Giustizia: la riforma del carcere al primo posto, tra le proposte del Partito Democratico di Andrea Orlando Europa, 29 marzo 2012 La conferenza nazionale sulla giustizia del Partito democratico è la prima occasione per ragionare di giustizia dopo che la stagione della destra di Berlusconi e la sua maggioranza hanno tenuto in ostaggio il tema per tre lunghi anni. L’incombenza della destra e dei processi del suo leader ha segnato anche la stagione del centro sinistra. Questa ipoteca non si è ancora estinta, eppure ci sono le condizioni per alzare lo sguardo. Noi abbiamo iniziato a farlo nel pieno del conflitto con il centrodestra nei mesi del processo breve, della legge bavaglio e dei diversi lodi. Infatti, nel maggio 2010 con il documento votato dalla nostra assemblea nazionale, indicammo le priorità per un percorso di riforma del servizio giustizia. Lo facemmo senza prescindere dalle drammatiche difficoltà di quella fase ma anche senza usarle come alibi. Indicammo le emergenze: carcere, civile, organizzazione. Ed insieme ad esse, senza contrapporle ad esse, ponemmo l’esigenza di una riforma del processo penale finalizzata a rafforzarne la funzionalità e la rapidità e proponemmo di introdurre al contempo elementi di trasparenza nell’esercizio dell’azione dei pubblici ministeri. Avanzammo proposte finalizzate a modificare i meccanismi di funzionamento dell’autogoverno con lo scopo di garantire e rafforzare l’indipendenza e l’autonomia dell’azione dei giudici. Il tutto all’interno di un percorso che aveva come obiettivo il coordinamento delle diverse giurisdizioni. Quell’impianto, di cui si è discusso molto, fuori e dentro il partito, ha retto alle prove, non semplici, dei mesi successivi, e ci ha consentito di rispondere con proposte radicalmente alternative a quel precipitato di propaganda e pulsioni autoritarie definita come “riforma epocale” (in effetti un’epoca l’ha chiusa). Le proposte, va detto, collocandosi all’interno dell’attuale quadro costituzionale ci ha consentito di valorizzare l’attualità della Carta fondamentale senza arroccarsi in chiusure corporative e antistoriche. E la validità di questo impianto si è confermata con la ripresa, con la nascita del governo Monti, di un dibattito finalmente in sintonia con i veri problemi del sistema giudiziario italiano. Abbiamo ascoltato infatti, con soddisfazione, il ministro Severino affermare nella sua relazione alle camera sullo stato della giustizia che l’azione di riforma deve partire dai suoi drammatici punti critici appunto, il carcere, la giustizia civile, l’assetto e la distribuzione degli uffici. Il governo ha mosso i primi passi in questa direzione. L’appuntamento di venerdì sarà l’occasione per esplicitare le proposte con le quali il Pd intende sostenere questa azione. Anche il tema dell’efficienza è tutt’altro che neutro e tecnico. Si pensi ai diversi approcci che si possono avere nell’affrontare la necessaria razionalizzazione della domanda di giustizia. Ancor più politico è il nodo del carcere. Affrontarlo comporta superare il panpenalismo e la bulimia carceraria della legislazione di questi anni. La conferenza sarà anche l’occasione per stimolare un’adeguata iniziativa legislativa che modernizzi il funzionamento del processo civile. Argomento sul quale l’azione del governo in carica non si è ancora sufficientemente caratterizzata. Discuteremo, insieme, su come disinnescare la mina rappresentata dall’emendamento Pini sulla responsabilità civile dei magistrati. Una mina concepita con finalità punitive nei confronti della magistratura che rischia invece di pregiudicare le garanzie dei cittadini. Illustreremo per l’ennesima volta la nostra proposta per la lotta alla corruzione che passa innanzitutto per il recepimento della convenzione di Strasburgo del 1999. Proposte, vale la pena ricordarlo a molti, che non sono oggetto di trattativa o di scambio. Faremo il punto sull’evoluzione delle norme che disciplinano l’avvocatura ma più ancora, sul suo ruolo e su come guidare la sua evoluzione e valorizzazione dopo che l’assenza di programmazione nell’accesso ne ha determinato una profonda crisi che è spesso un tutt’uno con quella della giurisdizione. Ma l’obiettivo della nostra conferenza è soprattutto rilanciare l’ambizione di una riforma complessiva che connoti la sfida per l’alternativa: un disegno che ha due riferimenti fondamentali: la Costituzione e i cittadini. L’ostacolo della guerra civile “a bassa intensità” combattuta sul terreno della giustizia, che ha spesso autorizzato e nobilitato conservatorismi e corporativismi, sta venendo progressivamente meno. Sul campo resta la sconsolante condizione del sistema giudiziario segnato dalle non politiche della destra e in definitiva inadeguato per tutti: imprese, famiglie, vittime, parti lese, imputati, detenuti, operatori, magistrati ed avvocati. Inadeguato soprattutto per le sfide che l’Italia ha di fronte e per la civiltà giuridica che ha caratterizzato la nostra storia. Vogliamo ripartire chiamando ad un confronto tutti coloro che vivono quotidianamente ed in prima linea le conseguenze della crisi del sistema. Soltanto il Pd, a ben vedere, può realizzare la ricucitura di una trama strappata. Solo il Pd può abbattere il sistema di incomunicabilità speculari, spesso artatamente alimentate, che costituisce una delle eredità avvelenate della destra e segna il mondo della giustizia. Giustizia: Radicali; marcia per l’amnistia del 25 aprile, anche la Montalcini tra promotori Adnkronos, 29 marzo 2012 C’è anche il premio Nobel Rita Levi Montalcini tra i promotori della seconda marcia per l’amnistia, la giustizia, la libertà, iniziativa promossa dai Radicali e accompagnata dallo sciopero della fame intrapreso dal leader Marco Pannella contro l’affollamento dei penitenziari italiani. Tanti i nomi noti che hanno aderito all’iniziativa, dal mondo dell’associazionismo a quello della politica e della cultura, ma anche nomi legati drammaticamente al mondo del carcere: tra questi spicca quello di Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, il 31enne morto mentre era detenuto a Rebibbia in attesa di giudizio. La marcia si terrà nel giorno della Liberazione, il 25 aprile, con partenza da Castel Sant’Angelo e arrivo al Quirinale passando per alcuni luoghi simbolo: da Regina Coeli al Senato e alla Camera, non dimenticando il passaggio a Palazzo Chigi. “È utile aggiornare questa data - dice la vicepresidente del Senato Emma Bonino - non per dimenticare il suo significato del passato, ma per quel che può significare nel presente: una nuova liberazione per un nuovo inizio, basato sullo Stato di diritto. Spero che in questa giornata nasca la scintilla che bruci e metta fine a una situazione ormai inaccettabile”. I numeri, del resto, la dicono lunga. “Sono 66.700 i detenuti attualmente dietro le sbarre - illustra la deputata radicale Rita Bernardini - a fronte di 44.500 posti disponibili, mentre sono oltre 10.000 i procedimenti civili e penali pendenti. L’Italia è stata sanzionata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per l’irragionevole durata dei processi”. Un sistema lumaca che finisce per “aumentare ulteriormente” i procedimenti in attesa di giudizio. “Un cancro - secondo Bonino - una peste che sta infettando anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, di fatto travolta dagli innumerevoli ricorsi che fanno dell’Italia un’ottima cliente”. Duro Pannella, che minaccia di passare allo sciopero della sete e accusa lo Stato di essere “in una condizione letteralmente criminale”. Il leader radicale non risparmia poi critiche al presidente Napolitano. “Dal suo discorso sulla situazione carceraria del 28 luglio scorso - dice - in 70 si sono suicidati dietro le sbarre”. “Per noi l’amnistia non è solo un atto di clemenza - spiega Bonino - ma una riforma strutturale che prima ancora che svuotare le carceri, per esempio degli oltre 30mila detenuti in attesa di giudizio, fa rientrare lo Stato italiano nella legalità. Tecnicamente - sottolinea - il nostro Paese è infatti in uno stato criminale di disfunzionamento”. Del resto, ricorda Rita Bernardini, “durante l’incontro con la Merkel lo stesso premier Mario Monti ha parlato espressamente della centralità del tema giustizia. Ma la stessa attenzione non c’è da parte dei ministeri del suo governo”. Per Luigi Manconi, presidente di “A buon diritto”, “amnistia e indulto non sono una bizzarria, ma istituti previsti dalla nostra Carta costituzionale per stati di emergenza come quello attuale”. Pannella annuisce, prende la parola e ironizza sul suo ennesimo sciopero della fame. “Il riflesso del popolo quando l’annuncio è che palle... - dice - Anch’io me lo dico tra me e me ogni volta che decido di intraprenderne uno. Ma va bene così, le reazioni sono le stesse perché noi non rappresentiamo il popolo, noi ne facciamo parte”. Giustizia: laici e cattolici, insieme per l’amnistia di Angiolo Bandinelli Il Foglio, 29 marzo 2012 Fu Papa Giovanni Paolo II, nel 2002, a rivolgere un accorato appello al Parlamento italiano, riunito in seduta congiunta, per un gesto di clemenza - una amnistia - a favore dei detenuti delle nostre carceri, già all’epoca in condizioni di vita inumane. “Astenersi da azioni promozionali nei confronti del detenuto significherebbe ridurre la misura detentiva a mera ritorsione sociale, rendendola soltanto odiosa”, disse. Deputati e senatori acclamarono. Furono ipocriti, non ne fecero nulla, l’appello cadde nel vuoto. Dieci anni dopo, la condizione carceraria è sempre gravissima, comincia perfino a fare notizia sulla cautelosa Tv. Ma ancor più drammatica, se non ormai disperata, è la situazione complessiva della giustizia italiana. L’opera di misericordia evangelica, “visitare i carcerati” (sottratta alla dimenticanza dai deputati radicali per i quali è stata sempre uno dei primissimi doveri istituzionali), può diventare, e forse sta di fatto diventando, un alibi per non affrontare nel suo complesso e in profondità la questione giustizia ponendo mano a una riforma che renda efficiente l’intero sistema, sia nel settore penale - dichiarato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il 18 luglio scorso, “questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile” - sia in quello civile, sul quale si è recentemente pronunciato il premier Mario Monti: “Questo governo (...) è doveroso che si occupi, come fa e intende fare e in parte ha già fatto, dei temi della giustizia, in particolare della giustizia civile”. A queste realtà ineludibili ci richiama l’appello e l’iniziativa di Marco Pannella e dei radicali, che hanno indetto per Pasqua una “marcia per l’amnistia, la giustizia, la libertà”. Da appassionati eredi della destra storica, essi hanno saputo trasfondere il rigore del diritto dalla matrice liberale a quella libertaria: è forse il loro contributo maggiore alla teoria dello stato moderno. L’appello umanitario di Papa Giovanni Paolo II li trovò dunque in prima fila, e non per il formale applauso dei parlamentari. Quando quel papa era sul letto di morte, ancora una volta Pannella (che Woytila chiamò una volta, in pubblico, “il mio amico Pannella”) invocò che gli si rendesse quest’ultimo omaggio, di non disattendere quella sua invocazione alla giustizia e alla clemenza. Ovviamente, non fu ascoltato. Ma fu un momento di alta corrispondenza ideale, di autentico, non formale dialogo tra laici e cattolici. Il tema del dialogo laici-cattolici non è per me troppo appassionante, da laico penso che il dialogo debba essere aperto a tutti, a trecentosessanta gradi. Nessun privilegio, nessuna esclusione: si deve dialogare con cattolici e islamici, con diversamente credenti e indifferenti. La piattaforma essenziale del dialogo non può che essere la laicità, per la quale solo il diritto è egemone e apre a tutti le norme e le condizioni. Ma, visto che siamo in Italia, accetto che si presti una qualche attenzione, se non privilegio, alla religione che è comunque, nel paese, maggioritaria. Straordinario e unico destino, quello del nostro paese. La sua capitale, Roma, è anche capitale delle vicenda cattolica ed ospita un’altra capitale, il Vaticano. I due mondi sono intrecciati, nel bene ma anche nel male. Quando nel 1967 si tenne a Bologna il primo congresso del nuovo Partito radicale ormai pannelliano, la mozione finale affermava che l’anticlericalismo e