Giustizia: noi e il digiuno di Marco Pannella per l’amnistia… il necessario scatto da parte di tutti di Valter Vecellio Notizie Radicali, 23 marzo 2012 Mancano un fazzoletto di giorni, dal giorno di Pasqua, sedici appena. Sedici giorni per dare letteralmente corpo alla riuscita della seconda Marcia per l’Amnistia, la Giustizia e la Libertà, per un’organizzazione come quella radicale, priva di risorse e che non può contare sulla compiacente “pubblicità” dei mezzi di informazione, è “missione” quasi impossibile. Irene Testa, che con altre compagne e compagni coordina il lavoro preparatorio per questo importante appuntamento, da ostinata sarda qual è, la volge in positivo: “Che il tempo a disposizione fosse poco, ce lo siamo detto fin dal principio, ma questo non più e non oltre che un ostacolo, si può invece utilizzarlo come stimolo per concentrare al meglio le nostre forze/risorse”. Irene è convinta, e noi con lei, che sia comunque possibile farcela, “ma solo se si riesce ad avere uno scatto da parte di tutti, e se quella che dovrebbe essere la priorità per tutti, non si riduce, come spesso accade ad essere la priorità di Marco Pannella e di pochi altri…”. Ecco. Meglio non si potrebbe dire. La rassegna stampa di oggi non offre molto; un lungo articolo di Eleonora Martini sul “Manifesto”, che fornisce un quadro completo della situazione non solo delle carceri, ma della giustizia, e il “virus” che l’Italia esporta in Europa. Per ora la Marcia e i suoi obiettivi, le sue ragioni, sono “condannate” a giornali valorosi ma di nicchia: il “Manifesto” oggi; e nei giorni scorsi “L’Opinione”; “Gli Altri”, “Il Riformista”, “Europa”. Eppure a scorrere la lista, ancora in via di formazione, dei promotori e degli aderenti, anche solo dal punto di vista giornalistico ce ne sarebbero di spunti su cui lavorare: a cominciare dalle tre “capilista”, Ilaria Cucchi, Silvia Tortora e Lucia Uva, le loro tre storie, diverse eppure “comuni”. La nutrita “pattuglia” di religiosi, quelli sì veri credenti, che hanno poca dimestichezza con le trame e i veleni delle gerarchie vaticane, ma moltissima con i problemi e le tragedie della “sommersa” società civile. Ci sono i garanti dei detenuti e i dirigenti degli istituti penitenziari, chiamati “per legge” a spietati doveri, e che tuttavia rivendicano il loro diritto ad affermare quello che impone la loro coscienza, e ci dicono che quello che “per legge” devono fare, gli ripugna, e che altro occorre e si deve fare. Ci si potrebbe chiedere cos’abbiano mai in comune il direttore dell’organo “ufficioso” di Comunione e Liberazione “Tempi” e un ventaglio di parlamentari che va dal Pdl Renato Farina a Jean Leonard Touadi del Pd; da Ermete Realacci, Pd con spiccate sensibilità ambientaliste a all’ex ministro del governo Berlusconi Anna Maria Bernini; e via così. E i tanti commentatori, titolari di rubriche, editorialisti, che quotidianamente ci spiegano questo e quello, avrebbero materia per le loro riflessioni di consenso, di perplessità, di dissenso. E scelgono invece, loro e i loro direttori, il silenzio. Giorni fa abbiamo fornito alcuni dati, alcune cifre che non riguardano tanto il carcere, quanto la questione della Giustizia, e quello che comporta il suo mancato funzionamento: “In una audizione in commissione Bilancio della Camera (14 marzo scorso), il capo economista dell’Ocse Pier Carlo Padoan, ha trattato la questione della corruzione e della lentezza della giustizia: e li ha indicati come “gli ostacoli per la competitività di un paese civile e moderno”. Secondo il Comitato investitori esteri di Confindustria (il documento è del novembre scorso), “il buon funzionamento della giustizia, la semplificazione e la chiarezza delle norme, devono essere considerati una delle leve decisive per potenziare l’attrattività degli investimenti esteri in Italia, che riguardano al momento circa 14 mila imprese per circa un milione e trecentomila dipendenti”. Occorrono circa 500 giorni per una sentenza civile di primo grado: 553, per l’esattezza, a fronte dei 129 giorni in Austria e 286 in Francia. Il centro studi di Confindustria, che ha elaborato dati della Banca Mondiale, la soluzione di una controversia commerciale in Italia ha bisogno di circa 41 procedure diverse, comporta una durata di 1.210 giorni di durata e deve sostenere costi complessivi pari al 30 per cento dell’intero valore della controversia. Nei paesi occidentali, le procedure sono una trentina, e i tempi molto più rapidi: circa 300 giorni negli Stati Uniti, 394 in Germania. I costi sono sotto il 20 per cento del valore della causa. E si calcola che una giustizia più rapida del 10 per cento varrebbe un aumento annuo del prodotto interno lordo pari allo 0,8 per cento”. Se la situazione è questa, coloro che sono perplessi o contrari all’iniziativa e alle proposte indicate dai radicali, cosa offrono in cambio? O ritengono che la situazione sia ulteriormente sopportabile, che non sia così grave come dicono tutti? Abbiamo il diritto di chiederlo, hanno il dovere di dircelo. Perché, ha ancora ragione Irene, “non dobbiamo aspettare, come già ha annunciato, che Marco Pannella passi allo sciopero della sete, per essere poi investiti dell’emergenza e non sapere come essergli davvero d’aiuto”. Anche perché davvero, mai come questa volta, aiutare Pannella significa aiutare tutti noi ad uscire dalla mortifera sabbia mobile in cui siamo impantanati. Lettere ai giornali, raccolta di adesioni, e chi può pressione a comuni, istituzioni, organizzazioni, politici perché aderiscano e anche loro scendano in campo. Non è facile, richiede tempo e pazienza, ostinazione. Ma si può fare, come ogni giorno ci dimostra Maurizio Bolognetti che pure opera in un territorio come la Basilicata, certamente meno favorevole come invece sono altri. Provate a leggere il suo editoriale su “Notizie Radicali” di oggi, e poi tutti noi chiediamoci come mai e perché quello che accade a Potenza e dintorni non accade anche altrove. Se si vuole si può; se si può si deve, questo ci dicono Irene e Maurizio. Giustizia: il giorno di Pasqua tutti a Roma, in marcia per l’amnistia di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 marzo 2012 Sono passati sette anni dalla prima marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà che nel Natale 2005 diede l’impulso a quel processo politico che portò il parlamento, un anno dopo, a votare l’indulto. Un provvedimento che così, senza amnistia, non rispondeva certo a ciò che chiedevano i Radicali che avevano promosso quella manifestazione e le tante personalità che vi aderirono - tra cui l’allora senatore Giorgio Napolitano - ma comunque pur sempre un segno di attenzione che oggi sembra essersi dileguato. Allora erano 60 mila i detenuti ammassati in carceri che potevano ospitarne al massimo 42 mila. Sette anni dopo, con una media di mille detenuti in più l’anno, i motivi per replicare l’iniziativa ci sono tutti e molti di più. Per questo si bisserà a Roma nel giorno di Pasqua, domenica 8 aprile. L’elenco delle adesioni alla marcia di Pasqua è lungo (anche il manifesto) ma ancora in via di definizione. Moltissimi i religiosi: da don Mazzi a don Gallo e don Ciotti e tanti cappellani di carceri. Il mondo dell’associazionismo penitenziario ha aderito “tutto, come sempre”, racconta Irene Testa, segretario dell’associazione radicale “Detenuto ignoto” che coordina i lavori. E poi direttori e medici penitenziari, garanti dei detenuti, una parte dei sindacati degli agenti (molto divisi in questo frangente), giornalisti, parlamentari e consiglieri di tutti i partiti tranne che della Lega (e solo qualcuno dell’Idv). Marco Pannella, naturalmente, sarà tra coloro che apriranno la marcia. Alla sua età è ancora una volta, da una settimana, alle prese con un sciopero della fame, e sta per intraprendere anche quello della sete. Andrà avanti ad oltranza, fino a quando, malgrado le imminenti amministrative e la necessità di consenso elettorale che impedisce di affrontare con onestà il problema, la politica non comincerà a discutere la proposta di amnistia. “Per noi - aggiunge Irene Testa - è l’unico strumento tecnico previsto dalla Costituzione in grado di riportare alla legalità il sistema della giustizia italiana”. Vediamolo nei numeri, questo sistema: “500 prescrizioni al giorno, 42% di detenuti in custodia cautelare, 4 anni di attesa per le cause civili e 7 anni per quelle penali, decine di condanne della Corte europea per lungaggini processuali - snocciola i dati Irene Testa - 10 milioni di processi pendenti, di cui 6 milioni quelli civili che costano all’Italia 96 miliardi di euro in termini di mancata ricchezza. Smaltire questa enorme mole di pratiche frutterebbe alla nostra economia il 4,9% del Pil ma basterebbe abbattere anche del 10% i tempi di risoluzione delle cause per guadagnare lo 0,8% del Pil l’anno. Secondo il rapporto Doing business 2012 della Banca mondiale, i difetti della nostra giustizia civile ci fanno perdere l’1% di Pil l’anno; e in riferimento ai tempi e all’efficacia di risoluzione dei contratti civili, il nostro Paese è posizionato al 158esimo posto su 183. Sempre secondo la Banca mondiale in Italia ci vogliono in media 1210 giorni per tutelare un contratto contro i 518 giorni dei paesi Ocse. Il nostro Stato spende per la giustizia circa 70 euro per abitante a fronte dei 56 della Francia, dove la durata media di un processo civile è della metà. Dieci anni di durata media per i fallimenti, e la giustizia tributaria non è da meno. La spesa pubblica complessiva per i tribunali e per le procure supera i 7,5 miliardi di euro l’anno ed è la seconda più alta in Europa, dopo quella della Germania”. Ecco, in questo contesto sarebbe da chiedersi (se non fosse superfluo) come mai Monti, tanto preoccupato di conquistare la fiducia dei capitali stranieri, si dimentica poi un “dettaglio” così importante. “Almeno dal punto di vista economico - provoca Testa - riusciamo a capire che l’amnistia riporterebbe alla normalità i tribunali intasati e senza risorse economiche, costosi e non operativi, e ridarebbe fiducia agli investitori esteri?”