Giustizia: 2.121 condanne all’Italia per violazione dei diritti umani, peggio solo la Turchia di Rita Bernardini (Deputato Pd-Radicali) Social News, 25 marzo 2012 Non scriverò di carceri italiane. L’orrore di quei luoghi, nei quali vengono costantemente violati diritti umani fondamentali universalmente acquisiti, è, infatti, il risultato di una “Giustizia” ridotta alla bancarotta, di una “Democrazia” che non può più definirsi tale. Esagero? Esagerano Marco Pannella e i radicali? Propongono un’amnistia propedeutica ad una riforma strutturale della giustizia per far rientrare - subito! - il nostro Paese nella legalità costituzionale italiana, europea, onusiana. Questo obiettivo è rimandabile o è, invece, improcrastinabile ed obbligato? Stiamo ai fatti. Dal 1959 al 2010, la Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu) ha condannato l’Italia 2.121 volte per violazione della Convenzione. Il nostro Paese si è così classificato al secondo posto, dietro solo alla Turchia (2.573 violazioni) e prima di Russia (1.079) e Polonia (874). Secondo, dunque, su 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. Se, però, consideriamo i giudizi per l’irragionevole durata dei processi, ecco che l’Italia balza al primo posto, con 1.139 violazioni. Seguono Turchia, con 440 condanne, Polonia, 397 e Grecia, 353. Questi “record”, queste “medaglie” tutte italiane, annientano la nostra credibilità in Europa e nel mondo, riducendo il nostro Paese ad un osservato speciale il quale, nel corso dei decenni, non ha dimostrato il minimo segnale di ravvedimento o di impercettibile miglioramento, di controtendenza. Siamo recidivi, delinquenti abituali, come vengono definiti nel nostro diritto penale coloro i quali sono abitualmente dediti al delitto. Fin dall’inizio degli anni ‘80, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha constatato numerose violazioni dell’articolo 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, a causa dell’eccessiva durata delle procedure giudiziarie. Negli anni 90, lo stesso Comitato dei Ministri rilevava come le decisioni della Cedu evidenziassero “seri problemi strutturali nel funzionamento del sistema giudiziario italiano” ritenendo le autorità nazionali “interamente e direttamente responsabili” per “le violazioni della Convenzione risultanti da ritardi eccessivi nell’amministrazione della giustizia”. Nel 1997, l’Italia ha ricevuto un pesante ammonimento perché “i ritardi eccessivi nell’amministrazione della giustizia costituiscono un importante pericolo, in particolare per il rispetto dello Stato di diritto”. Neanche questo avvertimento ha sortito cambiamenti significativi, tanto che, dal 2000, il Comitato dei Ministri ha richiesto alle autorità italiane, “vista la gravità e la persistenza di questo problema”, di imprimere “alta priorità alla riforma del sistema giudiziario italiano”. Saltando i successivi, costanti, richiami dell’arbitro “Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa”, arriviamo al 2009, anno in cui il Comitato, ravvisando ancora una volta un arretrato considerevole nei processi civili e penali, arriva ad affermare che “una soluzione definitiva al problema strutturale della durata delle procedure deve essere trovata”. Sottolineo quel “deve”: a tutt’oggi, non viene minimamente preso in considerazione dalle istituzioni italiane. Da squalifica, infine, il suono del fischietto arbitrale nel 2010, quando il Comitato definisce “grave il pericolo per lo Stato di diritto” che si materializza nella “negazione dei diritti sanciti dalla Convenzione”. Mentre commentatori, editorialisti e partitocrati si accapigliano e gridano allo scandalo per la prescrizione del processo Mills, nel quale era imputato l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nessuno-ma-proprio-nessuno di lor signori si è mai scandalizzato per le sopracitate squalifiche in campo europeo del nostro Paese. Nessuno-ma-proprio-nessuno di lor signori ha mai levato una voce sull’amnistia strisciante e perniciosa delle oltre 150.000 prescrizioni annuali di procedimenti penali, oltre due milioni dal 1996 al 2008! Nessuno-ma-proprio-nessuno di lor signori ha mai rinfacciato ai Berlusconi ed ai D’Alema di non aver mai mosso un dito per riformare la giustizia a favore dei cittadini e far rientrare il nostro Paese nella legalità. Tutti-ma-proprio-tutti lor signori si adoperano, invece, a bollare costantemente l’amnistia prevista dall’articolo 79 della Costituzione come una resa dello Stato. Lor signori sono i puri, quelli che - se non sono in malafede - dimostrano tutta la loro incapacità di governare una situazione che fa pagare un prezzo altissimo ai cittadini, vittime di una demagogia che ha il suo miglior alleato nella negazione totale del diritto civile alla conoscenza, all’informazione, al contraddittorio fra opinioni diverse. Isolato e bandito, Marco Pannella continua ad affermare da una vita che, dove c’è strage di legalità, prima o poi c’è strage di popoli. È inutile fare gli scongiuri di fronte a questo ammonimento se la banalità del male è già dentro di noi e devasta i nostri cuori e le nostre menti, rendendoci incapaci di comprendere, e quindi di cambiare, ciò che accade o rischia di accadere. Giustizia: per la crisi penitenziaria in Italia serve un “progetto di cura” di Enrico Sbriglia (Segretario Nazionale del Si.Di.Pe.) Social News, 25 marzo 2012 Non c’è, evidentemente, un solo rimedio, ma un progetto di cura sì, e le misure vanno assunte assieme, rappresentando diversi galenici di politica socio-criminale. Eppure si può uscire dalla crisi del sistema penitenziario attuale, purché lo si voglia per davvero. In che modo? Con l’intransigenza. No, non spaventatevi, non è mia intenzione invocare o suggerire leggi più dure, di quelle ne abbiamo abbastanza nei codici. Dovremmo, piuttosto, aprire il forziere delle pene e buttar via i vecchi abiti che non utilizziamo più o che, pur quando li volessimo ancora indossare, ci farebbero apparire ridicoli o burleschi, se non stupidi. Riordinare le cose, alleggerirle, sforzarci di immaginare chi siano i destinatari dei precetti e finanche delle sanzioni. Tutto qui? Potreste dirmi: “Ma è stato sempre così. Da quale bizzarra Università provieni per dirci queste cose?”. Lo so, non sono un dotto teorico del diritto, né, tanto meno, somministro la giustizia a piccole o grandi dosi da sballo. Perdonatemi, cercherò di spiegarmi meglio. Da qualche tempo ho cominciato a credere che le leggi non siano solo per le masse, ma, anzitutto, per le elite, purché non le chiamiate “responsabili”, sostanzialmente per quanti ci governino. Si, i primi destinatari sono proprio loro, quanti rappresentano lo Stato con tutti i suoi altisonanti organi e, via via, fino all’amministratore di condominio. Facile, no?! Ebbene, se quel che provo a dire ha un minimo di logica, conseguenza vuole che lo Stato debba essere il primo osservante delle sue norme. Questa è la prima regola del risiko della vita, sia dei cittadini, sia degli Stati, “costi quel che costi” (in questo momento, immagino di trovarmi ancora al cospetto di Edward Three-mounts - lo sfortunato “mani di forbici” del Ministero dell’Economia). Uno Stato, infatti, che non voglia autocommiserarsi, uno Stato che pretenda il rispetto dei suoi cittadini, uno Stato che voglia additare i colpevoli, piegandoli al tormento delle pene, non potrebbe tollerare le carceri che noi operatori penitenziari siamo costretti a vedere, non potrebbe consentire ciò che il sistema avvitato della giustizia italiana alimenta e produce come insicurezza. Ho già detto tanto, fin troppo, sullo stato delle carceri, sulle loro condizioni penose e di come ciò non incida solo sulle persone detenute, ma sugli stessi operatori penitenziari, costretti man mano a spegnere la luce della coscienza, costretti, giorno dopo giorno, ad infettarsi di malbianco, di quella cecità che Jose Saramago racconta accaduta in un Paese che potrebbe essere il nostro: tutti, divenuti ciechi, non solo non vedono più l’altro, ma, addirittura, abusano a vicenda dei più deboli e sfortunati. Una mano pietosa ricopre con una pennellata di bianco gli occhi dei santi e dei cristi di una chiesa, affinché essi non debbano vedere quel che i ciechi, pur non vedendo, combinano in nefandezze, in disumanità. Quali rimedi, quindi? Eccoli, con gli occhi del visionario che sono, con l’avvertenza, però, che la malattia delle carceri rappresenta la febbre di quella ancor più grave, ma cronica, della giustizia: le carceri, in sostanza, sono diventate la malattia opportunista che ti uccide quando sei ammalato di Aids. Non c’è, evidentemente, un solo rimedio, ma un progetto di cura sì, e le misure vanno assunte assieme, rappresentando diversi galenici di politica socio-criminale. Anzitutto, e con lo stato d’animo del perdente, occorre pensare, per davvero seriamente, ad un’amnistia: essa rappresenterà una sorta di diluvio universale che trascina tutto e tutti, ma che monda allo stesso tempo. È il diluvio che scaraventa per terra e nel vento la putredine di montagne di fascicoli processuali che affogano i nostri tribunali, e che consentono, alle mani furbe ed adunche degli scaltri, di scegliere le storie che interessano, perché si rinnovino nella memoria collettiva, mentre tante altre si prescrivono per stanchezza e disinteresse. L’amnistia è il bello dell’iniziare daccapo, con la promessa solenne di non farlo mai più, e non mi riferisco, ovviamente, al criminale certificato, meglio se straniero, se questo è tale, ci riproverà, ma a quelli che sono i farisei dei riti sacri processuali. È il modo di liberare risorse, risorse sonanti, tin tin, come quando cadono le monete per terra: che il processo da farsi sia per il furto di una scatoletta di sgombro o di una Bmw luccicante, il rito è praticamente lo stesso. Devi ugualmente pagare un notificatore, un cancelliere, un magistrato, un carabiniere, un poliziotto penitenziario, un avvocato, luce, acqua e gas, la pulizia dell’aula del tribunale, il mantenimento in carcere, il costo degli allarmi, delle armi, lo stipendio del direttore, dell’assistente sociale, del medico, dell’impiegato, degli straordinari...: lo sgombro, anche ove fosse pieno di mercurio, costa davvero tanto! Un’amnistia significherebbe, a seconda di come la si volesse graduare, non solo azzerare i ruoli di tantissimi processi, sgombrando le aule di giustizia di un’umanità improvvisamente libera, ma anche fare uscire dalle indecenti carceri italiane alcune decine di migliaia di signori-nessuno, spesso proletariato del proletariato, spesso gente i cui vernacoli sono quelli del mondo, sfruttati dai caporali