l’antimilitarismo erano i due percorsi necessari da compiere per il rinnovamento della politica italiana. L’affermazione andava e va, innanzitutto, storicizzata. Essa riesumava e rimetteva in circolazione due valori tipici del socialismo libertario, divenuti “vieti” perché vietati dal fascismo concordatario e bellicista. E l’anticlericalismo radicale andò incontro alle speranze e alle urgenze di cattolici turbati e amareggiati dal comportamento di una chiesa che aveva salutato in Mussolini l’uomo della Provvidenza, accettandone le prevaricazioni e la violenza. Nel mezzo secolo trascorso da allora, i cattolici si sono incontrati più volte, in un dialogo proteso alla salvezza della vita e del diritto, con un partito che si definiva “di credenti e non credenti”. Ad oggi, sono già molti i cattolici che hanno aderito alla Marcia di Pasqua, in particolare moltissimi cappellani delle carceri, testimoni degli orrori che si svolgono dentro quelle mura. Purtroppo, la marcia è stata sospesa, a causa del divieto opposto dalle autorità in nome di “norme” tanto illiberali quanto disattese con i più vari pretesti, ma avrà luogo nella data che verrà in queste ore fissata. Vorrei augurarmi che essa sia ancora una volta l’occasione di un dialogo urgente e necessario. I cattolici chiedono con insistenza che alla religione, alla chiesa, sia garantito lo spazio pubblico, la piena libertà di espressione e di funzioni. Una uguale possibilità di fruire dello spazio pubblico non dovrebbe essere garantita anche, o soprattutto, alla giustizia, al diritto, fondamento e cardine della convivenza umana? Giustizia: carceri ingestibili, non c’è altra soluzione dell’amnistia di Lanfranco Palazzolo La Voce Repubblicana, 29 marzo 2012 Non esistono alternative all’amnistia. Questa è l’unica ipotesi sul tappeto per risolvere la grave emergenza in cui versano le carceri italiane e il sistema giudiziario del nostro paese. Lo ha detto il professor Giuseppe Di Federico, emerito di ordinamento Giudiziario all’Università Alma Mater Studiorum di Bologna. Professor Di Federico, lei non è mai stato favorevole ai provvedimenti di clemenza. Ma negli ultimi anni ha cambiato questo suo orientamento. Cosa pensa della possibilità di un’amnistia e di una profonda riforma del sistema giudiziario italiano? “La mia convinzione a favore di un’amnistia è basata sulla forza delle circostanze. La situazione in cui versano le nostre carceri è gravissima. I detenuti vivono in una situazione che si può tranquillamente definire come inumana. La prima difesa, in un paese democratico, deve essere rivolta alla tutela della dignità umana. Questo è un valore che dobbiamo difendere sempre ed è una delle condizioni base dell’esistenza di un sistema demo-liberale, quale è quello che tutti noi vogliamo sia l’Italia. Per quanto, di fronte ad una situazione di emergenza, non ci sono altri modi per affrontare questa emergenza”. Vede altre proposte alternative? “Non ci sono altre proposte in grado di dare una prospettiva che renda la situazione delle carceri più adeguata alla condizione di uno stato democratico e moderno. Sul tappeto non esistono soluzioni credibili. Pertanto non vi è alternativa. Se noi vogliamo riportare la situazione delle carceri verso una condizione gestibile, ad una prospettiva in cui la detenzione possa essere un modo per riproporre una partecipazione alla società civile dei detenuti. Senza le iniziative politiche di questi mesi a favore dell’amnistia non si parlerebbe di questi temi e non si intravedrebbe una soluzione a nessuno dei problemi che dobbiamo affrontare oggi”. Lei non è mai stato favorevole ai provvedimenti di clemenza per i detenuti? “In linea di principio, io sono sempre stato contrario all’amnistia”. Ritiene che il trend di carcerizzazione, che è stato introdotto nel sistema giudiziario italiano negli ultimi anni sia diventato un fattore criminogeno per coloro che hanno una prima esperienza con il carcere? “Quello che posso dire è che la carcerazione preventiva diffusa, basata su motivazioni scarsamente sostenibili, come è stato denunciato dal Presidente della Corte di Cassazione nel convegno che fu organizzato dai radicali nel luglio del 2011, resterà fino a quando non cambieranno gli orientamenti della magistratura sulla carcerazione preventiva. Ecco perché il rischio di sovraffollamento continuerà ad esistere. Almeno fino a quando questi orientamenti non cambieranno. È necessario almeno riuscire a cambiare questa tendenza”. Giustizia: Convegno Legautonomie; Comuni in campo, chiedono più civiltà per le carceri Dire, 29 marzo 2012 Sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, carenza di percorsi di inclusione sociale e di reinserimento nel mondo del lavoro. Sono questi i problemi che affliggono perennemente le carceri italiane e a cui si tenta da decenni di trovare una soluzione, con risultati più o meno incisivi. In questo quadro possono intervenire gli enti locali? In che tempi e con quali modalità possono ricoprire un ruolo determinante? È possibile riqualificare gli istituti penitenziari e rendere più tollerabile per i detenuti scontare la loro pena? Di questi temi si occuperà il convegno organizzato lunedì prossimo a Firenze da Legautonomie e Forum per il diritto alla salute in carcere. L’incontro è rivolto ai sindaci, agli amministratori e agli operatori di vari settori con l’obiettivo di individuare i campi d’azione, dal momento che le strutture carcerarie hanno sempre più bisogno di un tessuto di relazioni sociali che possa garantire e accompagnare tutti quei provvedimenti di legge che non sono praticati, ad esempio la misura degli arresti domiciliari in strutture comunali laddove il detenuto non disponga di una abitazione. La questione che preoccupa di più è ovviamente quella della sanità, la cui competenza è affidata dal 2008 alle Asl ma il cui passaggio sta avvenendo con estrema lentezza e tra mille difficoltà. Il sovraffollamento, la presenza di molti detenuti tossicodipendenti o malati creano delle situazioni invivibili soprattutto di carattere igienico-sanitario, con cui purtroppo devono fare i conti anche gli agenti di polizia penitenziaria. A tutto ciò si aggiunge la consapevolezza che le misure contenute nel decreto legge 211/2011 convertito in legge lo scorso febbraio non possono risolvere il problema, ma piuttosto costituiscono un primo passo, tenuto conto dei percorsi necessari per l’adeguamento di strutture e di un periodo piuttosto lungo per la messa in pratica di alcune prassi. La richiesta principale è far sì che anche gli enti locali possano prendere in mano e farsi garanti della vita nelle carceri, perché i detenuti sono cittadini e non possono essere abbandonati. Una soluzione efficace sarebbe la revisione dell’impianto normativo per fare in modo che molte persone colpevoli di reati cosiddetti minori non debbano finire in carcere ma possano essere indirizzati il più verso forme alternative di punizione, come il lavoro socialmente utile, la semilibertà. E tutto questo porterebbe anche a un risparmio sui costi di manutenzione-gestione di istituti carcerari e detenuti. Altra richiesta infine, è quella che anche ai sindaci venga concessa la possibilità di fare delle visite ispettive nelle carceri delle proprie città per verificare le condizioni di vita dei detenuti. Filippeschi (presidente Legautonomie): serve riforma organica giustizia “Dare ai sindaci il diritto di effettuare delle visite nelle carceri sul proprio territorio sarebbe un gesto di riguardo verso le città”. Lo dice all’agenzia di stampa Dire il presidente di Legautonomie e sindaco di Pisa, Marco Filippeschi, spiegando che in questo modo si può “intervenire in tutto ciò che riguarda le condizioni di vita carceraria”. A questo scopo, “credo sia un’esperienza molto positiva quella di affidarsi alla figura del garante dei detenuti con l’obbligo di riferire al consiglio comunale che lo ha eletto. Una figura che vigili e consenta di avere un’interlocuzione diretta, un ponte tra il carcere e il mondo esterno. Questo collegamento, oltre alla naturale funzione di garanzia, ci permette di capire meglio quali sono i bisogni sociali dei detenuti, sia per attività di sostegno dentro il carcere con iniziative formative di cui si fanno carico associazioni esterne di volontariato, sia per quel che riguarda progetti per detenuti in semilibertà e percorsi di reinserimento per chi la pena l’ha già scontata”. Filippeschi, nonostante i tagli e le difficili condizioni economiche in cui versano i comuni, assicura che comunque “l’impegno degli amministratori locali resta. A Pisa, ad esempio, con un finanziamento europeo abbiamo ristrutturato degli appartamenti destinati a detenuti in semilibertà”. E per la prossima estate il sindaco deve mantenere una promessa: quella di consegnare tre frigoriferi e un condizionatore ai detenuti della casa circondariale Don Bosco. “Si fa perché serve, anche se chiaramente non è una funzione istituzionale”. In generale, conclude il presidente di Legautonomie, “occorrerebbe una politica organica di riforma del sistema giustizia. Non si deve più commettere l’errore di prendere provvedimenti fuori da una riforma generale, alleggerendo le carceri senza interventi strutturali: i cittadini, che vogliono una giustizia più rapida e la certezza della pena, non capirebbero”. Mori (sindaco Montelupo Fiorentino) su esperienza dell’Ospedale psichiatrico giudiziario L’aspetto è quello di una villa medicea. Dall’esterno niente fa pensare al mondo nascosto tra quelle mura. Un mondo fatto di malattia, disagio, abbandono, trascuratezza. Qui come negli altri sei “gemellI sparsi in tutta Italia. È l’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, una realtà destinata a scomparire dopo l’approvazione del Dl Severino, che sancisce la chiusura delle strutture entro il 31 marzo 2013, consegnando alle regioni il compito di prendersi cura dei detenuti. “La situazione qui- spiega all’agenzia Dire il sindaco Rossana Mori, rispecchia quella generale degli istituti penitenziari anche se gli Opg dovrebbero essere anche luoghi di cura, non solo di detenzione”. Il comune, negli ultimi anni si è trovato molto spesso da solo di fronte ad alcune battaglie, come sottolinea lo stesso sindaco ricordando un precedente che ha di fatto chiuso la porta a interventi da parte delle amministrazioni. “Abbiamo sempre cercato di fare la nostra parte, fino ad arrivare a emettere un’ordinanza per la chiusura di alcune celle fatiscenti dell’Opg. Era diretta all’allora ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ma venne impugnata e il Tar decise che in qualità di sindaco avevo valicato il confine delle cose di cui mi debbo occupare e che la situazione non era quella me rappresentata. Dopo due anni, invece, è stato dimostrato attraverso filmati e ispezioni nella struttura che la situazione era proprio quella denunciata”. È stato forse in quel momento che “è stata data un’accelerazione per risolvere il problema e mi sembra che adesso ci sia la volontà di fare in modo che una regione prenda in carico i propri internati, muovendosi attraverso le Asl per le questioni di custodia e cura”. Un percorso già iniziato, visto che ‘durante gli ultimi mesi ci sono state diverse dimissioni di persone prese in carico da strutture esterne e indirizzate in un percorso di reinserimento all’interno della società”. Non si tratta però di una strada semplice e l’arrivo al traguardo “dipende dalla capacità e dalle risorse che le regioni vorranno destinare a questo problema. Parliamo di persone malate che hanno bisogno di una continua assistenza e molto spesso restano solo i territori a potersene - e doversene - occupare creando una rete di protezione che sappia dare una risposta in termini di salute e sostegno”. Marroni (Garante detenuti Lazio): carceri sono risorsa per i territori “L’impegno delle amministrazioni locali verso le carceri è molto variegato: ci sono quelle impegnate, che hanno nominato garanti e hanno una grande volontà di fare con risorse e sostegno al volontariato. Poi ci sono anche i casi in cui il disinteresse e l’estraneità al problema sono assoluti, difficili da rimuovere”. Lo dice all’agenzia di stampa Dire il garante per i detenuti della Regione Lazio, Angiolo Marroni (integrale su www.dire.it). “Per quanto riguarda il campo d’azione, oltre a intervenire con associazioni o seguire con le Asl l’attività