. In questi ultimi sette anni, più volte Napolitano ha fatto notare che la condizione detentiva “ci umilia in Europa” e che la questione giustizia è di “prepotente urgenza civile e costituzionale”. Eppure di amnistia nessuno vuole parlare. A cominciare dal ministro Severino. Anche nel 2005 sembravano tutti d’accordo ma oggi molti di coloro che marciarono per l’amnistia “nemmeno rispondono al telefono - conclude laconicamente Testa - nemmeno per spiegarci come e perché hanno cambiato idea. Beppe Grillo, per esempio, stiamo ancora aspettando che ci richiami”. Giustizia: quando la violazione della legalità, da fenomeno marginale diventa “l’in sé” del sistema di Maurizio Bolognetti (Direzione Radicali Italiani) Notizie Radicali, 23 marzo 2012 Il premio Nobel Gunnar Myrdal affermava che quando la violazione della legalità da fenomeno marginale diventa “l’in sé” del sistema, la struttura dello Stato di diritto ne resta sconvolta. Alla luce di questa affermazione, verrebbe da chiedersi quale sia “l’in sé” del nostro Paese. Marco Pannella, riferendosi alla situazione in cui versa la giustizia nell’Italia de “La Peste” - con il suo putrido percolato rappresentato da carceri assurte a luoghi di tortura - ha osato chiedere che il nostro Stato interrompa “la flagranza di reato contro i diritti umani e la Costituzione”. Eccessivo? Per niente! Pensate alle patrie galere e chiedetevi se in esse viene rispettato l’art. 5 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamenti o punizioni crudeli o degradanti”. Pensate alla lentezza dei processi e chiedetevi se questa situazione non rappresenti una palese violazione dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale”. Un termine ragionevole. E cosa c’è di ragionevole nella irragionevole durata dei processi made in Italy? Per il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, i tempi eccessivi della nostra giustizia rappresentano un “grave pericolo per lo stato di diritto”. Una lentezza che nega quotidianamente giustizia a vittime e imputati, e che si traduce in decine di migliaia di procedimenti prescritti ogni anno. L’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo recita: “Ogni persona arrestata o detenuta deve essere tradotta al più presto dinanzi ad un giudice o ad un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura”. Dov’è in questo Paese il rispetto della convezione europea dei diritti dell’uomo? Dov’è il rispetto della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo? Dov’è, chiedetevelo, il rispetto dell’art. 27 della Costituzione? Dove sono? Muoiono ogni giorno in carceri immonde e in tribunali che non riescono a dare risposte a chi chiede giustizia. Intanto, in migliaia vivono un anticipo di pena per poi essere dichiarati innocenti. Intanto, milioni di persone sono coinvolte in un sistema allo sbando. E allora, l’8 aprile noi lo trascorreremo in piazza, marciando da Castel Sant’Angelo al Quirinale. Marceremo per dar corpo alla nostra fame di giustizia, di legalità, alla nostra sete di verità. Marceremo per chiedere che l’ “in sé” del sistema, almeno sul fronte giustizia-carceri, torni a corrispondere al rispetto dello Stato di diritto, delle convenzioni e delle dichiarazioni a tutela dei diritti dell’uomo. Marceremo perché nutriamo la speranza che questo Paese possa risorgere dalle sue macerie. E magari qualcuno marcerà nutrendo la speranza che la giustizia possa essere per davvero “uguale per tutti”. Marceremo per alimentare la forza e la speranza contenuta nella lettera dei direttori del Si.Di.Pe, che hanno scritto di “leggi solennemente enunciate e quotidianamente violentate”, di uno Stato incapace di “mantenere fede alle promesse celebrate nelle sue leggi”. Ecco, marceremo affinché il nostro Stato rispetti la sua propria legalità, per chiedere al “Parlamento un impegno concreto e adeguato ad affrontare le drammatiche condizioni in cui versano la giustizia e le carceri”. Marceremo, consapevoli che la struttura dello Stato di diritto in Italia è stata sconvolta da una illegalità sistemica e sapendo che la giustizia e le carceri sono uno specchio della “Peste” che incombe sulle nostre vite. Dalla Basilicata, per ora, hanno annunciato il loro sostegno alla marcia: i Consiglieri regionali Alessandro Singetta e Nicola Benedetto, entrambi iscritti al Prntt; il caporedattore del Tgr Oreste Lo Pomo; il sindaco di Lagonegro Gaetano Mitidieri e il vicesegretario regionale dell’Udc Antonio Flovilla, anch’egli iscritto al Prntt. Giustizia: i non-reati e il 41-bis… se lo stato di diritto è a “discrezione” dei magistrati di Maurizio Turco (Deputato Radicale) Gli Altri, 23 marzo 2012 Grazie al Procuratore generale della Cassazione Francesco Iacoviello che ha avuto, a seconda dei punti di vista, il coraggio o l’ardire di affermare che al concorso esterno non crede più nessuno forse si potrà aprire un dibattito sul tema. Prima però è necessario avere almeno un punto di partenza condiviso. Il reato inteso come articolo del codice penale non esiste e quindi l’affermazione secondo la quale vi sarebbe un “tentativo di demolire questo reato”, per usare infine le parole di Don Ciotti, non è fondato. Ed è paradossale che chi come noi radicali vuole invece che il “sostegno esterno ad un’associazione di tipo mafioso” sia un articolo del codice penale - nella mia proposta di legge sarebbe il 416-quater del codice penale - sia additato come qualcuno che non vuole che vi sia questo reato. È quindi necessario partire dalla constatazione che il reato non esiste in quanto tale ma è il frutto di due norme: il concorso di persone in un reato, l’articolo 110, e il 416 bis che è l’associazione mafiosa. Questa associazione di articoli viene fatta a discrezione o, per essere politically correct, secondo il libero convincimento di un magistrato. Intendiamoci, le organizzazioni criminali sono cambiate ed è doveroso che il legislatore intervenga e lo faccia adeguando le fattispecie penali tipiche nel rigoroso rispetto dei principi costituzionali di legalità e di tassatività delle fattispecie penali. Il silenzio della politica, anche di quella parte che dice di essere favorevole a tipizzare la fattispecie del concorso esterno, ha legittimato interventi “creativi” della giurisprudenza e della magistratura che, senza alcuna investitura popolare, si è sentita necessitata a far argine alla nuova dinamica fisionomia delle mafie attraverso l’individuazione della strada del “concorso esterno in associazione mafiosa”, attraverso, cioè l’utilizzazione del “moltiplicatore” di reati, l’articolo 110, anche per una fattispecie già di per sé necessariamente plurisoggettiva. Va detto che la stessa Corte di cassazione, investita più volte del problema, si è pronunciata, nel tempo, in modo difforme, ora escludendo ora ammettendo la configurabilità del concorso eventuale nel reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, fino ad arrivare ai decisivi, ma irresponsabili, pronunciamenti delle Sezioni Unite. Pronunciamenti irresponsabili, non perché non vi sia il bisogno di contrastare le mafie anche o soprattutto su questo terreno, che è proprio quello che sosteniamo, ma perché il prodotto dell’inerzia del legislatore, è stato quello di conferire, volenti o nolenti, il potere legislativo, il potere di individuare una nuova fattispecie a dei magistrati che per quanto di elevatissimo spessore, sono pur sempre sforniti del mandato politico dei cittadini e ad essi non rispondono. E l’individuazione di questa nuova figura di reato, essendosi verificata attraverso gli strumenti del tecnicismo giurisprudenziale, gli unici di cui può legittimamente disporre la magistratura, ha finito per conferire al concorso esterno confini labili ed incerti; il che significa rimandare la determinazione del fatto punibile alla mera discrezionalità dei giudici. Infine l’affermazione del Procuratore generale della Cassazione Francesco Iacoviello ha anche un riscontro oggettivo aldilà di ogni ragionevole dubbio. Da una ricerca fatta dal professor Giovanni Fiandaca - il docente che legò il suo nome alla “Commissione Fiandaca” del primo governo Prodi - al settembre 2007 risultava che: 7.190 erano i cittadini italiani indagati per concorso esterno in associazione mafiosa tra il 1991 e il settembre 2007. Di questi erano 1.643 gli indagati che avevano ancora inchieste pendenti; 5.547 gli indagati con indagini preliminari definite; 2.959 le persone il cui procedimento è stato archiviato o la richiesta di archiviazione era in corso; 1.992 Il totale con richiesta di rinvio a giudizio; 542 Il totale dei procedimenti definiti con sentenza; 54 Il totale dei procedimenti conclusi con sentenza di “non doversi procedere”. Questi dati sono stati così commentati dal professor Fiandaca: “O c’è un accanimento investigativo o c’è grande scrupolo. In fondo è la stessa magistratura a invocare l’archiviazione quando non trova materiale sufficiente”. Che invoca di dare “parola al legislatore per precisare meglio un istituto che per la sua genericità e indeterminatezza oggi più che al processo è utile all’avvio delle indagini”. Alla scelta iper giustizialista di una fattispecie non prevista in quanto tale dal codice penale si associa la scelta iper punitiva del 41-bis. Tenendo bene a mente che tra l’articolo e la cella di un detenuto in 41-bis vi è un abisso. Una detenzione così aberrante che il legislatore - a seguito delle stragi in cui morirono Falcone, Borsellino, e otto tra donne e uomini delle loro scorte - l’8 giugno 1992, introducendo con un decreto legge nell’ordinamento penitenziario l’articolo 41 bis, prevedeva che tale regime avrebbe cessato di avere effetto dopo tre anni ma, nel 1995, una legge ne prorogò l’efficacia fino al 31 dicembre 1999 e un successivo provvedimento fino al 31 dicembre 2002. In vista di questa scadenza, nella seconda metà del 2002, la Commissione antimafia dedicherà diverse sedute a discutere “sulle questioni emerse in sede di applicazione della normativa vigente in tema di regime carcerario speciale previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, nonché sulle proposte di modifica avanzate in materia”. Vale la pena soffermarsi sul termine “speciale” attribuito al sistema del 41-bis. Ma di speciale, oltre alle condizioni di detenzione, vi è la valenza negativa e distruttiva di principi costituzionali fondamentali e dello stato di diritto. Entrare in 41-bis è facile mentre è difficile uscirne, non dalla prigione, ma solo per essere trasferito in un circuito detentivo