 franchi. Secondo la ministra ginevrina con questo incentivo è stato possibile procedere a un certo numero di espulsioni e chi è partito, ha aggiunto, non è tornato in Svizzera, ma per essere ammessi al programma occorre aver soggiornato nel cantone per un certo numero di anni. In ogni caso si tratta di “una misura palliativa in attesa della firma degli accordi di riammissione” e indotta dalla situazione di sovraffollamento delle carceri svizzere. Il progetto, sostenuto dalla consigliere federale Simonetta Sommaruga, è finanziato da un fondo alimentato da introiti della polizia, ha aggiunto rilevando che non vengono usati fondi dei contribuenti. Proprio ieri a Berna è stato siglato un accordo di riammissione con la Tunisia, primo stato del Nord Africa con cui è stata raggiunta un’intesa preliminare nell’ambito dell’immigrazione. Svizzera: finirà in tribunale il decesso di un detenuto a Bochuz info.rsi.ch, 30 marzo 2012 La morte di un detenuto a Bochuz nel marzo 2010 dovrà essere chiarita nel quadro di un processo: il Tribunale federale ha infatti accolto il ricorso presentato dalla sorella del prigioniero contro il non luogo a procedere deciso dalla magistratura vodese nell’aprile 2011. Il processo dovrà stabilire se il personale medico, carcerario e la direttrice della prigione di Bois-Mermet - di picchetto la notte del dramma - abbiano una responsabilità nella morte di Skander Vogt, deceduto nella propria cella dopo averne incendiato il materasso. Secondo i giudici federali, la vicenda solleva troppi interrogativi sia fattuali che giuridici per rinunciare allo svolgimento di un processo. La gravità dell’accaduto e il diritto della sorella di Vogt allo svolgimento di un’inchiesta effettiva e ad una procedura giudiziaria - aggiunge il Tribunale - impongono di annullare il non luogo a procedere e di ordinare la convocazione di un processo. La morte dell’uomo risale alla notte tra il 10 all’11 marzo 2010. Il personale del carcere aveva spento l’incendio, scoppiato nella cella di alta sicurezza occupata dal prigioniero, poi aveva aspettato l’intervento dell’unità speciale della polizia cantonale Dard per portare via il detenuto. Vogt era però già deceduto, asfissiato dal fumo. L’inchiesta era stata aperta inizialmente contro sei persone. Il Pubblico ministero vodese l’aveva estesa in seguito ad altre tre persone. La morte di Skander Vogt ha avuto conseguenze concrete: il reparto di alta sicurezza di Bochuz è stato ammodernato, in particolare la sua ventilazione, ed è stata creata un’unità d’intervento in seno al carcere. Bielorussia: l’Ue esige dalla il rilascio dei detenuti politici Ansa, 30 marzo 2012 Il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione in cui ha chiesto alle autorità bielorusse di liberare immediatamente tutti i detenuti politici. Tra le persone che l’Europarlamento chiede di rilasciare in primo luogo figurano Ales’ Beliatskij, capo del centro per la difesa dei diritti umani “Vesna” (Primavera), Nikolaj Statkevich e Andrej Sannikov, ex candidati alla presidenza della Bielorussia. La lista include anche Pavel Severinets e Dmitrij Bondarenko, responsabili della campagna elettorale dei candidati dell’opposizione, e l’attivista politico Serghej Kovalenko. I deputati dell’Europarlamento deplorano il peggioramento della situazione con i diritti umani e con le libertà fondamentali in Bielorussia. Invitano a studiare e adottare nuove misure contro le autorità bielorusse, incluse sanzioni economiche. Stati Uniti: in Texas quarta esecuzione capitale dall’inizio del 2012 Ansa, 30 marzo 2012 In Texas è stata compiuta la quarta esecuzione capitale del 2012. Il detenuto Jesse Joe Hernandez, 47 anni, già condannato per abusi sessuali su bambini, è stato condannato alla pena capitale per aver ucciso a botte un bimbo di 10 mesi a cui faceva da baby-sitter. Mentre l’ago gli iniettava il cocktail letale, l’uomo ha gridato al boia: “Forza Cowboys”, in onore della sua squadra di football, e poi “sento arrivare l’effetto del siero, non è male”.