sanitaria del carcere, forse gli enti locali potrebbero occuparsi dei servizi interni al carcere aiutando ad esempio delle cooperative sociali. Ovviamente in alcuni pochi casi, come quello della Regione Lazio, ci sono anche interventi di natura economica destinati per esempio alla manutenzione delle strutture”. Marroni però punta forte su un aspetto che forse è sottovalutato o addirittura non considerato: “Più che un problema, le carceri sono una risorsa per il territorio perché producono ricchezza per il commercio e per diverse attività economiche. Ma non tutti hanno questa consapevolezza. Senza contare che gli enti locali possono affidare delle attività per il bene comune a cooperative formate da detenuti: una pratica molto comune nel Lazio ma che purtroppo è quasi inesistente al Sud. Le amministrazioni dovrebbero capire che per garantire sicurezza ai cittadini devono fare in modo che chi esce dal carcere non sia ancora ispirato da una logica criminale. Inoltre ci potrebbe essere anche un ritorno economico per le amministrazioni nel momento in cui questi servizi vengono finanziati dalle regioni o dai fondi europei”. Purtroppo, secondo Marroni, il Paese è ancora lontano da una soluzione radicale del problema. E neanche il decreto Severino approvato il mese scorso sembra portare un reale beneficio. “Il decreto è comunque utile e dimostra sensibilità da parte del ministro Severino. C’è un vantaggio per l’articolo che riguarda l’entrata e uscita dal carcere di chi vi sosta solo per tre giorni (il cosiddetto fenomeno delle porte girevoli, ndr), ricorrendo per i reati minori ai domiciliari o alle camere di sicurezza di commissariati e caserme. Ma parliamo di tre-quattromila persone all’anno. Un grande passo in avanti, invece, è quello sulla chiusura degli Opg, con le regioni che avranno un anno di tempo per stabilire in quali strutture accogliere i malati delle sei strutture italiane. Per come la vedo io però - conclude Marroni - penso che per cambiare davvero le cose bisogna riformare il codice penale, ridurre la carcerazione, approvare leggi che riducano il carcere come pena esemplare e prevedano misure alternative”. Di Giovan Paolo (Pd): con aiuto dei Comuni possiamo sperare in una svolta “Assistere i comuni che ospitano le carceri vuol dire assistere l’intero Paese”. La pensa così il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per il diritto alla salute in carcere (integrale su www.dire.it) secondo il quale “noi non assegniamo un ruolo ai comuni nella gestione delle carceri ma sappiamo che i 203 comuni sede di carcere svolgono un servizio al Paese tutto ed anche agli altri quasi 8.000 comuni italiani. Sono loro che hanno in carico l’assistenza sociale alle famiglie dei detenuti, ai detenuti stessi quando cercano un domicilio, un lavoro, una opportunità di rientrare nella società civile. Sono loro che cogestiscono le Asl assieme alle Regioni nella programmazione sanitaria e in ottemperanza - che ancora non c’è - alle norme della riforma che hanno reso la sanità penitenziaria non più una sanità a parte ma una componente stessa del servizio sanitario nazionale”. Con queste motivazioni, sottolinea Di Giovan Paolo, si spiega perché “lo Stato dovrebbe porsi il problema dei servizi sociali di questi comuni che sopportano un peso maggiore degli altri. Dovrebbe quantomeno permettergli di usare - quando siano comuni virtuosi - i soldi bloccati dal patto di stabilità. Perché impegnarsi nella realizzazione dell’art. 27 della Costituzione che impone il reintegro di questi cittadini nella società civile è un obiettivo di tutti e un investimento da fare al servizio del Paese non solo per motivi morali ma anche per convenienza sociale ed economica”. I problemi per i territori e per le amministrazioni comunali sono comunque presenti e riguardano “le necessità del carcere, l’organizzazione dei servizi alle persone private di libertà (ricordo che circa un terzo è in attesa di sentenza definitiva), alle loro famiglie. Avere risorse aggiuntive significa poter pagare le cooperative che lavorano col carcere, fornire sostegno alle associazioni che si dedicano ai temi del carcere per il reintegro, la formazione al lavoro, il contatto col mondo del lavoro stesso. Significa più che altro evitare il danno che i comuni vivono col disperdere energie e sostegno economico in attività che non toccano agli altri quasi 8.000 comuni”. Giustizia: Ministro Severino; ripristinare Legge Smuraglia su lavoro per i detenuti Dire, 29 marzo 2012 “Ho un dispiacere per non aver vista ripristinata la legge Smuraglia sul lavoro carcerario, ma non mi arrendo perché credo che sia una strada importante”. Lo dice il ministro alla Giustizia, Paola Severino, intervenendo a un convegno dell’Udc. Alla Camera è stato rinviato in commissione una proposta di legge in tal senso perché mancava la copertura economica. Il ministro aggiunge: “Ora non ci sono i soldi, ma di denaro se ne spreca tanto e invece dovremmo trovare il modo di usarlo per queste cose così come per le case di custodia attenuata per le madri detenute”. Il lavoro carcerario è un tema su cui insistere, conclude Severino, “perché un detenuto che è recuperato alla vita sociale è un detenuto che porterà legalità e sicurezza”. Mosca (Pd): ci auguriamo veloce approvazione pdl reinserimento “Ieri il testo della proposta di legge sul reinserimento lavorativo dei detenuti è stato ulteriormente modificato in Commissione Lavoro in base alle osservazioni, relative alla copertura finanziari a, avanzate dalla Commissione Bilancio” dichiara Alessia Mosca, Segretario Pd in Commissione Lavoro e relatrice della proposta alla Camera. “Abbiamo deciso di inserire le misure previste in via sperimentale e limitatamente al biennio 2012-2013 e di limitare il periodo in cui sarà possibile usufruire degli sgravi contributivi ai primi 12 mesi dalla scarcerazione. Abbiamo previsto, infine, che le modalità e le condizioni di fruizione degli sgravi siano decise, con decreto del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro della Giustizia e con il Ministro dell’Economia e delle Finanze. Questo dovrà essere adottato entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge e specificherà le misure idonee ad assicurare il rispetto del limite di spesa fissato dalla proposta stessa nella cifra di 3 milioni di euro, in aggiunta ai fondi già resi disponibili dalla Legge Smuraglia. Ci auguriamo che, con queste modifiche, la proposta possa tornare presto in Aula ed essere licenziata dalla Camera senza intoppi”. Giustizia: Ministro Severino; nelle carceri ci sono 51 madri con 54 bimbi, serve soluzione Agi, 29 marzo 2012 La situazione delle madri detenute con i loro bambini è molto delicata e richiede una soluzione. In quanto si va a determinare una “condizione che procura sofferenza e disagio e che va a incidere sullo sviluppo psico-fisico di bambini costretti a guardare il mondo attraverso le sbarre”. Così il ministro della Giustizia, Paola Severino, in un messaggio letto questo pomeriggio al convegno “Bambini in carcere: non luogo a procedere” organizzato da Terre des Hommes e Bambini senza sbarre, per stimolare una riflessione a un anno dall’approvazione della riforma in materia di detenute madri con i figli (l. 62/2011). Severino, assicura grande attenzione a questo problema, che è “tra le priorità del dicastero”. “Al 31 dicembre nelle carceri italiane le statistiche ci riportano la presenza di 51 detenute madri con 54 bambini - dice il ministro - le statistiche parlano appunto di numeri e non della qualità della vita, dell’inattualità di una condizione che procura sofferenza e disagio e che va ad incidere sullo sviluppo psico-fisico di bambini costretti a guardare il mondo attraverso le sbarre. Il rapporto madre figlio è unico, esclusivo, totalizzante. Viverlo all’interno di un istituto penitenziario causa sofferenza alle madri a ai loro figli”. Un accenno anche all’esperienza dell’Icam di Milano, che secondo Severino “è un esempio di una diversa concezione di detenzione delle detenute madri, un progetto che si colloca in una città sensibile e attenta verso i problemi del carcere e delle persone detenute”. “In un Paese moderno - continua il ministro Severino nella nota inviata al convegno - è necessario offrire ai bambini, figli di detenute, un luogo dignitoso di crescita, che non ne faccia dei reclusi senza esserlo. Una struttura che sia diversa da quella tradizionalmente detentiva, logisticamente ben posizionata, dove il sistema dei controlli sia omogeneo agli interessi da perseguire e il progetto educativo e pedagogico sia orientato a mantenere e a rinsaldare il rapporto madre-figlio anche in funzione del futuro distacco dal bambino ai termini di legge”. Secondo il ministro è quindi “necessario che l’Istituzione, nell’affrontare un così delicato argomento, abbia chiari tutti gli aspetti che lo sostanziano al fine di trovare soluzioni idonee che tutelino gli importantissimi valori in gioco”. Dello stesso pare gli addetti ai lavori. “Molti bambini con le madri restano in carcere - ha detto Lia Sacerdote, presidente di Bambini senza sbarre - mentre potrebbero essere accolti in Case Famiglie Protette. I cui requisiti ancora non sono stati specificati”. “La nuova legge inoltre - aggiunge Federica Giannotta, responsabile diritti dei Minori di Terre des Hommes - non garantisce la presenza della madre accanto al figlio nel caso in cui venga ospedalizzato. E non risolve il problema dell’accesso alle misure domiciliari speciali, non tutela in alcun modo le donne extra comunitarie, in quanto permane l’espulsione automatica a fine pena, senza alcuna considerazione per gli effetti e le ripercussioni sulla crescita psicologica che questo ha sui loro bambini”. Giustizia: Ministro Severino; evasione da domiciliari eccezione, statistiche ci danno ragione Adnkronos, 29 marzo 2012 Il tema della detenzione e della sicurezza dei cittadini “è una questione delicata”. Lo dice il ministro alla Giustizia, Paola Severino, intervenendo a un convegno dell’Udc. Il guardasigilli ricorda l’ultimo episodio di due soggetti che erano stati fermati per un furto e una volta essere agli arresti domiciliari dal giudice sono scappati. Questo episodio ha creato polemiche, spiega Severino, “si è setto che il decreto salva carceri contrasta con le esigenze di sicurezza del Paese. Ma quello è un fatto eccezionale che non deve far dimenticare tutti i casi in cui invece, da gennaio ad oggi” da quando è entrato in vigore il Dl “nulla è accaduto. Allora- continua- non fasciamoci subito la testa, non diciamo che le cose non funzionano se non si conoscono le statistiche” che danno ragione al governo. “Le sanzioni alternative al carcere - conclude Severino - sono una delle soluzioni al problema” del sovraffolamento. Quindi ricorda che oltre al salva carceri il suo ministero è impegnato anche con il piano carceri, ossia la nuova edilizia penitenziaria, e con la manutenzione ordinaria delle carceri esistenti”. Giustizia: un caffè al carcere di Foggia… bilancio di una ispezione di Rita Bernardini Notizie Radicali, 29 marzo 2012 “Permesso… Si può? Il caffè lo fate buono?” Rita Bernardini è autorevole ma riesce a mettere tutti a loro agio. “Sono una deputata radicale, sono qui per fare un’ispezione”. I detenuti che la vedono affacciarsi nelle loro celle sgranano gli occhi, si spolverano i vestiti e cercano in gran fretta di liberare il tavolo dai resti del pranzo per farla accomodare. Ce la raccontano così la Bernardini Elisabetta Tomaiuolo ed Antonella Soldo, rispettivamente segretaria e presidente dell’associazione radicale “Mariateresa Di Lascia”, che sabato scorso l’hanno accompagnata nell’ispezione al carcere di Foggia. “Allo sportello all’ingresso l’agente che riceve il suo tesserino chiama subito il comandante- raccontano Tomaiuolo e Soldo - Non ci aspettavano, nonostante un quotidiano locale avesse dato una soffiata il giorno prima, e alcuni detenuti ne fossero venuti a conoscenza leggendolo. Quando arriva il comandante Montanaro ha un’aria tesa, lei gli mette una mano sul braccio “sono qui anche per voi”, lui subito si distende: sarà la nostra guida in tutte le sei ore di visita. La direttrice non c’è, ma il comandante le telefona per passarle al telefono la Bernardini, questa in risposta alle sue giustificazioni le dice: “non si preoccupi, capisco sia il suo giorno libero, mi capita spesso di non trovare i direttori perché le visite le faccio sempre di sabato, visto che questo è anche il mio giorno libero”. Non passa mezz’ora che ci troviamo la direttrice alle spalle. Maria Affatato è arrivata da poco a Foggia, prima dirigeva il carcere di Spinazzola, una delle pochissime isole felici nel sistema carcerario italiano: destinato alla custodia dei sex offender, era una struttura gestita con efficienza, ma che, come tutte le cose che funzionano in Italia, è stato chiuso perché troppo piccolo. L’arrivo a Foggia per la Affatato è stato un colpo duro: “onorevole - ha ripetuto più volte - questo è un territorio molto difficile”. Scappano tutti i direttori dal carcere di Foggia, troppo lavoro, da anni non si riesce a trovare un vice-direttore con cui dividersi gli oneri, così la struttura è stata per lunghi anni abbandonata a sé stessa. La nuova direttrice, però, sembra seriamente intenzionata ad attivare tutta una serie di progetti rieducativi e lavorativi. Quali sono i problemi più gravi che avete rilevato nel carcere di Foggia? “La Puglia è la regione con il più grande sovraffollamento d’Italia, e questo è il primo problema anche a Foggia: 725 detenuti per un limite di tollerabilità di 403. 