Giustizia: 66.632 detenuti, 13.628 sono in attesa di primo giudizio, 24.069 gli stranieri Redattore Sociale, 2 marzo 2012 La legge “svuota-carceri” finora ha riconsegnato la libertà a 5.140 detenuti, di cui solo una parte di origine straniera (1.369) e di sesso femminile (332). Ad altri 6.245 persone ha permesso di accedere alla detenzione domiciliare (5.007 provenienti dalla detenzione e 1.238 dalla libertà). A fare il punto della situazione, al 29 febbraio 2012, è la redazione di Ristretti Orizzonti, che ha diffuso oggi le “Statistiche sulla popolazione detenuta e le misure alternative” elaborando i dati del Dap. Fino a ieri i detenuti reclusi nei 206 istituti di pena italiani erano 66.632, contro una capienza complessiva di 45.742 posti. Altre 30.864 persone sono in area penale esterna, cioè beneficiano di misure alternative o sanzioni sostitutive. All’interno delle carceri italiane gli stranieri sono 24.069 e le donne 2.846. Ridotta la presenza della componente immigrata tra i detenuti in semilibertà: 102 sul totale di 901. La nazionalità più diffusa in carcere è la marocchina (4.844, 20,1%), seguita dalla rumena (3.598, 14,9%) e dalla tunisina (3.095, 12,9%). Ci sono poi 2.797 detenuti originari dell’Albania (11,6%), 1.181 della Nigeria (4,9%), 721 dell’Algeria (3,0%), 455 della Yugoslavia (1,9%), 420 del Senegal (1,7%) e 282 dell’1,2%. In totale la somma delle altre nazionalità meno presenti arriva a quota 6.672 persone (27,8%). I detenuti con condanna definitiva sono 38.195. Tra i 26.989 imputati, 13.628 sono in attesa di primo giudizio, altri 7.130sono gli appellanti e 4.699i ricorrenti. Sono 1.532 i detenuti imputati con a carico più fatti ma nessuna condanna definitiva. Infine, 63 sono in una “situazione transitoria”. I detenuti in area penale esterna si dividono in diverse sottocategorie: 10.209 sono in affidamento in prova, 902 in semilibertà, 9.005 in detenzione domiciliare e arresti domiciliari. A chi si trova ai domiciliari per la “svuota carceri” si aggiungono i beneficiari delle sanzioni sostitutive: 8 persone in semidetenzione, 129 in libertà controllata, 836 impegnate in lavoro di pubblica utilità, 9 hanno una sospensione condizionale della pena e 486 sono impegnate nel lavoro all’esterno in base all’articolo 21. Altre 3.035 godono di libertà vigilata. Radicali: inadeguatezza misure, ripensare ad amnistia “Le preziose informazioni che elaborate dall’associazione Ristretti Orizzonti ci confermano oggi che né le misure adottate dal governo Berlusconi col cosiddetto svuota carceri di Alfano del dicembre 2010 né quelle più recenti del governo Monti col cosiddetto salva carceri del ministro Severino abbiano minimamente influito sul sovraffollamento carcerario”. Lo dice il senatore Marco Perduca, co-vicepresidente del senato del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito, membro della Commissione giustizia. “Ammesso e non concesso - aggiunge - che fosse quello il problema da affrontare alla radice, secondo Ristretti Orizzonti la popolazione detenuta al 29 febbraio 2012 vede in carcere 66.632 persone, con un totale in Area Penale Esterna di 30.864. Non solo non vi è stata alcuna diminuzione nel numero totale dei detenuti, che avrebbe potuto esser frutto dell’anticipo a 18 mesi del passaggio dal carcere agli arresti domiciliari e del ricorso alle camere di sicurezza per evitare il fenomeno delle cosiddette porte girevoli, ma si conferma anche che in oltre un anno dall’entrata in vigore del decreto Alfano, rafforzato dal decreto Severino, degli oltre 10mila che avrebbero potuto goderne solo la metà ha ricevuto parere favorevole dalla magistratura di sorveglianza. La ministra Severino interrogata sull’amnistia non risponde mai nel merito della proposta di Marco Pannella, ma si nasconde dietro questioni procedurali, credo che l’evidenza di questo fallimento possa suggerire maggiore saggezza anche alla vigilia della preparazione del disegno di legge più volte annunciato, ma a oggi scomparso, che il governo vorrebbe inviare alla Camere per parlare di pene alternative e possibili minime depenalizzazioni”. Grassi (Pd): svuotare le carceri non basta, problema va affrontato “La situazione delle carceri italiane è fin troppo nota. Il regime carcerario dovrebbe avere l’obiettivo di redimere chi ha commesso reati, offrendo la possibilità di cambiare il proprio stile di vita: studiando, lavorando, reintegrandosi nella società. Le condizioni in cui i detenuti sono costretti a vivere, troppo spesso non offrono neppure una di queste possibilità”. Così Gero Grassi (Pd), vice presidente commissione Affari Sociali della Camera “Chi ha sbagliato una volta nella vita - sottolinea - deve avere la possibilità di riparare all’errore fatto, ma questo è possibile solo quando è inserito in un contesto di crescita e di confronto. I numeri resi pubblici sulla detenzione nel nostro Paese, fanno riflettere su quanto ancora si debba fare per rendere le nostre città più sicure e nel contempo offrire ai detenuti condizioni di vita più umane. Parlarne è un primo passo, ma non basta, bisogna pensare a una politica che non si limiti a risolvere il problema dell’affollamento delle carceri con il decreto svuota-carceri, ma affronti il problema alla radice e attui percorsi più sicuri per detenuti e cittadini”. Sappe: impercettibile calo presenze, ma Liguria in controtendenza I detenuti presenti nelle 205 carceri italiane al 29 febbraio sono 66.632, in lieve calo rispetto ai 66.973 del 31 gennaio. Si tratta di una impercettibile flessione: il dato è che ci sono in carcere 21mila persone detenute oltre la capienza regolamentare delle strutture e che più del 40% dei presenti sono in attesa di un giudizio definitivo, commenta Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che però denuncia la situazione in netta controtendenza della Liguria. Qui, i detenuti presenti il 31 gennaio 2012 erano 1.710. Un mese dopo, il 29 febbraio scorso, erano 1.824 rispetto ai 1.088 posti regolamentari nelle 7 Case circondariali liguri - ricorda Martinelli. E questo va tutto a discapito del duro, delicato e difficile lavoro che i poliziotti penitenziari in servizio in Regione svolgono encomiabilmente ogni giorno. Si tenga anche conto che, sempre in Liguria, quasi 800 persone scontano una pena in area penale esterna, ammessi cioè a misure alternative alla detenzione, a misure di sicurezza, a sanzioni sostitutive del carcere. Oggi noi abbiamo a Chiavari 93 detenuti per 78 posti letto, a Marassi 817 per 456 posti regolamentari, a Pontedecimo 188 persone per 96 posti, a Imperia 116 per 69 posti, a Spezia 211 rispetto ai 144 posti, a Sanremo 325 per 209 posti ed a Savona 74 detenuti per 36 posti letto. Pochissimi sono coloro usciti dalle celle per la legge sulla detenzione domiciliare: solo in 168, prosegue Martinelli. Martinelli sottolinea poi la fondamentale funzione sociale delle misure alternative al carcere. Si deve infatti avere il coraggio e l’onestà politica ed intellettuale di riconoscere i dati statistici e gli studi Universitari indipendenti su come il ricorso alle misure alternative e politiche di serio reinserimento delle persone detenute attraverso il lavoro siano l’unico strumento valido, efficace, sicuro ed economicamente vantaggioso per attuare il tanto citato quanto non applicato articolo 27 della nostra Costituzione, sottolinea il segretario aggiunto del Sappe. Martinelli ricorda l’incontro avuto dal Sappe con il presidente della Camera Gianfranco Fini, per chiedergli di sostenere il progetto di legge del ministro della Giustizia Paola Severino sulla depenalizzazione dei reati minori e, soprattutto, sulla messa alla prova: istituto, quest’ultimo, che ha dato ottimi risultati nel settore minorile e che potrebbe essere altrettanto utili negli adulti, dato che consentirebbe di espiare in affidamento al lavoro all’esterno le condanne fino a quattro anni di reclusione. Ma altrettanto evidente è che si deve potenziare il ruolo della Polizia Penitenziaria incardinandolo negli Uffici per l’esecuzione penale esterna - spiega Martinelli - per svolgere in via prioritaria rispetto alle altre forze di Polizia la verifica del rispetto degli obblighi di presenza che sono imposti alle persone ammesse alle misure alternative della detenzione domiciliare e dell’affidamento in prova. Il controllo sulle pene eseguite all’esterno, oltre che qualificare il ruolo della Polizia Penitenziaria - conclude - potrà avere quale conseguenza il recupero di efficacia dei controlli sulle misure alternative alla detenzione. Giustizia: Camera; ddl depenalizzazione e domiciliari, messa in prova per reati fino 4 anni Dire, 2 marzo 2012 È stato trasmesso alla Camera il ddl del ministro Paola Severino sulla depenalizzazione dei reati minori e sulle misure alternative alla detenzione. Il testo, che fa parte del pacchetto giustizia varato dal Consiglio dei ministri lo scorso 16 dicembre, è stato annunciato ieri in aula e attende di essere calendarizzato in commissione. Sarà il secondo passo, dopo il decreto svuota carceri convertito in legge, per affrontare l’emergenza sovraffollamento (oggi i dati dell’associazione Ristretti Orizzonti parlano di oltre 66 mila detenuti contro una capienza complessiva di 45.742 posti: un sovraffollamento quindi di circa 20 mila persone). Il ddl dà una delega al governo in materia di depenalizzazione e istituisce la messa in prova (senza l’ingresso in carcere) che può dare luogo alla sospensione del processo e all’estinzione del resto se il periodo di servizio sociale svolto dal reo ha esito positivo. Quindi le pene detentive non carcerarie: il giudice potrà irrogare, per determinati reati, i domiciliari già al momento della sentenza, allo stesso modo della carcerazione o della sanzione amministrativa. Un’altra novità riguarda la sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili, escludendo i latitanti e chi è accusato di gravi reati come mafia o terrorismo. Ecco, più in dettaglio, le quattro materie su cui interviene il disegno di legge in materia penale. Depenalizzazione reati Si prevede la trasformazione in illecito amministrativo dei reati puniti con la sola pena pecuniaria, con esclusione dei reati in materia di edilizia urbanistica, ambiente, territorio e paesaggio, immigrazione, alimenti e bevande, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, sicurezza pubblica. Sono inoltre escluse dalla depenalizzazione le condotte di vilipendio comprese tra i delitti contro la personalità dello Stato. Il termine per l’attuazione della delega, con cui si dovranno individuare le aree della depenalizzazione, è di diciotto mesi. Sospensione processo nei confronti degli irreperibili Coerentemente con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo si tende a garantire l’effettiva conoscenza del processo. La delega prevede che la sospensione del dibattimento comporta una sospensione della prescrizione per un periodo pari a quello previsto per la prescrizione del reato; quindi se il reato si prescrive in 6 anni, il corso della prescrizione sarà sospeso per 6 anni, dopo i quali ricomincerà a decorrere. Questo periodo dovrà servire a portare il processo a conoscenza dell’imputato. La sospensione del processo non opera nei casi in