padani e pugliesi quando sono solo “irregolari”, dalle nostre criminalità indigene quando sono “clandestini delinquenti”. Ma l’amnistia non basta, occorre dell’altro. Occorre fare il lifting al nostro codice penale, occorre “dimagrirlo”. Si sa che grasso non è bello, lo sanno in particolar modo gli amici Radicali. Per questo fanno gli scioperi della fame. Occorre, però, farlo in fretta, e, se anche così fosse, forse sarebbe già tardi. Occorre, insomma, depenalizzare, mantenendo, ove lo si voglia, il valore dell’illiceità delle condotte riprovevoli attraverso la loro trasformazione in illeciti amministrativi, prevedendo sanzioni corrispondenti, quelle si davvero talvolta molto efficaci, oltre che dolorose: pensate a cosa significhi ritirare per sei mesi la patente, non frequentare taluni luoghi, non poter andare all’estero o allo stadio, non poter svolgere la propria professione... Ma non basta. Occorre anche rivedere il sistema delle sanzioni penali, imponendo, per alcune famiglie di reati, come di “prima scelta”, le misure alternative alla detenzione, ma con l’obbligo del risarcimento vero, reale, sonante, nei riguardi della vittima o di chi ne abbia titolo, imponendo direttamente al condannato tutti gli oneri della sicurezza, ex D.Lgs. n. 81 del 2008, laddove debba svolgere lavori socialmente utili (dall’acquisto delle scarpe antinfortunistiche ai guanti per ripararsi dal freddo...). Se poi non fosse in grado, solo in questo caso lo Stato potrebbe, ad esempio con la cassa delle ammende, anticiparne la spesa imponendogli, a sua volta, ulteriori prescrizioni e controprestazioni (abbiamo tanti greti di fiume da pulire, spiagge sporche e giardini incolti che solo ad elencarli ci vorrebbe un’altra amnistia!) Ma ancora non basta. Occorre migliorare, anzi, trasformare, le carceri attuali da luoghi penosi a luoghi del vivere, sobri, sani, ordinati, per il vivere e non per il morire. Occorre lanciare l’idea di un’architettura penitenziaria. Occorre, cioè, immaginare le carceri come luoghi propri di sperimentazione sociale avanzata, dove la pedagogia è e non invece sarà. Occorre accostarsi alle carceri come ci si accosta ai luoghi sacri, templi di legalità, dove la pietra delle fondamenta si confonde con la pietas sociale, dove il tentativo di recupero è reale semplicemente perché così impone la Costituzione e le leggi che pure abbiamo. Occorre trasformare il carcere da un non-luogo ad un luogo trasparente. Esso deve essere permeabile alla società, deve dare conto alla comunità. È assurdo che ancora non si sia intervenuti per affermare che tutti i sindaci abbiano titolo pieno per entrare in carcere, non solo come “ospiti” riluttanti e forzati, ma come primi garanti dei detenuti sul territorio. Il sindaco, ma anche il Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria Locale ed il Dirigente Regionale Scolastico, dovrebbe avere la possibilità di accedervi come i parlamentari e le altre figure previste. Ma occorre anche consentire che il cittadino comune abbia pieno titolo, abbia diritto a conoscere come sia fatto un carcere e come ci si viva dentro. L’obbligo deriva per il solo fatto che manteniamo queste strutture con la raccolta fiscale, con le imposte e con le tasse, che per fare carceri non facciamo ospedali o scuole, che per fare carceri non facciamo palestre per i nostri giovani o parchi per i nostri anziani. Si può anche pensare a nuovi complessi penitenziari, nel rispetto dell’art. 5 della Legge Penitenziaria (Caratteristiche degli istituti penitenziari), che ospitino un numero contenuto di persone detenute, realizzati con la formula del project financing, una volta fatta solare chiarezza che tutti i servizi alla persona ristretta, sia di sorveglianza, sia educativi, sanitari, etc., siano saldamente ed esclusivamente in mano pubblica, che siano assicurati da pubblici dipendenti, nel pieno rispetto di quanto previsto dall’art. 28 della Costituzione Italiana. Le altre cose, pure economicamente apprezzabili (manutenzione dell’immobile, gestione del calore, gestione degli impianti elettrici, gestione della mensa del personale, bar aziendale, asilo aziendale, parcheggi, spazi murari per affissioni, padiglioni per uso industriale, biblioteche, lavanderie...), non direttamente attinenti alla sicurezza ed al recupero della persona detenuta, potranno essere conferite a gestori privati. Occorre, infine, che il personale penitenziario sia di altissimo livello fin dall’inizio e non costretto a divenire tale per necessità, soffrendo, consumandosi e rischiando la cecità morale. Occorre, in una parola, spendere di più, spendere sia in termini economici, sia di speranza: la speranza di avere speranza è il dono sociale più bello che uno Stato possa fare ai suoi cittadini. Sapranno i nostri governanti tradurre le poche cose che ho detto in norme? Lo spero. Anche io, da operatore penitenziario, ho il diritto di avere una speranza. Giustizia: l’eterna attesa del nuovo piano-carceri, fra parole, speranze e promesse di Domenico A. De Rossi (Architetto) L’Opinione, 25 marzo 2012 Nel “piano carceri” varato a suo tempo dal precedente Governo e rimasto nel cassetto si legge: “L’amministrazione, considerate le limitate risorse finanziarie disponibili ha svolto un accurato studio teso ad individuare soluzioni alternative di finanziamento valutando la possibilità di ricorrere a taluni istituti normativi quali la locazione finanziaria, la finanza di progetto e la permuta”. Il Governo quindi, già all’epoca ben consapevole della carenza di risorse finanziarie, intendeva includere i privati nel “disegno risolutivo del piano per l’edilizia penitenziaria”. In tal senso, prima della fase di realizzazione del disegno risolutivo del piano sarebbe stato corretto promuovere, a parere di chi scrive, una iniziativa di pianificazione strategica che stabilisse in modo organico, anche attraverso l’approntamento di nuovi strumenti legislativi, le possibili operazioni da compiere a fronte dell’intero patrimonio esistente sul territorio: riuso, riassetto, dismissione, cessione, ristrutturazione, locazione (ecc.), di taluni edifici penitenziari ed aree pertinenziali all’interno di un paradigma di azioni da pattuire successivamente attraverso una specifica normativa anche con i diversi enti locali. Tale processo sistematico di valutazione delle preesistenze architettoniche, se ben impostato in concerto con le altre funzioni ministeriali, potrebbe trasformarsi ancora oggi, per il domani, in una grande opportunità per innescare un ciclo virtuoso in rapporto diretto con le attività presenti sul territorio. Individuando all’interno delle diverse filiere nuovi ambiti di recupero sociale del detenuto come momenti alternativi, ma non disarticolati e sporadici, destinati all’applicazione della pena. Tutto il percorso, collegato alle catene produttive locali, ai servizi sociali, alle strutture cooperativistiche e di volontariato, ai valori architettonici ed ambientali espressi dal territorio, potrebbe ricucire sistemicamente le molte connessioni funzionali esistenti nella realtà territoriale. Non tutti sanno che l’attuale patrimonio carcerario italiano è costituito: da un 20% di edifici realizzati tra il 1200 e il 1500 (medioevo e rinascimento!); da un 60% costruito tra il 1600 e il 1800; solo il rimanente 20% è stato realizzato dopo. Questi dati aprono scenari inquietanti nel momento del difficile confronto con il “valore” di questi edifici: manufatti abbandonati a fronte di un inevitabile e progressivo degrado, costruzioni e siti di alto valore architettonico ed ambientale. Infatti, l’incapacità “strutturale” di rispondere alla necessità di adattamento a moderni criteri di funzionalità, unita all’alto valore storico-culturale ed economico di cui sono portatori questi edifici determinano altissimi costi di manutenzione per la quotidiana gestione dello status quo, con bassi rendimenti funzionali in termini di qualità e di sicurezza. Come è noto, non solo in questo settore, è proprio la questione delle “competenze burocratiche” quella che rappresenta la più complessa tra le cause che rende inattiva la capacità di risolvere il problema di come amministrare questo enorme patrimonio. Motivo che scoraggia l’intervento privato nei confronti di una vasta varietà di operazioni volte alla cessione, alla vendita, alla dismissio- ne, al recupero, alla ristrutturazione. Ragioni ufficiali che, dietro lo schermo delle diverse “competenze” spesso tendono a dissuadere in partenza qualsiasi proposta innovativa in ordine alle eventuali scelte da compiere in termini di riuso o dismissione di questi edifici. Circa questo enorme patrimonio edilizio il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) comunicò che per reperire la somma necessaria al completamento del Piano destinato alla costruzione di nuovi istituti, sarebbe stato necessario “proporre l’alienazione e la dismissione di immobili, soprattutto se situati nei centri storici, e prendere in considerazione la possibilità di vendere parte del patrimonio edilizio penitenziario vincolando l’acquirente a corrispondere quanto necessario con modalità contrattuali da definire”. Vero è che prima di poter addivenire a tali corrette ipotesi sarebbe necessario definire, da subito e a costo zero, comunque per il futuro una sistematica concernente i criteri d’intervento nei confronti dell’intero patrimonio edilizio. Una sorta di “sistema a rete” avente come obiettivi il possibile coinvolgimento, oltre che dell’imprenditoria privata, anche delle cooperative di ex detenuti, sulla base di programmi di riabilitazione sociale e qualificazione professionale che prevedano misure alternative al carcere e il reinserimento nel ciclo produttivo destinato al riuso, sotto altre forme e funzioni, dello stesso patrimonio edilizio carcerario. In questo grande sforzo di sintesi e di pianificazione strategica, determinante dovrebbe essere l’impegno ed il coinvolgimento dell’imprenditoria privata come vero e proprio motore dello sviluppo. Interventi di project financing, leasing e pianificazione concordata insieme ad una innovativa visione urbanistica, se non scoraggiati dalla burocrazia, se ben governate da un Centro Decisore e da efficienti e qualificati apparati dello Stato, possono rappresentare già oggi una grande opportunità per la futura soluzione del problema penitenziario. Le amministrazioni locali, soggetti primari che tradizionalmente svolgono attività di rilevazione e catalogazione sul territorio, consentirebbero di avere fin da subito un vasto panorama, mediante uno specifico studio di fattibilità, su di una metodologia e sulle possibili iniziative da