Il “rischio” di tornare alla libertà Il Mattino di Padova, 19 marzo 2012 Passare dal carcere alla libertà può far paura Il sentimento più forte che prova chi inizia una nuova vita dopo un’esperienza di carcere non è tanto la felicità della condizione di uomo libero, quanto piuttosto l’ansia, uno stato di ansia continuo, la paura di non farcela, la fretta di recuperare quello che si è perso, le difficoltà a ritrovare un ruolo all’Interno della propria famiglia. Una specie di “spaesamento”, ben descritto nelle testimonianze di due persone detenute, che stando in carcere del futuro hanno anche tanta paura, e di una terza, che sta affrontando le difficoltà del ritorno nel “mondo libero” in modo graduale, in una misura alternativa che si chiama affidamento ai Servizi sociali. Ero un camionista. Forse tornerò a guidare Il mondo fuori non permette molte speranze in questi momenti di crisi. Ho una condanna di 12 anni e ne ho scontati più di 4; a questo punto sono nei termini per provare a chiedere qualche beneficio, come quello del permesso premio, proprio per sperare di ritrovare quella forza che mi servirà per quel giorno in cui il cancello si chiuderà dietro di me e io sarò libero. So che il mondo fuori non permette grandi speranze in questi momenti di crisi, per questo sto “lavorando” qui dentro con quelle persone che ogni giorno mi stanno dando una mano. Fuori ero un buon autista di camion, qui ho rinnovato la patente, ma non so se rifarò quel lavoro avendo già una età “importante”. Tutto questo porta mille difficoltà che io da solo non potrò farcela a superare, sono ben consapevole che avrò bisogno di aiuto. Il carcere ti invecchia molto, sia nel fisico sia nella mente, proprio per questo devi avere molte più attenzioni di quelle che potevi avere quando eri ancora libero. Qui devi cercare di non farti prendere dall’ozio, sfruttando quelle poche cose che hai a tua disposizione, come l’ora d’aria, anche per trovare un po’ di benessere fisico. Le ansie sono tante, specialmente quando raggiungi una certa età ed incominci ad avere problemi fisici non indifferenti, e in carcere non hai molte garanzie nel campo sanitario, anzi è meglio che non ti ammali mai. Il carcere poi non offre molte possibilità, io cerco di curare amorevolmente quelle poche che mi sono offerte per tornare a recuperare la dignità perduta e per vivere la carcerazione nel modo migliore possibile, pensando soprattutto alle cose più importanti, come gli affetti. Purtroppo anche su quelli ci vuole il suo tempo. Perché se sei in carcere vuol dire che non hai lasciato il meglio di te fuori e che qualcosa ti devi far perdonare. Col male che hai fatto hai messo in mezzo anche i tuoi figli, e penso che per loro è normale che in qualche manierate la facciano pagare, non è facile ricostruire i legami che avevi, ma prima o poi dovrai riprendere in mano la tua vita, e assumerti le tue responsabilità per gli anni futuri. Alain C. L’ora con i tuoi. Ma è come stare al letto di un malato L’ora in carcere per le famiglie è come stare al capezzale di un malato. Per capire quanto è difficile per un detenuto ricostruirsi i suoi affetti quando esce dal carcere basta spiegare che i colloqui che si svolgono tra famigliari e detenuti in carcere sono sempre fatti in sale comuni, con una decina di tavoli a ognuno dei quali è seduto un nucleo famigliare, naturalmente sotto lo sguardo vigile di un agente di polizia penitenziaria, per non più di sei ore al mese, a cui si aggiunge una telefonata ogni settimana di dieci minuti. Questo stato di cose comporta inevitabilmente un distacco affettivo ed emotivo, specialmente quando una persona deve trascorrere un considerevole numero di anni in galera, tanto che spesso i colloqui si limitano a frasi spezzate, in cui tu sei attento a non dare ulteriori dispiaceri a chi ti viene a trovare, ed eviti di trasmettere i tanti malesseri che un carcere, specialmente stipato all’inverosimile, provoca, e di conseguenza anche i tuoi cari tendono a non dare sfogo ai propri disagi, né ti raccontano i problemi che si presentano all’interno della famiglia stessa, per non creare a loro volta ulteriori ansie, anche perché il tempo e il luogo in cui l’incontro avviene sono limitati e caotici. Si innesca così nel tempo una sorta di routine, che non corrisponde alla vita reale, un gioco di ruoli dove il trascorrere di quell’ora di colloquio per i tuoi cari è come stare al capezzale di un malato. Con la conseguenza che, quando si esce dal carcere, ci si ritrova ad affrontare tutto il non detto, e l’euforia del ritorno in famiglia lascia il posto inevitabilmente a un confronto con tutto quello che non è stato raccontato negli anni passati. I genitori, le mogli, i figli sono diventati “altri”, l’immagine che avevi tramite quei momenti di colloquio è diversa, ora ti ritrovi a convivere con loro realmente, con tutti i problemi che hai disimparato ad affrontare. E in tutto questo devi ritrovarti un ruolo, di marito che deve riscoprire quell’intimità e amore che il tempo ha sopito, di padre con i figli cresciuti senza di te e dei quali tu non conosci quasi nulla. E ti trovi spesso spiazzato, impotente anche quando devi confrontarti coi piccoli problemi che si presentano in famiglia. La famiglia poi spesso ti presenta il conto delle sofferenze che la tua assenza e le tue azioni hanno causato. Tutto questo mostra che il carcere non dovrebbe castrare i rapporti con i propri cari, confinandoli in stanzoni asettici pieni di altre vite con altrettanti problemi, né impedire quei momenti di intimità, che non significano solo sesso, ma anche tenerezza, chiarimento, partecipazione alla vita della famiglia. Sandro C. Stare con i figli. Così ho capito le cose che valgono Stare con i mie figli fa capire quante altro c’è nel la vita. Sono uscito dal carcere due mesi fa per trascorrere l’ultimo periodo della pena in affidamento ai Servizi sociali. Il rischio che si corre è di credere di avere finito e invece non è affatto così, lo ritengo che sia giusto, e infatti cerco di ricordare di aver commesso un reato per il quale potrei ancora essere in carcere, quindi anche nei momenti difficili voglio dar valore al fatto di poter essere a casa e di aver anche ripreso a lavorare. I problemi tanto ci sarebbero stati comunque, solo che adesso posso affrontarli mentre prima doveva farlo mia moglie o la mia famiglia. Adesso ho il permesso di lavorare a Roma, nel mio bar. Praticamente per tutta la settimana vengo al bar al mattino e ci rimango fino a sera, senza mai spostarmi. Rifletto spesso su quanto in passato ho dato meno valore a ciò che ho, a quante volte ho risposto frettolosamente perché dovevo scappare o ero preso da altri interessi. Trovandomi in questa situazione e dovendo rispettare certe regole, è come se mi si fosse aperta una finestra su un mondo diverso e mi accorgo