cui si può presumere che l’imputato abbia conoscenza del procedimento, ad esempio quando è stato eseguito un arresto, un fermo o una misura cautelare o nei casi di latitanti (che si sono volontariamente sottratti alla conoscenza del processo). La sospensione del procedimento non opera nei casi di reato di mafia, di terrorismo o degli altri reati di competenza delle Direzioni distrettuali. Ecco gli altri capitoli del ddl Severino in materia penale e sulle misure alternative alla detenzione, trasmesso alla Camera e che rappresenta il secondo passo, dopo il dl svuota carceri, per cercare di affrontare il problema sovraffollamento. Sospensione processo con messa alla prova È prevista in caso di reati non particolarmente gravi (puniti con pene detentive non superiori a quattro anni). La sospensione del processo, con messa alla prova, è rimessa a una richiesta dell’imputato, da formularsi non oltre la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Consiste in una serie di prestazioni, tra le quali un’attività lavorativa di pubblica utilità (presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato), il cui esito positivo determina l’estinzione del reato. Potrà essere concessa soltanto una volta (o due, purché non si tratti di reati della medesima indole) a condizione che il giudice ritenga che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati. Pene detentive non carcerarie È prevista l’introduzione di due nuove pene detentive non carcerarie: la reclusione e l’arresto presso l’abitazione o altro luogo di privata dimora. Queste pene sono destinate a sostituire la detenzione in carcere in caso di condanne per reati puniti con pene detentive non superiori a quattro anni. Le nuove pene saranno applicate direttamente dal giudice della cognizione, con notevoli vantaggi processuali. Si tratta di modifiche in linea con l’obiettivo di attuare una equilibrata limitazione del carcere e il minor sacrificio possibile della libertà. Giustizia: Garante Lazio; stop a legge lavoro reclusi e sfregio a costituzione Agenparl, 2 marzo 2012 “Il lavoro è un tassello fondamentale del percorso di recupero sociale del detenuto. Lo stop imposto alla legge che avrebbe favorito l’inserimento lavorativo dei reclusi è l’ennesimo sfregio alla norma costituzionale che concepisce la pena carceraria in funzione del pieno reinserimento sociale del condannato”. Lo dichiara il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, commentando la notizia dello stop, da parte della Commissione Bilancio della Camera, alla legge che, modificando e rifinanziando la cosiddetta “Legge Smuraglia”, avrebbe favorito l’insediamento lavorativo dei detenuti. La Commissione ha espresso parere negativo al testo per mancanza di copertura finanziaria ammontante ad oltre sei milioni di euro. Il testo dovrà, ora, tornare in commissione Giustizia. “L’emergenza carceri - ha aggiunto Marroni - oltre ad essere un dato puramente contabile è anche un problema culturale, che non si risolve con amnistia, indulto o altre misure straordinarie. Occorre fare in modo che chi esce dal carcere non vi ritorni perché è tornato a delinquere per mancanza di opportunità e di alternative. Il lavoro, oltre che un’opportunità occupazionale ed un sostegno economico, è soprattutto un’educazione alla legalità. Per questo, nel giudicare in maniera preoccupante lo stop imposto alla Camera a queste norme, rivolgo un appello a tutti i parlamentari affinché si possa arrivare celermente all’approvazione di una legge fondamentale per la gestione del sistema carcerario italiano”. Giustizia: viaggio dentro l’inferno delle carceri italiane di Antonio Crispino Corriere della Sera, 2 marzo 2012 I circa 70mila detenuti compressi in spazi previsti per 45mila. “Ci trattano come maiali, non siamo nemmeno più numeri - protesta un detenuto a Rebibbia. Ci cuciniamo nel posto dove facciamo anche i bisogni. Di quale riabilitazione parlano?”. I dati della detenzione in Italia spaventano. Nel 2010 l’Italia ha raggiunto il record europeo di 68.258 detenuti. In poco più di un anno il numero si è mantenuto costante (oggi sono circa 67 mila detenuti). Sono compressi in spazi previsti per 45.681 persone. Più della metà sono in carcere in attesa di un giudizio. Sul totale dei detenuti solo il 56,2% ha una condanna definitiva. In Francia i detenuti che aspettano una sentenza sono il 23,5 %, in Germania il 16,2%, in Spagna il 20,8%, in Inghilterra 16,7%. Il sovraffollamento è al 148%, il peggiore in Europa dopo la Serbia. I dati sono quelli del progetto Space (Statistiques Penales Annuelles) creato dal Consiglio d’Europa. Nemmeno 28 provvedimenti di amnistia/indulto (fonte: www.ristretti.it) approvati dalla nascita della Repubblica hanno cambiato granché il quadro generale. Ma le statistiche non raccontano bene il dramma delle carceri e al di là dei numeri spesso si trova solo omertà, disinteresse o luoghi comuni. Entriamo da giornalisti nei vari istituti detentivi italiani ma la realtà che possiamo riprendere è solo quella che ci indicano i dirigenti. C’è addirittura chi raccomanda “il solito giro per i giornalisti” o comunica alle direzioni di “verificare i contenuti del materiale prodotto... prima dell’autorizzazione alla pubblicazione del servizio”. Anche i detenuti con cui parlare non li scegliamo noi ma ce li indicano dalle direzioni. Sarà un caso, ma sono tutte persone che lavorano e non hanno problemi. Ma di detenuti come quelli che ci propongono (definiti “articolo 21”), nel carcere “Gazzi” di Messina, da dove parte il nostro viaggio, ce ne sono tre su circa quattrocento. Basta voltarsi dall’altra parte per scoprire una realtà tutta diversa. In una cella originariamente adibita al transito, ci sono otto detenuti. Scendono dai letti solo in quattro perché tutti in piedi non ci starebbero, fanno a turno. Hanno la tazza del water accanto al tavolino dove mangiano. Non c’è un muro divisorio o un paravento. I bisogni si fanno “a vista”, davanti a tutti. Ci sono quattro livelli di brande, l’ultima arriva proprio fin sotto il soffitto. Non c’è una scala per salire (in carcere è vietata). Chi capita ai piani alti deve arrampicarsi sugli altri. Ci dicono di andare avanti. Intravediamo una persona che trema su una carrozzina, a stento riesce a parlare. Siamo in quello che dovrebbe essere il centro clinico. Riesce a malapena a dire che soffre di “atassia cerebellare”. È una degenerazione del sistema nervoso che fa perdere la coordinazione dei movimenti. Se non curata bene porta progressivamente alla paralisi. Appena voltiamo l’angolo una guardia ci suggerisce di lasciar perdere. “Ha sulle spalle due o tre omicidi” sghignazza. Mentre passiamo per i corridoi, riscaldati con alcune stufette alogene, alcuni detenuti implorano attenzione. In cella ne sono 11. Sono operati di cuore, diabetici, malati epatici, etc. Ci indicano un vecchio di 82 anni steso in branda. Lo chiamano ripetutamente ma non si muove. Due minuti dopo la nostra visita, dalla direzione ci fanno sapere di aver trasferito l’anziano in un luogo più idoneo. Ci invitano ad andare avanti anche qui. La preoccupazione è quella di tutelare la privacy, importante almeno quanto gli altri diritti umani riconosciuti dall’Onu. Ci sono malati di tubercolosi. Chi ci accompagna cerca di minimizzare mentre il medico incaricato del carcere ci dice che negli ultimi tempi c’è stata “una recrudescenza di alcune malattie infettive proprio come la tubercolosi e la difterite”. In altri carceri troveremo anche casi di scabbia. Lui, come gli altri, è un medico incaricato provvisorio. Presta servizio tre ore al giorno. “Non abbiamo i mezzi per poter dare risposte in tempi ragionevoli”. Significa che i detenuti devono “arrangiarsi”. Lo fanno con i tranquillanti. Li prendono soprattutto per dormire perché dopo 24 ore fermi nello stesso posto si fa fatica a chiudere gli occhi. Nel carcere di Rebibbia andiamo al nuovo complesso, considerata una delle realtà detentive più dignitose. Da dietro le sbarre ci gridano di andare a vedere, sono tredici ristretti in quello che era una sala ricreativa. La guardia cerca di nascondere. “Questa non è una cella, è una saletta per il ping pong” dice mentre con una mano oscura la telecamera. Si rischia la rivolta. Il primo a ribellarsi è quello che porta il rancio nelle celle: “Non potete nascondere sempre, fatelo entrare e fate vedere qual è la realtà”. Non riusciremo a vedere cosa c’è in quella cella. “Ci trattano come maiali, non siamo nemmeno più numeri - protesta un detenuto qualche cella più avanti. Ci cuciniamo nel posto dove facciamo anche i bisogni. Di quale riabilitazione parlano?”. Vorremmo far vedere le immagini che giriamo al Garante per i diritti dei detenuti. Scopriamo che in Sicilia, ad esempio, questa figura è stata soppressa per una storia di sprechi. Su 176 mila euro stanziati per le attività di assistenza a chi è in cella, il solo garante percepiva uno stipendio di 100 mila euro. Giustizia: un metro e mezzo per ogni detenuto… le immagini-denuncia Corriere della Sera, 2 marzo 2012 Comincia oggi un viaggio sulla detenzione in Italia. Una video inchiesta in quattro puntate di Corriere.it per tradurre in immagini e voci i numeri drammatici delle condizioni carcerarie. Da Messina a Brescia, passando per Napoli, Roma, Pontremoli. Per toccare con mano cosa significa avere il peggiore sovraffollamento in Europa (148%) e il record di 68 mila detenuti stipati in spazi previsti per 45 mila persone. La prima puntata parte oggi sul sito del Corriere della Sera dal carcere Gazzi di Messina. In una cella originariamente adibita al transito ci sono otto detenuti. Ognuno con a disposizione 1 metro e mezzo quadrato di spazio. Rinchiusi 23 ore su 24. Un solo water, proprio accanto al tavolino dove mangiano. I bisogni si fanno “a vista”, davanti a tutti. E poi l’abbandono nel centro clinico, dove si vede un anziano di 82 anni, malato, immobile su una branda insieme con altre undici persone. L’uomo verrà trasferito dopo la visita della telecamera di Corriere Tv. Da lì il viaggio passa a Roma, nel nuovo complesso di Rebibbia, ritenuto uno degli istituti detentivi più dignitosi. Da dietro le sbarre le grida di tredici persone ristrette in una ex sala adibita ai ping pong. E il silenzio degli addetti che impediscono di andare a vedere e fare le riprese. E non sarà un caso isolato. Nella seconda puntata il viaggio arriva in Lombardia, la regione con il più alto numero di detenuti. La visita è al Canton Mombello di Brescia. Un carcere al collasso. I detenuti sono il triplo di quelli che la struttura (vecchia e inadeguata) può contenere. Il 70% sono extracomunitari. C’è da capire perché, nonostante rappresentino solo l’8% della popolazione italiana, gli extracomunitari siano così sovra-rappresentati in carcere. Per non parlare poi della rieducazione che non c’è e delle conseguenze per tutti di un sistema che non funziona. Nella puntata successiva l’obiettivo è diretto su quella che è, definita la zona d’ombra del carcere: la violenza dietro le sbarre. Quella subita dai detenuti ad opera degli operatori penitenziari ma anche quella che vede come vittime la polizia penitenziaria 6 i medici. Un argomento che spesso resta tabù per la difficoltà di far luce su episodi archiviati con troppa fretta. E poi il lavoro in carcere usato per mettere a tacere le proteste. L’ultima puntata sarà dedicata alle donne e ai minori dietro le sbarre. Cercando di capire i perché di una legislazione carente, dei tanti luoghi comuni e dei pregiudizi che impediscono un approccio più corretto all’argomento. E infine i volontari, che salvano il salvabile. Giustizia: dov’è finita la “drammatica, impellente urgenza”? Valter Vecellio Notizie Radicali, 2 marzo 2012 “Dentro l’inferno delle carceri italiane: un metro e mezzo per detenuto”, è il titolo di una video-inchiesta curata da Antonio Crispino e pubblicata dal “Corriere.it”. Meritoria e lodevole iniziativa, presentata così: “I circa 68mila detenuti compresi in spazi previsti per 45mila. “Ci trattano come maiali, non siamo nemmeno più numeri”, protesta un detenuto a Rebibbia. “Ci cuciniamo nel posto dove facciamo anche i bisogni. Di quale riabilitazione parlano?”