21 ore in cella da dividere anche in otto, con i fornelli accanto al water, con i pensieri che ronzano più assillanti dei mosconi, e che alla fine ti portano a sfilarti il laccio dei pantaloni della tuta per legartelo intorno al collo, come ha fatto il 23 febbraio scorso un detenuto di 36 anni che qui si è tolto la vita. Il 44% di loro sono in attesa di giudizio, questo dato la dice lunga sullo stato d’emergenza in cui versa la giustizia italiana. 21 ore senza attività lavorative o educative: in tutta la struttura ci sono solo 2 psicologi e due educatori, prima che finiscano il giro di 725 detenuti passano anche mesi. Il magistrato di sorveglianza i detenuti non sanno nemmeno che faccia abbia, qualcuno afferma di avergli scritto 20-30 lettere ma di non aver mai ricevuto risposta. Da un paio di settimane sono stati nominati due nuovi magistrati di sorveglianza, che speriamo facciano meglio di chi li ha preceduti. In ogni sezione ci sono 4 docce per 70 persone, la doccia si può fare tutti i giorni, ma calda di mattina e fredda di pomeriggio, perciò si fanno i turni. Sono tutti cattolici praticanti, in tutte le celle accanto ai calendari di Max c’è sempre un santino di Padre Pio, ma anche seguire la messa è diventato un problema da quando le fondamenta della chiesetta hanno ceduto e la struttura è stata dichiarata inagibile. Il passeggio è una gabbia con il pavimento piastrellato, senza nient’altro. Rita ha chiesto il permesso di entrare anche lì, si è portata al centro, tra una quarantina di detenuti, ha cominciato a raccontare, a fare domande, alla fine li ha fatti anche ridere. “Già vedere che qualcuno si interessa a noi, che non siamo abbandonati, è un grande sollievo” ci ha detto uno dei detenuti più anziani”. Solitamente la pressione del sovraffollamento carcerario si riversa anche sugli agenti, che delle volte arrivano anche a togliersi la vita. All’aumento di detenuti e quindi di lavoro solitamente non fa fronte un aumento di personale. È così anche a Foggia? “Sì, esattamente. A farne le spese, in questa situazione-limite, sono, oltre ai detenuti, anche gli agenti. Fortemente sotto organico, sono sotto pressione “qui andiamo avanti ad ansiolitici e anti-depressivi!” è sbottato con noi un agente dell’ufficio matricole. Il reparto traduzioni, ovvero gli agenti preposti a scortare i detenuti nei tribunali e negli ospedali, dovrebbero essere almeno 70, ma sono solo 49. Lo scorso anno hanno effettuato 2234 traduzioni. Con i detenuti hanno un ottimo rapporto: sono loro che fanno da psicologi, medici e referenti per tutto. Il reparto infermeria non funziona da almeno vent’anni, così anche per le cose meno gravi e detenuti devono essere scortati ogni volta in ospedale. Agli Ospedali Riuniti esiste un reparto con sei posti per il ricovero dei detenuti che aspetta di essere collaudato, e che allevierebbe di molto il lavoro di piantonamento degli agenti. Alcuni di loro devono scontare ancora le ferie del 2010 e la percentuale di assenti per malattia è del 2%. Del decreto Severino, che qualcuno ha avuto il coraggio di chiamare “svuota-carceri”, qui non se ne sono proprio accorti”. Nel carcere di Foggia, abbiamo saputo, ci sono anche due bambini. Li avete visti? Come vivono? “Sì li abbiamo visti, un maschietto e una femminuccia, di un anno e mezzo e due anni. Li abbiamo visti giocare nell’ora d’aria in un piccolo parco giochi dove i nani da giardino e l’altalena cercano di distogliere l’attenzione dalle alte mura di cemento che lo circondano. Sono lì con le loro mamme detenute, anche loro 21 ore in cella, piccoli innocenti che il mondo esterno non lo vedono mai. Fino a poche settimane fa erano in 4. In alcune città ci sono delle associazioni di volontariato che vanno a prenderli almeno un giorno a settimana e li fanno uscire, avere contatti con altri bambini. In altre città, non a Foggia, una città talmente impoverita socialmente, che la storia di due bambini in carcere non fa impressione a nessuno”. Qual è, se c’è stata, l’immagine-simbolo di questa visita? Risponde Elisabetta: “Nella sezione femminile ho avuto una lunga conversazione con una signora di 61 anni. Mi ha spiegato come vivere in carcere annulli la personalità di un individuo, di come ci si senta inutili e privati della propria dignità, non solo perché anche semplici bisogni come quelli della igiene personale diventano difficili da soddisfare, ma anche perché non c’è l’opportunità di produrre niente, di contribuire in qualche modo alla propria crescita e a quello della società. In questo modo si viene esclusi dalla comunità e questo fa sentire soli “È vero che abbiamo sbagliato, ma dateci la possibilità di fare, di dimostrare che ne siamo consapevoli. Qui dentro c’è tanto tempo per rifletterci su”. La signora ha dei figli che la vanno a trovare, e l’accoglieranno quando finirà di scontare la pena, quindi si ritiene fortunata. La maggior parte delle detenute, costituite da immigrate, per reati di spaccio o furto, non ha nessuno, e una volta uscite si troveranno ancora più in difficoltà di quando sono entrate. A conclusione della chiacchierata, in cui non sono mancate battute di spirito della signora, che ce la mette tutta per non cedere all’avvilimento, mi sono presentata dicendole “Io mi chiamo Elisabetta, con chi ho parlato, qual è il suo nome?” e lei stringendosi nelle spalle con sorriso amaro mi ha risposto “ eh, con chi hai parlato… con una detenuta!” poi come riavendosi, come se le tornasse un ricordo lontano ha aggiunto “ Rossi, Giulia Rossi !”(nome di fantasia) così ci siamo guardate dritto negli occhi e le ho detto “bene ho parlato con la signora Giulia Rossi, piacere di averla conosciuta”. Giustizia: assegnate deleghe ai Vicecapi del Dap; a Luigi Pagano “detenuti e trattamento” Ristretti Orizzonti, 29 marzo 2012 Sono state assegnate ieri le deleghe per i Vicecapi del Dap. Alla dottoressa Simonetta Matone (che sarà il vicario) sono toccate le deleghe per le materie di competenza della Direzione Generale del Personale e della Formazione, per quelle di competenza della Direzione Generale delle Risorse Materiali, dei Beni e dei Servizi e per quelle di competenza della Direzione Generale per il Bilancio e la Contabilità. Al dottor Luigi Pagano sono state assegnate le deleghe per le materie di competenza della Direzione Generale Detenuti e Trattamento, per quelle di competenza della Direzione Generale dell’Esecuzione Penale Esterna, e per quelle di competenza dell’Istituto Superiore di Studi Penitenziari. Giustizia: Galera Spa… ovvero maggior tempo in galera = maggior profitto E-ilmensile, 29 marzo 2012 Il project financing applicato al sistema carcerario italiano. Un passaggio quasi marginale del Decreto Legge del 24 gennaio 2012, “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”, nello specifico, l’articolo 43. In sostanza, grazie a queste poche righe contenute nel decretone, il privato potrà entrare nella costruzione delle infrastrutture carcerarie, un primo passo verso la privatizzazione. Il pretesto è quello del sovraffollamento: c’è bisogno di nuove prigioni e il Pubblico non è in grado di agire con velocità. Ecco allora che i tecnici hanno deciso di far intervenire i privati, almeno in parte. L’idea è di costituire una sorta di consorzio di imprese che si accorpano in un unico soggetto, misto, che dovrebbe garantire la costruzione di nuovi penitenziari per poi gestirne i vari servizi, dalle mense alle lavanderie, dal parcheggio alla manutenzione dei vari impianti, oltre al personale interno. Non le guardie, però, soltanto gli amministrativi, gli educatori, gli psicologi e gli operatori sanitari. Gli addetti alla custodia no, quelli vengono assegnati esclusivamente alla polizia penitenziaria e ai Gruppi Operativi Mobili. Lo Stato, dal canto suo, si limiterebbe ad erogare soltanto un canone basato sul numero di ospiti nel penitenziario, in modo da coprire, nel tempo i costi di costruzione e gestione degli impianti. Certo, l’immagine di una privatizzazione totale del sistema carcerario appare ancora lontana, ma, altrettanto certamente, non può non inquietare la prospettiva di vedere un privato qualsiasi che si mette a gestire servizi importanti all’interno di una delle istituzioni più delicate di qualsiasi paese, il carcere, appunto. Senza contare l’aspetto inquietante del considerare i detenuti come merce da valorizzare, niente di più di una voce in bilancio di un’impresa carceraria. Alcuni, tra l’altro, fanno notare che nel Decreto non è menzionato, quindi non escluso, il lavoro coatto, già in uso, ad esempio, negli istituti di pena americani e inglesi. Insomma, il rischio è quello di trasformare le prigioni in delle fabbriche con manodopera inclusa, e a bassissimo costo, per giunta. La speranza, a questo punto, è soltanto che non passi l’equazione pericolosa del “maggior tempo in galera = maggior profitto”, con il rischio di andare poi a inquinare le sentenze o, peggio, farne una questione di carattere sindacale. Dal punto di vista strettamente politico, infine, non rimane che sottolineare che, tra tante proposte, idee e sparate, l’unico provvedimento preso finora sulle disastrose condizioni delle carceri italiane, riguarda la loro privatizzazione. Liguria: “Una mano amica… oltre le sbarre”, colletta di prodotti igienici per i detenuti Agi, 29 marzo 2012 Ci saranno anche alcuni detenuti tra le decine di volontari che sabato 31 marzo presiederanno alcuni dei principali supermercati Coop della Liguria al fine di raccogliere prodotti per l’igiene personale da donare ai circa 2.000 carcerati degli istituti penitenziari di Genova - Pontedecimo, Genova - Marassi, La Spezia, Savona, Imperia e Chiavari. È il progetto “Una mano amica... oltre le sbarre”, realizzato dal Csi Liguria, insieme ad Azione Cattolica, Focl - Federazione Operaia Cattolica Ligure, Caritas, Società di San Vincenzo, Veneranda Compagnia della Misericordia e Comunità di Sant’Egidio, con il duplice scopo di rispondere, seppur in maniera parziale, alle carenze igieniche nelle carceri sovraffollate. All’ingresso dei supermercati, verrà consegnato ai clienti un vademecum con indicati i prodotti necessari, da consegnare, poi, ai volontari. Si tratta sia di prodotti per l’igiene personale (dentifrici, spazzolini, bagno schiuma, shampoo per capelli, crema da barba, lamette usa e getta, saponette, carta igienica, fazzoletti di carta), sia di materiale in plastica (posate, piatti, bicchieri e tovaglioli), sia di prodotti detergenti (candeggina, spugne da cucina, sapone per i pavimenti e per i piatti, carta asciuga tutto, sapone solido per bucato). In cambio, verrà consegnato ai cittadini che aderiranno all’iniziativa un biglietto di auguri pasquali. Nei giorni immediatamente successivi alla raccolta, verranno realizzati dei ‘kit’ individuali che saranno consegnati ai detenuti, mentre gli altri prodotti saranno consegnati ai direttori delle carceri. Sappe: carceri sovraffollate e poco lavoro per i detenuti L’ennesimo tentativo di suicidio di un detenuto nelle carceri liguri, ieri pomeriggio a Genova Marassi, riporta drammaticamente alla ribalta la precarietà della situazione penitenziaria