che nella vita c’è altro oltre ai soldi, che si può e si dovrebbe almeno provare ad andare oltre, che nonostante le difficoltà comunque vale la pena di provarci, lo adesso mi rendo conto del tempo passato lontano dai miei cari. Mi rendo conto di quante cose nella vita normale si fanno in un giorno, e che i miei figli tutte queste cose le hanno fatte da soli: i compiti, lo sport, la scuola, come se tutto fosse appunto normale e invece mancava a loro sempre il papà. Adesso che riesco a stare di nuovo con loro a volte anche tutto il giorno, capisco quanto sia veramente deprimente durante una carcerazione dover vedere i propri figli in una sala colloqui. Ora il rapporto con la mia famiglia è tornato alla normalità e i miei figli sono molto più sereni. lo solo uscendo mi sono reso conto di quanto tempo è passato, me ne sono accorto vedendo più che altro i figli di qualche amico molto cresciuti. Il mondo fuori si muove, le cose cambiano, mentre dentro no. E il rischio di uscire e avere la sensazione che dal giorno dell’arresto a oggi non sia successo niente. Germano V. Giustizia: Bonino (Radicali); marcia di Pasqua per amnistia e l’indulto Ansa, 19 marzo 2012 “La giornata di Pasqua vogliamo lanciare un urlo, una richiesta pressante, di chi ritiene che l’amnistia sia la vera riforma strutturale. Ogni giorno che passa ci rendiamo conto, e sempre di più, come questa della giustizia sia la vera peste italiana, che si diffonde per l’Europa”. Lo afferma Emma Bonino, vice presidente del Senato nel corso della intervista settimanale con Radio Radicale. “Noi insistiamo sull’amnistia e sull’indulto - prosegue - come misura che mira non tanto e non solo ad alleggerire il peso sulle carceri ma a liberare le scrivanie dei giudici. Ci sono dati che sicuramente la gente non sa: l’80 per cento degli omicidi rimane impunito. Abbiamo nel frattempo inventato nuovi reati - basti citare le leggi sulla droga o sull’immigrazione. La miscela è esplosiva, nel senso che è esploso il rapporto cittadini-giustizia, o la semplice idea della giustizia giusta”. Giustizia: Vitali (Pdl); amnistia non è soluzione a emergenza, servono nuove carceri Dire, 19 marzo 2012 “L’amnistia non può essere la risoluzione dell’emergenza carceraria”. Lo dice Luigi Vitali, già sottosegretario alla Giustizia e componente della Consulta Giustizia del Pdl, a proposito dell’iniziativa promossa da Marco Pannella nella giornata di Pasqua per richiedere un provvedimento di clemenza per i detenuti. “Ma se il Governo presentasse, ed il Parlamento approvasse - aggiunge - un progetto chiaro sia dal punto di vista della copertura finanziaria che dei tempi certi di realizzazione, per la costruzione di penitenziari tradizionali riservati ai detenuti ad alto tasso di pericolosità e di strutture flessibili per detenuti di scarso o nullo allarme sociale, l’amnistia potrebbe essere il necessario, ma sicuramente ultimo contributo del Paese ad azzerare la grave situazione venutasi a creare e più volte sanzionata dalla Corte di Giustizia sui diritti dell’uomo. Per amore della verità - conclude Vitali - il ministro Severino, introducendo in un recente provvedimento una norma che consente di coinvolgere i privati in questa missione, ha dimostrato grande sensibilità al problema. Ma si può e si deve fare di più”. Giustizia: Gip Milano; no a libertà per carcere “inumano”, la soluzione spetta al Governo Adnkronos, 19 marzo 2012 È vero che le condizioni carcerarie, in particolare per quattro tunisini detenuti per aver partecipato ad una rivolta nel Cie, sono “inumane” ma non è l’autorità giudiziaria che deve prendere provvedimenti ma, in questo caso, al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia. Lo afferma il gip di Milano che ha rigettato la richiesta di scarcerazione dei quattro avanzata dai legali Eugenio Losco e Mauro Straini che in una istanza sottolineavano le condizioni “inumane e illegali” della carcerazione a cui erano sottoposti a San Vittore i loro assistiti. Rilevato, scrive il giudice “che l’attuazione della politica dell’ordine e della sicurezza negli istituti e servizi penitenziari e del trattamento dei detenuti e degli internati non compete già all’autorità giudiziaria, bensì al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, istituito dall’articolo della legge 395/1990, nell’ambito del ministero della Giustizia, al quale si reputa doveroso trasmettere copia della lettera in data 6 marzo 2012 a firma degli imputati sopra indicati, allegata alla richiesta di revoca della misura cautelare, per quanto ritenuta di competenza”. Così il giudice ha rigettato l’istanza di revoca e ha disposto “la trasmissione di copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario”, oltre ad aver trasmesso “copia della lettera” allegata alla richiesta di revoca della misura cautelare “al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria” nonché “al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, per quanto di ritenuta competenza”. Per il giudice, inoltre “sussistono indizi di colpevolezza” e non sono “venute meno esigenze cautelari”. Gli argomenti addotti dalla difesa, scrive ancora il giudice “non sono afferenti al quadro indiziario né al rischio di reiterazione del reato ovvero al pericolo di fuga non sono tali da incidere sulla permanenza delle condizioni di applicabilità della misura in atto e sulle esigenze cautelari, né rilievi in fatto circa le condizioni della detenzione possono determinare profili di incostituzionalità del regime normativo relativo ai presupposti per l’applicazione della misure cautelari”. Per i legali “è una decisione che non condividiamo e che contesteremo fino ad arrivare alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Continueremo a proporre analoghe istanze - hanno aggiunto - per ogni singolo detenuto che denuncerà simili condizioni detentive e invitiamo tutti gli avvocati penalisti a fare altrettanto”. Per i due difensori, infine, la decisione del giudice rimette l’emergenza alla politica “che non ha di fronte a questo punto alcuna ragionevole alternativa per mettere fine a questa situazione di illegalità ed inumanità: l’amnistia”. Giustizia: carcere “inumano”; il Gip di Milano trasmette le “carte” al ministero Ansa, 19 marzo 2012 Non possono essere scarcerati i quattro tunisini che avevano chiesto di uscire dal carcere milanese di San Vittore a causa del sovraffollamento e delle condizioni “inumane e illegali” del penitenziario, ma la loro lettera di denuncia sulla situazione all’interno dell’istituto di pena, deve essere trasmessa al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che fa capo al ministero della giustizia, perché a questo dipartimento compete “l’attuazione della politica dell’ordine e della sicurezza negli istituti e servizi penitenziari e del trattamento dei detenuti”. Lo ha deciso il gip