. È un documento sconvolgente ed è importante che il “Corriere.it” abbia preso questa iniziativa, e in questo momento: sembra infatti che dopo aver varato il provvedimento impropriamente definito “svuota-carceri”, la questione sia stata risolta, e di altro di occupa l’agenda politica. Il documento del “Corriere.it” mostra che invece il problema è tutt’altro che risolto e, se possibile, ulteriormente incancrenisce. Lo dimostra e testimonia la lunga serie di detenuti e agenti di polizia penitenziaria che si tolgono la vita. L’ultimo, un carcerato, si chiamava Sebastiano Messina, aveva 41 anni, si è impiccato con un lenzuolo nella sua cella nel carcere di Pagliarelli a Palermo. Era in carcere dal 23 gennaio per violazione della sorveglianza speciale, ed era in attesa di giudizio. Non un reato grave, quindi, tanto più che Messina non risultava far parte della criminalità organizzata. Eppure, anche se la sua detenzione presumibilmente non sarebbe stata lunga, ha preferito farla finita. È il 14 suicidio nei primi due mesi del 2012. Tra i carcerati i decessi “censiti” sono stati complessivamente 29. Che fine ha fatto la “drammatica, impellente urgenza”? Perché il presidente della Repubblica non compie l’unico atto costituzionalmente a sua disposizione, il messaggio alle Camere? Perché non leva la sua autorevole voce? È quello che chiede da giorni Marco Pannella, ed è pur significativo che il suo “appello” non trovi eco sui mezzi di comunicazione. Ed è non meno significativo che la classe politica, pavida e timorosa di perdere consenso, rinunci a mettere mano a quella riforma della giustizia, il cui primo e imprescindibile passo è l’amnistia. Si sono mostrati scandalizzati per la prescrizione di cui ha beneficiato l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sul caso Mills. Non fiatano sulle circa 180mila prescrizioni che ogni anno, da dieci anni, si consumano nelle aule e negli uffici giudiziari. Giustizia: in 11 anni spesi 470 milioni di euro in risarcimenti per ingiusta detenzione di Valeria Centorame Notizie Radicali, 2 marzo 2012 Un giorno da innocente dietro le sbarre vale per lo Stato a titolo di “risarcimento” 235,82 euro fino ad un tetto massimo di 516.456,90 euro. Ed allora “diamo un po’ di numeri”! Nel periodo che va dal 1° gennaio 2001 al 31 dicembre 2011 il totale delle riparazioni pagate dallo Stato italiano per ingiusta detenzione ed errore giudiziario ammonta a circa 470.000.000 di euro. Nel solo 2011, come riportato dalla relazione del guardasigilli Paola Severino lo Stato ha avuto un “esborso” di 46 milioni di euro. Una spada di Damocle per le nostre disastrate finanze, visto che i detenuti in attesa di primo giudizio sono oltre 14.000. E come al solito dietro questi numeri esorbitanti ci sono vite vere! E ciò che crea scandalo non è l’averle rovinate come Stato, a volte perse, ma il doverli giustamente risarcire! Secondo la legislazione italiana, la custodia cautelare “è ingiusta quando un imputato all’esito del processo viene riconosciuto innocente per non aver commesso il fatto; perché il fatto non costituisce reato; perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”. “La custodia cautelare è illegittima quando questa è stata vissuta da un imputato prosciolto per qualsiasi causa, o da un condannato che nel corso del processo è stato sottoposto a custodia cautelare senza che ne sussistessero le condizioni di applicabilità”. Si può fare richiesta di risarcimento soltanto dopo che la sentenza sarà definitiva, e visto che in Italia la magistratura può far appello anche contro una assoluzione, probabilmente passeranno tutti e tre i gradi di giudizio e quindi dopo molti anni, non sarà però automatico riceverla, un tribunale dovrà dichiararla legittima secondo diversi parametri e sempre interpretabili. Come non parlare di un problema scandaloso che riguarda le tante carcerazioni preventive, che poi come ha sottolineato la Ministra Severino in molti e troppi casi si risolvono con assoluzioni? E come non affrontare politicamente questo vulnus vergognoso della nostra giustizia? Il rapporto Ue sulla carcerazione preventiva ci fa “dono” come nazione della “maglia nera” essendo proprio l’Italia il paese con un più alto tasso di presunti innocenti in carcere: oltre il 42% dei detenuti. La sola proposta di legge sulla custodia cautelare di questa legislatura, nonostante tutti parlino di “abuso” della carcerazione preventiva, è quella della delegazione radicale, e non è stata neanche messa all’ordine del giorno, nonostante sia stato richiesto anche durante l’ultimo dibattito sul decreto legge chiamato impropriamente prima “svuota carceri” e poi “salva carceri”! Ed un prossimo decreto “salva coscienze” quando arriverà? perché servitori dello Stato sì, ma complici giammai! Ed allora una proposta pratica, veloce, indolore, tanto per dire “il re è nudo”: basterebbe dare misure alternative a tutti i soggetti in attesa almeno di primo giudizio, che di colpo i detenuti diverrebbero poco più di quelli ammessi per legge! lasciando in carcere realmente soltanto i casi di provata flagranza di reato, vi sembra troppo ardimentoso? più dello stipare migliaia di persone dentro lager fascisti? Ma perché si sbaglia così tanto? Perché per poter “soggiornare” nelle nostre prigioni non occorrono prove, forti, tangibili, magari scientifiche, bastano degli indizi, proprio perché il nostro sistema penale è basato sul cosiddetto processo indiziario (che tanto mi ricorda la Santa Inquisizione). E sul processo indiziario sia la dottrina che la giurisprudenza hanno avuto modo di occuparsi ampiamente, il tema della prova è il fulcro attorno al quale ruota ogni processo, e la prova indiziaria in sé presenta delle peculiarità suscettibili di valutazioni diverse sarà quindi alla coscienza ed all’abilità di un magistrato la valutazione di queste ultime che se anche fosse errata non sarà mai oggetto di una possibile responsabilità civile del giudice, che non ne risponderà mai mentre un innocente finirà in carcere! Proprio il comma 2 dell’art. 2 della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Vassalli) esclude infatti l’errata valutazione dell’indizio dalla responsabilità: “Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”, come se dicessimo che non può dar luogo a responsabilità l’errore palese di un chirurgo che causa la morte di un paziente, perché parte delle sue funzioni. Ed allora una proposta shock, tanto per dire ancora “il re è nudo”: L’abrogazione del comma 2 assieme all’eliminazione dell’art. 192 2° co. c.p.p. ridurrebbero ai minimi termini la possibilità di errore da parte dei giudici, che sempre uomini sono e come tali soggetti a sbagliare, ridando da un lato dignità alle prove scientifiche e dall’altro attribuendo la funzione propria del magistrato inquirente quella della valutazione della prova. Ed anche questo sembra troppo? Più della malcelata incoerenza, dell’ipocrisia di leggi e commi che di fatto affossano la volontà popolare? E leggiamo invece nei motivi dei tanti rigetti alle richieste di misure alternative alla custodia in carcere che su carta e solo su carta dovrebbe essere l’estrema ratio, la “possibile reiterazione”, troppo facile! si può astrattamente attribuire ad ogni indagato! E mi chiedo: come si fa a reiterare ciò che non si è commesso? Si sta dando quindi già per scontata la commissione di reato prima ancora di essere giudicati? Sì. Questa è la prova tangibile che la presunzione di innocenza non esiste! la giustizia “moderna” non ha ancora superato certi pregiudizi che venivano imputati alla cultura dei secoli passati, in particolare ai metodi della Santa Inquisizione: ancora oggi nei processi, di fatto l’onere della prova è ribaltato e ricade sull’accusato ed è proprio il soggetto sottoposto ad indagini purtroppo a dover provare la sua estraneità nei fatti, non il contrario, altrimenti si rischia di passare tutta la custodia cautelare dietro le sbarre ed in base al reato per cui si è indagati possono passare 6 mesi o magari un anno prima di poter avere la possibilità di interloquire con un giudice (Gup) che deciderà un rinvio a giudizio o meno. Ma vorrei invece soffermarmi sulla sofferenza inflitta a queste persone, una ad una, con una vita, un lavoro, delle famiglie alle spalle ed una dignità calpestata. Sofferenza che lo Stato pensa di poter risarcire con una formula matematica. Sofferenza atroce nel vedere la vita stravolta da un giorno all’altro, divenendo dei reietti e dei criminali per la società. Verranno prelevati all’alba ed ammanettati, mentre increduli penseranno sia solo un incubo saranno schedati, fotografati, numerati e gettati in carcere. Passeranno in isolamento dei giorni prima di essere interrogati, fuori dal mondo con l’anima letteralmente strappata a mani nude senza poter avere contatti con i propri familiari, senza capire cosa stia accadendo, senza una carezza o due parole di solidarietà da nessuno. Cominceranno ad avere paura di un sistema perverso del quale non si sentono parte integrante. E da quel momento in poi guarderanno in un buco nero, talmente nero e talmente profondo che alla fine sarà il buco a guardare loro, prendendosene gioco. E tutto questo come in un perverso gioco al Monopoli “senza passare dal via”, dritti in prigione! E si sta fermi lì diversi turni! aspettando che il famoso lancio di dadi possa renderci giustizia! Un tragico e beffardo lancio di dadi. È questione di fortuna il trovare subito un avvocato onesto e che creda all’innocenza del proprio cliente. È questione di fortuna non incontrare un magistrato che male interpreterà degli indizi. È questione di fortuna trovare un giudice coscienzioso che non si limiti a fare un copia/incolla da un foglio word per una sentenza. È questione di fortuna non ammalarsi o togliersi la vita nel frattempo in carcere. In una celebre poesia, Edgar Lee Masters, usa l’immagine della benda sugli occhi dell’icona della Giustizia, per criticare la cecità delle corti e l’arbitrarietà delle sentenze, invece nell’iconografia ufficiale alla benda si da il significato di garanzia dell’imparzialità e incorruttibilità dei giudici. Un particolare quello della benda sugli occhi che può essere ambivalente, indicando talora l’imparzialità, talora invece l’incapacità di un retto giudizio. La