poco meno disumano. Tutto ciò accade in modo molto semplice. Lo ha illustrato, con onestà, l’Onorevole Giuseppe Ayala, già nel pool antimafia di Palermo con Falcone e Borsellino ed ex sottosegretario di Stato alla Giustizia con delega al 41-bis, intervenendo il 9 luglio 2002 nella seduta della Commissione antimafia: “Come ho detto per molto tempo (saranno stati centinaia i provvedimenti che ho firmato), le motivazioni delle proroghe appartengono a quella categoria di cose che si firmano previa bendatura degli occhi (tanto è un’azione automatica che sappiamo fare tutti e con l’occhio bendato viene meglio). Questo lo dico senza avanzare assolutamente critiche nei confronti degli organi che erano di volta in volta chiamati a fornire gli elementi, ma perché certe volte è quasi una probatio diabolica. Si può certamente ovviare a questo inconveniente. Non mi piace dire che occorre stabilire una sorta di inversione dell’ordine della prova: la cultura che possediamo ci fa sentire in difficoltà di fronte all’inversione dell’onere della prova. Siamo portatori sani di culture garantiste vere e l’inversione dell’onere della prova è una questione sempre molto border line, se non oltre il border line rispetto a questo tipo di impostazione; però, tutto questo va accompagnato a una riflessione molto precisa che fa parte del nostro patrimonio di conoscenza”. Il 18 luglio del 2002 si concludono i lavori e la Commissione antimafia, all’unanimità, “auspica che il Parlamento pervenga rapidamente all’approvazione di una legge che offra un più incisivo strumento nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata”. Il 23 dicembre 2002 sulla Gazzetta ufficiale numero 300, veniva pubblicata la legge numero 279. Con pochissime eccezioni, deputati e senatori avevano trasformato in ordinario il “regime carcerario speciale previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario”. A proposito di unanimità della Commissione antimafia va sottolineato che mentre il membro di Rifondazione comunista Nichi Vendola si associava all’unanimismo dell’impotenza antimafista, Peppino Di Lello, un altro magistrato del pool antimafia di Palermo con Falcone e Borsellino ed allora deputato europeo di Rifondazione, con un lungo ed articolato intervento su Liberazione, criticava il sistema del 41-bis. Il titolo dell’articolo era “41bis ma con garanzie” e fu pubblicato il 15 agosto del 2002. Più che sull’anno l’occhio cade sul giorno. Un giorno speciale, come il 41-bis. Giustizia: nel carcere di Saluzzo il “No Tav” Giorgio Rossetto trattato come un boss mafioso di Mauro Ravarino Il Manifesto, 23 marzo 2012 Giorgio Rossetto, uno dei No Tav arrestati il 26 gennaio scorso, da quasi due mesi detenuto nel carcere di Saluzzo, è recluso - denuncia il movimento - in uno speciale braccio di isolamento, come quello costruito per l’applicazione dell’articolo 41bis riservato ai mafiosi. È in attesa di giudizio ma l’ora d’aria “la trascorre in un cunicolo anziché all’esterno”. Motivo è il sovraffollamento. Ieri, una delegazione, composta dall’europarlamentare Gianni Vattimo (Italia dei Valori), dai consiglieri regionali Eleonora Artesio (Federazione della Sinistra) e Fabrizio Biolè (Movimento 5 Stelle) e dai volontari dell’associazione Antigone, ha visitato il carcere e ha chiesto al ministero della Giustizia un’ispezione. E che venga risolto il problema alla radice: ovvero ridurre da 430 a 200 il numero dei detenuti, visto che questi sono i posti disponibili. “Il sovraffollamento determina situazioni del tutto anormali - ha spiegato Artesio - come quella di Rossetto, ovvero di persone in attesa di giudizio che si trovano rinchiuse nel settore di massima sorveglianza, con limitazioni sulle ore di socialità. Inoltre, chi è in attesa di giudizio non può partecipare alle attività di laboratorio. E diversi detenuti hanno ribadito il problema di non poter ottenere in tempi ragionevoli delle visite mediche specialistiche”. “Insieme agli altri militanti - raccontano i compagni - Rossetto non ha piegato la testa e anche dietro le mura ha continuato a battersi per le condizioni dei detenuti”. Con altri undici ha denunciato in un documento la pesante situazione: “Le gabbie degli animali - scrivono i dodici detenuti - hanno almeno le reti e le sbarre, mentre qui c’è solo un alto muro di cemento. Se in uno spazio simile ci fosse un animale con un peso superiore a 15 chilogrammi, si arrabbierebbe persino la Protezione animale. La direzione si giustifica dicendo che questa è una casa di reclusione (penale) e non una casa circondariale. Per salire nelle 6 sezioni del carcere bisogna essere definitivi. Lì ci sono laboratori, le attività in comune, la palestra, l’area per giocare a pallone”. Il movimento valsusino ha lanciato una campagna di denuncia: “Una battaglia di dignità e di resistenza”. Ieri, in conferenza stampa, Alberto Perino ha sottolineato “come i governi abbiano recuperato i 168 milioni di euro destinati al tunnel geognostico di Chiomonte, tramite una delibera del Cipe, da fondi destinati e vincolati all’edilizia scolastica e, ironia della sorte, all’edilizia carceraria”. In chiusura, Lele Rizzo, comitato di lotta popolare di Bussoleno, ha ricordato “come tutti i No Tav abbiano da subito lottato per denunciare la situazione carceraria loro e di tutti i detenuti”. Intanto, in piazza Castello continua il digiuno pubblico a staffetta “Ascoltateli!” (www.ascoltateli.org), con l’aiuto e l’assistenza del Centro Studi Sereno Regis: un’azione collettiva e nonviolenta per la riapertura del dialogo sulla vertenza Tav. Hanno aderito intellettuali, politici e cittadini. Giustizia: chiudono gli Ospedali psichiatrici giudiziari… ma con cosa saranno sostituiti? di Dario Stefano dell’Aquila (Antigone Campania) www.napolimonitor.it, 23 marzo 2012 Gli Ospedali psichiatrici giudiziari devono chiudere entro il primo febbraio 2013. È quanto dispone la legge, impropriamente detta svuota carceri, di recente in Gazzetta Ufficiale. È forse superfluo osservare quanto importante sia questa disposizione. Per merito della Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema sanitario, presieduta da Ignazio Marino, dopo anni di lotte e di denunce sulle condizioni detentive all’interno dei manicomi giudiziari, sui letti di contenzione, sulla sequenza impressionante di morti, sembra trovare termine questa vergognosa vicenda. E anche forse il caso di ricordare, sia pure en passant, che quella che in tempi recenti era una denuncia solitaria e radicale di pochi (tra tutti mi piace ricordare Alberto Manacorda e Sergio Piro) è stata addirittura raccolta dal presidente della Repubblica che li ha definiti “un orrore medioevale”. Verrebbe solo da domandarsi perché mai nessuno ha mai risposto dinnanzi ad un giudice di questo orrore, ma è forse un’altra storia. Il tema che è oggi prioritario affrontare è come si chiudono gli Opg, e con cosa saranno sostituiti? È una questione che interessa da vicino una regione che vede la presenza di ben due manicomi, ad Aversa e a Napoli, e che ha circa centosessantacinque cittadini campani internati in queste strutture. Secondo la norma approvata, gli OPG saranno sostituiti da strutture a esclusiva gestione sanitaria all’interno e la cui vigilanza esterna sarà affidata,con molta probabilità, alla polizia penitenziaria. Sarà un decreto del Ministero della Salute, adottato di intesa con il ministero della giustizia e con le regioni a definire, entro il prossimo 31 marzo, i requisiti di queste strutture. E qui, i problemi che sembravano risolti si riaprono tutti. Perché il rischio che dalla chiusura degli Opg nascano, per gemmazione, piccoli manicomi residenziali è molto alto. Prima di tutto perché la norma non ha inciso sul meccanismo delle misure di sicurezza. Pertanto, anche in futuro, per i sofferenti psichici autori di un reato non si daranno pene con un termine, ma misure detentive che potranno essere, come avviene oggi, prorogate senza limiti. In secondo luogo, perché regna assoluta incertezza sulla tipologia e sulla natura delle strutture che andranno a sostituirli. Se, come si ipotizza, le strutture avranno una capienza di venti-quaranta posti, solo in Campania ci saranno circa otto di queste nuove strutture. E se già oggi, in molte strutture residenziali “ordinarie”per il disagio psichico, prevale il modello della custodia a quello della cura, viene da chiedersi che cosa possono diventare delle strutture destinate per intero a ospitare sofferenti psichici accompagnati da uno stigma indelebile. Non bisogna nemmeno sottovalutare il rischio che, vista l’alta tariffa che comporta la presenza in una struttura di questo tipo, oltre cento euro al giorno, si inneschi una dinamica di interessi corporativi del business sanitario. Una dinamica che privilegia i modelli di scatolette residenziali a progetti individualizzati di presa in carico, cura e reinserimento sociale, perché garantisce il massimo del risultato (in termini di profitto) con il minimo sforzo (per un progetto di inserimento e cura ci vuole una equipe specializzata, per chiudere una porta basta un custode). Forse vale la pena ricordare il caso di San Gregorio Magno, quando il 15 e il 16 dicembre 2001 prese fuoco una “struttura intermedia residenziale” e dove trovarono la morte 19 persone che provenivano dai manicomi civili. Vale la pena ricordalo, specie in questa fase, per dire che la chiusura di un manicomio non è la sostituzione di una scatola grande con una piccola, ma significa la restituzione del sofferente a una vita il più possibile normale e comunque non per forza reclusa. E che il superamento di un Opg passa per il superamento dei dispositivi psichiatrici e giuridici che determinano un internamento privo di qualsiasi termine e al di fuori di ogni garanzia. È ancora possibile, in questa fase, ragionare per cogliere fino in fondo la grande opportunità che il termine della chiusura oggi ci offre. È possibile farlo in fretta, senza per questo farlo male. Giustizia: no a riapertura di Asinara e Pianosa; l’Ancim chiede un incontro al ministro Severino Adnkronos, 23 marzo 2012 Dall’Associazione nazionale dei Comuni delle isole minori (Ancim) arriva il “no” alla riapertura del carcere di Asinara e Pianosa. Il presidente dell’Associazione, Mario Corongiu, ha scritto una lettera al ministro