di Milano, Laura Marchiondelli, rispondendo così ad una istanza avanzata dagli avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini, in rappresentanza di quattro detenuti tunisini. I quattro stranieri erano stati arrestati lo scorso gennaio con le accuse a vario titolo di devastazione e incendio per alcuni disordini e scontri che si erano verificati nel Cie di Milano di via Corelli. Alcuni giorni fa i due legali, richiamandosi alla Costituzione e alla normativa europea, avevano presentato un’istanza di scarcerazione, sostenendo che i quattro andassero liberati date le condizioni “disumane” della detenzione nel carcere sovraffollato. Il giudice ha respinto la richiesta di scarcerazione perché, spiega nel suo provvedimento, le esigenze cautelari a carico dei quattro permangono e le condizioni della detenzione “non possono determinare profili di incostituzionalità del regime normativo, relativo ai presupposti per l’applicazione delle misure cautelari”. Tuttavia, il gip ha deciso che la lettera del 6 marzo scorso, nella quale i quattro tunisini denunciavano la situazione all’interno del penitenziario, deve essere trasmessa al Dap e al provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. “Vivono in sei, chiusi per venti ore al giorno in uno spazio di dodici metri quadrati, con la possibilità di fare nient’altro che stare sdraiati nel letto, semplicemente perché tutti quanti in piedi contemporaneamente non ci starebbero”: è così che i due avvocati descrivevano nella loro istanza la vita in carcere dei quattro tunisini, in celle infestate di scarafaggi e prive di acqua calda. Condizioni che - recitava l’istanza - sono in insanabile contrasto con molte norme, come l’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) e l’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Secondo il gip Marchiondelli, però, “l’attuazione della politica sulle carceri compete non all’autorità giudiziaria, ma al Dap, al quale si reputa doveroso trasmettere copia della lettera dei quattro detenuti, per quanto di ritenuta competenza”. I due legali hanno annunciato, intanto, che faranno ricorso per Cassazione per insistere nella richiesta di scarcerazione Una nuova istanza dunque a cui probabilmente farà seguito anche un ricorso alla Corte Europea per i diritti umani. Giustizia: 16 detenuti laureati in 1 anno, 349 gli iscritti; giurisprudenza e lettere gli studi preferiti Ansa, 19 marzo 2012 Sedici laureati e 349 iscritti all’Università: sono i detenuti che, per costruirsi un futuro migliore, hanno deciso di tornare sui libri e darsi un’istruzione di alto livello. Una risicatissima minoranza, se si tiene conto che il numero dei reclusi in tutta Italia sfiora quota 67.000. Letterarie e giuridiche, le facoltà più gettonate dietro le sbarre. Mentre sono una ventina in tutta Italia i poli universitari istituiti dall’amministrazione penitenziaria grazie alle convenzioni con i vari atenei: l’accesso è a volte subordinato al superamento di una selezione in cui conta anche il comportamento tenuto dal detenuto e in alcuni casi sono previste agevolazioni che vanno dall’iscrizione gratuita a sostegni per l’acquisto dei libri. Tra i 16 laureati - rilevano i dati pubblicati oggi sul sito del ministero della Giustizia dall’ufficio statistiche e che sono aggiornati al 31 dicembre del 2010 - c’è una sola donna e quasi un terzo del totale (5) è diventato dottore in una disciplina letteraria, mentre un quinto (3) in diritto. Anche tra i 349 detenuti-studenti tira soprattutto la facoltà di lettere (86), seguita a breve distanza da giurisprudenza (81) e dalle discipline di tipo politico-sociale (78). Matricole e iscritti sono quasi tutti italiani (298) e uomini (335). Il rapporto italiani-stranieri si inverte se si guardano i dati sui detenuti iscritti ai corsi scolastici: su un totale di 14.805 studenti, gli stranieri sono 7.891 e il loro numero diventa preponderante nei corsi di alfabetizzazione (2.859 su un totale di 3.145) e di istruzione elementare (1.827 a fronte di 2.866). Meno della metà degli iscritti ottengono però la promozione (6.462 cioè il 43%) e di questi 3.479 sono stranieri. Quanto ai poli universitari penitenziari, apri-pista è stato quello di Torino, dove l’ammissione ai corsi delle facoltà di Scienze politiche e Giurisprudenza - che avviene in base a una selezione - è aperta anche ai detenuti di altre sedi. I detenuti che superano il test sono ospitati in un’apposita sezione, dove compatibilmente con il sovraffollamento, ci sono condizioni più favorevoli alle esigenze di studio; ma per assicurarsi la prosecuzione degli studi devono superare almeno tre esami di profitto entro l’inizio dell’anno accademico successivo, dimostrare buona condotta e partecipare attivamente al programma di rieducazione. Attualmente sono 20, di cui sei stranieri: non pagano alcun contributo (testi, pc, tasse e eventuali borse lavoro sono erogate dalla Compagnia San Paolo), e possono concorrere, alla pari con chi è fuori dal carcere, alle borse di studio erogate dall’Erdisu, l’ente regionale per il diritto allo studio. Giustizia: Guerini (Federsolidarietà); nuova legge su lavoro dei detenuti rischia di essere flop Adnkronos, 19 marzo 2012 “La proposta di legge sull’inserimento lavorativo dei detenuti rischia di essere un provvedimento privo di efficacia. Se non si accompagna a un uso ottimizzato delle risorse, darà come risultato la riduzione del numero di occupati pur impiegando le stesse risorse degli scorsi anni”. Così Giuseppe Guerini, presidente di Federsolidarietà Confcooperative commenta l’iter del disegno di legge sull’inserimento lavorativo dei detenuti che è al vaglio della Commissione Lavoro della Camera. Federsolidarietà associa il maggior numero di cooperative sociali che si occupano di inserimento lavorativo nelle carceri. Degli oltre 1.300 detenuti che svolgono attività lavorativa, assunti da imprese che operano nel sistema carcerario, circa l’80% lo fa all’interno di cooperative sociali. Con le previsioni oggi in vigore, aggiunge, “si è riusciti a collocare al lavoro circa 600 detenuti l’anno. Altri 700 sono stati assunti, ma senza poter fruire del beneficio per mancanza di risorse. Le risorse previste dal disegno di legge per l’inserimento lavorativo dei detenuti possono essere una leva importante, ma devono essere ben indirizzate a stabilizzare un numero di occupati non inferiore a quello degli anni scorsi”. Giustizia: morte di Giuseppe Uva; tanti dubbi e una sola certezza: “sul corpo ci sono lesioni” di Mario Di Vito eilmensile.it, 19 marzo 2012 È diventata una questione di sfumature, di discussioni tecniche, di perizie e controperizie. La soluzione del caso di Giuseppe Uva, l’operaio morto nel giugno del 2008 dopo essere “scomparso” per tre ore dentro una caserma dei carabinieri a Varese, si gioca tutta sulle parole dei