intraprendere in ordine alle diverse esigenze funzionali. Scopo della ricognizione mirata sarebbe quello di dare vita ad aree didattiche di informazione tecnica destinata alla formazione professionale dei detenuti, mediante un continuo confronto sugli obiettivi, sulle modalità, sugli strumenti da utilizzare per una revisione delle procedure lavorative nel settore penitenziario. Per aiutare una riflessione sul processo di catalogazione e valutazione sistematica del patrimonio edilizio, sarebbe opportuno elaborare un quadro ragionato degli esiti delle attività di catalogazione, organizzato per tipologia di beni, stato di conservazione, potenzialità di riutilizzazione secondo piani alternativi per aree territoriali e per annualità. In tal modo verrebbe a configurarsi una necessaria conoscenza delle azioni da intraprendere per il futuro circa le possibili scelte di conservazione, ristrutturazione, riuso, riconversione funzionale, dismissione, cessione in base alle esigenze di diversa natura provenienti dal contesto territoriale e dalle esigenze specifiche del piano carceri. Giustizia: Isidro Diaz, i carabinieri ed i sanitari…. un caso che ricorda Cucchi di Luigi Manconi e Valentina Calderone L’Unità, 25 marzo 2012 Pestato da un carabiniere subito dopo l’arresto, Isidro Diaz ha perso la vista e subito gravi danni al timpano. Dopo tre anni la sua verità è stata riconosciuta e il militare condannato per lesioni. Il 5 aprile 2009 Luciano Isidro Diaz, allevatore di cavalli, residente in Italia da 23 anni, viene arrestato nei pressi di Voghera in seguito a un controllo stradale. Secondo la versione dei carabinieri, Diaz avrebbe tentato la fuga rischiando di travolgere uno dei militari fino a quando non è stato fermato e a quel punto avrebbe aggredito i militari brandendo “un pugnale di 20 centimetri”. Quindi, viene arresto per resistenza a pubblico ufficiale, minacce e porto ingiustificato di oggetto atto ad offendere. Questa invece la versione di Diaz: “Sono stato affiancato dai carabinieri che mi hanno ammanettato, mi hanno picchiato, mi hanno portato in caserma dove hanno continuato a pestarmi in sei. Ho i due timpani perforati, non vedo più da un occhio e inizio a vedere poco dall’occhio destro. Quella notte potevo anche morire. Ho denunciato i carabinieri per maltrattamento”. Questa una ricostruzione essenziale della vicenda; e queste - come in Rashomon - le due letture, che più distanti non è possibile immaginare, da parte dei soggetti coinvolti. Diaz, assistito dagli avvocati Fabio Anselmo e Alessandra Pisa, per i gravi danni subiti agli occhi, non è stato in grado di riconoscere in maniera inequivocabile la maggior parte dei militari e per sei di loro il giudice ha disposto il non luogo a procedere. Sono rimasti in piedi due procedimenti: uno contro i militari accusati di aver commesso irregolarità nella compilazione del verbale di arresto di Diaz; e uno contro F.P. (usiamo iniziali di fantasia, ritenendo inopportuna la pubblicazione delle generalità fino a sentenza definitiva), l’unico carabiniere riconosciuto senza esitazione dall’uomo. A distanza di quasi tre anni il tribunale di Tortona, condanna il brigadiere F.P. a 2 anni e 3 mesi per lesioni personali con l’aggravante di abuso dei poteri inerenti la pubblica funzione svolta. Le motivazioni della sentenza sono state rese note pochi giorni fa; e la lettura di quelle pagine è, a un tempo, drammatica e istruttiva. La testimonianza di Diaz risulta verosimile, coerente e provata da riscontri oggettivi e soggettivi, in particolar modo dalle certificazioni mediche attestanti le lesioni subite; mentre la versione dì F.P. viene definita “inverosimile” e “non credibile”, quando non addirittura “calunniosa” nella parte in cui riferisce che Diaz sì è procurato le lesioni solo dopo il suo allontanamento dal tribunale. È stato provato che Diaz non aveva bevuto alcolici quel pomeriggio, come invece aveva testimoniato il collega di F.P., e che il suo comportamento non è stato in alcun modo violento. Nonostante i danni fisici irreversibili riportati da Diaz (i timpani perforati e il distacco della retina che ha comportato un indebolimento permanente della vista), non è stato possibile arrivare a una condanna per lesioni aggravate. Le violenze, infatti, sono avvenute in due luoghi diversi, la corsia di sosta dell’autostrada e la caserma dei carabinieri, e non si è potuto risalire al momento preciso in cui le lesioni più invalidanti sono state procurate. Nonostante questo, e nonostante all’imputato siano state riconosciute le attenuanti generiche, il giudice scrive nella motivazioni della condanna: “Considerata la gravità dell’abuso, posto in essere da persona che ha il compito di rappresentare lo stato e di difendere la collettività da aggressioni altrui, sorvegliando il rispetto della legalità” l’aggravante di abuso dei poteri inerenti la pubblica funzione svolta è “considerata prevalente rispetto alla circostanze attenuanti” anche perché “l’esecuzione del reato” è stata agevolata dal ruolo ricoperto da F.P. Il fatto che questo processo si sia concluso con un almeno parziale accertamento della verità - anche se occorre aspettare gli ulteriori gradi dì giudizio - rappresenta un fattore di fiducia rispetto ai tanti processi simili che purtroppo faticano a fornire delle risposte così chiare e ai molti che nemmeno vengono celebrati. Ma, detto questo, c’è un ulteriore aspetto della vicenda che dovrebbe inquietare. Diaz, dopo la convalida dell’arresto, torna a casa dovendo sottostare alla misura cautelare dell’obbligo di dimora. Le sue condizioni di salute peggiorano di ora in ora, sente dei rumori assordanti, non vede bene, la mobilità delle dita delle mani è fortemente ridotta. Non potendo andare autonomamente in ospedale per via della misura cautelare, chiama più volte l’ambulanza. Gli operatori del 118, però, rispondono che conoscono già la situazione e che non è il caso di far intervenire un loro mezzo. Diaz riuscirà a farsi visitare solo 72 ore dopo. È inevitabile che tornino alla mente Stefano Cucchi o Mastrogiovanni, uomini che hanno subito violenze e che non hanno trovato nel personale medico degli alleati per poter continuare a vivere. Se si pensa all’enfasi che, nei simposi medici, accompagna il richiamo al giuramento di Ippocrate, c’è da gridare allo scandalo. Lettere: detenuto a Catania; sono malato, in cella con il catetere… e altre nove persone di Vincenzo Marchese La Sicilia, 25 marzo 2012 Sono in attesa di giudizio dal 21.01.2012. Con emissione di mandato di cattura per art. 73 (ndr: droga), mi sono presentato spontaneamente al carcere di Piazza Lanza appena saputo del mandato, per chiarire la mia posizione con il giudice naturale. Sono un malato celiaco e ho bisogno di alimentazione particolare, cosa che la mia famiglia non mi fa mancare anche perché usufruiscono dell’aiuto economico regionale come obbligo di legge. Scrivo non per gridare la mia innocenza, anche perché ho confessato il mio reato, ma per le condizioni precarie che da circa un mese mi ritrovo. Ho avuto un dolore lancinante e per questo sono stato portato in ospedale dove mi hanno riscontrato calcoli in tutto il rene sinistro e nella vescica tanto da impedirmi di fare il bisogno fisiologico. Da 25 giorni sono in stanza con altri 9 detenuti con un catetere senza nessun aiuto; ogni giorno rischio infezioni e anche se i miei compagni e gli operatori penitenziari cercano di fare il possibile per aiutarmi, non riesco ad avere nessuna risposta da parte di chi, preposto, una risposta mi deve. Ho ricevuto medicine che con la mia malattia niente avevano a vedere, addirittura contenenti amido, pericoloso per chi come me è celiaco. Scrivo per fare sì che l’opinione pubblica sappia che oltre alla sofferenza per la detenzione, mi ritrovo a subire una sofferenza arbitraria. Chiedo a chi è preposto dalla legge che si faccia onere del mio caso, ridandomi una cosa che non si può e non si deve togliere: la mia dignità di uomo. Sicilia: la “Legge Fleres” sul reinserimento dei detenuti senza copertura finanziaria La Sicilia, 25 marzo 2012 Una delle più vistose omissioni del sistema carcerario italiano è quello di non curarsi del recupero del detenuto e del suo reinserimento sociale. Ovviamente anche questo argomento è stato ampiamente affrontato nell’incontro di ieri indetto dal Garante. Ma il senatore Fleres ha denunciato un’altra tendenza strisciante in tutto il Paese, una sorta di boicottaggio alla figura istituzionale dello stesso Garante “considerata - ha detto lo stesso Fleres - spesso scomoda e fastidiosa, in quanto, essendo al di sopra di ogni parte politica, nel momento di denunciare guasti e omissioni, non guarda in faccia nessuno”. Il senatore Fleres e l’avvocato Pirrone hanno poi denunciato il fatto che la “Legge Fleres” (porta il nome del Garante che se n’è fatto promotore) da un anno a questa parte non viene più rifinanziata dalla Regione”. La legge Fleres promuove e facilita, anche attraverso azioni congiunte con soggetti pubblici e privati, l’inserimento lavorativo dipendente ed autonomo, nonché il recupero culturale e sociale e la formazione scolastica ed universitaria delle persone private della libertà personale, incluse quelle che scontano la pena anche in forma alternativa nel territorio siciliano, intervenendo pure a sostegno della famiglia e dei figli minorenni. E in pochi anni dell’entrata in vigore - questa legge ha agevolato 140 detenuti che continuano a svolgere la loro attività lavorativa anonima con tasso di recidività del reato pari allo zero. Altra azione disdicevole contro i diritti dei reclusi è l’avere chiuso i due sportelli del Garante nelle carceri palermitane del Pagliarelli e dell’Ucciardone. A quegli sportelli i detenuti potevano accedere per denunciare anche in tempo reali abusi o prospettare richieste di assistenza di varie natura. “L’unico sportello del genere che esiste oggi in Sicilia - ha detto l’avvocato Pirrone - è quello del carcere di Brucoli, gestito dall’Anf, Associazione nazionale forense, che col Garante ha firmato un protocollo di intesa”. Catania: “diritti violati”, 500 detenuti di Piazza Lanza fanno causa al carcere di Giovanna Quasimodo La Sicilia, 25 marzo 2012 La notizia è eclatante. Ed è stata ufficializzata ieri in conferenza stampa dal Garante dei diritti fondamentali dei detenuti siciliani, senatore Salvo Fleres e dal presidente dell’Anf di Catania, avvocato Vito Pirrone, che è anche consulente a titolo gratuito della Commissione Diritti umani del Senato della Repubblica. Si parte dal carcere di piazza Lanza, ma l’obiettivo è di coinvolgere gli altri istituti di pena