benda apparve nel 1494 in una incisione che illustrava il poema Narrenschiff (“La nave dei folli”) di Sebastian Brant, in cui la figura della giustizia appare bendata da un folle, riconoscibile dal berretto a sonagli. Il tema della benda andava all’epoca ad intrecciarsi con l’iconografia del Cristo bendato e deriso durante la Passione: quel processo rappresentava la condanna dell’innocente per antonomasia e si trattava di un’immagine molto popolare e ben riconoscibile da tutti. E se il vero motivo per cui la Giustizia appare bendata fosse oggi proprio quello originale? Toglietele la benda dagli occhi, subito! togliete la benda anche dai vostri occhi, dalle vostre coscienze e cominciate a gridare il re è nudo! Amnistia per la Repubblica! Giustizia: è tempo di una “Lega per l’Amnistia”… di Emiliano Silvestri e Marco Del Ciello Notizie Radicali, 2 marzo 2012 Non sappiamo se, prima o poi, il presidente della Repubblica cederà alle insistenze di Marco Pannella, che gli chiede di onorare fino in fondo il suo ruolo di supremo garante della Costituzione, rivolgendo un formale messaggio alle Camere sulla pratica criminale dello Stato Italiano in materia di giustizia e di rispetto dei diritti umani. Non sappiamo se, e quando, Egli deciderà di richiamare il Parlamento al rispetto dei principi solennemente proclamati dalla Costituzione della Repubblica e nei documenti internazionali ed europei sottoscritti dall’Italia. Non sappiamo se nel persistere dell’inerzia e del silenzio del Presidente Giorgio Napolitano si possa ravvisare un’ipotesi di reato giuridicamente perseguibile: di responsabilità omissiva; come quella illustrata nel secondo comma dell’art. 40 del Codice Penale. (“Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”). Certo è che, nell’ormai lontano luglio dello scorso anno, il primo cittadino d’Italia aveva richiamato una “prepotente urgenza” rispetto alla riforma della giustizia e una realtà “che ci umilia in Europa” a proposito della situazione delle carceri. Certo è che, convocato in via straordinaria dai suoi componenti, il Senato della Repubblica era stato invece riunito in via ordinaria per ascoltare le parole di un Governo tanto partecipe alle sorti della giustizia da dimostrarsi sostanzialmente disinteressato alla questione posta dai convocatori. Certo è, che quel medesimo consesso è stato largamente concorde nel rifiutare di trarre le dovute conseguenze dalla conoscenza della realtà illustrata dalle parole del Presidente della Repubblica. Nel rifiutare di trovare - almeno - una soluzione all’altezza di quella amnistia che unanimemente i mandatari del mandato imperativo inflitto alla Nazione e ai suoi rappresentanti rifiutavano. Certo è che la più alta carica dello Stato Italiano ci ha avvertito della circostanza che nella Repubblica: “non ci sono le condizioni politiche” per conquistare l’amnistia e, con essa, la conquista delle condizioni concrete per porre termine alla flagranza assassina di vite, di diritto e anche di democrazia, nella quale vivono le nostre istituzioni. Possiamo essere certi che l’insistenza di Pannella non verrà meno. Vogliamo immaginare gli resista un uomo nel dilemma tra ‘etica della convinzionè - e obbligo di porre fine a una situazione di persistente violazione delle norme europee e del diritto umanitario - ed ‘etica della responsabilità’, che gli suggerisce di evitare di veder certificato, dalla sordità del Parlamento a un suo eventuale messaggio, il tradimento dei principi costituzionali di gruppi politici che rappresentano sempre meno i cittadini italiani. Rispondere alle chiamate di Marco Pannella alla battaglia nonviolenta è certamente doveroso ma dobbiamo fare di più. Di fronte a documenti ufficiali che certificano la intollerabile situazione delle galere. All’estremo sacrificio dei tanti che, soltanto così, riescono a mettere fine allo strazio dell’esistenza (da carcerato o carceriere) in luoghi che sono di tortura anche per il ministro della Giustizia Severino, dobbiamo provare a fare un salto di qualità. Sarebbe bello costruire uno strumento - una Lega per l’amnistia - per incontrarci, per costruire iniziativa, per attivare altri; per conquistare, insieme, le condizioni politiche per la riforma della giustizia italiana. Perché è un dato di fatto che in Italia ci sono oggi tre categorie di persone: gli indifferenti, gli inconsapevoli e i sensibili. Gli indifferenti sono quei dirigenti di partito e parlamentari che conoscono la situazione delle carceri, hanno il potere di cambiarla attraverso un’amnistia, ma non fanno nulla. Riescono a vivere tranquilli mentre tutto intorno a loro si soffre e si muore, semplicemente girando la testa dall’altra parte. Gli inconsapevoli sono i milioni e milioni di cittadini che magari vivono a poche centinaia di metri da un carcere, ma non sanno e non possono sapere quello che accade oltre il muro. La propaganda, soprattutto televisiva, del regime partitocratico li mantiene all’oscuro, inconsapevoli appunto. I sensibili sono invece quei pochi che hanno sentito, visto, toccato la sofferenza dei detenuti (e degli agenti di polizia penitenziaria), che hanno capito cosa spinge un ragazzo di vent’anni in attesa di giudizio a impiccarsi in cella. I sensibili si scontrano quotidianamente con l’indifferenza criminale dei politici e con quella, inconsapevole, della maggioranza dei cittadini, sono pochi e anche sparsi in una miriade di associazioni (politiche, sindacali, di volontariato ecc.). Per superare questa frammentazione hanno bisogno, abbiamo bisogno, di un filo che leghi le diverse iniziative almeno fino al raggiungimento dell’amnistia. L’amnistia è infatti il primo passo del lungo e difficile viaggio che ci attende per restituire la pena alla dimensione rieducativa prevista dall’articolo 27 della Costituzione. Proprio per questo una Lega per l’Amnistia, o comunque la si voglia battezzare, sarebbe lo strumento più efficace per raccogliere le forze e combattere sui due fronti: da un lato, aumentare attraverso l’informazione la consapevolezza dei cittadini sulla situazione delle carceri; dall’altro, scuotere le coscienze dei parlamentari e trovare quell’ampia maggioranza necessaria all’approvazione di un provvedimento di amnistia. Da anni ormai Radicali Italiani indica nei suoi documenti come priorità l’amnistia, ma le poche risorse umane ed economiche di cui dispone questo soggetto gli hanno finora impedito di raggiungere l’obiettivo, nonostante le autorevoli adesioni ricevute da tutto il mondo della giustizia. Proprio per questo ci serve un salto di qualità sul piano organizzativo, per andare oltre i ridotti confini della galassia radicale e coinvolgere attivamente anche chi radicale non lo è e forse non lo sarà mai. Solo raccogliendo nuove forze potremo infatti affiancare alla nostra straordinaria attività di monitoraggio - portata avanti in particolare da Rita Bernardini e dall’Associazione Il Detenuto Ignoto - anche una più efficace campagna di informazione dei cittadini e di pressione sui parlamentari. Si tratta di cose che in parte già facciamo, ma forse non a sufficienza se nelle carceri italiane continua inarrestabile la strage di legalità e di vite umane. Il tempo è poco: tra pochi mesi entreremo ufficialmente nell’anno che precede le elezioni politiche e a quel punto dovremo combattere non solo contro l’indifferenza, ma anche contro l’interesse elettorale dei parlamentari. I leader di Pdl e Pd saranno troppo preoccupati di perdere consensi a vantaggio degli estremisti di destra e sinistra per poter considerare un provvedimento di amnistia e i loro voti sono purtroppo determinanti in questo Parlamento. Speriamo quindi che chi leggerà questo nostro articolo, radicale o no, voglia prendere seriamente in considerazione la nostra proposta di costituire una amnistia e darci un cenno di risposta prima possibile. Giustizia: Alfonso Papa (Pdl); solo l’amnistia può cambiare la vita dei detenuti La Presse, 2 marzo 2012 “Solo l’amnistia può riportare i detenuti a conquistare i requisiti minimi di una vita dignitosa. Oggi chi sconta una pena in carcere vive in una condizione peggiore di quella prevista per gli animali”. Questa la proposta il deputato del Pdl, Alfonso Papa, al termine della sua vita al carcere di regina Coeli a Roma, L’ex magistrato, che ha scontato 100 giorni nella casa circondariale di Poggio Reale a Napoli, perché coinvolto nello scandalo della P4, a La Presse racconta della condizione in cui vivono questi detenuti: “Nel carcere di Regina Coeli ci sono 1.084 detenuti per una pianta organica di 800 unità e dei 1.084 solo 105 scontano una condanna definitiva, tutti gli altri sono in custodia cautelare o in attesa di una sentenza”. Il parlamentare, che dopo l’esperienza carceraria ha deciso di visitare le strutture italiane e farsi portavoce “delle condizioni di sofferenza e abusi” che si vivono in quelle strutture, ribadisce che Regina Coeli “manifesta i problemi che tutti conosciamo: celle fatiscenti con detenuti costretti a vivere in un metro quadro e senza acqua calda. La realtà - ha concluso Papa - è che in Italia non si muore in carcere ma di carcere si muore”. Giustizia: reato di tortura.. cosa c’è mai da approfondire, ministro Severino? di Domenico Corradini Notizie Radicali, 2 marzo 2012 Pare che il ministro Paola Severino stia “studiando”, pur con un certo scetticismo, la possibilità d’introdurre nel codice penale il reato di tortura per le torture che a danno dei carcerati si consumano, siano o non siano in attesa di una sentenza di primo grado. Ha detto: “È un tema che voglio approfondire, per capire perché non si è dato seguito ai protocolli internazionali”. Già, prima del suo modesto decreto che con ipocrisia ha chiamato “salva carceri”, la Severino l’esigenza d’”approfondire” questo “tema” non l’ha avvertita. Bella storia, per un ministro della Giustizia. E anche ha detto: “Il reato di tortura non è come quello di lesioni, è più sottile, è più forte. Il nostro è un codice molto ricco di fattispecie. In un modo o nell’altro qualche fattispecie si trova, ma quella di tortura è un po’ imprecisa, disegna un quadro di aggressione dei diritti umani estremamente forte”. Parole per me incomprensibili. Forse per il fatto che non sono un magistrato, e sono solo un docente di futuri magistrati, un docente di una disciplina, la filosofia del diritto, che la stragrande maggioranza dei magistrati non dimostra di conoscere, quando “motiva”, e spesso “motiva” di là dalla più semplice logica, quella aristotelica, e così “motivando” spesso cade nel paralogismo della “petizione di principio”. O forse per il fatto che non dimoro né ho la pretesa di dimorare “nell’ombellico della Repubblica” o peggio “nell’ombelico del mondo”, al contrario di molti magistrati che si sentono investiti di una funzione sacrale e depositari unici del sapere giuridico. Ma la Severino, l’ha letta la “Dichiarazione sulla protezione di tutte le persone sottoposte a forme di tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti”, contenuta nella Risoluzione n. 3452 adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel lontano1975? È “imprecisa” nella determinazione delle condotte criminose e dell’elemento soggettivo che le accompagna? Bella