tecnici che questa mattina sono stati sentiti durante un’udienza. A deporre, infatti, sono stati chiamati i tre superperiti Angelo Demori, Santo Davide Ferrara e Gaetano Thiene, per cercare di capire come è morto Giuseppe Uva quel maledetto giorno di giugno del 2008. Sul corpo dell’uomo è stata rilevata presenza di lividi, così come è stata confermata la presenza di un’emorragia. E si è parlato anche del cuore di Giuseppe che, a un certo punto, si è fermato, per motivi ancora tutti da chiarire. Ogni elemento può voler dire tutto e niente, le parole dei tecnici in aula non hanno fatto altro che aggiungere nebbia ad uno scenario già molto confuso. L’unico elemento certo al momento riguarda la presenza di lesioni, ma c’è incertezza su chi le abbia causate: da un lato si sostiene che siano state auto inferte, dall’altro si parla di autentico pestaggio da parte degli uomini in divisa. Le perizie, ad ogni modo, parlano di una morte non arrivata in seguito ai farmaci somministrati ad Uva in ospedale, ma allo “stress emotivo” che sarebbe arrivato dopo il soggiorno in caserma di Giuseppe. In ogni caso, nei documenti redatti da Demori, Ferrara e Thiene si parla a chiare lette di “escoriazioni prodotte dall’urto contro un corpo contundente, espressione di una forza di lieve entità, con l’eccezione dei tessuti molli pericranici, ove l’intensità appare fotograficamente di maggiore rilevanza”. I tre superperiti, comunque, si smarcano da ogni giudizio definitivo sulla dinamica della morte di Uva: “la valutazione delle lesioni - si legge ancora nella perizia - è esclusivamente fondata sulla documentazione clinico-ospedaliera e fotografica dei consulenti del pm”, quindi non su un’osservazione diretta, ma su quanto già prodotto durante le indagini. Ancora una volta, sicuramente, non si può dire di essere vicini alla soluzione del caso e sulla morte di Giuseppe Uva permane un fitto alone di mistero. L’ennesimo. Marche: Mainardi (Radicali); allarme per la sanità carceraria www.anconatoday.it, 19 marzo 2012 Il presidente dei Radicali Marche: “In queste settimane si è parlato tanto di sanità e del Piano aziendale d’Area vasta. Ma chi, in Consiglio Regionale come nelle province e nei comuni, parla di sanità carceraria?”. In queste settimane, e negli ultimi decenni, si è parlato tanto di sanità. Ora nelle Marche si è passati alla discussione sul “Piano aziendale d’Area vasta”. Ma chi, in Consiglio Regionale come nelle province e nei comuni, parla di sanità carceraria? Noi Radicali che visitiamo quasi quotidianamente le carceri italiane, dentro le mura per legge inviolabili dai giornalisti vediamo la sofferenza, il dolore dei detenuti malati, vediamo i fenomeni di autolesionismo, sentiamo raccontarci dei suicidi in cella. All’interno delle nostre carceri esiste un solo medicinale: la “pillola blu”, non meglio identificata. Si usa per il mal di denti come per il mal di stomaco, per mal di testa come per regolare la pressione. Mancano medici e specialisti in carcere, mancano psicologi e psichiatri. Manca la sanità di cui fin troppo si parla senza l’intenzione di cambiare o risolvere nulla. Lo Stato italiano e le sue componenti istituzionali locali sono in una condizione di illegalità abituale, spesso richiamati dall’UE e dalla Corte Europa dei Diritti Umani. È forse il momento che la nostra Regione esca da questa condizione ed i nostri legislatori regionali si facciano portatori, con noi Radicali, di una richiesta a gran voce di un’amnistia per la Repubblica che risolva il problema carcerario e della giustizia italiana. Viterbo: detenuto di 49 anni si è impiccato nel carcere Mammagialla Ansa, 19 marzo 2012 Roberto Patassini, di 49 anni, si è impiccato nel carcere Mammagialla di Viterbo. Il suicidio è avvenuto ieri pomeriggio, tra le 17 e le 18, ma la notizia è trapelata solo oggi. In quell’ora il compagno di cella di Patassini era fuori per la cosiddetta socialità. Lui, invece, aveva rinunciato, probabilmente perché aveva pianificato nei minimi dettagli il suicidio. Patassini era stato arrestato nell’aprile 2006 nell’ambito dell’operazione “Fiori nel fango”, che portò allo smantellamento di un giro di prostituzione minorile e pedofilia, in cui erano coinvolti ragazzini di 12-13 anni, reclutati nei campi rom della Capitale. Con Patassini erano state arrestate altre numerose persone, alcune delle quali appartenenti alla Roma-bene. Il Garante: ennesimo dramma della solitudine in cella “È l’ennesimo dramma della solitudine in carcere. Un uomo, apparentemente senza problemi, che partecipa a tutte le attività di socializzazione in carcere, e che decide di togliersi la vita, è la spia di un disagio forte, non manifestato, e proprio per questo ancor più difficile da prevenire. La tragica dimostrazione che in carcere, senza adeguati supporti psicologici aumenta il rischio suicidio”. Lo dichiara il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commenda il suicidio, nel carcere “Mammagialla” di Viterbo, di un detenuto 49enne, Roberto Patassini. Si tratta della quinta persona morta in un carcere del Lazio dall’inizio del 2012, dopo i quattro registrati a Roma lo scorso mese. L’uomo si è tolto la vita ieri sera, impiccandosi con uno scalda collo. In carcere per reati sessuali, l’uomo doveva scontare una condanna con fine pena nel 2022. “Mi è stato raccontato che era una persona sola, ma senza problemi apparenti - ha aggiunto Marroni - senza legami con l’esterno se non quello con uno zio sacerdote da poco deceduto. In carcere, nella sezione precauzionale, praticava tutte le attività di socialità, compreso il Cineforum. Ieri sera, alle 19, ha aspettato che il compagno di cella si allontanasse per impiccarsi, è successo tutto in pochi minuti”. Napoli: a Poggioreale, dietro le sbarre della vergogna di Antonio Mattone Il Mattino, 19 marzo 2012 Il sovraffollamento, la promiscuità, l’aumento delle malattie psichiche e delle patologie infettive colpiscono in modo allarmante chi oggi vive recluso nelle carceri italiane. Ma vediamo alcuni numeri: 66.600 detenuti presenti, 13 suicidi dall’inizio dell’anno, il 35% di detenuti con problemi di tossicodipendenza, il 42% della popolazione carceraria che soffre di disturbi psichiatrici, che all’esterno affliggono un numero molto minore di persone, il 7,3% degli italiani. In Campania ci sono poco meno di 8mila detenuti a fronte di una capienza di circa 5mila settecento. Il carcere di Poggioreale - sul quale è stata aperta un’inchiesta, come riportato ieri dal Mattino - contiene attualmente quasi 2.700 persone recluse, mentre ne potrebbe ospitare la metà. Queste cifre non sono una novità. Sono anni che si parla e che si denuncia l’elevato grado di sovraffollamento del carcere di Poggioreale e degli Istituti di pena italiani. Eppure, mi sembra, benché lentamente, che il clima stia cambiando. Dopo gli