italiani per creare un grande, un enorme contenzioso giudiziario destinato ad entrare nella storia di questo nostro Paese assai ricco di contraddizioni. Un Paese che negli Anni Settanta è stato in grado di varare un Ordinamento penitenziario modello, ispirato all’art. 27 della Costituzione, che è stato, ed è, sistematicamente disatteso, a partite dalla norma che prevede il recupero e il reinserimento sociale del detenuto: di fatto chi esce dal carcere viene abbandonato a se stessa, con incidenza di reiterazione del reato che va dal 65 all’85%. Parliamo di una sorta di class action intrapresa - per iniziativa di Fleres e Pirrone - da 500 detenuti catanesi (sui 581 attualmente immatricolati) che chiedono tutti insieme condizioni di permanenza in carcere meno umilianti e degradanti e trattamento consono alla dignità umana per sé e per i propri parenti che vanno a trovarli per i colloqui, nonché un simbolico risarcimento in denaro di 1.000 euro a testa. Il maxi ricorso al Magistrato di sorveglianza di Catania, stilato dall’avvocato Pirrone, verrà depositato neri prossimi giorni. Dopo i primi tentennamenti (dovuti soprattutto dalla paura di “ritorsioni”) l’adesione è stata massiccia, al di là di ogni aspettativa: è davvero un evento senza precedenti. Ciascun detenuto ha firmato una delega dando mandato al garante e all’avvocato di agire nel proprio interesse. Ciascuno di loro, per il semplice fatto di essere rinchiuso in una struttura illegale a tutti gli effetti subisce umiliazioni e sofferenze. Inutile stare qui a elencare il “supplizio” di piazza Lanza, scaturito principalmente da sovraffollamento (12 e più persone in una piccola cella); dalla quasi inesistente assistenza sanitaria (chi è malato spesso di aggrava per mancanza di cure e talvolta muore!); dal dovere subire il freddo pungente d’inverno e il caldo asfissiante d’estate, senza acqua calda e senza la possibilità di vivere in condizioni igieniche decorose e da tantissimi altri gravissimi problemi che tutti insieme significano solo una cosa: mortificazione dell’essere umano, una pena aggiuntiva assimilabile alla tortura. Nella raccolta delle firme, all’interno del carcere, è stata di grande aiuto l’azione di un detenuto (che ha già problemi personali di salute), il cui cognato, 44enne, il 29 febbraio scorso si è tolto la vita impiccandosi all’interno del carcere Pagliarelli di Palermo, dove era stato trasferito da piazza Lanza il 4 febbraio. Fleres e Pirrone hanno subito spiegato che l’iniziativa giudiziaria collettiva prende spunto da una recente ordinanza emessa dal Magistrato di sorveglianza di Catania depositato in cancelleria lo scorso marzo scorso, con la quale viene accolta l’istanza di un detenuto (sostenuto dal Garante e assistito dallo stesso avvocato Pirrone), tranne che per la parte economica (Il risarcimento simbolico di 1.000 euro) per la quale il giudice di sorveglianza ha demandato la decisione alla Giustizia civile. “Non è una denuncia contro la polizia penitenziaria o il personale amministrativo - hanno spiegato il senatore Fleres e l’avvocato Pirrone - poiché essi svolgono il loro lavoro coi mezzi di cui dispongono, ma è l’attuale sistema carcerario che deve cambiare il più alla svelta possibile. Lo Stato viola la Legge e ha il dovere di correre ai ripari”. Iniziative analoghe a quella di piazza Lanza saranno proposte nei prossimi giorni nel carcere di Messina e nelle carceri di Palermo. Dopo di che il Garante per la Sicilia (che è anche il coordinatore nazionale degli altri Garanti regionali) incontrerà i suoi omologhi per far sì che la protesta legale si estenda. Parma: la Garante regionale Desi Bruno; Stefano Rossi andava vigilato di più… Dire, 25 marzo 2012 Andava vigilato di più Stefano Rossi, il 25enne che l’altra sera si è suicidato nel carcere di Parma, dopo che l’anno scorso era stato condannato all’ergastolo dalla Cassazione in via definitiva, per aver ucciso nel marzo 2006 la giovane Virginia Fereoli e il tassista Andrea Salvarani. “Evidentemente c’era un carico di sofferenze inaffrontabile- analizza la garante regionale dei detenuti, Desi Bruno- sia per gli omicidi commessi sia per la sentenza di detenzione senza fine”. Proprio per questo, Bruno invita a “riaprire una riflessione sull’ergastolo e avere il massimo della cautela e attenzione per le persone sottoposte a questo regime. In casi di questo tipo ci vogliono cautele maggiori: forse serviva una vigilanza più alta, anche se la persona non dava segnali. Anzi - aggiunge la garante - spesso chi ha queste intenzioni mantiene una condotta normale”. Di fronte poi alla richiesta del Sappe, di togliere le bombolette a gas dalle celle, che i detenuti hanno legittimamente per cucinare, Bruno scuote la testa. “Le bombole sono previste perché nelle carceri non ci sono refettori comuni e i detenuti si fanno da mangiare in cella - sottolinea la garante, questa mattina a margine di un convegno a Bologna - togliamo pure i fornelletti, ma allora mettiamo a norma tutti gli istituti, perché il regolamento prevede che le celle siano usate solo per il pernottamento e non come luogo di vita dei detenuti”. Del resto, afferma Bruno, “non dimostra un alto grado di civiltà dove mangiare in cella, di fianco ai letti e al gabinetto”. Dunque, allo stato attuale “togliere le bombolette del gas sarebbe pesante - sostiene Bruno - piuttosto riduciamo le presenze e prevediamo spazi comuni: mettiamoci a discutere sul serio della vivibilità negli istituti”. Bologna: Laganà; i nuovi vertici della giustizia minorile “si sono messi le mani nei capelli” Dire, 25 marzo 2012 I nuovi vertici della giustizia minorile a Bologna “si sono messi le mani nei capelli” quando hanno messo piede al carcere del Pratello. Lo testimonia Elisabetta Laganà, Garante dei detenuti del Comune di Bologna, intervenuta questa mattina a un convegno sui carceri minorili al Baraccano, organizzato dalla deputata Pd Sandra Zampa. “Chi dirige adesso il Pratello - spiega Laganà - quando è arrivato si è messo le mani nei capelli e ha iniziato subito a lavorare a testa bassa per ripristinare la situazione”. Il riferimento è ai casi di abusi e violenze che hanno portato la magistratura ad aprire un’inchiesta e alla rimozione del direttore. “Leggendo le notizie di dicembre sulle violenze subite dai detenuti nel carcere di Asti, c’è una desolante e spaventosa similitudine con quanto accaduto al Pratello”, sottolinea Laganà. A occuparsi della questione, ora, sono Paolo Attardo, direttore del Centro di giustizia minorile, e Francesco Pellegrino, direttore dell’Istituto penale minorile. “Si stanno impegnando molto e hanno chiesto anche al Comune di dare una mano - spiega la garante - in particolare, è stato chiesto di potenziare la mediazione culturale e di coordinare tutte le varie realtà che fanno attività dentro il Pratello”. Poi aggiunge: “Sulla vicenda vanno accertate le responsabilità, ma anche la politica deve fare la sua parte, creando strumenti perché queste cose non accadano più. In Italia, ad esempio, non c’è il reato di tortura”. Secondo Zampa, fatti di questo genere “accadono ovunque, ma il sistema tende a coprirli perché manca, in capo al dipartimento di giustizia minorile, un ispettorato che possa prevenire questi fenomeni”. Il convegno di oggi, spiega Zampa, aveva l’obiettivo di capire “chi sono i ragazzi che finiscono al Pratello e a cosa serve il carcere minorile”. La maggior parte dei ragazzi alle prese con la giustizia “ha dietro storie dolorose e sventurate - afferma Zampa - e per il 95% di loro il carcere non è una soluzione”. Proprio per questo sia Zampa sia la garante regionale dei detenuti, Desi Bruno, sostengono che sia arrivato il momento di fare una croce sopra all’istituzione del carcere minorile. “Chiediamoci se sia ancora utile e necessario - afferma Bruno - secondo me non abbiamo più bisogno del carcere minorile, i 500 minori ristretti sul territorio nazionale possono essere collocati in situazioni protette”. Secondo la garante, però, “serve una riforma delle sanzioni e dell’ordinamento penitenziario, che siano diversificati tra minori e adulti”. Dal giugno 2010 al luglio 2011, snocciola i dati Laganà, sui 4.176 minori iscritti ai registri penali, di cui 470 con meno di 14 anni e 636 femmine, sono in forte aumento in particolare i procedimenti a carico di minori di 14 anni (+39%), il numero di custodie cautelari applicati (+67%) e il numero di collocamenti in comunità (+67%). Dal punto di vista dei reati, sono aumentati gli omicidi volontari (tre) e quelli contro il patrimonio (+5%). Solo al Pratello, i reati più frequenti sono spaccio, furto e rapina. Sui 22 ragazzi, sette sono italiani: gli stranieri sono arabi, rumeni e bosniaci. I dati, avverte Laganà, “segnalano un allarmante incremento delle condizioni di disagio dei minori in regione e delle difficoltà educative di famiglie, scuole e servizi nel prevenire casi di devianza, sempre meno legate allo svantaggio economico e dovute più alla mancanza di esempi positivi. È un paradosso - rileva la garante - di fronte alle ripetute occasioni di dibattito sui minori e sottolinea impietosamente l’incapacità epocale di realizzare modelli educativi condivisi e socialmente orientati”. Bari: Osapp; enormi topi avvistati nei reparti detentivi e nei luoghi di lavoro Ansa, 25 marzo 2012 “Enormi topi sono stati avvistati nei reparti detentivi e nei luoghi di lavoro della polizia penitenziaria” nel carcere di Bari. Lo denuncia in una nota il vice segretario generale nazionale dell’Osapp, Domenico Mastrulli. “Se non ci sono più posti ed i pochi spazi disponibili solo su prenotazione per i detenuti, figuriamoci per gli animali”, aggiunge con una battuta Mastrulli, il quale chiede immediati interventi. Secondo l’Osapp la presenza dei grossi roditori potrebbe essere attribuita alla recente potatura delle piante secolari esistenti nel penitenziario. In Puglia a fronte di una capienza regolamentare di 2.300 persone nelle 11 strutture penitenziarie, ci sono 4.500 detenuti. “A Bari il sovraffollamento, la scarsa igiene e la mancanza di salubrità dei reparti detentivi, con l’avvicinarsi nuovamente della stagione estiva, e quindi con l’arrivo dell’afa, e, a volte, anche il verificarsi di carenza di acqua potrebbe, diventare - conclude Mastrulli - una vera miscela esplosiva per le persone detenute”. Livorno: servono 5 milioni di euro per rimettere a posto il carcere di Pianosa di Stefano Taglione Il Tirreno, 25 marzo 2012 Servono almeno 5 milioni di euro per rimettere a posto il carcere di Pianosa. È la cifra prevista dall’amministrazione penitenziaria di Porto Azzurro, frutto di uno studio effettuato