regionale. “Una realtà grave ed allarmante, che persiste nella diffusa indifferenza - della politica in primis” torna a denunciare Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Ci sono 1.824 detenuti (97 le donne, 1.727 gli uomini) stipati in celle idonee ad ospitarne regolarmente 1.088, dei quali 857 sono in attesa di un giudizio e 966 condannati. Ai quali si devono aggiungere i 150 detenuti usciti dal carcere per scontare la pena in detenzione domiciliare, in virtù della legge “Alfano” n. 199 del 2010, ed i 36 ammessi direttamente dalla libertà. Non solo: 845 sono le persone che, in Liguria, creano formalmente il carcere invisibile delle misure alternative e di sicurezza e di altre misure sostitutive della detenzione. A queste cifre che si commentano da sole, bisogna aggiungere le carenze organiche dei Reparti di Polizia Penitenziaria della Liguria: siamo in forza 891 e dovremmo essere 1.264: quasi 400 Baschi Azzurri in meno, e questo fa comprendere in quali condizioni difficili e stressanti, seppur con grande professionalità ed umanità, lavora la Polizia Penitenziaria nelle 7 Case circondariali liguri”. Martinelli, che sottolinea ancora un volta la considerevole percentuale di tossicodipendenti - “il 25% dei presenti” - e di stranieri detenuti - “circa il 60%”, denuncia una volta di più l’attuale situazione di apatia della pena detentiva: “Altro che rieducazione! Il fatto che i detenuti non siano impiegati in attività lavorative o comunque utili alla società (come i lavori di pubblica utilità) favorisce l’ozio in carcere e l’acuirsi delle tensioni. Ricordo a me stesso che, secondo le leggi ed il regolamento penitenziario, il lavoro è elemento cardine del trattamento penitenziario e “strumento privilegiato” diretto a rieducare il detenuto e a reinserirlo nella società. In realtà, su questo argomento c’è profonda ipocrisia. Tutti, politici in testa, sostengono che i detenuti devono lavorare: ma poi, di fatto, a lavorare nelle carceri oggi è una percentuale davvero irrisoria di detenuti: in Liguria lavorano circa in 300, il 17% dei presenti (quasi tutti in attività interne ai penitenziari, come “scopino”, lavandaio, inserviente alla cucina, “spesino” (colui che ritira gli ordini nelle celle): quelli iscritti ai corsi professionali, poi, sono meno di 50. È evidente che ciò alimenta una tensione detentiva nelle sovraffollate celle liguri fatta di risse, aggressioni, suicidi e tentativi suicidi che genera condizioni di lavoro dure, difficili e stressanti per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. E allora i detenuti devono lavorare tutti: per dare un senso alla pena, per creare una concreta azione di rieducazione, per contribuire infine alle spese sostenute dallo Stato per la loro detenzione”. Taranto: detenuta muore d’infarto, sindacato agenti chiede assicurare la sanità in carcere La Repubblica, 29 marzo 2012 Una donna di 46 anni, di origine campana, è morta nella notte, probabilmente per infarto, nel carcere di Taranto. Doveva scontare una pena per reati contro il patrimonio e la persona fino al 2015. Si trovava nella sezione femminile del carcere e a dare l’allarme è stato un agente di polizia penitenziaria, “che poco ha potuto fare altro - scrive il vice segretario generale del sindacato Osapp, Domenico Mastrulli - se non rimettersi alle valutazioni delle autorità sanitarie e penitenziarie. Tenendo presente - sottolinea - che a Taranto chi gestisce la sezione femminile nel turno serale e notturno sono al massimo due, spesso uno, agenti di polizia”. Il carcere di Taranto ha una capienza regolamentare di 315 detenuti di cui 24 donne, mentre effettivamente attualmente i detenuti rinchiusi sono 716, 37 dei quali sono donne. “Continua nelle carceri italiane e pugliesi - denuncia l’Osapp - la catena delle vite spezzate”. Il sindacato di Polizia chiede che venga rivisto il sistema della sanità nelle carceri, dopo “il fallimento dei vari protocolli bilaterali sottoscritti rivelatisi solo fini a se stessi”. Bologna: la direttrice Toccafondi; alla Dozza 1.030 detenuti e, su 509 agenti, 136 distaccati Dire, 29 marzo 2012 Il carcere della Dozza di Bologna continua a essere sovraffollato (ospita 1.030 detenuti) e subisce ancora il problema della carenza di organico degli agenti di Polizia penitenziaria. “Su 509 guardie assegnate, 136, un numero spropositato, sono distaccate, cioè lavorano altrove. Cosa che capita per questioni di servizio, di famiglia e, purtroppo, per raccomandazioni”. A dirlo, stamane, nel delineare un nuovo cahier de doleances ai consiglieri provinciali, è la n nuova direttrice della casa circondariale, Ione Toccafondi. “Certo se questi agenti avessero degli incentivi, magari resterebbero più volentieri - aggiunge - è ovvio che con lo stipendio che ricevono vivono meglio al sud, per esempio, dove la vita è meno cara”. I problemi della Dozza, però, non si fermano qui. Tanto per cominciare, dal ministero della Giustizia arrivano circa 13 euro al giorno a detenuto, mentre per mantenerne uno ce ne vogliono circa 150. L’anno scorso, seguita Toccafondi, è arrivata una raccolta della Coop per prodotti igienici e per l’igiene personale, altrimenti “sarebbe stato un problema”. E se stare dentro è molto complicato, anche il cammino oltre le sbarre è più che accidentato. Sul piano del reinserimento e della formazione, resta la questione del gran numero di persone in attesa di giudizio che quindi non può approfittarne (è il 65%), e pure il fatto che i condannati non riescono a lavorare quanto vorrebbero. “Lo farebbero in tanti perché si guadagna qualche soldo e anche perché si esce - aggiunge Toccafondi - ma abbiamo a disposizione solo cento posti lavoro, che ora usiamo a rotazione, cosa che ci crea un superlavoro nell’ufficio contabilità ma che almeno riesce a mettere in attività più carcerati”. La tipografia della Dozza, intanto, è chiusa da un anno e mezzo perché senza commesse e tutti i macchinari sono fermi e inutilizzati. Per la Garante dei diritti dei detenuti di Bologna, Elisabetta Laganà, il carcere “fa quello che può, ma bisognerebbe studiare un modo per creare un prodotto d’eccellenza che arriva dalla Dozza e che si possa vendere. Lo hanno fatto altre case circondariali, non capisco perché non si possa fare qui”. Su un’altra cosa garante e direttrice sono d’accordo: “Il carcere dovrebbe essere un luogo dove stanno i criminali veri - dice Toccafondi - ma abbiamo avuto un caso di un detenuto che è stato dentro sei mesi per aver rubato un salame al Conad. Sarebbe stato meglio punirlo facendolo lavorare un mese gratis nei magazzini del supermercato”. Stessa linea per Laganà: “Ci vorrebbero luoghi alternativi per espiare alcune pene, al di là del decreto Severino. E ci vorrebbe un patto per il reinserimento”. Insomma, dicono, alla fine, il carcere “diventa un contenitore per le marginalità, mentre i criminali veri non stanno dentro”. Passando alla questione sanitaria, la collaborazione con l’Ausl “sta migliorando dopo una iniziale criticità, perché ci siamo messi attorno a un tavolo per affrontare le problematiche”, spiega la direttrice. Di sicuro, “ci servirebbero più posti letto riservati negli ospedali. Ne abbiamo solo tre al Sant’Orsola e capita che abbiamo anche una decina di ricoverati sparsi nei vari ospedali con grande dispendio di personale”, visto che ci vogliono tre o quattro agenti di piantone per turno. Inoltre c’è un fenomeno in crescita. Da quando l’aeroporto di Bologna ha aperto a nuovi voli internazionali, ci sono tantissimi “ovulatori”. Cioè i corrieri della droga, che quando vengono presi sono portati direttamente in ospedale, dove restano una media di cinque-sei giorni. I consiglieri provinciali, a vario titolo, cercano di dare suggerimenti. I finiani Roberto Flaiani e Sergio Guidotti chiedono alle amministrazioni locali di inserire il carcere nel piano strategico (che parte proprio oggi all’Arena del sole). Per Guidotti, per esempio, avrebbe più senso avere un Tribunale attiguo alla casa circondariale, dato che “ci costerebbe di meno far spostare giudici e avvocati che i detenuti”. Per Mauro Sorbi (Udc) è uno scandalo che gli enti locali non abbiano dato commesse alla tipografia “con tutto quello che spendono in giornalini”. La commissione, nel frattempo, su richiesta della direttrice, ha deciso che prossimamente venga organizzata una seduta proprio dentro al carcere. Napoli: la sfida impossibile degli educatori nel carcere-lager di Secondigliano Il Cittadino, 29 marzo 2012 Bruno Boccuni si definisce ateo. Ma il suo impegno in favore dei carcerati di Secondigliano, uno dei penitenziari più “difficili” del Belpaese, nel quale entrano ed escono come in un tornello impazzito spacciatori, disperati e boss, è qualcosa di non molto diverso da una fede. La fede che muove gesuiti e altri sodalizi cattolici che con lui operano nella struttura (“non fosse per loro saremmo del tutto impotenti”, ammette Boccuni) e la fede laica, tutta sua, messa nell’impegno e nel lavoro a dispetto di fatiche, limiti, ostacoli burocratici e regole “sregolate”, ambienti ostili, ritorni in termini di soddisfazione inesistenti. Boccuni è uno dei 12 educatori cui sono affidate le cure e le speranze (nulle) di riabilitazione di circa 1.200 detenuti. Tanti quanti ne ospita un carcere costruito per accoglierne al massimo 600, con gli spazi per la rieducazione e il reintegro, dunque, pensati per quei 600 e perciò assolutamente inadeguati alla bisogna. Come insufficienti sono gli educatori: uno ogni cento detenuti, una goccia nel mare del bisogno. “Purtroppo - ammette con amarezza - possiamo fare ben poco e sicuramente non riusciamo ad agevolare il reinserimento sociale di quasi nessuno. Qui chi entra spacciatore esce spacciatore, anche perché fuori non ha altre possibilità. Inoltre il sistema premiante introdotto negli anni scorsi e che favorisce la buona condotta per accelerare l’uscita di prigione, di fatto non aiuta i detenuti con disagio, malati o tossicodipendenti, che non sono messi nelle condizioni di fruire di sconti. Se non si cambia politica carceraria e non si esce dall’ottica dell’emergenza non basteranno indulti o amnistie a risolvere i problemi”. Cagliari: Sdr; la “Carta dei diritti e doveri del detenuto” utile strumento contro gli abusi Agenparl, 29 marzo 2012 “La Carta dei diritti e doveri del detenuto e dell’internato può costituire un utile strumento contro gli abusi che regolamenti d’Istituto, spesso inspiegabilmente restrittivi, generano provocando disorientamento tra le persone private della libertà. Limita inoltre la discrezionalità, talvolta eccessiva, dei Direttori e dei Comandanti”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che ha sentito l’opinione di alcuni detenuti del carcere cagliaritano di Buoncammino sul decreto presidenziale che introduce nell’ordinamento penitenziario la “Carta”. “Il Ministro della Giustizia che conosce bene il sistema - sottolinea Caligaris - riconosce che è opportuno garantire un quadro di riferimento oggettivo rispetto a diritti e doveri. Molto spesso un cittadino privato della libertà vede modificate le proprie prerogative a seconda dell’Istituto di Pena in cui è ristretto. Ciò vale per il vestiario e per i pacchi che possono essere inviati dai familiari, ma soprattutto per quanto attiene l’igiene personale, l’alimentazione, i provvedimenti disciplinari. La Carta, tradotta in diverse lingue, agevolerà anche i familiari a cui sarà resa nota”. “I detenuti di Cagliari - evidenzia la presidente di SdR - hanno sottolineato la necessità di uniformare il più possibile le norme di convivenza interna alle carceri soprattutto quando, com’è accaduto in diverse occasioni i ristretti sono soggetti a continui trasferimenti. Nella struttura penitenziaria cagliaritana si trovano detenuti che hanno cambiato dieci/dodici strutture prima di approdare nel capoluogo sardo e in ciascuna hanno riscontrato regolamenti differenti incorrendo perfino in rapporti disciplinari”. “Interessante anche la prevista acquisizione del consenso, sin dal primo colloquio col direttore del carcere, sulla modalità di controllo elettronico a distanza. Il Ministro insomma sembra intenzionato a prendere in seria considerazione il braccialetto elettronico per i detenuti che possono beneficiare della detenzione domiciliare o di altre misure alternative. Se quest’ultimo provvedimento fosse