storia, per un ministro della Giustizia. Se la Severino non è in grado di risolvere l’”emergenza carceraria”, e finora non è stata in grado come testimoniano i recenti suicidi a catena di carcerati e guardie carcerarie, è bene che faccia “un passo indietro”. Che si dimetta, e torni al suo prevalente lavoro di avvocato. E qui non si critica la persona in quanto persona. Qui si criticano le idee di politica legislativa sostenute da una persona. E si sa, o si dovrebbe sapere, le idee non viaggiano per conto loro. Viaggiano attraverso la testa delle persone che le sostengono e le attuano, specie se le sostengono e le attuano nel Consiglio dei ministri e a colpi di fiducia le impongono al Parlamento, secondo un’antica e mai commendevole pratica che la Costituzione offende. Giustizia: Shakespeare a Rebibbia, il faro dei Taviani sul buio delle prigioni di Valentina Ascione Gli Altri, 2 marzo 2012 Non è proprio una recensione, questa che leggete di “Cesare deve morire” di Paolo e Vittorio Taviani. Non parleremo di montaggio, costumi, suono o fotografia; della scelta dei registi di girare in digitale (obbligata, poiché “non c’erano soldi per la pellicola”). Né ci soffermeremo sulla distribuzione della Sacher di Nanni Moretti: ultimo ad aver visionato il film e unico ad accettare la sfida di distribuirlo in un mercato dove la commedia fa la parte del leone e anche tutte le altre. Non è una recensione, dicevamo, ma più che altro un’impressione a caldo dell’opera che dopo 21 anni ha riportato l’Orso d’Oro - riconoscimento più ambito della Berlinale - nel nostro Paese, ringalluzzendo così l’italico orgoglio che in molti, in quest’epoca di tecnici, già davano in ripresa. E che ha innanzitutto il merito di aver acceso una luce dietro le sbarre di una prigione, luogo di rimozione per l’intera società. Un faro, caldo e potente più di quelli del set, sui volti e le anime di un’umanità da molti considerata materiale di scarto, rifiuto sociale, ovvero quanto di più lontano dal talento. Dall’arte e dalla bellezza. E che invece della bellezza dell’arte è riuscita ad appropriarsi, facendone uno spazio di evasione, un’occasione di riscatto. E perfino un’opportunità di lavoro. Anche per questo “Cesare deve morire”, girato interamente tra le mura del carcere romano di Rebibbia e con i detenuti del reparto Alta Sicurezza impegnati a mettere in scena il “Giulio Cesare” di Shakespeare, è insieme contraddizione e metafora. Racconto disarmante della quotidianità della reclusione attraverso la messa in scena di un testo che molto tratta di libertà, e personaggi il cui vissuto e le emozioni - il tradimento, il sospetto, l’omicidio - in tanti casi appartengono all’esperienza di quei detenuti che sono stati invitati a interpretarli, ognuno nel proprio dialetto d’origine. Così, mentre Bruto e Cassio tramano i propri piani di congiurati in siciliano e in napoletano, il dramma shakespeariano s’intreccia con quello dei reclusi. Con i loro umori, la memoria, i rimorsi e le speranze. L’immedesimazione, così, appare quasi un processo naturale. E la finzione apre squarci di verità su quanto sarebbe altrimenti rimasto nascosto sotto la dura crosta della realtà quotidiana, su cui scorre tempo sempre uguale a se stesso. Scandito dal rumore delle grosse chiavi che girano nelle serrature e dei blindi che, una volta calato il sipario sul palcoscenico di Rebibbia, di nuovo si chiudono pesanti. Dietro le spalle di Cesare e Bruto che, smesse le toghe, tornano a vestire i panni di Giovanni e Salvatore. E di Cassio, al secolo Cosimo Rega, che rivela: “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione”. “Se volete che le cose cambino, regalate libri agli istituti penitenziari”, hanno dichiarato a proposito dell’emergenza carceraria alcuni degli interpreti di “Cesare deve morire”, oggi uomini liberi e attori professionisti. Forse con la cultura non si mangerà, come ha sentenziato una volta un importante ministro italiano, ma di certo si diventa più liberi. Roma: il Garante; morto in ospedale 62enne recluso a Rebibbia Dire, 2 marzo 2012 Un detenuto italiano di 62 anni, recluso nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso, è morto per cause naturali la scorsa notte nella struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Lo rende noto il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, che ha ricordato che “si tratta del quarto decesso di un detenuto registrato a Roma in un mese, dopo i tre di Regina Coeli”. La vittima, fa sapere nella nota, si chiamava Franco Febi, 62 anni, recluso nella sezione G8 di Rebibbia, con un “fine pena mai”. A quanto appreso dai collaboratori del garante, l’uomo, affetto da problemi cardiaci e con da diabete, si è sentito male in carcere ed è stato subito trasferito all’ospedale Sandro Pertini dove è deceduto nonostante le cure prestate dai medici. “Nel dare la notizia di questo ennesimo decesso- ha detto il garante dei detenuti, Angiolo Marroni- non possiamo non constatare che in carcere si continua a morire con preoccupante frequenza. E non deve trarre in inganno la circostanza che si è trattato di una morte naturale. Il problema e che, con la situazione di sovraffollamento e di carenza di risorse e di personale che si sta attualmente vivendo nelle carceri italiane, stanno diventando pericolose anche patologie che, normalmente, non lo sono”. Parma: il Garante; sovraffollamento meno grave, criticità su organico e strutture sanitarie Dire, 2 marzo 2012 Il carcere di via Burla a Parma soffre come gli altri per il sovraffollamento, ma i problemi maggiori derivano dalla diversa tipologia dei detenuti ospitati tra cui persone in regime di 41 bis, tossicodipendenti, e disabili, con necessità differenti e strutture non idonee a soddisfarle. Lo sostiene il nuovo Garante regionale dei detenuti Desi Bruno che oggi ha verificato la situazione del carcere parmense, nel quale sono attualmente rinchiusi 629 detenuti, tutti uomini (la capienza regolamentare è 382, quella “tollerata” 616). Bruno è stata accompagnata dal direttore dell’Istituto, Anna Albano, e dal comandante degli agenti di Polizia penitenziaria Andrea Tosoni, e al termine della visita ha incontrato le associazioni di volontariato che operano nella struttura. Sul fronte del sovraffollamento dunque, il garante ha riscontrato una situazione meno drammatica che in altri istituti, anche per la buona manutenzione finora assicurata (lavori di ristrutturazione, misure igieniche). Resta però aperto il nodo della carenza di personale della polizia penitenziaria: a una pianta organica di 479 elementi, corrispondono 418 assegnati e 366 effettivamente in servizio. Ancora più deficitaria la situazione degli educatori (9 in pianta organica, 4 assegnati, 3 in servizio). Bruno ha quindi stilato una lista delle criticità che ha in cima la compresenza nello stesso carcere di detenuti in condizioni assai diverse. In via Burla convivono infatti 56 persone in regime di 41 bis, 71 in “alta sicurezza”, 83 tossicodipendenti. Sotto questo aspetto “la carenza di personale di polizia risulta più grave perché tanti detenuti richiedono livelli di sorveglianza massimamente incisivi”. La seconda criticità è data dalla sezione per paraplegici (unica struttura in Italia), dove sono recluse 10 persone, senza che le strutture dedicate alla riabilitazione siano ancora rese utilizzabili. Anche il Centro diagnostico-terapeutico (utilizzato in passato pure da altri Istituti penitenziari) è chiuso da tempo. Dopo il passaggio nel 2008 delle competenze della medicina penitenziaria al sistema sanitario regionale, l’Asl di Parma dovrebbe avere un progetto per la riapertura di queste strutture “L’Ufficio del Garante regionale - assicura Bruno - intende verificare tempi e forme perché gli impegni vengano mantenuti”. Infine il garante segnala come i continui tagli ai finanziamenti destinati al carcere stiano determinando inedite difficoltà nel garantire elementari condizioni di pulizia delle celle e degli spazi comuni, e lancia un appello alla società parmense per una raccolta di materiale finalizzata a questo scopo. Roma: l’allarme del ministro; 400 detenuti in più, Regina Coeli al limite del collasso Corriere della Sera, 2 marzo 2012 Regina Coeli è ai limiti del collasso, “ma grazie al recente decreto salva-carceri sarà possibile ridurre significativamente la tensione, limitando il transito in carcere per periodi brevissimi ed estendendo la platea degli ammessi alla detenzione domiciliare”. Il ministro della Giustizia, Paola Severino, affronta l’emergenza dello storico penitenziario trasteverino. Rispondendo all’interrogazione della radicale Rita Bernardini relativa alla morte del detenuto Massimo Loggello (il 31 gennaio), il primo punto affrontato è stato quello delle presenze: “Al 28 febbraio Regina Coeli ospitava 1.074 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 640 posti e di una capienza di necessità di 918”. Celle stracolme, dunque. Nonostante il nuovo parametro intermedio, coniato ad hoc in via Arenula (“capienza di necessità”), miri forse ad attenuare l’evidenza del sovraffollamento. Altro aspetto toccato dal ministro, i milioni spesi per rendere la struttura più umana: “A titolo esemplificativo, ricordo la ristrutturazione della V sezione per 2,9 milioni, della caserma Santacroce per 5, della I sezione per 4 e di una parte della IV per 2,3”. Vanno poi aggiunti 3,2 milioni per il completamento della IV, un altro milione ancora da appaltare per la VI e uno per “situazioni di urgenza”, nonché la manutenzione ordinaria: dal 2007 al 2011 in media 750 mila euro l’anno. Sulla cronica carenza di guardie, Severino auspica che sarà coperta con “l’assunzione di un contingente aggiuntivo di 1.080 unità”, reso possibile dal recente stanziamento di 41 milioni di euro nella legge di bilancio. E sulla morte di Loggello in cella assicura: è stato soccorso “prontamente”. Insoddisfatta Rita Bernardini: “Documenti alla mano, l’ambulanza è arrivata un’ora e mezza dopo. Quanto alle ristrutturazioni, visto il trattamento disumano e degradante inflitto ai detenuti, la conclusione è che i 20 milioni spesi sono stati soldi buttati. La realtà che Regina Coeli va chiusa. Non lo dico soltanto io, ma anche la Corte europea dei diritti dell’uomo”. Roma: archiviata la denuncia contro Antonini (Papillon) su vicenda Garante dei detenuti Comunicato stampa, 2 marzo 2012 La Papillon ha vinto anche sul piano giudiziario la piccola battaglia per il ripristino del Garante comunale dei detenuti. Si è conclusa con l’archiviazione da parte del Gip la cervellotica vicenda aperta nel settembre 2010 da una denuncia penale del Garante Regionale dei Detenuti, Angiolo Marroni, e da suo figlio Umberto, capo gruppo del Pd al Comune di Roma (oggi Roma Capitale), contro Antonini Vittorio, detenuto all’ergastolo dall’aprile del 1985 e attualmente in regime di semilibertà, coordinatore dell’Associazione Culturale Papillon-Rebibbia onlus, il quale aveva osato chiedere all’intero Consiglio Comunale e al Sindaco le reali ragioni del ritiro (senza neanche una parola di argomentazione) di una mozione che chiedeva il ripristino dell’ufficio del Garante, di fatto cancellato da un accordo del 2009 tra il Comune, la Provincia e lo stesso