di Grazia e Giustizia Paola Severino in cui le chiede un “incontro urgente” per discutere di questo tema. Riguardo alla notizia dell’intenzione dei ministro di riaprire l’Asinara a Pianosa come sedi di carceri, Corongiu, come presidente dei Comuni delle isole minori ma anche come sardo, si dice “molto meravigliato poiché parte da una non conoscenza dell’attuale situazione sociale ed economica delle suddette isole. Mi limito a dire che esse, da oltre dieci anni, sono state destinatarie di finanziamenti pubblici statali, regionali e comunitari per trasformarle in realtà economicamente utili ai fini turistici”. “Con i suddetti finanziamenti si è provveduto a riconvertire le vecchie strutture carcerarie in altre strutture utili ai fini suddetti - spiega. Anche lei deve essersi posta questa riflessione e cioè il costo, per la difficile situazione economica che stiamo attraversando, di una operazione volta ad annullare la realtà nuova che è nata dalla riconversione della vecchia utilizzazione ai fini carcerari”. “A questa facile valutazione economica andrebbe aggiunta quella più generale che queste realtà, per il contesto naturalistico di particolare pregio, sono un’ottima molla per rilanciare quello sviluppo, crescita ed occupazione che costituisce uno dei principali obiettivi del governo di cui lei è autorevole componente - afferma il presidente dell’Ancim rivolgendosi al ministro della Giustizia. A queste prime riflessioni aggiungerei quella di valutare la particolare situazione di disagio sociale e di elevato tasso di disoccupazione che caratterizza la Sardegna tutta, con punte insostenibili in quelle aree di crisi industriale quale quella di Porto Torres di cui l’Asinara fa parte”. “Sarebbe estremamente grave sottrarre l’Isola alla sua vocazione turistica che in questi anni ha cercato di costruirsi e si sta costruendo - prosegue - Ritengo, e noi tutti sindaci delle Isole minori riteniamo, che la proposta sia nata da una non adeguata conoscenza dei problemi che molto brevemente ho rappresentato”. “Ai fini di rappresentarglieli in modo più esaustivo, ma anche di studiare con lei la valorizzazione di altre strutture abbandonate quale quella di Favignana, a nome dei 36 Comuni, le chiedo un incontro urgente per chiarire meglio i problemi insulari - conclude - La ringrazio per la sua attenzione e resto in attesa di un prossimo incontro”. Giustizia: Osapp; ministro Severino si concentri su chiusura degli Opg, non su Pianosa e Asinara Adnkronos, 23 marzo 2012 “Pregevoli e condivisibili i chiarimenti del ministro della Giustizia Paola Severino sul possibile reimpiego in ambito penitenziario di Pianosa e di Asinara”. Lo dice Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), convinto che “la sensibile attenzione della Guardasigilli, più che all’allocazione dei detenuti del 41-bis e per i quali dovrebbero entrare in funzione, entro l’anno, gli istituti di Cagliari e di Sassari, dovrebbe rivolgersi ai gravi problemi che, senza i debiti accorgimenti, potrebbero insorgere per la polizia penitenziaria e per l’intera amministrazione penitenziaria a seguito della chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari sul territorio”. “La soppressione, ineccepibile dal punto di vista umanitario entro il 31 marzo 2013, degli Opg e delle Case di Custodia e Cura per complessivi 1.150 internati e ulteriori 292 presso l’istituto, non penitenziaria, di Castiglione dello Stiviere, per realizzare al loro posto strutture dai 10 ai 20 posti ciascuna - indica ancora il sindacalista - può comportare una inaccettabile moltiplicazione di compiti e responsabilità per la polizia penitenziaria (circa 650 unità) impiegata nel settore, qualora se ne decida l’utilizzo nella sorveglianza esterna alle oltre 70 nuove unità alloggiative”. Giustizia: il Cdm approva Decreto su Carta dei diritti e doveri del detenuto e dell’internato www.giustizia.it, 23 marzo 2012 Su proposta del Ministro della Giustizia, in concerto con il Ministro dell’economia e delle Finanze, il Consiglio dei Ministri ha approvato oggi un Decreto Presidenziale che introduce modifiche al regolamento sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà. Le modifiche introducono nell’ordinamento la Carta dei diritti e doveri del detenuto e dell’internato. La Carta, che verrà tradotta in diverse lingue straniere, ha lo scopo di consentire al detenuto un esercizio più completo dei propri diritti e una maggiore consapevolezza delle regole applicate nel contesto carcerario. Il documento, il cui contenuto verrà definito da un decreto del Ministro della giustizia, conterrà, ad esempio, l’indicazione dei principi sul rispetto della dignità della persona, le disposizioni in materia di vestiario, igiene personale, alimentazione, permanenza all’aperto, provvedimenti disciplinari e misure alternative alla detenzione. La Carta verrà consegnata ai detenuti e degli internati, e portata a conoscenza dei loro familiari, affinché anche costoro abbiano una migliore comprensione del contesto carcerario. La Carta è introdotta nell’Ordinamento Penitenziario per sostituire la mera informazione sui diritti e doveri, disciplina e trattamento prevista dalla normativa vigente, in modo da garantire una maggiore consapevolezza del regime carcerario al quale i detenuti e internati sono sottoposti. Il documento fornirà informazioni dettagliate di varia natura, ad esempio, sulle strutture e servizi penitenziari, sui principi che fondano l’attività trattamentale, come il rispetto della dignità della persona, e contemplerà altresì le disposizioni relative alla concessione delle misure alternative alla detenzione. Un successivo decreto del ministro della giustizia stabilirà le modalità per portare a conoscenza la Carta dei diritti e dei doveri anche ai familiari dei detenuti e internati. Con il provvedimento viene infine introdotta un’ulteriore modifica delle norme sull’ordinamento penitenziario che prevede l’acquisizione del consenso, sin dal primo colloquio col direttore del carcere, alla modalità di controllo elettronico a distanza per i detenuti che possono beneficiare della detenzione domiciliare o degli arresti domiciliare, così da consentire un periodo di permanenza minima all’interno del carcere. Giustizia: detenuto intollerante al menù del carcere ottiene differimento della pena di Riccardo Arena La Stampa, 23 marzo 2012 In carcere, a Sulmona, si mangiano troppe fave. E anche troppi piselli. Li propongono con la pasta. Col riso. Persino con le seppie. Poi c’è il minestrone. E infine ancora le fave. Può un detenuto che soffre di favismo, una malattia molto grave, stare in un carcere del genere? No, non può, ha stabilito il tribunale di sorveglianza dell’Aquila. Che ha concesso il differimento della pena a Michele Aiello, ingegnere e imprenditore sanitario, da alcuni giorni tornato a casa sua, a Bagheria, a trascorrere un anno, dei 15 e mezzo che deve scontare, in detenzione domiciliare. Aiello è il regista della rete delle talpe che attingevano notizie in Procura e le fornivano a boss latitanti del calibro di Bernardo Provenzano, al quale l’imprenditore è considerato molto vicino. È stato condannato per associazione mafiosa, corruzione e una sfilza di altri reati. Il suo patrimonio da 800 milioni è stato confiscato. Nello stesso processo, denominato “Talpe in Procura”, è stato condannato anche l’ex presidente della Regione Sicilia, Totò Cuffaro, che da 14 mesi sconta in cella, a Rebibbia, una pena di sette anni. Per quanto la malattia di cui soffre l’ex detenuto sia molto seria e grave, il retroscena della sua scarcerazione è grottesco: “Negli elaborati - scrive il tribunale, presieduto da Laura Longo - si evidenzia che il vitto del carcere non ha consentito un’alimentazione adeguata del detenuto, risultando dal diario nutrizionale la presenza di alimenti potenzialmente scatenanti una crisi emolitica e assolutamente proibiti”. Perché sono tutti a base di piselli e fave. Ed evidentemente non c’è alternativa. A giudizio dei periti che hanno visitato l’imprenditore, “tale alimentazione impropria, riproposta anche giornalmente, ha indotto il detenuto a “digiuni ripetuti e spesso consecutivi”, che hanno cagionato lo “scadimento delle condizioni generali... e il successivo dimagrimento, con calo di circa 10 chili”. Gli esperti, Antonello Colangeli e Brigida Galletti, sono concordi nel ritenere “la prosecuzione dello stato detentivo nocumentosa” e anche nell’affermare che “i problemi più gravi per il detenuto scaturiscono dal favismo”. Da qui la considerazione dei giudici, che ritengono che dalla perizia “sia emerso un quadro complesso e grave, che espone il soggetto a serio e concreto rischio di vita o a irreversibile peggioramento delle già scadute condizioni fisiche”. Però, riflettono a Palermo i magistrati che hanno seguito il processo “Talpe”, è impensabile che nel penitenziario abruzzese si mangi solo a base di fave e piselli. E che in tutta Italia non ci sia un istituto di pena in grado di assicurare menu alternativi. L’ordinamento penitenziario prevede “un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima”. Ci sono ad esempio i diabetici, gli ipertesi, anche gli islamici, che non mangiano carne di maiale e non bevono vino. Però, a pensarci bene, possono mangiare tutti fave e piselli. Giustizia: Farina (Pdl); visito i detenuti, politici e non… lo dovrebbero fare tutti i parlamentari Dire, 23 marzo 2012 Rispondendo a un articolo apparso oggi sull’Espresso in cui si elencano le sue visite in carcere, Renato Farina - deputato Pdl - ha detto al sito Tempi.it: “Mi sento controllato. Nel caso dell’Espresso siamo alla diffamazione, anche se vagamente mascherata da domande retoriche, del tipo: chissà se sia proprio carità cristiana il motivo delle visite ai politici in cella. Confermo che è tutto vero, in carcere ci vado, ma non ricordavo di essere così assiduo e soprattutto neanch’io ho un diario così preciso e aggiornato delle mie visite nei penitenziari”. Farina si domanda se “c’è qualche servizio segreto che controlla i miei spostamenti. Chi fornisce questi dati all’Espresso e perché? Escluderei tra le possibili fonti i pubblici ministeri e le direzioni delle carceri. Deduco che ci siano delle talpe e mi piacerebbe sapere se si muovono gratis”. Il parlamentare ricorda che non è