un anno fa con l’obiettivo di riportare un centinaio di detenuti nell’ex prigione: 50mila euro a persona. Questa la spesa senza il costosissimo 41bis. La riapertura del carcere di massima sicurezza, dalle ultime indiscrezioni giunte da Roma, pare infatti sempre più remota. I costi da sostenere lieviterebbero a 20-25 milioni di euro. Cifre che evidentemente il governo Monti non può tirare fuori. Ma anche per il carcere tradizionale, con annessa colonia agricola, le spese non finirebbero qui. A Pianosa mancano le infrastrutture di base per supportare un carico antropico elevato. Innanzitutto non esiste un depuratore, se non un piccolo impianto collegato ad una caserma per gli agenti penitenziari. Fino al 1998, anno in cui la casa circondariale fu chiusa dopo 140 anni di attività, le acque nere finivano direttamente in mare. Oggi è proibito. Servono quindi ingenti investimenti, oltre ai costi del personale. La proposta del ministro della giustizia, Paola Severino, non è però rimasta inascoltata. Mercoledì la guardasigilli e il presidente della Regione, Enrico Rossi, hanno affrontato per la prima volta il nodo Pianosa. La Regione non si è tirata indietro e fa sapere che quello di due giorni fa è stato solo il primo di una serie di incontri. Dall’Elba, invece, i pareri sono contrastanti. Sei sindaci su otto sono totalmente contrari alla riapertura del penitenziario, con l’eccezione dei primi cittadini di Porto Azzurro e Rio Marina che, pur di rivedere Pianosa come era una volta, sarebbero disposti ad accogliere i detenuti. La proposta del ministro Severino infatti, si scontra con un’isola che sta cadendo a pezzi dal 1998. Case che si tengono in piedi per miracolo, vetri disseminati ovunque e perfino scontri in tribunale per stabilire la proprietà dei vari edifici in procinto di crollare. Le cose non vanno meglio per le strutture carcerarie: alla caserma Bombardi, fra le costruzioni più recenti in dotazione alle forze di polizia, mancano infissi, sanitari e il degrado regna sovrano. Gli elettrodomestici erano nuovissimi. Comprati pochi mesi prima della chiusura del carcere, oggi sono un ammasso di ruggine con certificato di garanzia annesso. Inutile dire che dovranno essere ricomprati. La nota positiva dell’eventuale riapertura del carcere tradizionale consisterebbe nella salvaguardia dell’economia turistica. Secondo gli addetti ai lavori le due realtà potrebbero coesistere, mentre col 41bis l’isola diverrebbe totalmente inaccessibile. Un peccato, dato che da qualche anno Pianosa è tornata meta di vacanzieri, anche se i problemi ultimamente non sono mancati. La scorsa estate, nonostante l’afflusso turistico senza precedenti, non c’era alcun presidio sanitario. A dicembre, inoltre, è stato sospeso senza preavviso il collegamento marittimo in continuità territoriale dato in appalto dal Comune di Campo. Il servizio “navetta”, attivo in teoria tutto l’anno, è ripreso da poco, dopo due mesi di stop. Come andrà a finire non si sa, ma l’ipotesi di riapertura del carcere non è poi così improbabile, con buona pace della direttrice del Parco nazionale Franca Zanichelli, il cui sogno era far dipingere la cinta muraria dai bambini. Catania: detenuto si suicida, agente scrive sul registro dei movimenti “pace, uno di meno” La Sicilia, 25 marzo 2012 Al carcere di Bicocca: un detenuto si suicida, un agente scrive sul registro dei movimenti “pace, uno di meno”. Due suoi colleghi cercano di cancellare la scritta. Erano stati accusati di un riprovevole episodio di “falso” e, per questo, erano finiti davanti al gup. Un ufficiale e un agente della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Bicocca, Giuliano Cardamone e Massimiliano Cavaliere, il 15 dicembre del 2008 avevano “coperto” l’opera di un loro collega, Giuseppe Bellino, che in occasione del suicidio di un detenuto, nella casella del registro dei movimenti detenuti relativo al suicida, aveva scritto in corrispondenza del nome: “Pace, uno di meno”. Cardamone e Cavaliere avevano poi cancellato la dicitura con il “bianchetto”, apponendo un tratto di penna per ricostituire la riga del registro ed avevano poi fotocopiato l’atto, ottenendo delle copie nelle quali non doveva essere rilevabile l’alterazione. In realtà, le correzioni grossolane erano evidenti ed entrambi sono stati indagati per i reati di alterazione di atto pubblico e falso. Stessi reati contestati al collega che aveva materialmente scritto la frase sul registro. Quest’ultimo, ha chiesto ed ottenuto di essere giudicato con il rito abbreviato. Per gli altri due il pm aveva chiesto il rinvio a giudizio. Bellino è stato assolto, Cardamone (difeso dall’avvocato Dario Fina) e Cavaliere (difeso dall’avvocato Licinio La Terra) non sono mai arrivati al dibattimento in quanto il gup Alessandro Ricciardolo, li ha prosciolti entrambi “perché il fatto non sussiste”. Per il giudice, infatti, pur essendo la loro condotta “inopportuna ed eventualmente rilevante in sede disciplinare, non è munita di tale offensività da avere rilievo penale”. Secondo il gup il caso rientra nelle ipotesi di “falso innocuo” (sentenza della Cassazione 29 settembre 2010) perché l’alterazione sarebbe del tutto irrilevante ai fini del significato dell’atto, non comportando effetti sulla funzione documentale dell’atto stesso. Milano: il manager che insegna ai detenuti come si affronta un colloquio di lavoro di Valeria Pini La Repubblica, 25 marzo 2012 Un corso dedicato a chi vive nel carcere di San Vittore, a Milano. Un ciclo di lezioni svolte da un imprenditore che si è messo a disposizione essendo stato colpito dal suicidio (uno dei tanti) di un ragazzo dietro le sbarre di un carcere. Un tentativo di solidarietà concreta, un modo come un altro per infondere speranze nel futuro. Il problema riguarda un po’ tutte le persone che affrontano colloqui di lavoro. Nervosismo, tensione, senso di inadeguatezza precedono le ore dell’incontro. Ma la preoccupazione può trasformarsi in angoscia per chi sta per uscire o è appena uscito dal carcere. C’è così chi si è messo a insegnare dei piccoli “trucchi” per affrontare la prova, seguendo training specifici. Si studia, ad esempio, come stringere la mano al futuro capo, in modo convincente e ad essere sobriamente brillanti quando si risponde alle domande. Sono ormai molti i corsi di questo tipo, ma è la prima volta che lezioni del genere si svolgono dietro le sbarre. L’idea è di un imprenditore che si è proposto come insegnante ad un gruppo di detenuti. Ha chiamato la direttrice del carcere di San Vittore ed è nato così un ciclo di lezioni destinato a persone recluse, tra i 18 e i 25 anni. La notizia di quel suicidio. “Era da tempo che avevo in mente di fare qualcosa, ma la molla che ha fatto scattare la decisione è stata la notizia dell’ennesimo suicidio di un ragazzo dietro le sbarre. Ho pensato, allora, assieme alla direttrice del carcere di lavorare sui giovani detenuti per dar loro strumenti per poter affrontare il mercato del lavoro, anche in un periodo di crisi come questo”, racconta Alessandro Proto, l’imprenditore che ha dato vita all’iniziativa. “Abbiamo organizzato lezioni in cui si spiegano le tecniche di gestione dei colloqui finalizzati all’assunzione. Il corso tende ad insegnare un ventaglio di comportamenti, dal modo per declinare le proprie generalità, alla condotta da assumere di fronte un eventuale rifiuto di assunzione - spiega Gloria Manzelli, direttrice di San Vittore. Sono 10 incontri di due ore ciascuno, all’interno del reparto per i detenuti “giovani adulti”, rivolti a ragazzi poco più che diciottenni. La speranza è che questo possa essere loro di aiuto per il “dopo”, per affrontare con un minimo di strumenti più efficaci il difficile mondo del lavoro”. L’attestato finale. Alla fine del corso verrà rilasciato un attestato di frequenza ai giovani che hanno partecipato al training. “È un ciclo di lezioni che, in fondo, ha lo scopo di far maturare nelle persone, la consapevolezza che il miglior prodotto da vendere sono proprio loro stessi. Si mettono in atto delle simulazioni per tenere viva l’attenzione; ogni detenuto viene trattato come se fosse un vero e proprio manager in formazione. È sicuramente questo che li spinge a continuare a partecipare al corso, se non altro perché evadono per 3 ore dal loro ambiente”, spiega Proto. “Abbiamo scelto di investire su di loro, dunque, perché crediamo nell’importanza del lavoro per il futuro di un giovane e di quanto possano essere demotivanti e devastanti alcuni rifiuti, specialmente a quell’età. A breve, inizieremo il corso anche presso la sezione femminile con lo stesso impianto organizzativo”, aggiunge Manzelli. I casi difficili. Gli allievi, con alle spalle gravi problemi ed esistenze complicate, hanno seguito con attenzione le lezioni dell’imprenditore, sebbene con qualche difficoltà. “Mantenere viva l’attenzione di persone che devono scontare ancora mesi o anni di detenzione su argomenti di questo genere non è per niente facile. Occorre superare alcune barriere per entrare davvero in sintonia. Ma, devo dire, ci stiamo riuscendo mi sembra molto bene. Sono soddisfatto di come stanno andando le cose e la mia idea è quella di prendere persone per replicare questa cosa anche in altre carceri d’Italia”, promette Alessandro Proto. Reggio Emilia: detenuti al lavoro grazie all’associazione “Senza Confini” Gazzetta di Reggio, 25 marzo 2012 Favorire il reinserimento lavorativo dei detenuti nella società attraverso l’apprendimento di un mestiere. È l’obiettivo di Senza Confini, associazione reggiana che da quindici anni lavora all’interno della Casa circondariale cittadina, proponendo corsi che facilitino il reinserimento lavorativo dei detenuti nel momento in cui usciranno dal carcere. “Non è certo un buon momento per trovare lavoro - racconta Ugo Dordoni, presidente dell’associazione - ma negli anni siamo riusciti ad aiutare alcuni ex detenuti a inserirsi in un’azienda, con successo e soddisfazione da parte dei datori di lavoro che hanno dato loro fiducia”. Attualmente sono circa 300 i detenuti all’interno del carcere reggiano. Di questi sono un’ottantina quelli che nell’arco di un anno entrano in contatto con i volontari dell’associazione e partecipano ai corsi. In genere, i corsi sono seguiti da una decina di detenuti. “Nella stragrande maggioranza sono gli uomini a partecipare ai nostri corsi, anche per il tipo di attività che proponiamo - continua Dordoni - ma quest’anno ci sono anche tre donne”. Oltre la metà dei partecipanti è straniero. Ma quali corsi propone l’associazione Senza Confini? Si va dai corsi per elettricisti e di restauro di mobili - ormai