Marroni. La mozione era stata presentata dopo la morte di Stefano Cucchi e non era promossa da pericolosi esponenti estremisti del centro sinistra, bensì da 10 Consiglieri del Pdl. L’ordinanza del Gip arriva invece dopo che Angiolo e Umberto Marroni si erano addirittura appellati contro la richiesta di archiviazione presentata già ad aprile e maggio 2011 dai Pubblici Ministeri Rosalia Affinito e Pietro Saviotti (capo del pool antiterrorismo recentemente scomparso), i quali affermavano che l’Antonini aveva legittimamente espresso il suo diritto di critica. Dopo la richiesta di spiegazioni da parte di Antonini, lo stesso Sindaco, nell’ottobre del 2010 ha iniziato a dare disposizioni per il ripristino dell’ufficio del Garante dei Detenuti, e dopo vari e discutibili tentativi ha designato il Dott. Filippo Pegorari, decretando così nei fatti la decadenza dell’accordo tra il Comune, la Provincia e il Garante Regionale Angiolo Marroni. Un accordo che tra l’altro violava anche la Delibera del 2003 (Giunta Veltroni) che istituiva il Garante a Roma, vietando esplicitamente la possibilità di assegnare tale funzione ad ascendenti e discendenti, fino al terzo grado, di amministratori comunali. Nelle prossime settimane rifletteremo con calma e in modo particolareggiato su questa triste vicenda. Per ora vogliamo solo ricordare a tutti (ai nostri tanti amici, ma anche a quei “cuor di Leone” che hanno preferito non vedere, non sentire e non parlare su ciò che stava accadendo, sia prima che dopo la denuncia di Antonini!) che la Papillon per Statuto e per tradizione non si lascia azzittire né dalle lusinghe né dalle minacce, anche quando paga con ulteriori supplementi di galera il Diritto/Dovere di esprimere la sue critiche, basandole sempre e comunque sulla pura e semplice verità dei fatti. Napoli: Radicali; il 10 marzo convegno sull’amnistia con Rita Bernardini di Fabrizio Ferrante www.epressonline.net, 2 marzo 2012 A distanza di poco più di due mesi dall’ultima assemblea pubblica, i radicali “Per la grande Napoli” sono pronti a concedere il bis, con un altro appuntamento al Terminus hotel di Piazza Garibaldi in programma il prossimo 10 marzo. Ancora una volta si parlerà di giustizia, di amnistia - o, perché no, amnistie - di misure alternative alla detenzione e si proporranno ricette per una riforma della giustizia attesa ormai da troppi anni. Così come nell’assemblea dello scorso dicembre, anche in questo caso il parterre sarà di tutto rispetto, con oratori di rilevanza nazionale che hanno scelto Napoli per rilanciare una battaglia antica ma sempre attuale. Al convegno interverranno, tra gli altri, Domenico Ciruzzi, presidente della camera penale di Napoli, il Senatore Pdl Luigi Compagna, firmatario della proposta di legge per l’amnistia, Rita Bernardini, Deputata radicale eletta nelle liste del Pd e da sempre in prima linea per i diritti dei detenuti, Mario Staderini, segretario nazionale di Radicali Italiani oltre a rappresentanti del mondo associativo come Mario Barone, vice presidente campano di Antigone. Questi sono solo alcuni dei nomi che si alterneranno al microfono, nel corso di un’assemblea che nelle intenzioni degli organizzatori dovrà essere animata in primis dalle famiglie dei detenuti, ovvero coloro per i quali i radicali si stanno battendo incessantemente. A moderare l’incontro sarà il segretario dell’associazione radicale Per la grande Napoli, nonché membro del comitato nazionale di Radicali Italiani, Luigi Mazzotta. Mazzotta ha così illustrato ai nostri taccuini, quella che sarà l’impostazione dell’evento e le sue finalità: “Questo è il secondo appuntamento a distanza di settanta giorni trascorsi, dove si evidenziano le problematiche del sistema della giustizia e di una sua immediata riforma strutturale per porre fine in modo definitivo ai 9 milioni di processi civili e penali pendenti ed ai continui suicidi nelle carceri italiane delle persone detenute e di poliziotti penitenziari. Il mancato rispetto e violazione di convenzioni internazionali in materia di diritti umani, rappresentano il susseguirsi di richiami da parte della Corte Europea nei confronti del nostro paese in materia di sovraffollamento. (153% rispetto alla media europea che è del 96%). Emergenze sfociate in tragedie quotidiane dove l’impegno per una risoluzione del problema da parte della Ministra della Giustizia Severino attraverso un decreto “salva carceri” è risultato del tutto insufficiente ed inadempiente. In questi primi due mesi dell’anno l’associazione “Per la grande Napoli” non ha smesso di proseguire la lotta nonviolenta iniziata nel maggio dell’anno 2011 e condotta con il prolungato digiuno di Marco Pannella per chiedere una amnistia affinché venga ripristinato il diritto alla legalità nel nostro paese. Sono state effettuate numerose visite ispettive nelle carceri della Campania con il Senatore Luigi Compagna e con l’Onorevole Alfonso Papa da cui si è evidenziato il peggioramento del sovraffollamento e la totale mancanza del rispetto della dignità umana”. Oltre che di carcere, si parlerà anche della situazione sempre più critica degli Opg, per i quali il Governo sta preparando la chiusura in tempi brevi. Mario Barone, a nome di Antigone, associazione impegnata sia nel pianeta carcere che in quello non meno inquietante degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ha raccontato alcuni aspetti ai più sconosciuti della situazione attuale. “Siamo felici - ha dichiarato Barone - che ci sia un termine per la chiusura degli Opg perché raccoglie anche il frutto delle nostre battaglie, ma siamo preoccupati per ciò che li andrà a sostituire perché c’è il rischio concreto di replicare piccole strutture manicomiali, sia pure meno orribili di ciò che sono oggi gli Opg; del resto, a monte, non è stato modificato il meccanismo delle misure di sicurezza, per cui - nella sostanza - avremo ancora lunghi internamenti, la cui durata dipenderà dall’esercizio di un potere puramente discrezionale”. Barone ha inoltre spiegato che attualmente la sola struttura ospedalizzata in Italia si trova a Castiglione delle Stiviere, in Lombardia, la quale però ha il primato negativo del più basso numero di pazienti dimessi, sebbene questo numero sia generalmente scarso anche negli altri 5 istituti. Le altre strutture dislocate sul territorio sono di fatto strutture di tipo carcerario, sebbene al proprio interno ospitino spesso persone non colpite da condanne o provvedimenti restrittivi dell’autorità giudiziaria. Il potere di internare, tutt’ora in mano ai sindaci, ha determinato situazioni paradossali da cui spesso è impossibile uscire per via di tempi sempre più lunghi nell’esame delle relative pratiche. L’effetto è stato quello di aver reso vana ogni pur apprezzabile intenzione contenuta nella legge Basaglia, all’atto della chiusura dei manicomi. Nei giorni in cui l’Italia è insanguinata da rivolte più o meno violente in opposizione a un treno veloce, i radicali propongono una rivolta non violenta e un’amnistia - ma anche amnistie, in riferimento a Opg ed ergastolo ostativo - per la Repubblica e per lo Stato di diritto. Appuntamento all’hotel Terminus di Napoli il 10 marzo 2012 dalle ore 10. Immigrazione: reportage dai Cie di Milo e Vulpitta (Trapani) … tra tanta disperazione Redattore Sociale, 2 marzo 2012 Alcuni immigrati hanno avuto riconosciuta la protezione umanitaria e sussidiaria e hanno potuto lasciare il centro. Per i trans c’è una sezione a parte. I rimpatri avvengono dall’aeroporto di Palermo con il riconoscimento “sottobordo”. Dietro le sbarre anche richiedenti asilo e trans Al momento nel centro di identificazione e di espulsione di contrada Milo, ci sono anche 79 richiedenti asilo che hanno fatto domanda dall’interno del Cie. Di questi 17 devono ancora fare l’audizione con la commissione territoriale che si riunisce direttamente nel centro. 64 sono stati auditi e di questi 23 hanno ricevuto un diniego. “Esiste una bassa percentuale di persone a cui viene riconosciuta la protezione umanitaria e sussidiaria”, spiegano gli operatori del centro. La percentuale esatta ancora non ci è stata comunicata dalla questura di Trapani, però questa affermazione comunque vuol dire che nel centro di detenzione finiscono anche migranti che hanno diritto alla protezione. Nel Cie di Milo ci sono stati dei transessuali. Sarebbero 4 o 5 e per un paio di loro è stata accordata la protezione umanitaria perché rischiano ritorsioni nei paesi d’origine. Esiste un settore più piccolo in cui i trans vengono trattenuti, separati dagli altri reclusi. Non c’è distinzione invece fra chi arriva a Milo da ex detenuto e chi è appena sbarcato in Italia. Dentro sono reclusi anche due tossicodipendenti che sono curati a base di metadone con una terapia stabilita dal Sert. Gli operatori garantiscono che il personale del Sert ha accesso al centro. Il tempo medio di trattenimento nel Cie è di circa due mesi (57 giorni), ma ci sono stati anche rimpatri lampo. 41 tunisini che erano stati sbarcati a Mazara del Vallo lo scorso 11 febbraio da una motovedetta della Gdf dopo un soccorso in mare, sono stati rimandati in Tunisia nel giro di una settimana. Dieci si trovavano a Milo, dieci al Serraino Vulpitta e il resto in una struttura di detenzione informale a Pozzallo (Rg). La prefettura spiega che per gli sbarcati, dopo gli accordi con la Tunisia, il console tunisino a Palermo effettua il “riconoscimento sottobordo” direttamente in aeroporto a Palermo e dà il documento per il viaggio di ritorno forzato. Chi sbarca arriva nel Cie già con un primo certificato medico rilasciato dall’autorità sanitaria marittima che attesta che la persona non ha malattie infettive. Nel Cie viene perquisito, si effettua una visita medica all’ingresso e poi il foto segnalamento. Ci sono stanze predisposte per tutte queste operazioni. Ci sono 5 mediatori culturali e 9 operatori a turno oltre al personale sanitario, 4 persone sono presenti nei turni di notte. Il Cie è diviso in sei settori, ognuno a sua volta ha all’interno dei moduli composti da una stanza di sei posti letto e un’anticamera con la televisione e il bagno. I giornalisti non possono accedere al di là delle sbarre dietro cui stanno i reclusi, quindi la descrizione è stata fornita dall’ente gestore. Negli ambienti esterni alle celle ci sono anche delle stanze in cui avvengono colloqui con mediatori e psicologi. Tre ragazzi con atto nascita: siamo minori Sono tunisini sbarcati a Pantelleria la scorsa estate e da sei mesi detenuti nel centro. La prefettura e l’ente gestore smentiscono. Ma ammettono che nei mesi scorsi 7 minori sono andati dal Cie in comunità di accoglienza. Nel Cie di contrada Milo ci sono tre ragazzi tunisini che si dichiarano minori, quindi non dovrebbero stare in un centro di detenzione e ottenere invece un permesso di soggiorno per minore età. Hanno con loro delle copie di atti di nascita scritti in francese in cui si legge che sono nati nel 1994. Le mostrano dalle strette sbarre del Cie. A guardarli in viso sembrano piccini. La prefettura smentisce, sostenendo che l’esame rx del polso ha dato esito diverso: sono maggiorenni. Ma sono in molti a nutrire dubbi sulla capacità del test di distinguere al cento per cento un diciassettenne