la prima volta che l’Espresso si occupa delle sue visite ai carcerati: “Nell’agosto 2009 andai nel carcere di Opera con una delegazione di Radicali. In quell’occasione l’Espresso, e subito dopo “Il Fatto” suggerirono che potevo essere il tramite di Berlusconi con Totò Riina al fine di mandare messaggi a Cosa nostra”. Farina ricorda che “quando incontro i detenuti (politici e non) è prevista sempre la presenza di un agente della polizia penitenziaria o di un delegato della direzione del carcere. Io esigo che ascolti qualsiasi parola che io pronuncio e ascolto. È vietato anche solo accennare a procedimenti giudiziari in corso, e alludere al contrario è una diffamazione bella e buona. Resta un bel mistero su dove stia il diario originale delle mie visite in carcere. Non mi faccio intimidire. Vado dappertutto e andrò dappertutto. Noi deputati abbiamo oltre che il biglietto aereo gratis anche quello di ingresso in prigione. Chiedo la tutela degli organi parlamentari per esercitare quella che è una prerogativa essenziale del mio mandato di deputato, ed invito tutti i parlamentare ad esercitare questo dovere, senza dover subire continuamente pressioni di qualsiasi genere”. Lazione: da Giunta Polverini 350mila e per ristrutturazione carceri Civitavecchia, Latina e Rieti Dire, 23 marzo 2012 Via libera dalla Giunta Polverini ai finanziamenti per interventi di ristrutturazione negli istituti penitenziari di Civitavecchia, Latina e Rieti. In tutto 350mila euro destinati alla riqualificazione della caserma della casa circondariale e della Casa di reclusione di Civitavecchia e della ristrutturazione dei campi di calcio delle strutture di Civitavecchia, Latina e di Rieti. “Si tratta - spiega la presidente Renata Polverini - di interventi volti a migliorare le condizioni di vita e di lavoro all’interno delle carceri, condivisi con le direzioni degli Istituti che ho avuto modo di visitare. La ristrutturazione dei campi di calcio, dove poter svolgere tornei e attività sportiva tra i detenuti e tra i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria, va nella direzione di favorire, anche attraverso lo sport, progetti di inclusione sociale. La riqualificazione delle caserme di polizia penitenziaria a Civitavecchia è un impegno che avevamo assunto durante la recente visita nella struttura e vuole essere un sostegno concreto agli uomini e alle donne che operano all’interno del carcere”. Nel dettaglio, la ripartizione dei fondi destina 250mila al carcere di Civitavecchia (200mila euro per la riqualificazione della caserma della casa di reclusione e della Casa circondariale e 50mila euro per il campo di calcio) e 50mila euro sia a Latina che a Rieti per il rifacimento dei campi di calcio. “Questo provvedimento - aggiunge l’assessore regionale alla Sicurezza, Giuseppe Cangemi - si inserisce nell’ambito delle politiche di intervento a favore delle carceri della nostra regione che hanno visto questa Giunta fortemente impegnata sin dal suo insediamento, impegno che si traduce nel sostegno a molteplici attività come quella formativa e culturale finalizzata ad aiutare i detenuti nel processo di reinserimento sociale una volta scontata la pena”. Valle d’Aosta: Regione pronta a esercitare le funzioni di medicina e sanità penitenziaria Ansa, 23 marzo 2012 Con l’approvazione da parte del Consiglio Valle di una modifica normativa che recepisce i rilievi di incostituzionalità del Governo a una precedente legge regionale, la Valle d’Aosta è pronta a esercitare le funzioni di medicina e sanità penitenziaria, trasferite alla Regione da una norma di attuazione dello statuto. Il nuovo disegno di legge, varato oggi all’unanimità, elimina “i motivi - ha spiegato il relatore Andrè Laniece (Stella Alpina) - che hanno determinato il giudizio di incostituzionalità da parte del Governo e stabilendo che i rapporti di lavoro del personale medico e infermieristico, incaricato o addetto al servizio integrativo di assistenza sanitaria , operante, alla data di entrata in vigore della presente legge, presso la Casa Circondariale di Brissogne, continuano ad essere disciplinati dalla legge n. 740 del 1970”. È ora prevista l’apertura di un tavolo a livello regionale, con il coinvolgimento dei sindacati di categoria, per la definizione delle procedure di acquisizione del personale e del relativo trattamento economico. La regionalizzazione della sanità penitenziaria “permetterà - ha rilevato ancora Laniece - di attivare interventi rivolti sia ai detenuti sia al personale operante nella struttura carceraria, finalizzati tra l’altro a ridurre il più possibile il rischio di patologie correlate al regime detentivo con particolare riferimento ad attività di prevenzione delle malattie infettive”. Parma: detenuto 25enne condannato per omicidio si suicida con il gas Ansa, 23 marzo 2012 Stefano Rossi, il giovane che massacrò con decine di coltellate, il 28 marzo 2006, la studentessa Virginia Fereoli, 17 anni, in un parco di Felino, nel Parmense, e poche ore più tardi il taxista Andrea Salvarani con un colpo di pistola, si è impiccato nel carcere della Burla dove era detenuto dall’epoca. Legale: è stata una tragedia annunciata “È stata una tragedia annunciata”. Commenta così il suicidio in carcere di Stefano Rossi il suo legale, l’avvocato Stefano Molinari. “È una tragedia che si va ad aggiungere alla decine che interessano purtroppo ogni mese le carceri italiane. Quello di Stefano Rossi è solo l’ultimo caso di una lunga lista. Nel 2010 ci sono state 186 morti negli istituti italiani, nel 2011 184 e sono quasi tutti dovuti a suicidi”. No comment invece sugli appelli, più volte lanciati dallo stesso legale durante il processo, per ottenere l’infermità mentale. “Tornare su questo argomento oggi è purtroppo inutile”, ha spiegato l’avvocato Molinari. Di Giovan Paolo (Pd): applicare norme esistenti “L’ennesimo suicidio in carcere dimostra che la questione del sovraffollamento, della pessima qualità di vita non è legata al colore politico. Ne abbiamo fatto una battaglia in passato e lo facciamo ancora oggi. Nei fatti, in tanti casi la permanenza in prigione è simile a una violazione dei diritti umani, come stabilito anche da alcune sentenze”. Lo afferma il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum della Sanità Penitenziaria. “Non c’è solo un problema di sovraffollamento, ma anche di qualità del lavoro per gli agenti penitenziari. Ne mancano circa 6 mila, ma ne verranno reintegrati solo 2 mila. E poi bisogna lavorare sul fronte degli educatori, degli assistenti sociali, per i quali da anni non viene bandito un concorso - continua Di Giovan Paolo. Dunque sarebbe importante, in prima istanza, applicare le norme che già esistono”. Sappe: Rossi morto inalando gas da bomboletta, vanno sostituite con sistemi più sicuri L’uomo suicidatosi nel carcere di Parma, Stefano Rossi sarebbe morto per aver inalato il gas della bomboletta “che tutti i detenuti detengono legittimamente”. Lo spiega il segretario generale aggiunto del Sappe Giovanni Battista Durante, che stamane ha dato la notizia del suicidio. “Gli agenti lo hanno trovato durante il consueto giro di controllo e sono intervenuti immediatamente - racconta Durante - ma nonostante ciò non sono riusciti a salvargli la vita. Continuiamo a chiedere all’amministrazione di proporre al ministro della giustizia la modifica del regolamento di esecuzione alla legge penitenziaria, al fine di evitare che i detenuti continuino a tenere le bombolette che molte volte utilizzano per inalare il gas, come sostitutivo della droga. Spesso muoino proprio a seguito dell’inalazione del gas, come, sembra, sia avvenuto al detenuto di Parma. Altre volte le stesse bombolette sono state utilizzate come corpi contundenti contro gli agenti, ovvero per farle esplodere nelle iniziative di protesta. Il Sappe - conclude il sindacalista degli agenti - ha anche proposto al ministro di sostituire le bombolette con altri sistemi più sicuri, ma al momento nessuna iniziativa sembra sia stata intrapresa”. Reggio Calabria: Golfo (Pdl); apertura del nuovo carcere di Arghillà è prioritaria Agi, 23 marzo 2012 “Il carcere di Arghillà deve diventare una delle priorità nell’affrontare la difficile questione dell’affollamento carcerario”. Lo dichiara Lella Golfo, parlamentare Pdl. “Già durante il mandato di Angelino Alfano al Ministero della Giustizia - afferma - ho presentato un’interrogazione per avere una risposta certa e univoca quanto alla tempistica di completamento dell’opera. Eppure ancora tutto tace e spero che il Ministro Severino metta mano a una questione che rappresenta un’autentica vergogna non solo per la Calabria ma per il Paese tutto. So quanto al Ministro stia a cuore la situazione delle carceri e sono certa che non potrà ignorare l’importanza di risolvere una volta per tutte la questione Arghillà”. “I tredici istituti penitenziari calabresi - continua Golfo - presentano un indice medio di sovraffollamento del 71,2%. Ho recentemente visitato il penitenziario reggino di San Pietro, con particolare riguardo per la sezione femminile e, pur trovandolo dignitoso nella tragedia, è innegabile che registri un sovraffollamento non più accettabile, con 370 su una capienza strutturale di 170. Di contro il nuovo penitenziario di Arghillà, terminato nel 2005 e costato più di 90 milioni di euro, è pronto a ospitare fino a 300 detenuti. Potrebbe quindi risolvere la situazione carceraria del reggino ma a quanto pare non viene utilizzato perché manca la strada per accedervi, o meglio esiste un tortuoso sentiero asfaltato che passa tra i vigneti della zona, un percorso ritenuto “non idoneo per il trasporto dei detenuti”. Non servono quindi interventi strutturali e la sua messa in funzione sarebbe un segnale importante per l’intera Calabria anche dal punto di vista della riaffermazione della legalità. Un segnale quanto mai vitale in una Regione in cui la situazione di degrado della vita carceraria è sicuramente sopra il livello di guardia e in un momento come questo in cui la lotta alla ‘ndrangheta sta conoscendo una serie di importantissimi successi. Nei prossimi giorni - annuncia - presenterò una nuova interrogazione al Ministro Severino per chiedere risposte concrete in merito. In ballo non c’è solo la doverosa dignità dei detenuti. In un momento di crisi