storici, visto che sono stati i primi a essere attivati una quindicina di anni fa - a quelli di disegno tecnico e misurazioni meccaniche, di istruzione per avviare un lavoro autonomo, di informatica, inglese e cultura generale attuale o educazione civica. I corsi seguono l’andamento dell’anno scolastico con inizio a ottobre e termine a metà giugno. “Alla fine delle lezioni - continua Dordoni - consegniamo un diploma ai partecipanti: è solo un attestato ma il magistrato di sorveglianza valuta in modo positivo il fatto che un detenuto abbia frequentato un corso”. Teramo: si è svolto l’incontro “La prevenzione del tumore al seno nelle carceri” Il Centro, 25 marzo 2012 Marisa, 44 anni, esprime i timori comuni a ogni donna già operata. Antonella, 52 anni, chiede con franchezza se nelle cure facciano differenza luoghi e medici. E ancora, la relazione tra tumore della mammella e tumore dell’utero; il significato da dare al dolore, alla presenza di un nodulo o di secrezioni dal capezzolo; l’importanza o meno dell’autopalpazione. Hanno fatto tante domande le donne detenute nella Casa circondariale di Castrogno a Teramo. Quasi tutta la sezione femminile del carcere teramano (45 detenute, per metà italiane, anche di etnia rom, e per l’altra metà albanesi, nigeriane, rumene) ha partecipato ieri mattina all’incontro “La prevenzione del tumore al seno nelle carceri”, organizzato all’interno della “Primavera abruzzese - 99 volte in Rosa”, l’iniziativa di sensibilizzazione alla cultura della prevenzione promossa dalla Scuola italiana di senologia, fondata nel 1984 dall’illustre oncologo Umberto Veronesi. In viaggio da Milano il luminare, l’incontro con le donne detenute è stato animato dallo stato maggiore della Sis: la presidente Lidia Bramani, il direttore e cofondatore Claudio Andreoli, il medico senologo Gemma Martino, pioniera della medicina carceraria già trent’anni fa a San Vittore a Milano. Primo passo di un progetto pilota all’avanguardia in Italia, avviato nelle sezioni femminili delle carceri di Teramo e Pescara, l’incontro di ieri mattina è stato introdotto dal direttore della Casa circondariale di Castrogno, Stefano Liberatore, e dal sindaco di Teramo, Maurizio Brucchi, medico senologo, il primo amministratore pubblico in Abruzzo ad abbracciare il progetto della Scuola italiana di senologia. Diffondere la cultura della prevenzione anche nelle fasce più deboli, tra i gruppi sociali meno consapevoli e motivati, è tra gli impegni della “Primavera abruzzese”, e l’avvio dello screening nelle carceri uno dei momenti cruciali. A Castrogno si partirà subito dopo Pasqua. “Metteremo a disposizione la nostra professionalità per un esame ecografico e mammografico per tutte le donne che lo vorranno. La prevenzione allunga la vita”, ha precisato Brucchi. “Abbiamo lavorato tantissimo a questo mese della prevenzione”, ha sottolineato Bramani. “Tra i 45 e i 70 anni tutte le donne in Italia hanno diritto a uno screening gratuito. E cominciamo quindi da Teramo, da voi”, ha detto la presidente della Sis rivolgendosi alle donne di Castrogno. “Vogliamo che partecipiate, che pensiate: comincio da qui, comincio dalla salute per rimettermi in pista”. Sassari: omicidio Erittu; chiuse le indagini, rinvio a giudizio per sei indagati La Nuova Sardegna, 25 marzo 2012 Il pm della Dda di Cagliari Giancarlo Moi ha chiuso le indagini sull’omicidio di Marco Erittu, il detenuto ucciso nel carcere di San Sebastiano il 18 novembre del 2007. L’avviso è stato notificato agli indagati Pino Vandi (che al momento si trova rinchiuso nel carcere di Vigevano), Nicolino Pinna, Mario Sanna, Giuseppe Bigella, Gian Franco Faedda e Giuseppe Sotgiu. Secondo il pm fu Vandi a commissionare il delitto. E lo fece “per motivi abietti”. Ossia “impedire a Erittu di parlare con l’autorità giudiziaria e narrare qualcuno dei fatti a sua conoscenza, tra i quali anche fatti di rilevanza penale riconducibili al mandante”. In particolare il riferimento è al coinvolgimento dello stesso Vandi “nel sequestro a scopo di estorsione di Paoletto Ruiu e nell’omicidio e seppellimento di Giuseppe Sechi”. Ruiu era il farmacista di Orune rapito nel 1993 e mai tornato a casa. Sechi invece era un giovane di Ossi che fu ucciso un anno dopo con uno scopo ben preciso: gli assassini volevano tagliargli il lobo dell’orecchio e spedirlo ai familiari di Ruiu come prova in vita del loro caro. Secondo gli investigatori il boss della droga Vandi temeva che Erittu riferisse ai magistrati dove era seppellito il cadavere di Sechi. Moi, nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, chiama in concorso con Pino Vandi anche Pinna, Sanna e Bigella. In particolare Bigella e Pinna come esecutori materiali e Sanna in qualità di “operatore penitenziario addetto alla sorveglianza del reparto in cui si trovavano i detenuti coinvolti, che apriva le celle di Bigella, di Pinna e di Marco Erittu” per consentir loro di ammazzare quest’ultimo. Diversa invece la posizione di Faedda e Sotgiu: il primo in qualità di “sottufficiale preposto al controllo” e il secondo “quale addetto alla sorveglianza del reparto promiscui del carcere di San Sebastiano (dove era detenuto Erittu (ndr)” perché “dopo che fu commesso l’omicidio all’interno della cella “liscia” numero 3, aiutavano gli autori materiali e morali dell’omicidio a eludere le investigazioni”. Avrebbero cioè, secondo il sostituto procuratore, “cambiato la posizione finale del cadavere che si trovava sopra il letto” e lo avrebbero “collocato per terra in modo da far pensare a un suicidio”. Avrebbero poi fatto scomparire dalla scena del delitto il taglierino “usato dagli assassini per formare la striscia della coperta del letto da usare come legaccio per l’impiccamento”. Palermo: evasione dal carcere minorile, due detenuti in fuga Agi, 25 marzo 2012 Due detenuti sono evasi la scorsa notte dal carcere minorile Malaspina di Palermo. Sono un diciassettenne nato a Roma ma di origine slava e un ventenne siciliano, che erano reclusi nella stessa cella della sezione di isolamento. L’evasione è stata scoperta dal personale di custodia all’una e mezzo della scorsa notte. Secondo una prima ricostruzione della polizia, che indaga sull’evasione, dopo un foro in una parete dietro ad un termosifone, i due fuggiaschi avrebbero raggiunto un cortile interno al penitenziario, sarebbero saliti su un muro di cinta e da lì si sarebbero calati da una altezza di sei-sette metri, facendo perdere poi le tracce probabilmente a bordo di un’auto rubata. I due evasi, che erano entrambi accusati di furto, sono adesso ricercati dalla polizia. Chieti: quando il giornale si fa dietro le sbarre, le storie a lieto fine delle “Voci di dentro” www.abruzzoweb.it, 25 marzo 2012 Nicola e Cristian sono seduti tranquillamente all’ora di pranzo sotto i portici di corso Marrucino a Chieti. Potrebbero essere scambiati semplicemente per due amici, ma in realtà la loro amicizia è nata dietro le sbarre e la cosa strana è che sono entrambi tuttora detenuti, anche se godono di un regime speciale di semilibertà. Nicola e Cristian, infatti, insieme ad altri due detenuti e a un’altra persona al momento agli arresti domiciliari, sono stati scelti per far parte di un programma di riabilitazione che ha cambiato la loro vita. Non solo perché, al posto di trascorrere la giornata in una cella, ogni mattina escono e in carcere rientrano solo la sera (Nicola ha anche il permesso di fare una passeggiata con la moglie all’ora di pranzo), ma anche perché ora hanno una speranza per il futuro: la possibilità di non ricadere negli errori del passato e di trovare un lavoro grazie alle conoscenze che stanno acquisendo e ai progetti portati avanti dall’associazione che ha creato i corsi di formazione che stanno frequentando. L’associazione si chiama “Voci di dentro” ed è nata a Chieti per volontà del suo presidente, il giornalista Francesco Lo Piccolo, che è riuscito, passo dopo passo, e anche grazie alle sponsorizzazioni di enti e privati (prima fra tutte la fondazione Carichieti) a mettere su una realtà che non ha eguali nella nostra regione. L’associazione è partita con la realizzazione di una rivista, ormai al quinto anno, scritta dai detenuti dei carceri di Chieti, Pescara, Lanciano e Vasto. L’associazione partecipa a diversi progetti europei e attualmente organizza i corsi di formazione di informatica e grafica nella sede messa a disposizione a un prezzo modico dal Comune di Chieti a palazzo Massangioli (lo stabile del teatro Marrucino). I corsi di formazione sono tenuti da tre insegnanti (Andrea Fusillo, Ivano Placido e Giuliana Agamennone che percepiscono poco più di un rimborso spese) e hanno anche l’obiettivo di far rimanere il personale formato a lavorare nei diversi progetti portati avanti dall’associazione, tra cui anche un quotidiano murale, una radio on line e una tipografia. Insomma, se tutto prosegue come sta andando, Nicola e Cristian potranno davvero guardare al futuro col sorriso. Nicola, 44 anni originario di Lamezia Terme, per cumulo di pene, sta scontando 26 anni di carcere. Per uscire gliene mancano ancora quattro. “So che quando uscirò - dice con soddisfazione - saprò usare un computer e avrò a disposizione conoscenze di informatica da poter spendere nel mondo del lavoro”. Nicola ha trascorso anni in molti istituti di pena italiani, da Milano a Bade Carlos in Sardegna, da Pianosa a Bologna. “Ma solo a Chieti - dice - ho trovato una realtà come quella dell’associazione ‘Voci di dentrò. Mi sono avvicinato a questa associazione frequentando i laboratori di scrittura che poi sfociano nella redazione della rivista. Più che a scrivere, però, ho imparato a leggere me stesso”. Per Cristian, 35 anni ex gestore di locali della provincia di Chieti, quella di Madonna del freddo è stata la prima esperienza di detenzione. Per cumulo di pene deve scontare sei anni. Ne ha già fatti due. “Quando ho incontrato l’associazione Voci di dentro - racconta - ero un po’ scettico. Pensavo che, visto che non si fa niente per niente, anche dietro tutte le attività proposte dall’associazione ci fosse qualche tipo di tornaconto”. Pregiudizi e scetticismo sono stati superati conoscendo meglio questa realtà: “Mi sono dovuto ricredere man mano che andavo avanti nelle attività. E adesso non mi stupisco più quando, ogni mattina, Francesco arriva in sede, ci guarda tutti col sorriso stampato in faccia e dice: “ragazzi sono contento di vedervi fuori”. So che è vero. E che è questo lo scopo di questa associazione”. Nuoro: “Evasioni di inchiostro”… libro con racconti e poesie dei condannati all’ergastolo di Fabio Canessa La Nuova Sardegna, 25 marzo 2012 “La