da un diciottenne in base all’esame delle ossa. “Il test rx del polso è una tecnica che può presentare un margine di errore fino a due anni potendo pertanto comportare l’adozione di provvedimenti lesivi per il minore interessato” conferma Alberto Barbieri, coordinatore dell’Ong “Medici per i diritti umani” ed esperto della questione perché Medu si occupa da anni dei profughi afghani, fra i quali ci sono molti minori. I tre ragazzi tunisini sono reclusi a Milo da sei mesi, dopo essere sbarcati sull’isola di Pantelleria e dicono di non avere ricevuto il foglio di espulsione. Secondo la direzione del centro non ci sono persone che si sono dichiarate minori. L’ammissione è che ce ne sono stati in passato, la scorsa estate. Sette ragazzi che sono risultati minori in base alla radiografia del polso sono stati destinati a comunità di accoglienza. Storie dei reclusi: Italia ci sembrava America Nel nuovo Cie di Trapani incontriamo anche Mohammed che aveva trovato una fidanzata e un lavoro a Rimini ma non poteva regolarizzarsi essendo sbarcato in Italia senza documenti. Dopo la nostra visita ha tentato invano la fuga. Raddouan ha 22 anni. Con gli altri si accalca dietro le inferriate gialle di uno dei settori del centro di identificazione e di espulsione di Milo. Tutti vogliono raccontare la loro storia, non hanno mai incontrato un giornalista italiano prima. Raddouan è arrivato a Pantelleria lo scorso agosto e da oltre sei mesi è detenuto nel Cie trapanese, quasi da quando la nuova struttura ha aperto. Parla solo arabo e gli altri traducono le sue parole oppure commentano la sua vicenda. “La storia sua è quella di cento persone - dice un altro tunisino - lui vede l’Italia come l’America e ha pagato mille euro per attraversare il mare”. Raddouan scappa dalla Tunisia dove, dice, dovrebbe scontare una condanna ingiusta per un incidente in macchina fatto con una persona che guidava senza patente. Ma in Italia c’era un altro carcere ad aspettarlo. “Perché sono qua? Perché? Sono scappato cercando la libertà e ora mi trovo chiuso qui”, urla da dietro le sbarre. Mohammed racconta di vivere in Belgio e di essere venuto a trovare una persona in Italia, finendo in un Cie. “Solamente perché siamo senza documenti siamo qui”, dice. Un altro con lo stesso nome racconta di essere stato preso a Ventimiglia il 13 gennaio scorso e di vivere in Francia da 5 anni. Ibrahim ha un fratello, Karim, sposato con un’italiana e che vive a Merano. Lui invece ha fatto il carcere per droga e poi il Cie. “Ho avuto un incidente stradale a Vittoria (Rg) il 31 luglio 2010, ero in bici e mi ha investito una macchina, mi hanno operato alla milza, sono tutto distrutto. Lavoravo a Santa Croce Camerina per 30 euro al giorno nelle serre” racconta un altro tunisino entrato nel Cie il 3 febbraio. Sami ha 22 anni ed è stato arrestato a Padova, portato prima al Cie di Gradisca d’Isonzo e poi trasferito in quello di Milo. Gli avevano trovato di notte due grossi cacciaviti nello zaino e quindi lo hanno fermato perché secondo la ricostruzione degli agenti voleva scassinare delle auto in sosta. Per prendere lui e un tunisino c’è stato un inseguimento prima in auto, poi a piedi e infine su una bicicletta prestata agli agenti da un cittadino. Infine c’è Mohammed, tunisino arrivato in Italia anche lui dopo il 5 aprile e senza documenti. Lo tengono in isolamento per due giorni perché nel Cie ha preso la scabbia. Mostra anche il braccio sinistro con evidenti segni di tagli per autolesionismo. Ha una fidanzata a Rimini, Filomena, che al telefono ci racconta di essere pronta a sposarlo e anche ad assumerlo per la vendita in un banco di frutta. Lui ha 24 anni, lei 36. “Dall’anno scorso lavora con me - dice Filomena - ma non potevamo metterci in regola perché lui non ha i documenti”. Mohammed è disperato, ha anche tentato di scappare ma l’hanno ripreso e per un paio di giorni gli hanno tolto anche il cellulare. Filomena si è preoccupata ma di più non può fare. Vulpitta: girone infernale per ex detenuti sans papiers Il centro di detenzione nel cuore di Trapani è un luogo in cui chi ha già scontato una condanna subisce una pena ulteriore perché irregolare con il permesso di soggiorno. Tante urla e gente che sta male, come un Opg. “Per l’amor di Dio, questo è un gran grido d’aiuto”, urla un ragazzo tunisino alto, magro e con il pizzetto da dietro le sbarre del centro di identificazione e di espulsione Serraino Vulpitta, in pieno centro a Trapani. Al tramonto, dall’ultimo piano del centro si sente la preghiera ad Allah del Muezzin. Si sale su per delle scale strette e si arriva a un piccolo ballatoio. A sinistra c’è la stanza degli agenti di polizia. Accanto, proprio davanti alle scale c’è una porta blindata con davanti un carrello. I poliziotti spostano il carrello, aprono la porta verde blindata e dietro si intravede un corridoio chiuso da un’inferriata con la rete a maglie strette e con delle enormi serrature, anch’esse blindate. La struttura è fatiscente, la tensione palpabile e sempre molto alta. Ci sono urla e gente che sta visibilmente male. Sembra di trovarsi in un ospedale psichiatrico giudiziario, un girone infernale, di quelli che anche secondo il Parlamento andrebbero immediatamente chiusi. A poco a poco si avvicinano i reclusi. Sono quasi tutti ex detenuti. Alle spalle hanno anni di carcere per reati come il furto o lo spaccio e il traffico di droga. Parlano quasi tutti perfettamente l’italiano. Un giovane di 24 anni si distingue perché ha un forte accento siciliano. È nato in Tunisia ma vive a Mazara del Vallo con la famiglia da quando aveva tre mesi. “Non parlo arabo, non conosco nessuno in Tunisia, sono sempre stato qui, ma dove mi mandano?” si chiede. Ha scontato una condanna per droga. “Per consumo personale”, sostiene. Faceva il timoniere sui pescherecci di Mazara, quelli che pescano in tutto il Mediterraneo, dalla Libia alla Grecia. Aveva il permesso di soggiorno, scaduto mentre era in galera. All’uscita dal carcere l’hanno mandato al Vulpitta per rimpatriarlo. Ma lui di fatto è italiano, gli manca solo la cittadinanza. Un altro uomo, Sabri, urla tenendosi il braccio sinistro, dove mostra dei segni di violenza che si è autoinflitto. “Sono quarantotto ore che non dormo per il nervosismo, non mi fanno andare dal medico, mi danno solo pillole” continua a gridare, con lo sguardo perso e la bocca aperta. Raoul, marocchino viene dal carcere di Castelvetrano. Mostra una grossa cicatrice al braccio, non riesce a muoverlo ed è disperato. “Sono caduto in carcere e ho un ferro nel braccio - dice - devo cominciare le fisioterapia, 8 sedute, invece non mi portano fuori dal medico e dicono che me la devo fare da solo”. È un ragazzo giovane e ha paura che così non potrà recuperare più il perfetto uso del braccio. “Io ho pure la casa intestata a Milano, che ci faccio qui? Mi devono identificare? Non sanno chi sono?” urla un altro. “Vengo da quattro anni di carcere, non sono bastati per identificarmi? - dice un tunisino- sono scappato anni fa dal mio paese perché c’era la dittatura ma a noi non davano il permesso di soggiorno, se avessi avuto i documenti, anche solo per sei mesi avrei trovato un lavoro non sarei andato a spacciare!”. Tutti vogliono raccontare la loro storia, farla passare al di là della grata di ferro contro cui premono per parlare. Un uomo ha un occhio gravemente ferito. Enorme, pieno di carne rossa, con la pupilla schiacciata verso l’alto. Dice di essersi ferito in una fonderia a Milano nel 1996, un incidente sul lavoro. Anche lui da molti anni vive in Italia. Magdi invece è un tunisino arrivato prima del 5 aprile. Dice di avere il permesso umanitario e di essere finito nel Cie dopo aver tentato di attraversare il confine con la Svizzera. Racconta che la polizia svizzera lo ha fermato sul treno senza biglietto e gli ha sequestrato i documenti, rispedendolo in Italia. “Non abbiamo le porte, usiamo le coperte per farci da porte, qui è come un canile, non ti permettono di entrare a vedere le stanze e ci sequestrano i cellulari con le fotocamere per questo motivo”, dicono in tanti. Vulpitta: il Cie della strage che doveva chiudere Si trova in un’ex casa di riposo e nel 1999, un anno dopo l’apertura, sei persone morirono in un incendio. Nel 2010 Medici sena frontiere ottenne dal Viminale l’impegno di chiuderlo, ma il nuovo bando di gestione è al via. È stato il primo Cpt in Italia (Centro di permanenza temporanea ora divenuti Cie) subito dopo la legge Turco- Napolitano che li istituiva. Fu aperto nel 1998 nei locali dell’ex casa di riposo per anziani “Rosa Serraino Vulpitta”. Un anno dopo, nella notte fra il 28 e il 29 dicembre del 1999, sei tunisini persero la vita in un incendio nel Cpt, tre arsi vivi e altri tre morti per la gravità delle ustioni. Si chiamavano Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti e Nasim. Una sentenza civile di risarcimento per due immigrati feriti ha riconosciuto la responsabilità dello Stato per i danni morali e patrimoniali subiti, circa dieci anni dopo il rogo. Il processo penale si è invece concluso senza colpevoli. “L’ amministrazione dell’Interno ha l’obbligo giuridico di tutelare l’incolumità degli internati”, ha scritto il giudice civile. L’Italia ha pagato per questa “scarsa diligenza” degli agenti in servizio al Cpt e per la “colposa imprudenza” dovuta “all’omessa installazione di un idoneo impianto antincendio”. Dieci anni dopo, nel 2010, un rapporto di Medici senza Frontiere ne chiedeva la chiusura insieme al Cie di Lamezia Terme (Cz) “perché totalmente inadeguati a trattenere persone in termini di vivibilità”. Il Viminale si impegnò in tal senso. Nel 2012, con il nuovissimo Cie di contrada Milo aperto, il Vulpitta è ancora pienamente in funzione. E un nuovo bando di gestione che prevede un appalto di un milione e 400 mila euro per tre anni è già sul sito web della prefettura di Trapani. La gestione della cooperativa Insieme, nel Cie dal 2000 in poi, scade il prossimo 31 marzo. Il nuovo bando prevede 30 euro a persona al giorno come budget giornaliero pagato dallo Stato. Fino ad ora, l’ente gestore ha operato percependo circa 42 euro al giorno a persona, secondo quanto dichiarano i responsabili del centro e i funzionari della prefettura. Ma nel rapporto di Msf si parla di 60 euro. I posti sono 43 e i detenuti presenti a fine febbraio erano 44. La palazzina a tre piani che ospita il centro di detenzione è separata da una rete metallica dalla struttura della casa di riposo, ancora attiva per gli anziani. La differenza è visibile a occhio nudo. Alle finestre del Cie ci sono inferriate strette e arrugginite. Quelle della casa di riposo sono adornate con vasetti di fiori. Tra i motivi per cui Msf ne chiedeva la chiusura c’erano “gli spazi angusti”, “la struttura inadeguata ad assicurare standard accettabili di sicurezza e condizioni di vita minimamente dignitose ai trattenuti”. L’Ong rilevava anche l’eccessiva quantità di benzodiazepine, cioè psicofarmaci, presenti in infermeria. A distanza di due anni, la struttura è sempre fatiscente e sicuramente inadeguata alla fuga in caso di incendio. Sembra un luogo claustrofobico e se Msf esprimeva preoccupazione per l’estensione a sei mesi della detenzione massima, proprio