e di taglio delle spese pubbliche, non si può dare un simile esempio di spreco di risorse e mi auguro che il Ministro affronti con serietà e in maniera risolutiva la questione”. Modena: il Garante a Saliceta; la Casa di Lavoro non funziona, su 65 detenuti soltanto 4 occupati Dire, 23 marzo 2012 Nella Casa lavoro di Saliceta San Giuliano, in provincia di Modena, manca il lavoro. Dunque la struttura non può assolvere al suo compito, e si trasforma in un “ergastolo bianco”, cioè una pena senza scadenza. “Ritengo necessario lavorare per l’abolizione delle Case lavoro e delle colonie agricole poiché è venuto meno il senso della loro presenza nel nostro ordinamento”. Lo dichiara Desi Bruno, garante regionale dei detenuti, dopo la visita alla Casa di lavoro di Saliceta San Giuliano, in provincia di Modena, dove ha incontrato la direttrice della struttura e gli internati. Nelle Case lavoro sono internate le persone che hanno commesso reati, hanno scontato una pena e a cui il magistrato ha applicato questa ulteriore misura di sicurezza perché considerate socialmente pericolose. Queste misure di sicurezza hanno come obbligo il lavoro come mezzo per arrivare al reinserimento sociale, ma, nella realtà, mancano progetti di lavoro effettivo e remunerato, quindi le case diventato a tutti gli effetti misure di sicurezza senza date finali certe, tanto che possono essere prorogate fino a che il giudice di sorveglianza non ritenga cessata la pericolosità sociale. A questo proposito, Bruno ha parlato di “ergastolo bianco”, proprio perché la detenzione in queste strutture può diventare a tempo indeterminato: di qui la protesta dei detenuti che sostengono di preferire un raddoppio della pena in carcere, piuttosto che essere destinati alla Casa lavoro. Gli internati di Saliceta San Giuliano sono 63 uomini (su 67 posti), di cui il 6-7% stranieri (una percentuale in crescita), con altre 25 persone che sono fuori in licenza o occupati in progetti finali di inserimento. Di questi 63, quattro lavorano all’esterno, due assunti da una cooperativa sociale e due con una borsa lavoro del Comune di Modena. Gli altri sono occupati 10-15 giorni al mese perché manca il lavoro, per lo più svolgono mansioni domestiche dentro l’istituto, mentre tre di loro sono occupati in tipografia, con un una remunerazione che va dagli 80 euro per dieci giorni di lavoro, ai 220 euro per un mese. La maggioranza degli internati ha commesso più reati, di qui la pericolosità sociale, il 20% ha compiuto reati legati alla criminalità organizzata, molti poi hanno problemi di tossicodipendenza, affrontato con la sola somministrazione di metadone da parte dell’Ausl o di disagio psichiatrico. L’80% di queste persone, inoltre, arriva alla Casa lavoro su provvedimenti della magistratura della Campania e della Lombardia: si tratta per lo più di internati senza riferimenti sociali, abitativi, di lavoro e spesso hanno perduto anche i legami famigliari dopo una vita trascorsa in carcere. E questo è ancora più vero se si tratta di stranieri, spesso privi di documenti, il che crea difficoltà ancora più evidenti di reinserimento sociale. “Già nell’VIII legislatura - ricorda Bruno - in Regione Emilia-Romagna, alcuni consiglieri presentarono una proposta di disegno di legge alle Camere per abrogare le norme del Codice penale che prevedono l’assegnazione alla Casa lavoro o alla colonia agricola, due misure detentive retaggio dell’epoca fascista perché previste dal Codice Rocco”. Ad oggi, “questo progetto è fermo - fa sapere la Garante - ma la mia idea è quella di ridargli impulso anche a fronte dell’abolizione dal 2013 degli ospedali psichiatrici giudiziari e del fatto che queste misure detentive non stanno funzionando, perché non assicurano un lavoro, né il reinserimento sociale attraverso specifici progetti che non si riescono a realizzare”. Teramo: detenuto incendia una cella; sgomberato un piano, sei agenti intossicati Il Centro, 23 marzo 2012 Nel cuore della notte un detenuto marocchino ha preso il fornellino a gas ed ha scatenato l’inferno in carcere. Il personale di servizio ha provveduto a sgomberare l’intero piano ed a spostare i 50 detenuti. Incendia branda e vestiti, scatena l’inferno nel carcere di Teramo. Un intero piano è stato evacuato e cinque agenti di polizia penitenziaria sono rimasti feriti. Il protagonista di una notte drammatica a Castrogno è il detenuto marocchino accusato di aver sfregiato con una lametta il volto di Guido Curti, uno degli arrestati del crack Di Pietro, cioè l’inchiesta teramana sulle bancarotte a catena che coinvolgono società con sede nello studio di commercialisti Chiodi-Tancredi. Nel cuore della notte appena trascorsa, il marocchino, già trasferito in un’altra cella dopo l’aggressione a Curti, ha preso il fornellino a gas ed ha scatenato l’inferno in carcere. Il rogo è divampato in una cella del reparto tossicodipendenti, al quarto piano della struttura, verso le 23. I vigili del fuoco hanno lavorato a lungo per spegnere il rogo e per bonificare la zona, mentre il personale di servizio ha provveduto a sgomberare l’intero piano ed a spostare i 50 detenuti. Gli agenti hanno riportato prognosi che variano da una settimana a 10 giorni. Firenze: in carcere il riciclaggio (di rifiuti) diventa una virtù met.provincia.fi.it, 23 marzo 2012 Firmato il nuovo Protocollo sull’Educazione Ambientale alla Casa Circondariale “Gozzini”. Nuove iniziative della Provincia per rendere più ecologico “Solliccianino”. Coinvolti nuovi soggetti come Publiacqua e Quadrifoglio. Dalle borracce per l’acqua alle tazzine per il caffè durevoli, dalla differenziazione dei rifiuti ad interventi per riqualificare le sponde dei fiumi. Si arricchisce di nuovi progetti legati alle buone pratiche ambientali e nuovi soggetti il protocollo d’intesa sull’Educazione ambientale tra la Casa Circondariale “Mario Gozzini” di Firenze, (nota come “Solliccianino”) e la Provincia di Firenze. L’esperienza è finalizzata a consentire ai detenuti di acquisire nuove competenze di base per una futura cittadinanza attiva, vivere il periodo di detenzione in contatto con i problemi della società, evitare il distacco e la disaffezione rispetto al proprio ambiente di vita ed al proprio territorio. Importante elemento di novità della nuova edizione del protocollo, partito nel 2004, è la partecipazione di Quadrifoglio e Publiacqua. Con essi verrà portato avanti un progetto articolato finalizzato alla riduzione e differenziazione dei rifiuti all’interno della Casa Circondariale. A Palazzo Medici Riccardi è stato dunque firmato oggi un protocollo d’intesa tra l’Assessore all’Ambiente e alla Difesa del suolo della Provincia di Firenze, Renzo Crescioli, la direttrice della Casa Circondariale “Mario Gozzini” di Firenze, Margherita Michelini, il Presidente di Publiacqua, Erasmo D’Angelis e il Presidente di Quadrifoglio, Giorgio Moretti. In particolare, sulla riduzione dei rifiuti, per diminuire l’uso abbondante di bottigliette di plastica si è optato per l’incentivazione dell’utilizzo dell’acqua erogata dalla rete idrica, previa installazione di filtri nei rubinetti. A tale scopo il progetto prevede l’acquisizione di borracce per l’approvvigionamento personale e l’organizzazione di momenti di informazione e formazione sulle caratteristiche qualitative ed organolettiche dell’acqua erogata dalla rete idrica. Analoga operazione sarà realizzata mediante l’acquisizione di tazzine durevoli per la riduzione bicchierini di plastica utilizzati per il caffè. Publiacqua è impegnata a far fronte all’insieme di queste azioni. Per promuovere la buona pratica della differenziazione dei rifiuti, nel perimetro carcerario, grazie alla collaborazione di Quadrifoglio verranno installati specifici contenitori per separare la carta, la plastica, le lattine, le pile e la frazione organica. È prevista un’azione di formazione che affronti la tematica della differenziazione, con un’attenzione particolare alla frazione organica ed al multi materiale. Tale formazione interesserà sia i detenuti che l’intero personale carcerario. L’avvio positivo del progetto volto alla riduzione e differenziazione dei rifiuti metterà la Casa Circondariale in condizione di ottenere la riduzione della tariffa di smaltimento Rsu; a tale scopo i rappresentanti del Gozzini hanno assunto l’impegno di formalizzare un progetto che consenta di reinvestire i minori costi per la creazione di tutor tra i detenuti che, adeguatamente formati, svolgano funzioni di coordinamento e sensibilizzazione sulla raccolta differenziata. Ulteriore elemento di novità consiste nella previsione di azioni estese all’ambito esterno con interventi attuati da gruppi di detenuti sulle sponde del fiume Arno e di altri corpi idrici in collaborazione con il settore Difesa del suolo finalizzati al miglioramento e ripristino ambientale. Un simile intervento era già stato operato in via sperimentale lo scorso luglio, quando un gruppo di detenuti era intervenuto nel giardino pubblico del Lungarno Pecori Giraldi. L’intenzione, in prospettiva, è quella di valutare la possibilità di costruire percorsi di formazione-lavoro nel settore della cura e riqualificazione di aree territoriali di questo genere. Queste novità si innestano sulla conferma della ormai consolidata esperienza dei corsi di educazione ambientale all’interno della Casa Circondariale. L’azione sul piano didattico-educativo si giova dell’esperienza e della professionalità del Laboratorio Didattico Ambientale di Villa Demidoff che ne cura gli aspetti progettuali e formativi. Il tema affrontato è quello della sostenibilità ambientale e cioè di rendere l’impatto dell’azione umana sull’ambiente il più possibile ridotto e contenuto. Siracusa: termina il progetto “Liberamente”, detenuti al lavoro nell’Area Marina Protetta www.siracusanews.it, 23 marzo 2012 Si concluderà il 27 marzo alla Fanusa il progetto “Liberamente”, iniziativa finanziata dall’assessorato regionale alla famiglia e nata dalla sinergia del Consorzio Quark, dell’Area Marina Protetta del Plemmirio di Siracusa e dalla delegazione di Agrigento di Marevivo, mirata a fornire una “seconda chance” di vita a quaranta detenuti provenienti dalla Casa Circondariale di Cavadonna, dall’Istituto penitenziario di Brucoli e dall’Uepe (Uffici di Esecuzione Penale Esterna). Il