cosiddetta Alta Sicurezza è, nell’ordinamento carcerario, quella riservata ai detenuti giudicati più pericolosi. Mi aspettavo dunque individui sinistri e sogghignanti, ceffi dalle barbe unte, la benda nell’occhio e il bicipite tatuato, magari senza una gamba o senza un braccio. E invece cosa mi ritrovo davanti? Persone”. Nella quarta di copertina un estratto dell’introduzione di Alberto Capitta racchiude molto di un libro davvero particolare. Un libro frutto di un corso tenuto dallo scrittore sassarese all’interno di Badu ‘e Carros: “Evasioni d’inchiostro - Racconti, favole e poesie di dieci prigioneri di seppia”. Sì, prigioneri senza la “i”. Per un gioco di parole voluto dagli stessi autori: condannati all’ergastolo. Il volume, pubblicato dalla giovane casa editrice di Sassari Voltalacarta (251 pagine, 13 euro), arriva proprio oggi nelle librerie. Ultima tappa di un percorso iniziato tempo fa, ideato e avviato dalla Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri Onlus con il progetto “Ad Altiora, la filiera dell’inclusione” e portato avanti, come docenti del corso di scrittura, da Alberto Capitta insieme con Angelo Mazza, professore di lettere, e Piero Fadda, editor. “Siamo arrivati all’idea che fosse giusto pubblicare un libro - sottolinea Capitta - quando tutti abbiamo avvertito la necessità di raccontare l’esperienza. Ma soprattutto perché loro, i reclusi, avessero la percezione di un volo verso l’esterno. Là dove non potranno mai più arrivare loro, ergastolani, che vadano almeno le loro pagine con le loro parole”. Parole dal mondo del carcere, un mondo escluso visto da chi lo popola: “La prima volta che entrai a Badu ‘Carros - ricorda lo scrittore - rimasi colpito dalle grandi aree vuote. Superata la zona dei controlli, si viene introdotti in un enorme atrio deserto e privo di tutto, luminoso e colorato, una sorta di limbo che separa la prigionia dalla libertà”. Racconti di vita vissuta o di fantasia. Evasioni artistiche che richiamano quelle mostrate nel recente docu-film dei fratelli Taviani che ha trionfato al festival di Berlino. In “Cesare deve morire” i Taviani accendono i riflettori sulla sezione di alta sicurezza del carcere di Rebibbia di Roma, dove viene rappresentato, dai detenuti della sezione, il “Giulio Cesare” di Shakespeare. Risultato di uno dei diversi laboratori teatrali tenuti dal regista Fabio Cavalli. A uno di questi ha partecipato anche Ugo De Lucia finito poi a Badu ‘e Carros. Il suo racconto, “Il mio incontro con Laerte”, apre il libro “Evasioni d’inchiostro” e parla proprio dell’esperienza alle prese con Shakespeare, con “Amleto”. L’ispirazione autobiografica è forte in diverse pagine. Ricordi, descrizione dello stesso carcere. Ma la realtà abbraccia spesso anche il sogno. E poi c’è la natura, gli animali. Tanti animali. Cavalli, come in “La prima corsa di Baestrocchi”, di Benedetto Privitera, oppure gazze ladre o volpi come nelle favole di Cosimo Di Pierro. Narrativa, ma non solo. I libro è infatti arricchito anche da poesia. Il maggior numero di versi sono quelli di Antonio Marini. Componimenti premiati in concorsi interni al carcere o nazionali. Ma interessanti sono anche gli elaborati degli altri prigioneri di seppia non ancora citati: Mario Cabras, Gian Paolo Locci, Agostino Murru, Vincenzo Russo, Vittorio Salis, Arcangelo Valentino. Racconti e poesie frutto di nove mesi di grande impegno: “Alla prima lezione - ricorda Alberto Capitta - ho capito subito di avere a che fare con persone interessate e motivate, curiose di tutto e disposte ad imparare. Alcuni di loro erano anche piuttosto preparati, facevano citazioni importanti di testi ed autori. Inoltre la cella era stata trasformata in una perfetta aula scolastica con la cattedra, i banchi, la lavagna e tutto il resto. Nessuno si nascondeva la realtà del luogo, né le ragioni che li avevano portati là, ma per quelle poche ore valeva solo il gioco della scuola. Si è arrivati alla fine del corso con una montagna di lavori, poesie, racconti, preghiere, canzoni che sommergeva ad ogni lezione la cattedra. Quello era l’intento, far scattare la scintilla, fare esplodere l’incendio. Anche se questo li ha in parte addolorati per il rimpianto di ciò che avrebbero potuto essere se solo la vita li avesse indirizzati diversamente”. La scrittura come terapia: “Come scrivo nella conclusione della mia introduzione al libro - dice Capitta - ci vorrebbe ben altro per curare e lo sappiamo bene, ma è pur sempre qualcosa; allora che serva almeno per quel poco, perché non venga dissipato proprio tutto e per far sì che questi diseredati possano, origliando il mondo dal loro angolo, non solo sopravvivere, ma continuare a vivere”. Intanto i detenuti aspettano con ansia di avere tra le mani il libro. “Attesa - sottolinea Eliana Pittalis, responsabile della Fondazione che ha ideato il progetto - che sembra sempre infinita a chi è costretto ad avere a che fare con una concezione del tempo dilatata. Contiamo di poterglieli dare nei prossimi giorni e la prossima settimana porteremo i libri anche a Milano a “Fai la cosa giusta”, la fiera del consumo solidale. Poi faremo presentazioni sia in carcere sia fuori”. Ma il libro è anche figlio - perché i libri che pubblicano per loro sono come figli - delle due trentenni sassaresi, Silvia Sanna e Luana Scanu, che hanno fondato meno di un anno fa la casa editrice Voltalacarta. Altra parte coinvolta in questo progetto il cui merito va innanzitutto alla Fondazione Casa di Carità, che lavora da anni con i detenuti, ma poi diviso in più componenti che hanno formato una squadra: “Abbiamo accettato subito quando Alberto ci ha contattate - raccontano Silvia e Luana. Ci piaceva l’idea di dare voce a chi non ne ha. E leggendo i racconti e le poesie siamo rimaste colpite dalla qualità. Un progetto che ci ha davvero emozionato. I proventi delle vendite, a parte coprire le spese, saranno investiti in nuovi corsi di formazione”. Roma: l’altra faccia di Rebibbia… intervista ai “Presi per caso” www.06blog.it, 25 marzo 2012 L’Orso d’oro vinto a Berlino e il successo di pubblico ottenuto dal film “Cesare deve morire”, girato nella casa circondariale capitolina di Rebibbia dai fratelli Taviani, hanno riacceso i riflettori sulla questione carcere e sul dramma che vivono coloro che vi sono rinchiusi. Ma a Roma c’è anche qualcun altro che da molto tempo racconta come si sta “dentro” e lo fa da un punto di vista molto particolare: quello di chi ‘er gabbiò l’ha vissuto sulla propria pelle. Sono i Presi per caso, una realtà di musicisti e attori per passione che si sono incontrati, artisticamente e non, proprio a Rebibbia e che ora hanno una missione: raccontare la verità sulla galera, ma con la forza dell’ironia. 06 ha intervistato per voi il leader di quella che non è solo una band: Salvatore Ferraro. Chi sono i Presi per caso? “Sono un gruppo di ex detenuti che per passione fanno musica e recitano in una forma che definirei propria del teatro-canzone. Al nucleo originario, negli anni, si sono aggiunti alcuni che in carcere non ci sono mai stati, e quindi tra membri fissi e altri che ci ruotano attorno, oggi siamo in tutto 16-17 persone”. Come nascono i Presi per caso e, soprattutto, dove? “Beh, a Rebibbia nel 1997 c’era già un gruppo di musicisti che faceva le prove in una cella in disuso messa a disposizione della direzione per poi tenere un concerto una volta al mese nell’area verde. Si suonava, però, la musica di fuori, poi, nel 2004, quando io e altri siamo usciti, abbiamo iniziato a fare il contrario, portando fuori la musica di dentro con un musical intitolato “Radio bugliolo” che ebbe anche un discreto successo. Da lì non ci siamo più fermati: abbiamo fatto “Delinquenti”, spettacolo sul tema della rieducazione in carcere che secondo noi è fallimentare, poi “Recidivo Recital” che, come dice il titolo, tratta il problema della recidività dei detenuti. Contemporaneamente abbiamo pubblicato anche alcuni dischi: oltre a quelli con le musiche che accompagnano i nostro spettacoli, voglio citare “L’operazione Girolimoni” che in pratica è una lettera aperta per chiedere la riabilitazione sociale di Gino Girolimoni, accusato ingiustamente di aver stuprato e ucciso alcune bambine nella Roma degli anni Venti. Nonostante alla fine fosse stato scagionato, ne ebbe la vita sconvolta e ancora oggi in alcune Regioni italiane si usa il suo nome come sinonimo di “mostro”. All’attivo, infine, abbiamo oltre 160 concerti dal vivo, compresa una tournée in Irlanda, il Jail tour, in cui, appunto, abbiamo suonato nelle carceri, comprese quelle di massima sicurezza”. Prima eravate solo ex detenuti, ora ci sono anche non-detenuti. Come mai? “Perché una volta fuori non volevamo riproporre le strutture chiuse di Rebibbia, ci siamo aperti al mondo, a chiunque volesse raccontare il carcere assieme a noi. Certo, per chi non è mai stato dentro all’inizio è stato difficile capire che in carcere si vive per davvero in un ambiente di due metri per tre dove non puoi fare quasi nulla! Mi sono chiesto spesso cosa spingesse gli incensurati a unirsi a noi: in alcuni casi l’ho scoperto dopo anni - il carcere per qualcuno non era stata un’esperienza diretta, ma comunque vicina, vissuta magari da un familiare - in altri non l’ho ancora capito ma va bene così. Ciò dimostra, inoltre, che il carcere non è lontano dalle persone normali, non è qualcosa di altro, di separato dalla società, ma è inserito in essa”. Da 8 anni siete in ‘bilicò tra musica e teatro: non vi sembra il caso di scegliere? “No, perché i Presi per caso sono fatti di anime diverse: alcuni si sentono più musicisti, altri più attori, anche se tutti, nella vita quotidiana, facciamo altri lavori. E poi si tratta di due linguaggi diversi che, entrambi, soprattutto nelle performance dal vivo, ci sanno donare emozioni molto intense, ma proprio perché sono linguaggi diversi, arrivano a colpire persone diverse. D’altronde noi non siamo artisti, ma comunicatori”. E allora qual è il vostro messaggio? “Più che un messaggio è un obiettivo, che in parte abbiamo anche raggiunto: spostare il rapporto classico carcere-giustizia-società dalle posizioni estreme, che sono sia la crudeltà di coloro che pensano che per chi è recluso bisognerebbe buttare via la chiave, sia l’eccessivo buonismo. Diciamo solo che possono esserci punti di contatto tra dentro e fuori e che un carcere diverso è auspicabile: basti pensare che un detenuto nullafacente costa allo Stato 150 euro al giorno, mentre magari con la metà della cifra potrebbe impegnarsi in qualcosa che lo disincentiverebbe a commettere nuovamente reato. Non dimentichiamo che il carcere è