autorevoli interventi del Presidente della Repubblica Napolitano, e di papa Benedetto XVI che, nello scorso dicembre si è recato in visita nell’Istituto di Rebibbia, dopo i provvedimenti presi e quelli auspicati dal ministro della Giustizia Severino, qualcosa si inizia a muovere. Si intravede un nuovo respiro, un’inversione di rotta. La diminuzione dei detenuti che, a livello nazionale sono passati dai 69mila dello scorso anno ai 66mila seicento di questi giorni è una piccola boccata d’ossigeno per un sistema vicino al tracollo. Anche l’opinione pubblica italiana sembra più sensibile alla situazione di chi vive in carcere. Le criticità restano tante. L’enorme numero di chi ha bisogno di cure, le carenze del Sistema Sanitario Nazionale che dopo la Riforma del 2008 non sempre riesce a garantire livelli di cura accettabili. Le attese estenuanti per ricoveri e gli interventi, a cui sono sottoposti i detenuti. Ma anche i grandi tagli che hanno colpito l’amministrazione penitenziaria hanno ridotto all’osso le attività trattamentali e i fondi per il lavoro intramurario che sono interventi fondamentali per il recupero dei detenuti. Nel carcere oggi è cambiata la tipologia di chi vi entra. Le prigioni sono sempre di più contenitori di povertà e di disagio. Alcuni provvedimenti legislativi degli ultimi anni e la crisi economica hanno aperto le porte delle patrie galere a tossicodipendenti, stranieri, poveri, a gente precaria e marginale. Chi ha soldi e non è solo riesce a rendersi meno dura la galera. Ma chi non ha risorse economiche vive in estrema difficoltà. E qui vorrei sottolineare l’importanza di quella rete del volontariato che assicura non solo sapone e indumenti a chi non li ha, ma rappresenta tante volte l’unico volto amico su cui si può contare, e che in molti casi permette l’inizio di percorsi di cambiamento e di riscatto. Altri, invece, ricorrono a quel sistema di mutuo aiuto con cui da anni la camorra sostiene chi entra in carcere. Ma anche il sistema del welfare camorrista mi sembra in crisi. Dopo gli ultimi arresti e la chiusura di alcune piazze di spaccio da parte delle forze dell’ordine, chi subentra non è più disposto a garantire il mantenimento alle famiglie dei carcerati. Allora questo momento storico può rappresentare una grande occasione. Per migliorare la vita dei detenuti, c’è bisogno di una rivoluzione culturale che umanizzi la vita all’interno delle carceri. Una rivoluzione che coinvolga tutti quelli vi operano. Umanizzare il carcere tara bene a chi e detenuto e a chi non lo è. Napoli: emergenza Poggioreale, il ministro Severino prepara la visita nel penitenziario di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 19 marzo 2012 Emergenza Poggioreale, scende in campo il ministro della Giustizia. Il Guardasigilli Paola Severino chiederà nelle prossime ore una dettagliata e aggiornata informativa sullo stato in cui versa il più disastrato istituto penitenziario italiano, anche alla luce del caso denunciato dal “Mattino” dei pasti che vengono “offerti” da pericolosi soggetti legati alla camorra ai detenuti più indigenti. Anche questo rappresenta un subdolo strumento di arruolamento nelle file della criminalità organizzata. A breve il ministro della Giustizia verrà a Napoli: nella sua agenda al primo posto c’è, appunto, la situazione legata al sovraffollamento e alle condizioni dei detenuti. La Severino avrebbe intenzione di recarsi personalmente all’interno del carcere di Poggioreale per verificare in prima persona la gravità delle condizioni di vita dei reclusi. E proprio sulla complessità delle problematiche legate alla vita di questi detenuti - aggravate dalla condizione di estremo sovraffollamento (siamo quasi a quota 2.800 reclusi, rispetto a una capacità ottimale di 1.300) - è in corso anche un’inchiesta della Procura di Napoli. L’indagine. A sollecitarla - attraverso un esposto depositato oltre un anno fa dall’ avvocato Riccardo Polidoro - sono stati i legali che animano l’associazione onlus “Il carcere possibile”. Quella denuncia rappresenta il più aggiornato punto di partenza per chi volesse informarsi su quell’inferno chiamato carcere di Poggioreale. Strutture sanitarie interne inadeguate, cucine che soltanto oggi ci si prepara a ristrutturare, dopo decenni; la mancanza del rispetto degli spazi previsti dalla legge (nove metri quadrati per ciascun detenuto), all’interno di celle trasformate ormai in dormitori con letti a castello che in molti casi raggiungono sette livelli di altezza. Poggioreale è anche tutto questo, e molto altro ancora: ci sono interi padiglioni le cui mura interne trasudano umidità e dunque si rivelano luoghi malsani, soprattutto per chi è già affetto da patologie respiratorie. Il vitto. C’è poi il capitolo legato alla qualità del cibo offerto dalla mensa carceraria nella struttura di Poggioreale. Che è poi il punto debole sul quale spesso e volentieri gioca la camorra per arruolare nuove leve. Il sistema è molto semplice: i detenuti che non ricevono dall’esterno aiuti economici - è lo stesso regolamento carcerario a prevedere la possibilità di utilizzare piccoli depositi da un libretto di risparmio sul quale transitano i soldi spediti dall’esterno. Accade dunque - e succede sempre più spesso - che i detenuti indigenti vengano “adottati” da personaggi legati ai clan e aiutati ad acquistare allo spaccio dello stesso carcere carne o pasta che poi possono essere cucinate in cella. Si crea così un legame umano che ben presto può trasformarsi in vera e propria affiliazione ad una cosca. L’appello. Oggi al ministro Guardasigilli Paola Severino - che ha dimostrato grande sensibilità rispetto alle questioni carcerarie sin dal primo giorno di insediamento invia Arenula - si rivolgono gli avvocati del “Carcere possibile”. “La misura cautelare (circa il 60% dei detenuti è in attesa di una sentenza definitiva, ed è pertanto un “presunto innocente”, ndr) - sostiene Riccardo Polidoro - e la sanzione inflitta non possono consistere in umiliazioni e vessazioni con una vera e propria negazione della dignità umana che è “contra legem” e contro la stessa idea di civiltà. I detenuti sono portatori di diritti pieni ed inalienabili, proprio come i soggetti liberi”. Teramo: Sinappe; due tentati suicidi in cella sventati dagli agenti Ansa, 19 marzo 2012 Ancora tentati suicidi sventati dal Personale di Polizia Penitenziaria di Castrogno (Teramo): a distanza di sei giorni, due detenuti hanno cercato di togliersi la vita nelle loro celle; solo il tempestivo intervento del Personale di Polizia Penitenziaria e dell’area Sanitaria, hanno evitato il peggio. A lanciare l’allarme è il segretario regionale del Sinappe, Giampiero Cordoni, che denuncia le difficili condizioni lavorative della Polizia Penitenziaria del carcere teramano. “Dalla carenza di organico, passando per una gestione