per l’inadeguatezza degli spazi, bisogna considerare che oggi il tempo è dilatato fino a un anno e mezzo. Visto il tempo medio di trattenimento registrato a gennaio, di soli 16,5 giorni, e l’alta presenza di tunisini, nel Cie Vulpitta finiscono gli immigrati in procinto di essere espulsi in Tunisia. Questo avviene direttamente dall’aeroporto di Palermo. La direttrice: la disperazione è tanta Nella vecchia struttura finiscono soprattutto i migranti in procinto dei essere rimpatriati. Psicofarmaci “chiesti con insistenza, anche per dormire” e “atti di autolesionismo per attirare l’attenzione”. “Capita che li mandano qui in attesa del volo”. Antonina Cordella, direttrice del Cie Serraino Vulpitta per l’ente gestore, la cooperativa Insieme, spiega così la funzione del centro di detenzione, almeno nell’ultimo periodo. A gennaio il trattenimento medio è stato di 16,5 giorni, mentre nel Cie di contrada Milo molte persone hanno raccontato di essere recluse dalla scorsa estate. Al Vulpitta si finisce nei giorni precedenti al rimpatrio. Nelle stanze dormono fino a sei persone. “Con l’apertura del Cie di Milo non c’è stato più il problema del sovrannumero di 10 in una stanza - spiega ancora Cordella - La tv c’è solo negli ambienti comuni. E fra poco avrà anche il decoder, prima c’erano ma erano stati distrutti. La disperazione è tanta ma l’autolesionismo è diminuito dell’80% negli ultimi anni. Abbiamo avuto un caso di Tbc ed è ancora in ospedale, trans non ce ne sono mai stati, gay non lo so, però qualcuno è un po’ più femminile”. Il Sert fornisce il metadone per i trattenuti che sono tossicodipendenti. “Con un piano terapeutico e un supporto di disintossicazione”, precisa il dott. Fabio Di Paola, nell’infermeria del centro. “Gli atti di autolesionismo possono capitare - continua - c’è qualcuno che si chiede il perché del soggiorno, non riesce a capire quali sono le nostre leggi. In un anno abbiamo avuto una decina di casi, in genere sono ferite da taglio auto inferte, piccoli graffi alle braccia, è un modo per attirare l’attenzione”. Si usano psicofarmaci? “Si ma solo nei casi in cui c’è l’indicazione di uno psichiatra e cerchiamo di limitare al massimo l’utilizzo, a chi ce lo chiede con insistenza per limitare la dipendenza somministriamo dei placebo”. Secondo Di Paola, questo ricorso agli psicofarmaci non dipende dalla struttura ma dai trattenuti. “Molti sono abituati a usare psicofarmaci anche nei paesi di provenienza - spiega - e altri vengono da case circondariali dove hanno preso questa abitudine. Li chiedono per riposare. Noi abbiamo sia le benzodiazepine più qualche altro psicofarmaco per prescrizioni psichiatriche, anche antiparkinsoniani che si usano anche come tranquillanti ma sempre sotto prescrizione psichiatrica, sono farmaci pericolosi”. Anche nel Cie Vulpitta sono presenti molti richiedenti asilo, oltre la metà dei reclusi hanno fatto domanda di protezione dal centro. Sono 23 su 44 presenti, di cui 11 auditi dalla commissione. Le persone arrivano dagli sbarchi, da altri Cie (Roma, Torino, Gradisca d’Isonzo, Trapani Milo) e la maggioranza provengono dal carcere. Sono in gran parte tunisini, ma ci sono anche marocchini, ghanesi, bengalesi, mauriziani, romeni o dell’ex Jugoslavia e dell’Ucraina. Ci sono casi di rimpatri volontari di persone che non vogliono passare molti mesi chiusi nel centro di identificazione e di espulsione. Il personale dell’ente gestore è composto da 13 addetti ‘all’ospitalità, un assistente sociale e uno psicologo in servizio 18 ore alla settimana. C’è un informatore legale e cinque interpreti, tre medici e cinque infermieri che operano sui turni. In totale lo staff dell’ente gestore è composto da 31 persone. I trattenuti possono tenere il cellulare ma non il videofonino e c’è una cabina telefonica all’interno, dove si può usare la scheda telefonica da cinque euro fornita ogni tre giorni. Il kit, ripetuto ogni mese, prevede una tuta, un pigiama, un asciugamani, della biancheria, calze, sapone e shampoo, scarpe, ciabatte e la carta igienica. Immigrazione: Bari; il Cie, strumento inumano delle nostre “politiche di accoglienza” www.go-bari.it, 2 marzo 2012 Da Cpt a Cie, e cioè da Centri di Permanenza Temporanea, dove per temporaneo s’intendeva un periodo di 60 giorni, a Centri di Identificazione ed Espulsione, dove il tempo di “accoglienza” si dilata e diventa indefinito. Sono il seme malato delle nostre “politiche dell’accoglienza”. Dalla legge Martelli, alla Turco-Napolitano, alla Bossi-Fini, pare che noi italiani non abbiamo mai saputo dove metterli e cosa farci di questi immigrati. Il risultato sono i Cie, che nella migliore delle ipotesi potevano essere delle “riserve”, atte all’accoglienza di immigrati di cui si dovesse accertare l’identità ed il permesso di soggiorno, e che, nella realtà, sono l’anticamera dell’espulsione. Veri e propri carceri. Un giudizio duro, ma ampiamente convalidato dai relatori del dibattito tenutosi in Sala Consiliare, dal titolo “Condannati. L’Italia dei respingimenti e la vergogna dei Cie”. Tra questi, la testimonianza e l’impegno attivo degli avvocati Luigi Paccione ed Alessio Carlucci. I due, attraverso un’azione di iniziativa popolare, sono riusciti ad ottenere il permesso di accedere al Cie di Bari. In seguito hanno stilato un atto, notificato a Ministero, Regione e Comune, nel quale denunciavano come inumani i Cie ed ingiusta la legge che ne permette l’esistenza. Il loro attivismo “nasce da considerazioni giuridiche - ci tiene a precisare Carlucci - e il mondo giuridico coglie le sue valutazioni dai fatti umani. Entrando nei Cie abbiamo percepito i cuori di queste persone, la loro incredulità di fronte ad una detenzione di cui ancora non sanno le ragioni”. Come sottolinea Paccione “è chiaro che nessuno nasce eguale e libero nei diritti, ma l’eguaglianza formale è un diritto inviolabile. È inammissibile, per il sentire comune, che, individui che provengano da paesi terzi, per il solo fatto di esistere, vengano detenuti”. I due, infine, invitano il Comune ad una presenza più attiva all’interno del Cie di Bari e a lavorare affinché diventi una struttura aperta, perché, come racconta l’Avv. Carlucci, “sono luoghi in cui i soggetti non dispongono della propria libertà e in cui mura altissime li dividono dal mondo esterno”. In sostanza delle carceri. Ma, in tale materia il Comune non ha competenza a legiferare, tantomeno la Regione. Nonostante nel 2004, attraverso una delibera, si sia dichiarato contro i Cpt, questo non bastò a fermarne la nascita sul suolo barese. Questa la ricostruzione storica dell’avvocato Dario Belluccio, che continua: “all’apertura, il Centro di Bari era un gioiello rispetto agli altri, ma anche fosse stato un albergo a 4 stelle, mi farebbe ugualmente ribrezzo. Perché è inaccettabile il principio della detenzione amministrativa senza aver commesso alcun reato”. Belluccio resta imparziale e, tutto sommato, ci tiene a precisare che in campo amministrativo, in realtà, il Comune potrebbe fare molto di più. Perché il problema è che nei Cie ci vanno a finire gli immigrati che non hanno permesso di soggiorno e quelli che lo perdono. E questo può avvenire, ad esempio, perdendo il lavoro o l’abitazione. “Si parla di vite di persone legate ad un pezzo di carta, legato a sua volta ad altri 3 o 4 pezzi di carta”. Un labirinto burocratico che il Comune potrebbe semplificare od agevolare. Di fronte a tali considerazioni sembra quasi che il lavoro svolto fino ad ora, per quanto carico dei migliori propositi, non si sia stato efficace. Infatti, come ci spiega l’avvocato del Comune, Alessandra Baldi, “dopo le denunce del 2004, questo ha avviato un procedimento civile nel quale si è discusso delle violazioni dei diritti umani all’interno del Cie, che portassero, poi, a degli accertamenti di quanto vi avvenisse”. La Baldi ed il Comune lavorano, insomma, per farli diventare centri meno inumani. Per questo, viene fornita al pubblico una perizia che mette in luce lo stato del Cie di Bari. Alla fine la questione resta nelle mani del Governo Nazionale, che a dicembre sembra aver mosso un passo. Ma aprire i Cie alla stampa, quasi fosse una visita al museo, non ci darà meno l’impressione che, come direbbe l’avv. Carlucci, “Siamo cittadini di uno Stato che ha tradito queste persone”. Immigrazione: marocchino omosessuale ottiene status rifugiato Il Velino, 2 marzo 2012 “Un giovane marocchino di 20 anni ha ottenuto lo status di rifugiato in Italia. La vicenda di F.H. è stata presa in esame dagli uffici competenti del Ministero dell’Interno grazie ad una segnalazione del numero verde Gay Help Line 800.713.713 e al sostegno dell’Oscad (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori) interforze Polizia di Stato e Carabinieri. Se il giovane F.H. fosse stato rimpatriato in Marocco avrebbe rischiato il carcere perché omosessuale. Lo status di rifugiato gli è stato conferito grazie alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1954 successivamente ratificata in Italia. L’omosessualità, infatti, viene punita come reato in 80 Paesi nel mondo e in cinque di questi, addirittura, con la pena di morte”. Lo dichiarano in una nota congiunta il portavoce del Gay Center, Fabrizio Marrazzo e il presidente di Arcigay Roma, Roberto Stocco, le due organizzazioni che hanno seguito la vicenda. “Si tratta - aggiungono Marrazzo e Stocco - di un caso importante di contrasto alla discriminazione basata su orientamento sessuale e va dato merito all’Oscad interforze Polizia di Stato e Carabinieri, con il quale va avanti da tempo una collaborazione molto positiva, di aver saputo ben interpretare la vicenda che aveva già visto il giovane F.H. vittima di violenze e abusi. Ci auguriamo che ora possa vivere più serenamente grazie a questa vittoria significativa. È necessario - concludono Marrazzo e Stocco - che la comunità internazionale tenga alta l’attenzione su questo tema portando avanti la battaglia per la depenalizzazione dell’omosessualità nel mondo”. Repubblica Democratica del Congo: corsi di formazione per i detenuti di Buvaku Radio Vaticana, 2 marzo 2012 Saponi prodotti dai detenuti del carcere centrale di Buvaku, nella Repubblica Democratica del Congo, distribuiti alla popolazione per prevenire il colera. Sono 1.400 i pezzi realizzati nell’istituto di pena grazie a corsi di formazione professionale avviati per impegnare i carcerati in attività produttive. Padre Adrien Tshichugi, cappellano dell’istituto penitenziario, cui si deve l’iniziativa dei corsi, intervistato da radio Okapi, ha spiegato che sono 144 i detenuti coinvolti. Oltre a corsi di formazione professionale, sono stati attivati anche corsi di lingue. Si tratta di attività che nei luoghi detentivi allentano le tensioni, ha spiegato il cappellano che nelle sue visite pastorali al carcere centrale di Buvaku si era reso conto della necessità di offrire ai carcerati possibilità per esprimere le loro potenzialità. Un modo per consentire poi, a quanti scontano la pena, di reinserirsi nella società. Per padre Tshichugi è importante preparare i detenuti ad affrontare la vita dopo il carcere e consentire loro di sviluppare capacità e inventiva al fine di renderli coscienti di poter essere utili alla società.