attuato, si concretizzerebbe - conclude la presidente di Sdr - un significativo passo in avanti per ridurre la permanenza all’interno delle strutture penitenziarie”. Pordenone: Pedicini (Pdl); mantenere impegni presi per il nuovo carcere Agenparl, 29 marzo 2012 Voler trasferire il carcere di Pordenone a San Vito al Tagliamento oltre a essere un’operazione antieconomica e poco funzionale, sarebbe contraria a una ordinata organizzazione che deve prevedere le case di detenzione in prossimità dei tribunali. A rigettare totalmente tale possibilità è il consigliere regionale del Pdl Antonio Pedicini, che aggiunge: “Nell’ottica della razionalizzazione dei costi della pubblica amministrazione avviata dal centrodestra, sarebbe più opportuno chiudere la sezione distaccata di San Vito al Tagliamento del tribunale di Pordenone in quanto rappresenta un inutile spreco di denaro pubblico e di personale. “Chiedo al presidente Tondo di mantenere gli impegni già assunti con delibere formali sul penitenziari o di Pordenone, visto che l’ipotizzata accelerazione dei tempi è tutt’altro che certa e molto nebulosa. Bisognerebbe, inoltre, capire quale può essere l’interesse economico dei privati in un investimento di questo tipo. “Il carcere di Pordenone era una priorità di intervento da parte del ministero della Giustizia e senza dannosi arretramenti o titubanze è necessario che Comune, Provincia e Regione riconfermino gli impegni già presi”. Pisa: il carcere Don Bosco struttura fatiscente e inadeguata Il Tirreno, 29 marzo 2012 Dopo la fuga dei due detenuti avvenuta il 9 gennaio scorso, Maria Luisa Chincarini, consigliera regionale dell’Idv, torna a visitare il Don Bosco. “La situazione del carcere pisano - ha commentato la consigliera- così come quella del resto delle carceri toscane e italiane, è emergenziale. Nonostante la situazione sia leggermente migliorata con la riduzione dei detenuti (sotto il numero di 350), un incremento degli agenti (sono 18 in più) ed un nuovo direttore decisamente motivato, torno a denunciare la situazione drammatica della struttura. Una struttura fatiscente ed inadeguata che somiglia più ad una discarica umana di persone che ad un posto nel quale scontare la pena e poter avviare quel percorso di reinserimento fondamentale per tornare a vivere una volta usciti dal carcere. Ho trovato un’umanità dolente di persone gettate sulle proprie brandine e ritengo che ciò sia inaccettabile. Faccio un appello - ha concluso- a tutti gli Enti Pubblici affinché possano trovare finanziamenti per restituire un seppur minimo decoro alla sala colloqui della struttura pisana, una stanza angusta ed invivibile”. Trapani: il vecchio carcere chiuderà in aprile e non ci sono fondi per costruirne uno nuovo La Sicilia, 29 marzo 2012 Sarebbe già al visto della Corte dei Conti il decreto con cui il Ministero della Giustizia dispone la chiusura del carcere di piazza Castello. I battenti dell’antico maniero di epoca normanna (carcere dal 1818) dovrebbero essere già chiusi il prossimo 16 aprile. La notizia non è ancora ufficiale, ma quanto trapelato da Roma ha già messo in allarme soprattutto la classe forense. Sia la locale Camera penale, presieduta dall’avvocato Diego Tranchida, che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati, guidato da Gianfranco Zarzana, starebbero, infatti, preparando duri documenti di protesta. Una città sede di Tribunale e Procura non può, infatti, rimanere senza un carcere. Seppur con il rango di “casa circondariale”, ovvero luogo di detenzione temporanea, idoneo ad accogliere carcerati in attesa di giudizio o che al massimo devono scontare pene non superiori a 5 anni di reclusione. E nel quale vengono rinchiusi gli arrestati in attesa di convalida, entro 48 ore, del provvedimento restrittivo da parte della magistratura. Per quest’ultima esigenza, a giudizio dello Stato, attualmente votato al “taglio” della spesa pubblica, sono sufficienti le camere di sicurezza delle caserme delle forze dell’ordine. La chiusura del carcere di piazza Castello comporterà non pochi disagi sia per i familiari dei detenuti che per gli avvocati difensori. I reclusi (una quarantina) dovranno, infatti, essere trasferiti altrove e per i colloqui saranno necessarie lunghe trasferte. La notizia della chiusura, ormai pressoché certa, della struttura giunge a breve distanza da quella relativa alla cancellazione del finanziamento (40 milioni e 500 mila euro) per il nuovo carcere che doveva essere realizzato in contrada Scacciaiazzo. Una struttura che avrebbe potuto ospitare fino a 250 detenuti e per la quale l’ok al finanziamento, nell’ambito del piano carceri, era stato deciso, il 24 giugno 2010, dal Comitato di Sorveglianza composto dall’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano, da quello delle Infrastrutture, Altero Matteoli, e dal capo dipartimento della Protezione civile Guido Bertolaso. A metà settembre dello stesso anno, si era anche tenuto un vertice in Municipio, con sopralluogo a Scacciaiazzo dei tecnici del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria. Lo scorso 1 marzo, infine, il sindaco Renzo Carini, avendo avuto sentore del “taglio”, ha chiesto rassicurazioni e un incontro con il ministro della Giustizia Paola Severino. Frosinone: l’Assessore regionale Cangemi visita carcere, per un sopralluogo di verifica Adnkronos, 29 marzo 2012 Continua l’attività di monitoraggio delle carceri del Lazio da parte dell’Assessore regionale ai rapporti con gli enti locali e politiche per la sicurezza della Regione Lazio, Giuseppe Cangemi, per verificare le criticità e le esigenze delle diverse strutture della regione, ognuna con necessità specifiche. Questa mattina è stata la volta della casa circondariale di Frosinone. Accompagnato dal direttore della struttura, Luisa Pesante, e dal comandante della polizia penitenziaria, Rocco Elio Mare, l’assessore Cangemi ha visitato il carcere e si è intrattenuto con tutti gli agenti che gli hanno illustrato le problematiche dell’istituto: carenza di personale, sovraffollamento, strutture datate. “Abbiamo parlato della situazione del carcere di Frosinone - ha commentato l’assessore Cangemi - stanno per partire i lavori di ristrutturazione che abbiamo sovvenzionato con finanziamento regionale. Tutti gli agenti della polizia penitenziaria mi hanno dimostrato la loro vicinanza e la direttrice mi ha chiesto di portare i ringraziamenti personali alla presidente Polverini per l’impegno costante posto in essere, impegno tangibile, non certo di facciata, per il miglioramento della struttura carceraria: sia della caserma di polizia che degli alloggi dei detenuti”. “Approfitto dell’occasione - ha concluso Cangemi - per annunciare che domani, in conferenza stampa dal carcere di Rebibbia nuovo complesso, presenteremo i dati di bilancio dell’iniziativa Salute nelle carceri, progetto durato sei mesi e finalizzato alla prevenzione e cura sanitaria per i detenuti del Lazio”. L’assessore ha poi continuato la visita della casa circondariale, il campo sportivo dei detenuti e la serra che ha riportato danni in occasione dell’ingente nevicata del mese scorso, assicurando anche per il futuro il sostegno della Regione. Rossano Calabro (Cs): agente di polizia penitenziaria sul tetto del carcere per protesta Agi, 29 marzo 2012 Un agente di polizia penitenziaria è salito sul tetto del carcere di Rossano e vi è rimasto per qualche ora protestando contro l’amministrazione penitenziaria. L’episodio, che si è verificato ieri sera, e di cui danno notizia stamane Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Damiano Bellucci, segretario nazionale, ha attirato l’attenzione dei passanti, considerato che la struttura penitenziaria si trova a ridosso di una strada molto trafficata. Dopo una lunga mediazione l’agente ha deciso di scendere. L’uomo già in passato avrebbe attuato proteste eclatanti. “Pertanto - affermano i due sindacalisti - considerato che sono numerose le segnalazioni di disagio, rivolte al Sappe, da parte di diversi appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Rossano, chiediamo al Dipartimento e al Provveditorato regionale di attivare al più presto l’ufficio ispettivo, al fine di verificare la situazione esistente nel carcere rossanese, prima che la situazione possa degenerare ulteriormente”. Roma: arrestato a Valona latitante albanese evaso da Regina Coeli Italpress, 29 marzo 2012 Gli uomini della Squadra mobile di Roma, in collaborazione con l’Interpol italiana e la polizia albanese, hanno arrestato a Valona, in Albania, il latitante Altin Hoxha, evaso nel gennaio scorso dal carcere di Regina Coeli. L’uomo, conosciuto per la sua freddezza ed indicato dalle vittime delle efferate rapine come “l’uomo dagli occhi di ghiaccio” per il colore azzurro degli occhi, subito dopo l’evasione era stato avvistato più volte in Italia e sospettato di altri gravi reati. Le indagini condotte dalla Squadra Mobile di Roma in collaborazione con l’Interpol, hanno permesso di localizzare il latitante in un piccolo villaggio. Hoxha nel frattempo per far perdere definitivamente le proprie tracce aveva anche cambiato le proprie generalità. Nel primo pomeriggio di oggi lo hanno riconosciuto a Valona gli investigatori della polizia capitolina che da giorni erano sulle sue tracce. Al momento dell’arresto l’uomo, rivolgendosi agli uomini della Squadra Mobile ha commentato: “siete venuti fino a qui, io vi conosco”. Ascoli: "Coloriamo il carcere", writers in gara per decorare il Marino Ristretti Orizzonti, 29 marzo 2012 “Questo carcere avrebbe bisogno di un po’ di colore. Quel marroncino alle pareti deprime pure me. Tanti ragazzi disegnano sui muri della città. Se vogliono qualcosa su cui dipingere, le pareti gliele diamo noi, qui c’è un carcere intero da decorare”. Decolla con un concorso pubblico promosso dall’assessorato alle Politiche Giovanili della Provincia di Ascoli Piceno e dalla redazione di “Io e Caino”, l’idea del Comandante della Polizia Penitenziaria, Pio Mancini, di dare una “mano di colore” a corridoi e spazi comuni del Marino. Il progetto si propone di rendere più vivibile e gradevole l’interno dell’istituto coinvolgendo giovani writers e disegnatori di murales. L’iniziativa è stata presentata lunedì 26 marzo 2012 presso la sala Giunta della Provincia di Ascoli Piceno. Agli artisti che vinceranno il concorso sarà consegnato un premio in buoni acquisto e sarà data la possibilità di vivere un’esperienza che, di sicuro, non capita tutti i giorni: decorare le pareti di un carcere. Mentre i detenuti prenderanno parte sia alla selezione, votando i bozzetti insieme a una commissione di esperti nominata dalla Provincia, che alla decorazione, affiancando i disegnatori. Il tema del bando è: “Libertà”. La prima edizione del concorso, aperta ai giovani dai 18 ai 35 anni, è dedicata alla decorazione del lungo corridoio che conduce alle sale dedicate alla socialità. Terminato il corridoio si procederà con le sale comuni, che hanno pareti regolari. Fuori bando, ma inserito nel progetto come primo intervento, la “ristrutturazione” della sala colloqui che sarà decorata con scene di favole e cartoni animati per cercare di lasciare nei piccoli un ricordo meno traumatico delle visite al papà che sta in carcere. Info e bando: www.provincia.ap.it/polsoc. Facebook: “Coloriamo il carcere”. Teatro: vite in prigione, Celestini e l’ingiustizia… la battaglia di Ascanio La Repubblica, 29 marzo 2012 “Il mio personaggio s’è formato in una cella di quelle tipiche della condizione carceraria di oggi, più o meno di due metri per due, e però lui è un recluso che legge anche tre libri al giorno, volumi vecchiotti perché nel penitenziario ci sono solo quelli, e dovendo preparare il discorso da fare in tribunale ha finito per farsi un’esperienza soprattutto con pubblicazioni sull’epoca della Repubblica Romana del 1849 e dintorni”. Ascanio Celestini entra a gamba tesa nelle vite a scartamento limitato dei detenuti, ma nel suo monologo “Pro Patria, senza prigioni senza processi” con cui sarà in scena domani a Genova sposta i contenuti e il senso del suo linguaggio sociale verso il “coraggio di affacciarsi alla finestra” dei rivoluzionari italiani dell’Ottocento, costruisce di fatto un emozionante apologo risorgimentale, insomma gira un bel po’all’indietro la ruota della Storia per parlare di lotta armata e galera quando c’erano di mezzo