un esercizio di promiscuità, ma tra persone che hanno sbagliato: non ci sono modelli che vengono dall’esterno e quindi non si può migliorare. Certo, Rebibbia già ti dà qualche possibilità in più, ma sono comunque realtà chiuse al mondo, mentre la sanzione dovrebbe guardare anche oltre, al dopo, soprattutto in presenza di reati non gravi”. Cosa ne pensi del film dei fratelli Taviani? In quali termini secondo te si dovrebbe parlare di carcere? “Non ho ancora visto il film, ma da quel che so e avendo partecipato a una trasmissione radiofonica con lo sceneggiatore Cavalli, direi che l’operazione mi convince perché si è lavorato solo con ergastolani, quindi hanno avuto tutto il tempo di formarli. In genere io sono diffidente nei confronti di attori e registi che vengono qualche mese a Rebibbia e poi se ne vanno, soprattutto se i progetti coinvolgono i detenuti: in genere vengono messe in scena pièce di cui non capiscono nulla perché, parliamoci chiaro, non hanno lo spessore culturale sufficiente, vengono illusi, magari si creano aspettative e poi è dura quando si torna in cella, da soli. I registi dovrebbero pescare le storie dentro il carcere, che in questo senso è un patrimonio infinito: il detenuto dovrebbe raccontare il proprio vissuto, non interpretare (male) quello di un altro. Infine, del film dei fratelli Taviani mi piace il messaggio di fondo: il detenuto è soprattutto un essere umano. Quello dei Presi per caso, tra l’altro, è proprio che il carcere non è umano! Anche se noi abbiamo sempre un tocco leggero, molto diverso dal film mi sembra di capire”. Qual è il futuro dei Presi per caso? “Mah, io in realtà spero che i Presi per caso non ce l’abbiano un futuro: significherebbe che finalmente la gestione della pena sanzionatoria è cambiata. La vita del gruppo è molto legata a questo, ma la speranza è poca perché le prigioni sono così da almeno 300 anni. Sono una fabbrica di criminalità, è un dato assodato, ma sta bene a molti, soprattutto ai politici che con le campagne sulla sicurezza ci costruiscono il consenso. Sulla sicurezza, invece, occorrerebbe lavorarci in altro modo, ad esempio migliorando la vita nelle periferie, incrementando la vita sociale e culturale, togliendo le sacche di disagio, insomma. Anche per questo noi ad aprile intraprenderemo un mini tour del nostro ultimo show, ‘Nella mia ora di libertà’, ossia le riflessioni di un detenuto durante la sua ora d’aria, che ci porterà a San Basilio e a Tor Bella Monaca”. Milano: dietro le sbarre per 5 minuti…. “l’extrema ratio” in Fiera Asca, 25 marzo 2012 Extrema Ratio - “Fa la cosa giusta!” . Fieramilanocity - Padiglione 4, area Pace e Partecipazione, dal 30 marzo al 1 aprile. Vivere cinque minuti dietro le sbarre per capire che cosa significa condividere 8 metri quadrati di spazio con sei persone. L’iniziativa “Extrema Ratio” è di Caritas Ambrosiana che in occasione della fiera nazionale del consumo critico e degli stili sostenibili “Fa la cosa giusta” (30 marzo-1 aprile) ha chiesto ai detenuti del carcere di Bollate di costruire una vera e propria cella. “Vogliamo suggerire e approfondire insieme la possibilità di una diversa concezione della pena, denunciando quindi il sovraffollamento nelle carceri e individuando e sostenendo percorsi di umanizzazione e di sostegno ad attività di recupero che tengano al centro la dignità della persona”, spiegano. I visitatori dello stand saranno invitati a seguire delle indicazioni (farsi fotografare, lasciare le impronte digitali, depositare le borse) che precederanno l’esperienza di detenzione volontaria nella cella. Il corridoio in cui i visitatori cammineranno in fila indiana sarà a tratti illuminato dall’esterno con luci abbaglianti, per irrobustire la percezione di isolamento. Al termine dei cinque minuti, alcuni operatori dell’Area Carcere di Caritas Ambrosiana offriranno, a chi lo desidera letture del breve percorso ed informazioni sulla situazione attuale delle prigioni italiane. Per i visitatori di venerdì Caritas Ambrosiana ha organizzato un incontro dal titolo “Il perdono responsabile” dalle ore 18,30 alle ore 20,00 presso la Sala Africa. Inoltre lo stand “Extrema Ratio” fa parte del percorso “Legalopoli” e del percorso scuole. Televisione: stasera a “Speciale Tg1 l’inchiesta” il ministro Severino e l’emergenza carceri Adnkronos, 25 marzo 2012 In primo piano l’emergenza carceri nella puntata di “Speciale Tg1 l’inchiesta”, in onda domani alle 23.20 su Rai1. Nel faccia a faccia con il ministro della Giustizia, Paola Severino Di Benedetto, i problemi dei penitenziari italiani: il sovraffollamento, i suicidi, la condizione dei bambini dietro le sbarre con le madri detenute, le case di reclusione minorili. E poi, il carcere duro, la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e il lavoro come strumento di rieducazione dei detenuti e di reinserimento nella società. Cuba: famigliari di italiani detenuti scrivono a Papa “sono innocenti, non hanno ucciso” Giornale di Vicenza, 25 marzo 2012 Un appello al Papa affinché conceda la grazia, o quanto meno convinca le autorità cubane a estradare i tre italiani per far scontare la pesante condanna nelle carceri della nostra Penisola. È quanto hanno fatto i famigliari dei tre italiani in galera a Cuba da un anno e mezzo, con la prospettiva di restarci un’altra ventina per una tragedia in merito alla quale si proclamano del tutto innocenti. E a ragione, visto che hanno ampiamente dimostrato che con la morte di una ragazzina di 12 anni non hanno nulla a che fare. L’ottico vicentino Luigi Sartorio, 44 anni, è in cella nell’arcipelago caraibico con il modenese Angelo Malavasi, 45 anni, e il fiorentino Simone Pini, 43. Sartorio è stato condannato dal tribunale cubano a 20 anni di reclusione per corruzione di minorenne, gli altri due a 25 anni per l’omicidio di una baby prostituta di 12 anni morta durante una festa. Papa Benedetto XVI è giunto ieri in Messico, prima tappa del viaggio che lo porterà anche a L’Avana. La visita del Pontefice è stata già salutata dalle autorità cubane con un provvedimento di amnistia per 2.900 detenuti, fra cui quattro nostri connazionali. Non i tre in questione. I familiari dei tre italiani sono riusciti a presentare la documentazione del caso in Vaticano. Il dossier è arrivato fin sulla scrivania di monsignor Angelo Becciu, della Segreteria di Stato ed ex nunzio proprio a Cuba, che accompagna Benedetto XVI nel suo viaggio. Una copia è giunta anche a L’Avana all’attuale nunzio, monsignor Bruno Musarò. L’auspicio, se non per un vero e proprio provvedimento di grazia, è, almeno, per la possibilità di scontare la pena in Italia, come previsto, del resto, da un trattato tra Italia e Cuba siglato nel 1998. Molti politici vicentini, fra cui il senatore vicentino Alberto Filippi, avevano cercato di sbloccare la situazione. Il Vaticano avrebbe fatto capire che si sarebbe interessato e si sarebbe mosso attivamente per aiutare i tre italiani, se non altro per fare in modo che le autorità locali riconsiderino le prove a discarico dell’accusa. Va detto che a Cuba è previsto il processo di Appello, ma la data non è stata fissata. Per la morte della minorenne - che soffriva d’asma: il decesso sarebbe stato causato dalle complicazioni dovute al consumo di cocaina - sono in carcere altri sei cubani. Gli italiani hanno in tutti i modi cercato di dimostrare la loro estraneità a quel dramma: Sartorio e Pini hanno dimostrato che erano in Italia quando avvenne il dramma, mentre Malavasi ha detto di aver firmato una confessione sotto tortura. Sartorio e Pini sono detenuti a L’Avana, nella prigione del Combinado del Este (le cui durissime condizioni di carcerazione sono state recentemente riprese in video clandestini che hanno fatto il giro del mondo, ricorda l’Ansa); Malavasi è invece a La Condesa. Cina: gli organi dei detenuti per i trapianti e le promesse del governo di Marco Del Corona Corriere della Sera, 25 marzo 2012 In principio fu un segreto ben tenuto. Poi un’ammissione, salutata con il favore che si deve agli atti di coraggio. Adesso - per bocca del viceministro cinese della Sanità, Huang Jiefu - è la promessa che non accadrà più. Il prelievo di organi destinati ai trapianti dai corpi dei condannati a morte è destinato a finire. Il viceministro Huang ha annunciato che nel giro di pochi anni, forse già 3, i cadaveri dei cinesi giustiziati non verranno più trattati alla stregua di un atroce magazzino di pezzi di ricambio umani. La Cina esegue sulle 4 mila condanne capitali ogni anno, un numero in calo dopo la centralizzazione delle autorizzazioni, affidate alla sola Suprema Corte del Popolo. L’anno scorso, poi, è stato ridotto il numero dei reati punibili con la morte da 68 a 55. Il prelievo degli organi era al centro dell’attenzione di molti gruppi per i diritti umani e il movimento religioso del Falun Gong, fuorilegge in Cina, aveva fatto della denuncia del fenomeno uno dei pilastri della sua attività di sensibilizzazione. L’abbandono della pratica mostrerebbe al mondo un volto maturo e benigno della Cina. Dopo la soddisfazione, i dubbi. Human Rights Watch ha notato come il viceministro Huang sia ormai prossimo ai limiti di età e nel nuovo assetto di potere che verrà disegnato dal congresso del Partito in autunno non dovrebbe trovare posto. Dunque: chi gli succede manterrà una promessa fatta da un altro? E ancora: se ogni anno sono 300 mila le persone in attesa di ricevere un organo, e se sugli stessi media cinesi si leggono spesso storie di reni venduti e comprati, basteranno le donazioni volontarie e autorizzate a soddisfare la domanda? Infine, le motivazioni addotte da Huang si limitano alla qualità (scarsa) degli organi dei condannati, affetti da malattie: niente nobili preoccupazioni morali, dunque. Occorre attendere. La Cina si sottopone deliberatamente al controllo e al giudizio dei suoi stessi cittadini e della comunità internazionale, che potranno verificare cosa accadrà della promessa del ministero. E questa è una buona notizia. Iraq: evasione dal carcere di Kirkuk, fermati 22 agenti Agi, 25 marzo 2012 La polizia irachena ha fermato 22 agenti penitenziari in servizio nel carcere di Kirkuk, dopo l’evasione di 19 detenuti tra cui due condannati a morte. “È chiaro che ci sono state complicità e negligenze”, ha osservato il viceministro dell’Interno, Adnan al-Assadi, in visita alla prigione. Uno degli evasi è stato nuovamente arrestato nella capitale del Kurdistan iracheno, Erbil. Tra gli evasi venerdì dal carcere di al-Tasfirat, 240 chilometri a nord di Baghdad, c’erano 11 incriminati per terrorismo e alcuni di loro si trovavano agli arresti dal 2006.