ferma al palo e finendo al totale disinteresse del Provveditorato di Pescara - spiega Cordoni - il Personale è sull’orlo del collasso. Il 7 marzo questa organizzazione sindacale è stata convocata dal Provveditore per le problematiche di Castrogno. Questo incontro non ha fruttato altro che promesse di intervento. Solo grazie alla continua abnegazione di chi continua a dare un senso a questo lavoro si evitano il più delle volte tragiche conseguenze. Riteniamo improrogabile - sottolinea - l’immediato intervento degli Organi Superiori per affrontare immediatamente e seriamente una situazione che sta diventando giorno dopo giorno sempre più drammatica”. Salerno: il Comune di contro la struttura per ex detenuti psichiatrici di Mariconda www.salernonotizie.it, 19 marzo 2012 L’Amministrazione Comunale ribadisce la sua opposizione all’ipotesi di destinare a centro residenziale sanitario per ex detenuti psichiatrici la struttura di via Asiago a Mariconda. Il Sindaco di Salerno Vincenzo De Luca incontrerà domani mattina a Palazzo di Città il Commissario straordinario dell’Asl di Salerno Maurizio Bortoletti per confermare l’assoluta contrarietà all’ipotesi emersa lo scorso mese di gennaio e sulla quale il Comune aveva già espresso il suo parere contrario, in considerazione della popolosità e della delicatezza del tessuto urbano del quartiere, nel quale da anni l’Amministrazione Comunale è impegnata a migliorare la qualità della vita dei residenti. Il Sindaco De Luca esporrà, dunque, al Commissario Bortoletti le ragioni di tale posizione ma ribadirà al contempo la disponibilità ad aprire un confronto per trovare una idonea sistemazione ed una sede più appropriata per la collocazione di tale struttura. Gli esiti dell’incontro saranno resi noti nel corso della giornata di domani. Viterbo: detenuto aggredisce e ferisce 4 agenti lanciandogli addosso un lavandino Ansa, 19 marzo 2012 Quattro agenti di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Mammagialla a Viterbo, lo stesso dove si è suicidato un detenuto, sono stati aggrediti e feriti da un detenuto che si trovava in isolamento per motivi disciplinari. Secondo quanto si è appreso, l’uomo, che aveva già distrutto la cella un paio di giorni prima, ha divelto il lavandino e lo ha scagliato contro gli agenti colpendoli in pieno. Tutti e quattro sono stati accompagnati al pronto soccorso dell’ospedale cittadino, dove sono state riscontrate loro ferite guaribili in pochi giorni. Si tratta dell’ennesima aggressione subita dagli agenti di Mammagialla nel mese di marzo. Una decina di giorni fa, infatti, un loro collega era stato ferito da un altro recluso. Da ieri, nel carcere viterbese è ripreso lo “sciopero della mensa” da parte del personale, indetto la scorsa settimana dopo che nell’androne del refettorio e nella sala pranzo erano stati trovati degli scarafaggi. Subito dopo, la direzione della casa circondariale, in accordo con la ditta appaltatrice, avevano chiuso la mensa per tre giorni al fine di eseguire la disinfestazione. Ma ieri mattina, alla riapertura, gli agenti che si sono recati a pranzo hanno ritrovato gli scarafaggi, sia nell’ingresso che nella sala mensa. Ed è subito ripresa la protesta. “Stiamo valutando - hanno detto i rappresentanti dei sindacati di categoria - di chiedere l’immediato intervento della Asl affinché provveda a ripristinare condizioni igienico-sanitarie adeguate. Intanto - hanno aggiunto - il personale continuerà a rifiutare il cibo dell’amministrazione”. Vibo Valentia: abbandono e sprechi nelle carceri costruite e mai completate di Giuseppe Baglivo Gazzetta del Sud, 19 marzo 2012 “Incapacità gestionale”. Questo il concetto alla base della recente proposta del Governo di “svuotare le carceri”, causa il sovraffollamento delle strutture che rende difficili le condizioni di vita di detenuti e Polizia penitenziaria. Ma la remissione in libertà dei condannati, che non hanno ancora finito di scontare la loro pena, è davvero l’unica strada percorribile? Sono 38 gli istituti penitenziari italiani mai entrati in funzione. Tre si trovano nel Vibonese. Soriano. Quello che doveva essere il carcere mandamentale di Soriano, capace di ospitare 40 detenuti, sorge all’ingresso del paese. La struttura, iniziata negli anni Ottanta, non è mai stata completata, nonostante all’epoca siano stati spesi quasi 4 miliardi di lire. Resta solo un imponente pastrocchio di cemento armato che mostra tutti i segni del tempo. Sino al 2004, l’intera area che circonda la struttura è stata utilizzata come maneggio abusivo tanto che, nell’ottobre 2004, si è registrata un’interrogazione parlamentare, da parte del senatore Nuccio Iovene, dopo un’aggressione a un consigliere comunale che aveva sollevato il caso. A seguito della scomparsa delle preture, e la conseguente soppressione delle vecchie “case mandamentali”, le “prigioni fantasma” sono state cedute alle amministrazioni comunali. Il Consiglio comunale di Soriano si è così occupato varie volte dell’ex carcere, ma il riutilizzo della struttura appare ancora lontano. Negli anni, si è parlato di una riconversione della struttura quale centro di accoglienza per immigrati, con l’affidamento dell’immobile a una onlus capace di reperire i finanziamenti necessari. Ma dai buoni propositi alle realizzazioni concrete, il passo non è mai stato celere a queste latitudini. Arena. Sorge in località “Berrina”, con i lavori che hanno preso il via negli anni Ottanta per una spesa finale che si aggira sui 4 miliardi di lire. Avrebbe dovuto ospitare una quarantina di detenuti, ma nessuno li ha mai visti. Anzi, la soppressione delle preture ha, di fatto, impedito qualunque possibilità di apertura del carcere. “Motivi di economicità” hanno poi indotto il ministero a sbarazzarsi della struttura nei primi anni Novanta, trasferendone la proprietà al Comune che, il 17 aprile 2001, l’ha data in comodato d’uso all’associazione di volontariato “Emmanuel”, impegnata a offrire ospitalità a profughi, ragazze madri, tossicodipendenti e portatori di handicap. Un “capitolo” a parte sui lavori di costruzione del carcere è stato invece aperto dalla Dda di Catanzaro con la recente operazione “Light in the woods”. Dall’ordinanza del gip, emergono infatti particolari inediti sulla costruzione dell’ex casa mandamentale, con i primi contrasti fra le cosche Loielo di Ariola e Maiolo di Acquaro che - stando al collaboratore Francesco Loielo - sarebbero sorti proprio per via di tale importante opera pubblica, sulla quale i defunti Rocco e Antonio Maiolo sarebbero riusciti ad estorcere 40 milioni di lire “senza dare spiegazioni né ai Loielo né a Giovanni Stambè”. Mileto. La struttura è stata pensata sulla scorta di un piano carcerario degli anni Ottanta che prevedeva la realizzazione di case mandamentali ovunque operasse una Pretura. L’abolizione delle