le truppe papaline, quelle francesi, le torture, i tribunali ecclesiastici. Eppure è il Celestini di sempre, con quella sua affabulazione acuta e beffarda che non fa sconti, con una cultura dell’ingiustizia che non cambia mai connotati anche a distanza di un secolo e mezzo. “È che in gattabuia ci finiscono sempre i soliti, con un regime di libertà sotto chiave che è quasi sempre lo stesso di epoca in epoca. Qui i protagonisti sono un narratore, un immigrato africano e un secondino. E c’è una gran somiglianza tra l’esule straniero d’adesso e il prototipo dello schiavo liberato dagli antichi romani”. Resta interessante come Celestini in “Pro Patria” si renda portavoce di gente che va a morire perché cade in Teatro Modena Piazza Modena 3 Domani, ore 21 Prezzi: 20 e 18 euro un vuoto di diritto, in uno scontro a fuoco, in una battaglia per un ideale. “Cadono il 24enne Manara, il 22enne Dandolo, il 21enne Mameli, il 18enne Morosini, oltre alla 28enne Anita. E la cosa curiosaè che alcuni di quelli che non vanno al camposanto finiscono anni dopo per andare in parlamento, diventare ministri. Vedi Giovanni Nicotera, che prima era con Pisacane nella spedizione di Sapri”. E c’è un Mazzini muto e chissà quanto immaginario, in panni di sparring partner cui sono dirette le storie della Storia. E c’è una vestizione finale di Celestini che è rivelatoria di fatti e violenze di oggi: “Il pubblico deve sentire che si stanno evocando fatti eroici di ieri per poterli riconoscere tali e quali nella drammaticità di certi scenari che, pur in un mondo più evoluto, procurano ancora offese alla dignità umana”. Immigrazione: Cgil Modena; annullare Bossi-Fini, i Cie vanno superati Dire, 29 marzo 2012 “La vicenda degli apolidi Senad ed Andrea prima, e adesso quella di Said, il giovane marocchino portato al Cie poco prima che si sposasse e poi fatto rilasciare dal giudice di Pace, dimostrano quanto sia urgente liberarsi dagli effetti nefasti delle politiche securitarie del centrodestra e della Bossi-Fini”. Lo scrivono in una nota i lavoratori del centro stranieri della Cgil di Modena, commentando il recente rilascio dell’uomo di origini marocchine, rinchiuso nel Centro di identificazione ed espulsione (Cie) poco prima che si sposasse. A questo punto, secondo i lavoratori stranieri che fanno capo alla Cgil, è ora di smantellare la Legge Bossi-Fini, in quanto è “incapace di rispondere alle esigenze di un Paese profondamente trasformato nella sua struttura demografica e sociale”. In particolare, spiegano, “è urgente abolire il reato di clandestinità, con le norme connesse, che ha portato ad un inutile sovraffollamento delle carceri”. Infatti, “la commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, nel rapporto pubblicato in questi giorni sulla situazione delle carceri e dei detenuti in Italia, sottolinea il fenomeno del sovraffollamento”, ricordano. Ma soprattutto occorre “il superamento dei Cie, che da centri per il trattenimento ai fini dell’identificazione sono stati trasformati in vere e proprie carceri. Serve inoltre il varo di una nuova legge per promuovere l’ingresso regolare e l’integrazione”. Immigrazione: dal Cie di Trapani denunce di pestaggi e maltrattamenti Redattore Sociale, 29 marzo 2012 Ennesima fuga dal centro la scorsa notte. Accuse gravi nei confronti delle forze dell’ordine. “Seduti con la faccia a terra sul bagnato, acqua e shampoo rovesciati sui materassi”. La prefettura smentisce le violenze ma conferma il tentativo di fuga. Tensione altissima nel centro di identificazione e di espulsione di contrada Milo a Trapani, dove sono reclusi oltre 200 tunisini in attesa dell’identificazione e del rimpatrio. Ci sono continui tentativi di fuga. Ma per sedare gli animi e scoraggiare le fughe, ci sarebbero maltrattamenti, pestaggi e punizioni nei confronti dei reclusi da parte degli uomini delle forze dell’ordine presenti nel Centro, secondo quanto denunciato dai tunisini trattenuti nel centro a Redattore Sociale. “Questa notte alcuni degli ospiti sono fuggiti. Ma le forze dell’ordine stanno trattando tutti noi in maniera disumana, hanno picchiato tanti di noi, e hanno bagnato tutte le nostre brande con acqua, shampoo, sapone liquido e dentifricio” è il testo di un messaggio che abbiamo ricevuto sul cellulare nel cuore della notte. Al messaggio è seguita anche una telefonata con le stesse gravi denunce. “Ieri sera verso le dieci e venti, delle persone sono fuggite come l’altra volta, sono scappati in 15 o 16 - affermano le nostre fonti - Abbiamo sentito un urlo del settore di fianco, poi come un virus è passata negli altri settori questa cosa di scappare, ma in un settore ci sono una decina di persone che vogliono scappare, gli altri non vogliono. Le forze dell’ordine sanno bene cosa succede perché ci sono le telecamere di sorveglianza. Quando i poliziotti entrano nei settori, ci sono persone malate che non hanno la forza di scappare e altre che non scappano proprio, però loro entrano e massacrano tutti, picchiano ma picchiano veramente. Verso mezzanotte è entrata la polizia nel nostro settore. Siamo stati costretti a stare tutti seduti faccia a terra nella terra bagnata dagli idranti, fino alle quattro di mattina. Da tanti anni Italia non abbiamo mai visto una notte come quella di ieri”. Il racconto della notte di terrore continua così: “È giusto che fanno le perquisizioni, però hanno buttato l’acqua delle bottiglie che teniamo in camera sopra la branda e poi lo shampoo, il bagnoschiuma, i dentifrici. Hanno strappato le lettere e le hanno bagnate con l’acqua, ci hanno rotto le penne e le schede telefoniche, una cosa disumana. Se alzi la testa ti picchiano, se dici “mi fa male” ti picchiano con i manganelli, è una cosa che neanche la guerra. Hanno bloccato alcune decine di giovani di quelli che avevano tentato la fuga, li hanno messi seduti e li hanno insultati e picchiati. C’è una persona che ha il sopracciglio aperto per una ferita e tutti e due gli occhi gonfi. Quando sono entrati nella stanza abbiamo passato una sciagura come l’11 settembre. È durato da mezzanotte alle quattro. Poi sono passati all’altro settore e alle sei ho sentito che ancora picchiavano. Loro sanno bene che non c’entrano tutti con le fughe, possiamo capire che chi ha fatto un danno debba essere punito ma facendo così agli altri stanno dicendo ‘perché non sei scappato anche tu?” I tafferugli per la tentata fuga sarebbero dunque degenerati, secondo le accuse mosse dai trattenuti nel Cie. “Tu non finisci di dire scusa che ti prendono con i manganelli e dicono “zitto, questa è casa mia” - raccontano - è giusto che chi sta fuori deve sapere cosa succede qui dentro”. La prefettura di Trapani smentisce i pestaggi e che sia stato impedito agli ospiti di dormire bagnando i materassi. Nei giorni scorsi alcuni rappresentanti della prefettura sono andati a verificare di persona la situazione nel centro insieme ai responsabili della questura ma non hanno ricevuto denunce di maltrattamenti. La prefettura conferma a Redattore Sociale che stanotte c’è stato un altro tentativo di fuga. Se un tempo il Cie a rischio di fughe era il Vulpitta, oggi è quello di Milo dove sono reclusi da mesi ex detenuti che hanno scontato la pena in carcere e quindi vorrebbero essere rilasciati, oltre a tunisini provenienti da altri Cie d’Italia. La notte scorsa alcuni trattenuti sono riusciti a fuggire, altri sono stati presi dalla polizia e riportati indietro. In queste fughe notturne sono frequenti dei tafferugli. Droghe: metà detenuti in carcere per legge stupefacenti… domande al ministro Riccardi di Franco Corleone Il Manifesto, 29 marzo 2012 La fine ingloriosa del governo Berlusconi aveva travolto anche Carlo Giovanardi, responsabile della legge antidroga approvata nel 2006 con un decreto legge in odore di incostituzionalità e alfiere della guerra alla droga “senza se e senza ma”. In questi sei anni di applicazione della legge, le conseguenze sulla giustizia e sul sovraffollamento delle carceri sono state terribili. Proprio per questo nessun rimpianto aveva accompagnato l’uscita di scena dello zar antidroga. Il silenzio è durato alcuni mesi, ma con la primavera Giovanardi ha emesso un cinguettio. Insieme al sodale Gasparri ha convocato, come responsabile del settore per il “Popolo delia libertà”, le comunità terapeutiche per fare il punto sulla lotta alle tossicodipendenze. Era presente anche il capo del Dipartimento nazionale antidroga, Giovanni Serpelloni che ha voluto confermare così la sua fedeltà al precedente governo. Qualche perplessità desta la presenza ad un’iniziativa di partito di chi si vanta di essere un tecnico “indipendente”. Ma c’è di peggio. Da una notizia Ansa del 21 marzo si apprende che Giovanardi aveva invitato il ministro Riccardi, che ha ora la delega del delicato settore della droga. Non avendo potuto partecipare, il ministro ha mandato il capo del Dipartimento “il quale ha fatto un quadro della situazione, spiegando che la linea del nuovo Governo non cambia rispetto a quello precedente, sia riguardo al rapporto tra l’Italia e i referenti stranieri come le Nazioni Unite, sia a livello nazionale. Su prevenzione, recupero e riabilitazione l’attività del Dipartimento continua sulla linea di prima, così come sul carcere e le misure alternative”. Non stupisce l’arroganza di queste affermazioni da parte di chi ha sempre attribuito alle regioni e alla magistratura di sorveglianza (invece che alla legge iniqua) la responsabilità dello stato in cui versano le carceri affollate di tossicodipendenti e di consumatori. Il fatto che anche nel 2011 la metà degli arrestati e dei detenuti sia in prigione per la violazione della legge antidroga e per reati connessi alla tossicodipendenza continua ad essere taciuto con impudenza intollerabile. Oggi però il vero problema è di sapere ciò che pensa il ministro Riccardi. Il ministro deve chiarire se le parole di Serpelloni sono frutto di millantato credito oppure riflettono il pensiero del governo. Il 21 dicembre scorso, questa rubrica ospitava una lettera aperta a Riccardi (firmata da me e dal presidente di Antigone), per richiamare la sua attenzione sull’emergenza carcere e droga. La lettera non ha avuto risposta. Ora, a seguito della performance della coppia Giovanardi-Serpelloni, il Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza ha manifestato profondo sconcerto. Riteniamo che occorra una netta discontinuità con chi in sede nazionale e internazionale ha messo in discussione la politica di riduzione del danno, ha creato tensioni con il terzo settore, con le regioni e con la maggior parte delle comunità terapeutiche; con chi si oppone alle necessarie modifiche della legge criminogena che ha parificato tutte le sostanze inasprendo le pene e le sanzioni amministrative. Ora è giunto il tempo delle scelte e della responsabilità: dobbiamo sapere se l’esecutivo tecnico segue pedissequamente le orme del governo Berlusconi oppure no. Mondo: pena di morte, solo un Paese su 10 la usa ancora di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 marzo 2012 Afghanistan, Arabia Saudita, Bangladesh, Bielorussia, Cina, Corea del Nord, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Malesia, Siria, Somalia, Striscia di Gaza, Stati Uniti d’America, Sud Sudan, Sudan, Taiwan, Vietnam, Yemen. Benvenuti al club degli Amici della forca. Ha perso molti iscritti, un centinaio nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Ogni tanto, qualcuno dei vecchi soci torna a far visita ma da tempo non registra più nuove iscrizioni. È destinato a chiudere, prima o poi, per mancanza d’iscritti, e a depositare i suoi arredi e i suoi orridi stucchi nella cantina della storia. I luoghi del mondo dove l’anno scorso vi sono state esecuzioni capitali, secondo il Rapporto annuale di Amnesty International sulla pena di morte nel 2011, sono 20, oltre un terzo in meno rispetto a 10 anni fa. Visto dall’altra parte, l’anno scorso il 90 per cento degli stati membri delle Nazioni Unite non ha eseguito condanne a morte e, di questi, 141 paesi hanno abolito la pena di morte per legge o perseguono una consolidata prassi abolizionista: il più recente, e primo del 2012, è stato la Lettonia. Grazie alla determinazione delle attiviste e degli attivisti per i diritti umani, al coraggio di leader politici che prendono decisioni che possono sembrare impopolari, all’onestà di avvocati