progetto, che ha suscitato interesse su scala nazionale in quanto è la prima volta che viene sperimentato in Italia, ha previsto anche una “work esperience” nell’Area Marina Protetta del Plemmirio per una ventina di soggetti, che ha previsto 800 ore d’aula per la formazione e altre 800 di esperienza “diretta”, nel corso della quale i detenuti hanno avuto la possibilità di acquisire un brevetto sub, nozioni di patente nautica e di tutte le discipline correlate alla salvaguardia e alla tutela delle aree marine protette. Numerosi gli interventi realizzati sin qui nel corso dei diciotto mesi di attività del progetto tra cui: la pulizia degli sbocchi dell’Amp siracusana, la sistemazione dell’ingresso al Faro di Capo Murro di Porco, l’ istallazione di isole ecologiche per la raccolta differenziata, con relativa raccolta sistematica dei rifiuti. I detenuti selezionati per il progetto “Liberamente”, hanno inoltre realizzato anche alcuni interventi di bonifica che hanno interessato: l’area di Castello Maniace, con annessa la spiaggetta, la piazzetta Aretusa e l’arenile di via Riviera Dionisio il Grande. In atto, gli sforzi conclusivi dei soggetti impegnati nel progetto “Liberamente”, si accentrano alla Fanusa che rappresenta l’area del Plemmirio sud e, in particolare, nello “sbocco” 1 sito in località Arenella e nello “sbocco” 2 di via Caboto, zona Fanusa. Tutti gli interventi previsti sono stati concordati attraverso la sinergia dei vari partner istituzionali coinvolti. Oltre all’Amp del Plemmirio sono stati convocati in un tavolo tecnico dalla locale Capitaneria di Porto: la Soprintendenza ai beni culturali, l’Azienda Foreste Demaniali, il Comune e la Provincia regionale di Siracusa, che hanno condiviso il progetto ed autorizzato gli interventi. L’Azienda Foreste Demaniali ha fornito le piante con essenze della macchia mediterranea per la piantumazione integrativa in A.M.P. La Sai 8 donerà cinque fontanelle d’acqua a servizio degli sbocchi a mare di maggiore affluenza. L’Igm ha messo a disposizione idonei cassonetti per la raccolta dei rifiuti Il progetto alla Fanusa coinvolge anche privati che hanno “adottato” aiuole ad ingresso delle aree nord/centro e Sud dell’Area Marina Protetta, e altri spazi pubblici. Siena: nel carcere di Volterra i detenuti studiano i vini con la Fondazione Fisar La Nazione, 23 marzo 2012 Al minicorso di 5 lezioni parteciperanno 10 detenuti in aggiunta a 5 addetti del personale. I partecipanti saranno premiati ufficialmente in occasione della cerimonia dei 40° anno dalla Fondazione della Fisar (1972) che si terrà a Volterra il 14 aprile. Fino al 10 aprile si svolgerà presso nel carcere di massima sicurezza di Volterra il primo corso per aspiranti sommelier indetto dalla FISAR - Federazione Italiana Sommelier Albergatori Ristoratori. Al minicorso di 5 lezioni parteciperanno 10 detenuti in aggiunta a 5 addetti del personale. L’iniziativa è scaturita dalla collaborazione nata alcuni anni fa tra il Ministero di Grazia e Giustizia e la Fisar Delegazione di Volterra per la realizzazione all’interno del carcere di cene con grandi chef stellati (da Pinchiorri a Bottura), note al pubblico come le “cene galeotte” (www.cenegaleotte.it), e con abbinamento di vini selezionati ed offerti da importanti aziende vinicole aderenti all’Associazione Grandi Cru della Costa toscana (www.grandicru.it). La direttrice del carcere Maria Grazia Gianpiccolo, già sommelier onorario della Fisar, chiarisce che “ l’iniziativa di questo corso per sommelier è per il nostro istituto di pena il coronamento finale di un progetto, unico nel suo genere per il Ministero di Grazia e Giustizia e nel mondo, finalizzato al reinserimento di quei detenuti più meritevoli nel tessuto sociale e produttivo del territorio che già li vede assunti come cuochi e/o camerieri in strutture ricettive e ristoranti, e da oggi sperò li vedrà anche come sommelier”. Il delegato Fisar di Volterra Flavio Nuti precisa che “il minicorso può e deve essere per i detenuti un’occasione importante iniziato con il servizio dei vini per le cene galeotte finalizzata a creare una opportunità da non perdere per chi vuole trovare un’occupazione dopo l’uscita dal carcere”. “La Fisar ha come caratteristica primaria quella di essere di stimolo alle istituzioni ed insieme a loro proporre progetti mirati al sociale - dichiara il presidente nazionale Fisar Nicola Masiello. L’iniziativa con il carcere di Volterra a favore del reinserimento di detenuti è solo uno dei tanti esempi a noi riconducibili”. I partecipanti al corso saranno premiati ufficialmente in occasione della cerimonia dei 40° anno dalla Fondazione della Fisar (1972) che si terrà a Volterra il 14 aprile. Immigrazione: nei Cie di Roma gabbie e squallore, senza pietà né diritto di Furio Colombo Famiglia Cristiana, 23 marzo 2012 Il parlamentare Furio Colombo racconta la sua visita al Cie di Roma, frutto della paura e di una cultura politica che considera criminali i clandestini: “Lì dentro finiscono molti che non hanno commesso reati”. Si apre un immenso cancello scorrevole. Aldilà c’è un soldato che verifica e trattiene i documenti. Noi siamo deputati o politici (l’iniziativa è del giovane segretario del Partito radicale, Mario Staderini, e dell’onorevole Rita Bernardini) e questo determina una curiosa estraneità, come una differenza di mondi. Passano veicoli militari lungo la striscia d’asfalto che separa il grande cancello dagli edifici in cui stiamo per entrare e che - da fuori, da lontano - sono lastroni di cemento senza aperture. Qui, alle porte di Roma, a Ponte Galena, un contenitore di cemento e metallo, grande e ben sigillato, è stato preparato per chi viene catturato nel perverso gioco dei clandestini. Gente che vive e lavora in Italia dopo essere sfuggita alla morte di guerra e alla traversata del mare, viene fermata mentre porta i bambini a scuola o commette l’imprudenza di andare in ospedale, viene “catturata” mentre va o viene dal lavoro. E - come in quei Paesi estranei alla democrazia - i catturati sono portati in grandi gabbie a cielo aperto, che cedono il passo a piccole stanze gelide con dodici o quindici letti. Qui un essere umano costa alla Repubblica italiana 47 euro al giorno, quasi solo per piatti precotti con giorni di anticipo e che tutti - uomini e donne, ucraini e africani - descrivono come immangiabili, un bel vantaggio per chi (chissà con quali regole) ha vinto l’appalto. La nostra visita non porta pace. I detenuti parlano con affanno. Si capisce subito che non incontrano mai nessuno, che il giudice di pace, quando viene, non può che certificare che “mancano i documenti” e che “gli avvocati d’ufficio” scompaiono subito, dopo la prima formalità di un finto processo. Molti, detenuti qui, non hanno mai commesso alcun reato. Lavoravano legalmente in Italia. Qui - in un centro detto di “identificazione” - ci sono anche persone portate nelle gabbie dopo aver scontato anni nelle prigioni italiane, dunque dettagliatamente identificate per il processo e la detenzione. L’emozione è difficile da controllare, anche se l’uomo che hanno portato via mentre tornava a casa, dopo il lavoro nella piccola impresa di cui è titolare, per cenare con moglie e figli e raccontare la giornata e sentire le storie di casa, non può far finta di non piangere. Quanto agli ex detenuti, essi sono vittime di una doppia illegalità: fingere di non sapere chi sono e ammanettarli senza alcun provvedimento di un giudice. I detenuti aspettano nel vuoto del tempo e nello squallore del posto, dove nessuno ti difende, nessuno ti ascolta, nessuno ti cura. Ho già detto - e vorrei ripeterlo - che due medici della Croce rossa (uno nero, uno bianco, il dottor Amos Dawodu è il responsabile) provvedono da soli e senza mezzi, come nell’avamposto assediato di una guerra. Le Asl del Lazio di questi malati non ne vogliono sapere. Non ci sono nomi o numeri di telefono per cercare l’aiuto di un avvocato. Ho già detto - e ripeto - che l’80 per cento di donne e uomini portati nelle gabbie di Ponte Galeria non ha commesso alcun reato, non è accusato di nulla. La detenzione illegale di cui è colpevole lo Stato italiano durava fino a sei mesi. Poi, nel 2010, il ministro leghista Maroni l’ha portata a un anno e mezzo. “Per ragioni di sicurezza”, ha detto. Il momento più temuto è quando due agenti ti affiancano e ti portano all’aeroporto per farti salire insieme a loro su un velivolo diretto in un luogo che il più delle volte i deportati non conoscono perché tutto ciò che hanno, dai figli al lavoro, è in Italia. Una legge detta “pacchetto sicurezza”, che tratta tutti gli immigrati come criminali, li deporta dal Paese che hanno arricchito con il loro lavoro, fuori dalla Costituzione italiana, lontano da ogni riferimento alla Carta dei diritti dell’uomo. Immigrazione: storica sentenza del giudice di pace di Modena “niente Cie per chi è nato in Italia” di Giacomo Francesco Lombardi L’Unità, 23 marzo 2012 Escono dal Centro di Modena i due fratelli, Andrea e Senad, con genitori bosniaci, ma nati nel nostro Paese: erano finiti lì perché i genitori, avendo perso il lavoro, erano senza permesso di soggiorno. Andrea e Senad, due ragazzi di 23 e 24 anni nati in Italia da genitori stranieri e dal 10 febbraio rinchiusi nel Cie di Modena in attesa di essere espulsi, sono stati rilasciati ieri. Lo ha deciso il giudice di pace Giandomenico Cavazzuti, che ha di fatto annullato il decreto di espulsione emesso da Prefetto. “La sentenza è storica, per la prima volta si sancisce che chi nasce in Italia non può stare in un Cie” dice Cécile Kyenge, responsabile regionale del Pd per l’immigrazione e portavoce del Comitato 1 marzo, in prima linea nella mobilitazione a favore di Andrea e Senad. “E dimostra ancora una volta l’inutilità dei Cie”. La loro storia ha dell’inverosimile: i genitori, oggi cittadini bosniaci, hanno sempre vissuto in condizioni di disagio e a quanto pare non si sono mai curati di registrare i propri figli all’anagrafe dell’allora Jugoslavia. Ma la Jugoslavia nel frattempo è sparita e con lei la loro incerta cittadinanza. Di sicuro c’è che ad oggi risultano sconosciuti a qualsiasi anagrafe e si trovano di fatto senza identità. Le autorità italiane hanno tuttavia dato per scontata la nazionalità bosniaca dei due ragazzi i quali, senza