Preture ha però fatto sì che venissero interrotti anche i lavori del carcere di Mileto, rimasto solo un “cadavere” di cemento armato mai completato. Negli anni si è pensato di riutilizzare i locali per farne un carcere femminile, quindi una caserma dei carabinieri, poi la sede del Corpo forestale e infine un istituto a “custodia attenuata”, destinato cioè ai detenuti meno pericolosi. Nulla di concreto, in realtà, anche perché l’edificio è composto da tante stanzette circondate da alte mura e i problemi di riadattamento dei locali non sono pochi. Il costo iniziale del carcere - capace di ospitare sulla carta 80 detenuti e che doveva essere inaugurato nel 1991- ammonta a 3 miliardi e 600 milioni di lire, ma alla fine di miliardi ne sono stati spesi ben 16, sebbene la struttura non sia mai stata inaugurata e sia stata negli anni depredata di ogni arredo. Nel marzo 2010, quindi, il ministero della Giustizia ha accolto l’istanza presentata dal Comune per avere in concessione a titolo gratuito l’edificio, al fine di adibirlo a struttura scolastica o quale centro di aggregazione sociale. Sperando che sia la volta buona, non resta che attendere. Pavia: carceri e società, si cerca il dialogo La Provincia Pavese, 19 marzo 2012 “Non dobbiamo accontentarci di un carcere così com’è. Il dovere di chiunque è di domandarsi chi entra e chi esce dal carcere e ritorna in società”. A dirlo è Vincenzo Andraous, giovedì all’ultima serata di riflessione sulle carceri organizzata da Arci, associazione Omp e periodico Kronstadt. Presente come relatore della serata grazie a una licenza straordinaria, Andraous è attualmente detenuto presso la casa circondariale Torre del Gallo di Pavia. Ha scontato in diverse carceri italiane 40 anni della sua pena, che è una condanna all’ergastolo. Gode di un regime di semilibertà e da circa dodici anni beneficia di permessi d’uscita per recarsi al lavoro alla casa del giovane, dove è tutor e aiuta “i ragazzi in un percorso di recupero del loro equilibrio. Io credo - commenta Andraous - in una pena che può riparare, ma con questo carcere si può riparare? Non c’è una volontà politica che si impegni affinché il carcere si riappropri della propria utilità e della propria funzione. Il carcere, oggi, non protegge il cittadino. Il carcere non c’è - chiosa Andraous - è un contenitore di numeri, non di persone. È una malattia, è desocializzante. Il carcere è una terra di nessuno dove nessuno vuole guardare. Ma il carcere è parte integrante della società. L’indifferenza - conclude Andraous - è il boia del terzo millennio”. L’anello mancante sembra essere quello che congiunge l’interno del carcere con l’esterno, con la società nella quale torneranno le persone detenute una volta scontata la propria pena. “Il mondo esterno non conosce il carcere, ma non vuole nemmeno ascoltare - dichiara il professore universitario Mario Dossoni, anch’egli presente giovedì sera. Da un anno e mezzo mi reco a Torre del Gallo in qualità di cittadino e intervisto le persone detenute: l’obiettivo non è tanto quello di far parlare dal carcere, quanto quello di fare in modo che la gente ascolti e capisca com’è la realtà penitenziaria. L’impressione - conclude Dossoni - è che la società abbia del carcere solo un’immagine cinematografica, ma la realtà non è questa”. Dossoni collabora al programma radiofonico “Oltre il muro”, trasmesso su Radio Ticino “per creare un ponte fra interno ed esterno”. Una difficoltà, quella della comunicazione fra le due comunità separate dal muro, alla quale cercano di dare risposta anche altri soggetti: “La figura professionale dell’agente di rete è stata istituita sei anni fa da Regione Lombardia per mettere in comunicazione l’interno delle carceri con la società esterna, per reintegrare nella società le persone che escono dal carcere - ha spiegato l’altra sera l’agente di rete di Pavia Alberto Portalupi - ma questo scopo è andato scemando negli ultimi anni, per il cambio dei vertici in Regione. Ora stiamo solo raccogliendo i cocci di un progetto ambizioso, nel quale però, io credo tuttora”. Televisione: Rai2; domani sera a “Presunto colpevole” tre nuovi casi di malagiustizia Agi, 19 marzo 2012 Nuovi casi di malagiustizia sotto i riflettori di “Presunto colpevole”, in onda martedì 20 marzo, alle 23.40, su Rai 2. La prima storia ha come protagonista Dino Trappetti, geometra di Terni, in un attimo diventato “il mostro di Firenze”. Due anni, nove mesi e sette giorni. Tanto è rimasto in carcere Trappetti dopo essere stato condannato all’ergastolo, accusato di avere ucciso, insieme alla convivente, operaia di Pontedera, i due neonati. Ma, come poi verrà stabilito dopo indagini accurate, i bambini erano stati uccisi solo dalla loro madre dopo il parto. Trappetti era all’oscuro di tutto, perfino delle gravidanze. Potrà riavvolgere il nastro di una vita distrutta da un errore giudiziario? “La ragazza del lago” è il titolo del secondo caso. Sandro Vecchiarelli fu accusato della morte di Chiara Bariffi, la 32enne di Bellano trovata in fondo al lago di Como, tre anni dopo la sua scomparsa avvenuta all’alba del primo dicembre 2002. A indicare il punto esatto dove cercare Chiara, fu una sensitiva. 583 giorni durerà il calvario giudiziario di Vecchiarelli che risulterà innocente. La vicenda di Gennaro Scarciello chiude la seconda puntata del programma. Accusato ingiustamente di associazione a delinquere di stampo mafioso e riciclaggio di denaro sporco, dopo sei anni di odissea, è stato assolto. “Mi sono separato da mia moglie, ho perso la stima e l’affetto dei miei figli e, dopo tre anni di cure psichiatriche, disperato, ho tentato anche il suicidio”. Potrà mai essere risarcito di tanto dolore? Immigrazione: sciopero della fame e della sete nel Cie di Trapani www.eilmensile.it, 19 marzo 2012 “Condizioni disumane” nel Cie di Milo (Trapani) e conseguente sciopero della fame e della sete per i migranti reclusi. “Ci troviamo in condizioni disumane - denunciano i detenuti a Redattore Sociale -, veramente non avevamo mai visto questa faccia dell’Italia”. È di pochi giorni fa la notizia di una fuga di massa dal Cie di Milo. “Sessantotto sono scappati - raccontano i migranti. Dopo la fuga, quelli che sono stati ripresi sono stati seduti per terra per due o tre ore di notte, urlavano e gridavano”. “Siamo in sciopero della fame, dell’acqua e dei farmaci - dicono ancora i migranti a Redattore Sociale - perché da qui non si esce. Si deve aspettare minimo un mese, un mese e mezzo per la domanda per avere il riconoscimento dello status di rifugiato. Quando chiediamo spiegazioni ci rispondono che siamo troppi. Le forze dell’ordine non fanno niente, anzi appena protestiamo, si rivolgono contro di noi. Questo è un commercio umano, ci sono malati psichiatrici che non possono stare qui. Fanno le proroghe del trattenimento senza farci