e giornalisti che raccontano i fatti e, soprattutto, alla forza morale di un sempre maggior numero di familiari la cui vita è stata devastata dalla criminalità e che pretendono giustizia, sì, ma non predicano l’occhio per occhio dente per dente, la pena di morte è in ritirata. Le politiche secondo cui è necessario uccidere chi ha ucciso per dimostrare che non si deve uccidere si svuotano ovunque di significato, restando patrimonio di una visione della giustizia basata sulla vendetta e sulla ritorsione. Per non parlare di quei sistemi giuridici che tolgono la vita ad adulteri e omosessuali (Iran), ai blasfemi (Pakistan) o a chi predice il futuro (Arabia Saudita). In quel 10 per cento di mondo dove si decapita, si fucila, s’avvelena e s’impicca, nel 2011 il boia ha agito 676 volte, 149 in più dell’anno precedente, a causa di un profondo aumento delle esecuzioni in due paesi: Arabia Saudita e Iran. In quest’ultimo paese, sono stati impiccati almeno tre minorenni. A quel numero, 676, frutto dei dati pubblici monitorati da Amnesty International, potrebbe mancare uno zero alla fine: quello delle svariate decine di esecuzioni segrete avvenute in Iran e, soprattutto, quello delle migliaia di condanne a morte eseguite in Cina. Amnesty International ha cessato, da alcuni anni, di fornire dati basati su fonti pubbliche cinesi, poiché è probabile che sottostimino enormemente il numero effettivo delle esecuzioni. Anche nel rapporto odierno, l’organizzazione per i diritti umani chiede al governo della Cina di pubblicare i dati relativi alle condanne a morte e alle esecuzioni, per poter accertare se sia proprio vero che una serie di modifiche alle leggi e alle procedure, così come la cancellazione di 13 reati capitali, abbiano ridotto significativamente, negli ultimi quattro anni, l’uso della pena di morte. Gli errori e gli orrori che caratterizzano i procedimenti giudiziari relativi alla pena capitale (confessioni estorte con la tortura, processi senza avvocato difensore, giurie razziste, familiari non avvisati, impiccagioni e decapitazioni sulla pubblica piazza, comuni cittadini che prendono parte all’esecuzione), sono descritti nel rapporto pubblicato questa mattina da Amnesty International. Qui, voglio mettere in evidenza altre cose successe nel 2011: in 33 paesi vi sono stati provvedimenti di grazia o commutazioni nei confronti dei condannati a morte; Benin e Mongolia hanno fatto un passo avanti per aggiungersi ai paesi abolizionisti per legge; Sierra Leone e Nigeria hanno rispettivamente dichiarato e confermato la moratoria sulle esecuzioni; non ci sono state esecuzioni a Singapore e in Giappone (in questo paese, è stata la prima volta dopo 19 anni). Negli Stati Uniti d’America, l’unico paese del continente americano a eseguire sentenze capitali (43 nel 2011, ma erano state 71 nel 2002), l’Illinois è diventato il 16° stato abolizionista della federazione e l’Oregon ha annunciato una moratoria. La sconvolgente vicenda di Troy Davis, l’ennesimo prigioniero messo a morte nonostante vi fossero dubbi sulla sua colpevolezza, ha rilanciato il dibattito e ha seminato ulteriori dubbi nell’opinione pubblica e nei giudici: le nuove condanne a morte emesse l’anno scorso sono state 78, un quarto rispetto agli anni Novanta. Per chi si batte per l’abolizione della pena di morte, un’esecuzione in più è sempre un’esecuzione di troppo. I movimenti abolizionisti, quelli internazionali così come quelli regionali e locali, sanno che ci sono almeno 18.750 prigionieri in attesa d’esecuzione nel mondo. Il paradosso è che molti di loro non verranno messi a morte, condannati in base a una pena che, nei loro paesi, per prassi non viene ormai più usata. Intanto, a due passi da qui, le madri di Uladzslau Kavalyou e Dzmitry Kanavalau aspettano i corpi dei loro figli, abbattuti con un colpo di pistola alla nuca a metà marzo, per poter celebrare il funerale. È accaduto nel cuore dell’Europa, in Bielorussia. In Cina migliaia di condanne a morte È ancora la Cina, dove la condanna capitale è applicabile a 55 reati, a detenere il primato di detenuti nel braccio della morte. Non solo, lo scorso anno nel gigante asiatico sono state giustiziate più persone che nel resto del mondo: migliaia, secondo Amnesty International, anche se i dati reali sulle condanne a morte continuano a rimanere segreti. Nel suo rapporto annuale sulle esecuzioni, l’ong ha scelto di non rilasciare numeri sui boia in Cina: “Non ha senso, Pechino mantiene un alone di segretezza sulla pena di morte e le cifre ufficiali elaborate dal governo sono di gran lunga sottostimate”, spiega Salil Shetty, segretario generale dell’associazione. Per Amnesty, il 10 % dei Paesi del mondo, 20 su 198, ha eseguito condanne a morte l’anno scorso: sentenze capitali sono state emesse o eseguite per reati come adulterio e sodomia in Iran, blasfemia in Pakistan, stregoneria in Arabia Saudita e, in più di dieci Paesi, per reati di droga. Ma, secondo Amnesty, nessun Paese può competere con Pechino anche se alcuni reati finanziari sono stati recentemente esclusi dalla pena di morte: per l’organizzazione, sono i tribunali cinesi i primi ad agire in modo non corretto. In Cina, infatti, l’accusato è colpevole fino a prova contraria, così? deve dimostrare di essere innocente, impresa non facile se si considera che la polizia spesso estorce confessioni sotto tortura. “Il tasso di condanne è del 100 %”, riferisce Shetty sottolineando come i tribunali siano inoltre soggetti alle interferenze politiche del Partito comunista. Provata l’innocenza, non è detto che l’incubo sia finito: tre uomini, dice Amnesty, sono stati prosciolti dalle accuse il 12 novembre 2009 dopo che i loro casi erano stati esaminati dall’Alta corte popolare provinciale di Hebei ma sono rimasti in carcere per altri due anni”. Giappone: eseguite tre impiccagioni, le prime dal 2010 Corriere della Sera, 29 marzo 2012 Il Giappone ha eseguito la condanna a morte di 3 detenuti, quasi due anni dopo le ultime esecuzioni capitali realizzate nel luglio 2010. I tre, tutti impiccati in tre differenti prigioni, erano stati riconosciuti colpevoli di vari assassinii. Appoggiata, secondo il governo, da oltre l’80 per cento della popolazione, la pena capitale in Giappone è sempre accompagnata da grandi polemiche. Il Paese nipponico, che insieme agli Usa è l’unica nazione industrializzata e democratica ad applicare ancora la pena di morte, giustizia sulla forca i condannati, quasi sempre in gran segreto, senza dare alcun preavviso ai condannati o ai loro famigliari e senza testimoni. La decisione del ministero della Giustizia ha provocato anche questa volta la reazione di gruppi a tutela dei diritti umani, come Amnesty International, che ha anche ha puntato l’indice sulle durissime condizioni in cui vengono tenuti i detenuti in attesa del giudizio. I prigionieri ricevono infatti pochissime visite, e sono costretti a trascorrere la gran parte del tempo seduti nelle proprie celle. Secondo il ministero della Giustizia, attualmente in Giappone ci sono 132 persone in attesa della sentenza capitale, tra cui anche Shoko Asahara, l’uomo che organizzò l’attentato con il gas sarin nella metropolitana di Tokyo nel 1995. La scelta del Giappone di tornare a utilizzare la pena capitale è decisamente in controtendenza rispetto all’evoluzione mondiale che vede diminuire i luoghi del mondo dove si praticano le esecuzioni capitali. Secondo il Rapporto annuale di Amnesty International infatti nel 2011, sono 20 i Paesi nei quali è prevista, oltre un terzo in meno rispetto a 10 anni fa. Inoltre l’anno scorso il 90 per cento degli stati membri delle Nazioni Unite non ha eseguito condanne a morte e, di questi, 141 paesi hanno abolito la pena di morte per legge o perseguono una consolidata prassi abolizionista: il più recente, e primo del 2012, è stato la Lettonia. Stati Uniti: miss America e la battaglia per gli “orfani di carcere” di Gabriella Meroni Vita, 29 marzo 2012 Laura Kaeppeler diventa l’eroina della battaglia per i diritti dei bambini sottratti ai genitori detenuti. Quando Laura Kaeppeler aveva 14 anni, suo padre venne condannato a 18 mesi di reclusione per truffa. Traumatizzata da quell’esperienza terribile, quando è stata incoronata Miss America nel mese di gennaio di quest’anno, ha annunciato che piuttosto che difendere una causa nebulosa come la pace nel mondo, si sarebbe concentrata su quello che è diventato un problema molto americano: il crescente numero di bambini che perdono un genitore detenuto. Negli ultimi 30 anni negli Usa la corsa a incarcerare le persone per tempi incredibilmente lunghi anche per reati minori ha portato a un’esplosione della popolazione carceraria. E visto che la maggior parte dei detenuti sono anche genitori, la popolazione di bambini con un padre o una madre in carcere è esplosa a sua volta. Dal 1990 a oggi, il numero di bambini con un genitore in carcere è aumentato complessivamente dell’82%, e il numero di madri detenute è aumentato a quasi il doppio del tasso dei padri. Oggi circa 10 milioni di bambini americani hanno avuto un genitore in carcere, in libertà vigilata o sottoposto a qualche tipo di controllo. E, come sempre accade quando si parla della popolazione carceraria, c’è una preoccupante disparità razziale; un bambino nero su 15 ha un genitore in carcere, rispetto a un bianco su 111. Come Miss America, questi bambini sono spesso profondamente traumatizzati da questa esperienza. Il loro rendimento scolastico ne soffre, possono diventare emotivamente fragili o comportarsi in modo aggressivo. Le conseguenze negative si aggravano se non sono in grado di mantenere un contatto significativo con il genitore che amano mentre lui o lei è in carcere, tanto più se, come spesso accade, i rapporti con quel genitore si interrompono in modo permanente. Mantenere il contatto con un genitore in carcere è una sfida, a dir poco, e non certamente una priorità per le autorità statali o federali; prova ne sia che più della metà dei detenuti americani sono rinchiusi in carceri lontane tra le 100 e le 500 miglia dalle loro case, e alcuni oltre le 500 miglia, cosa che rende le visite quasi impossibili alle famiglie. Il fattore distanza da solo spiega perché, a partire dal 2004, il 58,5% dei detenuti nelle carceri dello Stato e 44,7% dei detenuti in carceri federali non hanno mai ricevuto una visita dai loro figli. Se un bambino in Philadelphia, per esempio, vuole andare a trovare la madre detenuta nell’unico carcere femminile dello Stato, che è a otto ore di macchina dalla città, deve prendere un bus speciale all’una di notte per essere al carcere nell’orario di visita. Ma le visite sono di cruciale importanza per i bambini, così come per i genitori in carcere. Anche considerando il fatto che in base alla legge americana uno degli esiti tragici della carcerazione, anche breve, è la perdita della potestà genitoriale. Nel 1997, il Congresso approvò la legge Adoption and Safe Families Act (Asfa), in base alla quale un genitore perde la tutela del figlio se quest’ultimo è rimasto in affidamento fuori dalla famiglia per 15 mesi su 22. Quindi, se una madre riceve una condanna a 36 mesi di carcere per reati di droga, è a rischio di perdere la potestà sui figli. E una volta persa, non è più recuperabile. Negli Stati Uniti molte associazioni di diritti civili stanno cercano di ottenere la modifica della legge Asfa in modo che la carcerazione di per sé non sia un motivo valido per perdere i propri figli, e anche per avvicinare i detenuti alle loro case, soprattutto se hanno figli. Provvedimenti che possono servire, certo. Ma se non si smetterà di considerare il carcere duro come unico rimedio al crimine, e non si colpiranno duramente e alla radice le cause del crimine, tragedie come quelle vissute da Miss America non vedranno presto la fine. Russia: uccidono detenuto soffocandolo, arrestati 4 agenti Ansa, 29 marzo 2012 Avrebbero costretto un detenuto a indossare una maschera antigas e lo avrebbero ucciso soffocandolo ostruendo il tubo da cui passa l’aria. È con questa accusa che quattro poliziotti russi sono stati arrestati oggi a Novokuznetsk, nella Siberia sudoccidentale. Secondo le associazioni attive nella difesa dei diritti umani, quella che avrebbero utilizzato i quattro poliziotti è una tecnica di tortura usata spesso dagli agenti russi per far confessare le persone arrestate.