permesso ai soggiorno, si sono trovati automaticamente nella condizione di clandestini. La routine è collaudata, gli ingranaggi della prassi iniziano a girare: due ragazzi stranieri ma, nati a Sassuolo, il permesso di soggiorno che manca perché i genitori hanno perso il lavoro, un controllo della polizia, il Cie, l’espulsione in arrivo, un giudice di pace che deve firmare. Ma tutto si blocca. Perché Andrea e Senad non solo non hanno un permesso di soggiorno, ma un documento del loro paese d’origine non lo possiedono proprio. E quale sia il paese di origine di Andrea e Senad è l’enigma che ha messo in crisi il giudice di pace sino al rilascio di ieri. Un intrigo confermato dall’assenza dei due ragazzi dall’anagrafe bosniaca, facendo così di Andrea e Senad due potenziali apolidi nei confronti dei quali la legge prevede particolari tutele in virtù della Convezione sugli apolidi del 1954. Dunque, Andrea e Senad poiché apolidi hanno il diritto di essere liberi e di vedersi concesso un documento valido da parte delle autorità italiane. Non la detenzione in un Cie. La sentenza emessa ieri dal giudice di pace è in ogni caso controversa: se la detenzione non poteva essere confermata in virtù della Convenzione sugli apolidi, il loro rilascio non è tuttavia indolore, perché Andrea e Senad sono apolidi solo in teoria. Infatti ottenere questo status non è affatto semplice e richiede anni, burocrazia e la sopportazione di una giurisprudenza discordante. Attualmente non possono nemmeno chiedere un permesso di soggiorno perché occorre presentare un documento di identità, documento che Andrea e Senad non possiedono. Sono usciti dal Cie perché apolidi in teoria. In pratica, secondo le leggi vigenti, sono nuovamente clandestini e per assurdo potrebbero essere ricondotti nel Cie che hanno appena lasciato. Tant’è che ieri la questura di Modena ha fatto sapere che “valuterà l’opportunità di disporre ulteriori misure di prevenzione”. La storia di Andrea e Senad è quindi emblematica di un quadro normativo contraddittorio e basato sul regime di ius sanguinis, ovvero il diritto a ricevere la nazionalità solo per “eredità” di sangue, nei confronti del quale Giorgio Napolitano il 22 novembre scorso si era espresso criticamente, definendo una “follia” negare la cittadinanza italiana a chi è nato nel nostro Paese. La sentenza, spiega l’Arci, “rappresenta un punto fermo che, speriamo, induca il Parlamento a calendarizzare al più presto la discussione sulla proposta di legge di iniziativa popolare depositata il 6 marzo scorso”. Ma la strada sarà lunga. Quella di ieri è una sentenza “creativa”, una decisione “non prevista dalla legge italiana” ha tuonato il Pdl, l’”ennesima invasione di campo di un magistrato” ha detto il senatore Carlo Giovanardi. Lo “ius soli” ha ancora molta strada prima che si affermi come principio. Colombia: almeno 500 detenuti, guerriglieri delle Farc, hanno iniziato sciopero della fame Ansa, 23 marzo 2012 Almeno 500 guerriglieri delle Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia), detenuti nelle carceri colombiane, hanno iniziato giovedì uno sciopero della fame ad oltranza, per protestare contro il rifiuto del Governo di concedere al collettivo Colombianos y Colombianas por la Paz (Ccp) il permesso di visitarli, riferisce l’agenzia di stampa colombiana NTN24. La protesta ha avuto inizio nella prigione di Cómbita (nel centro del paese). I detenuti Farc avevano chiesto, tramite un comunicato, la visita del collettivo e di una commissione internazionale per “verificare l’attuale situazione dei diritti umani nella quale vivono”. All’iniziativa di Cómbita si sono subito uniti i centri penitenziari di Bogotá, Medellín, Quibdó, Girón, Palmira, El Barne e La Dorada, informa la Fundación Comité de Solidaridad con los Presos Políticos (Fcspp). Circa 500 detenuti Farc hanno aderito allo sciopero, ma la Fcspp ritiene che in breve tempo possano diventare 1.500. Oltre a sollecitare la visita dei membri di Ccp, organizzazione guidata dalla ex senatrice Piedad Córdoba, esigono dal Governo il riconoscimento dello status di prigionieri politici e di guerra. Secondo i guerriglieri detenuti, il fatto di essere processati per il reato di ribellione implica un riconoscimento giudiziale della loro situazione politica. La polemica sulla visita alle carceri colombiane ebbe origine quando il ministro della Giustizia, Juan Carlos Esguerra, negò lo scorso 6 marzo, dopo averlo autorizzato la settimana precedente, il permesso di visita alla delegazione Ccp, sostenendo che “in Colombia non esistono prigionieri politici”. Le Farc hanno posto come condizione al rilascio degli ultimi ostaggi in loro possesso, la visita del collettivo Ccp ai guerriglieri detenuti nelle varie carceri del paese. Nonostante la condizione dettata dalla guerriglia, mercoledì Ccp ha annunciato che il rilascio dei 10 poliziotti e militari inizierà lunedì 26 marzo. Agli inizi di febbraio la guerriglia decise di rinviare la liberazione degli ostaggi, denunciando la presenza delle truppe governative nella zona in cui era previsto il rilascio degli ostaggi. Cina: vietato entro cinque anni uso per i trapianti di organi dei condannati a morte La Repubblica, 23 marzo 2012 Il provvedimento entrerà in vigore entro cinque anni. Avviato un programma di regolamentazione della donazione volontaria dei cittadini. Il divieto anche in considerazione delle condizioni di salute dei prigionieri dovute alle pessime condizioni delle carceri La Cina ha deciso di vietare nel giro massimo di cinque anni la donazione degli organi da condannati a morte. Lo scrive la stampa di Pechino. Fino ad ora, con il loro consenso, i condannati a morte rappresentano la prima fonte di donazione di organi in Cina dove, al momento, manca una vera e propria legge a riguardo. Secondo stime del ministero della salute di Pechino, ogni anno sono circa 1,5 milioni di cinesi ad aspettare un trapianto di organi ma vengono effettuati solo 10.000 trapianti. L’assenza di una legislazione a riguardo favorisce anche, non di poco, il commercio illegale di organi. Per questo motivo c’è la volontà governativa di creare un sistema nazionale che regolamenti la donazione di organi, incoraggiando la donazione dai cittadini non condannati a morte. Un sistema è stato già realizzato e sarà messo in prova in 16 provincie. La mossa di vietare la donazione di organi dai condannati a morte, secondo la stampa cinese, deriva anche dall’impegno di ridurre le pene capitali. Ma la decisione prende anche in considerazione che la percentuale di malattie, infezioni e funghi negli organi dei condannati a morte, a causa delle non perfette condizioni igieniche delle prigioni cinesi, è alta. Già nel 2007 il gabinetto cinese aveva emesso un regolamento in materia vietando la vendita di organi. Nel febbraio dell’anno scorso la vendita è diventata reato criminale, paragonata all’omicidio. Iraq: datteri con sonnifero alle guardie, 19 detenuti evadono da prigione di Kirkuk Tm News, 23 marzo 2012 Diciannove detenuti, ex membri di al Qaida, sono riusciti a evadere dal carcere di Kirkuk, nel nord dell’Iraq, dopo avere addormentato le guardie di sicurezza offrendo loro dei datteri imbottiti di sonnifero. “Diciannove detenuti, appartenenti ad al Qaida e al gruppo al Ansar, sono riusciti a fuggire dalla prigione Tasfirat attraverso dei condotti per l’aerazione dopo aver addormentato le guardie e altri detenuti con dei datteri imbottiti di sonnifero”, ha spiegato un responsabile dei servizi di sicurezza. Tra i detenuti in fuga figurano anche due condannati a morte, è stato precisato. Israele: Hana Shalabi in sciopero della fame… morirà di ingiustizia? di Tommaso Caldarelli www.giornalettismo.com, 23 marzo 2012 Ancora un caso di sciopero della fame nelle carceri israeliane, e di nuovo sotto accusa il sistema di detenzione preventiva dello stato di Israele: questa volta ad essere “prossima alla morte” è una donna, una prigioniera palestinese, Hana Shalabi. Secondo i medici, dice la Bbc, è in pericolo di vita. Anche lei, come Khader Adnan (del suo caso parlavamo qui) è in sciopero della fame contro l’istituto della “detenzione amministrativa”, la tecnica che Israele usa per i soggetti ritenuti ad alta pericolosità sociale; ricorda l’Huffington Post che “si tratta di detenzioni quasi-legali attraverso le quali Israele incarcera individui senza accusi o processi di sorta. Israele ha ereditato questa procedura poco democratica dal protettorato britannico, che l’ha pensata come parte della legislazione di emergenza approvata nel 1945; insomma, un istituto emergenziale in vigore praticamente da un secolo e che non accenna ad essere dismesso. “Ci sono oltre 300 detenuti che sono trattenuti senza accuse”, scrive ancora HuffPost, e di norma gli individui sono detenuti in questa condizione quando non ci sono abbastanza prove per accusarli formalmente; certo, il rischio è che tutto questo venga utilizzato come “punizione, vendetta o sistema di controllo da parte del sistema dei servizi israeliani (lo Shin Bet) per tenere a bada la popolazione palestinese”. Insomma, in galera senza motivi e per un tempo indefinito, proprio come Adnan, arrestato senza causa apparente con accuse molto vaghe di partecipazione all’estremismo islamico; anche Khader è rimasto in sciopero della fame per oltre 60 giorni, prima di raggiungere un accordo con l’amministrazione penitenziaria che lo libererà entro il prossimo aprile. Così, Israele non ha “nessuna prova” contro Hana, “altrimenti la accuserebbe in maniera formale”; la ragazza, complessivamente, è in stato di detenzione amministrativa da 2 anni, tranne una breve parentesi in cui è stata rilasciata come parte di uno scambio di prigionieri israeliani e palestinesi (in occasione, cioè, della liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit), salvo poi essere nuovamente incarcerata per 4 mesi: è accusata di essere parte della Islamic Jihad, che per Israele altro non è che un’organizzazione terroristica. Secondo i Medici per i Diritti Umani che l’hanno visitata “ha perso 14 kg, i suoi muscoli si stanno deteriorando e sente dolori incredibili”; le autorità della prigione affermano che altri 20 prigionieri palestinesi hanno iniziato scioperi della fame in supporto di Hana, nella foto retta da sua madre in copertina.