incontrare un giudice”. Droghe: Radicali; Villa Maraini in difficoltà per responsabilità Comune Roma e Regione Lazio Agenparl, 19 marzo 2012 “La Fondazione Villa Maraini onlus, tra i più importanti centri italiani per l’aiuto e l’assistenza di tossicodipendenti, si trova in una grave situazione di difficoltà determinatasi da incredibili comportamenti del Comune di Roma e della Regione Lazio. Nel nuovo bando istituito dall’Agenzia per le Tossicodipendenze del Comune di Roma sono letteralmente spariti alcuni servizi che la Fondazione Villa Maraini, insieme ad altri centri, promuoveva nel territorio del Comune e della Regione sin dagli anni 80. Tra i servizi eliminati quello denominato “Telefono aiuto-help line” per l’assistenza alle persone con problemi di tossicodipendenza, l’assistenza rivolta verso i detenuti tossicodipendenti e le attività di prevenzione e di consulenza riguardo il virus Hiv. La Regione Lazio dal canto suo nel 2012 non ha ancora rinnovato alla Fondazione Villa Maraini la convenzione relativa alla somministrazione del metadone H24 a circa 270 tossicodipendenti in cura presso il centro, scaduta il 31 dicembre 2011. Su questa vicenda abbiamo oggi depositato due interrogazioni urgenti firmate anche dai Capigruppo dei Verdi, Pd, Socialisti, Fds, Sel, Idv per chiedere come la Regione intenda intervenire su queste gravi vicende che colpiscono uno dei centri italiani più importanti di lotta alle tossicodipendenze. Ci auguriamo che chi Governa il Comune e la Regione chiarisca quanto prima delle ragioni di questo incredibile comportamento e di incontrare al più presto i dirigenti della Fondazione Villa Maraini Onlus”. Così Consiglieri regionali Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo, Lista Bonino Pannella Federalisti Europei. India: i due marò restano in carcere per altre due settimane Libera, 19 marzo 2012 India, carcerazione preventiva di Latorre e Girone estesa per 15 giorni: giudice locale rifiuta la concessione del fermo di polizia. La carcerazione preventiva per i nostri due marò, Massimiliano Latorre e Salvatore Giorne, è stata estesa per altri 15 giorni su ordine del magistrato di Kollam, davanti al quale i nostri due militari detenuti in India sono comparsi lunedì mattina: la loro odissea è destinata a dilatarsi di almeno altri 15 giorni. Nel corso dell’udienza, durata circa 15 minuti, il legale dei due marò, Sunil Maheshwar, ha chiesto al giudice locale la possibilità che ai due venisse concesso un fermo di polizia al posto della carcerazione preventiva. Il giudice, A.K. Gopakumar, si è però opposto e ha disposto la custodia fino al prossimo 2 aprile, per un totale di 14 giorni. Nel corso dell’udicenza, Latorre e Girone sono stati nel fondo dell’aula. Latorre aveva i capelli rasati. I due marò erano accompagnati dal console generale di Mumbai, Giampaolo Cutillo, dall’addetto militare dell’ambasciat di Nuova Delhi, Franco Favre, e da funzionari della Marina. Dopo la decisione del giudice i due militari sono saliti su un cellulare della polizia e sono ripartiti per la prigione centrale di Trivandrum. India: Tomaso ed Elisabetta, detenuti da 25 mesi con una condanna in primo grado all’ergastolo di Lorenzo Sani Quotidiano Nazionale, 19 marzo 2012 La vicenda dei due militari italiani prigionieri in India ha riacceso i riflettori sul caso di Tomaso Bruno, 28 anni di Albenga, ed Elisabetta Boncompagni, torinese di 39 anni, da 25 mesi detenuti nel carcere di Varanasi con una condanna in primo grado all’ergastolo per omicidio. Sono ritenuti colpevoli della morte di un loro amico e compagno di viaggio: Francesco Montis, 31 anni di Terralba, paesino dell’entroterra sardo tra Uras e Arborea. Sono davvero colpevoli, o semplicemente vittime del pregiudizio, nonché della macchinosa giustizia indiana? Invano i due italiani hanno proclamato la loro innocenza. La sera del 3 febbraio 2010 i tre amici, che si erano conosciuti a Londra, “fumarono” e sniffarono eroina acquistata da Montis a Varanasi. Il mattino seguente Montis non si svegliò. Elisabetta e Tomaso provarono a rianimarlo, poi chiamarono i soccorsi e accompagnarono l’amico, fidanzato di Elisabetta, all’ospedale. I medici refertarono la morte per asfissia. Per i due italiani fu l’inizio dell’incubo. Le loro speranze sono affidate al processo di appello, che si celebrerà di fronte alla corte di Allahbad. Il problema è sapere quando: ora sono a ruolo appelli del 2007. Quanto tempo dovranno ancora attendere in carcere? “È impossibile stabilirlo, spero che l’ennesimo rigetto di libertà provvisoria su cauzione, che non viene concessa agli stranieri, ci permetta di accelerare i tempi”, risponde al telefono Vibhu Shankar, il legale di Nuova Delhi che lavora per lo stesso studio legale (Titus & Co.) che sta assistendo i due marò italiani. L’ultimo no alla libertà su cauzione è arrivato il 2 marzo: può aver in qualche modo influito la vicenda dei due marò? “Non credo. Sono casi diversi, che non bisogna sovrapporre. Non vedo punti di contatto, né anomalie, né pressioni”. Non crede che la tensione diplomatica che si è creata tra i Italia e India possa ripercuotersi sui nostri due connazionali detenuti a Varanasi? “In tutta sincerità penso di no. La vicenda dei militari italiani è solo un caso giudiziario, non diplomatico, né politico, né di giurisdizione”. Nel processo a carico di Tomaso ed Elisabetta sono emerse lacune e incongruenze: in primo luogo il movente, l’ipotesi di un triangolo amoroso è fragilissima. “Vero. Scrive esattamente così il giudice: non si può dimostrare per insufficienza di prove, ma si può ipotizzare che Tomaso ed Elisabetta avessero una relazione intima illecita. Eppure li ha condannati lo stesso, sulla base di ipotesi”. Perché tanto accanimento? “Il fatto che tutti e tre dormissero nella stessa stanza per gli occidentali può anche essere normale. Ma in India una donna che dorme con due uomini è un fatto che non può essere tollerato”. A differenza dell’avvocato Shankar, Marina Maurizio, madre di Tomaso, trova diversi parallelismi tra il caso dei marò e l’incubo kafkiano che ha inghiottito suo figlio da 25 mesi. “Innanzitutto il capo di imputazione è lo stesso: l’articolo 302 del codice penale indiano, l’omicidio volontario. Poi, in un caso e nell’altro, c’è la buona fede che ha portato all’arresto dei marò, ma anche di Eli e Tomi: se davvero mio figlio avesse ucciso il suo amico, sarebbe poi andato a chiamare soccorsi? Infine, i tempi che si allungano, l’impossibilità per i nostri legali di assistere all’autopsia, eseguita non da un medico legale, ma da un oculista. L’esame ha rilevato un’emorragia nel cervello della vittima, ma non l’ha ritenuta riconducibile alla morte. La stessa madre di Francesco Montis ha detto al giudice che suo figlio soffriva di asma, ma non hanno tenuto in considerazione nemmeno le sue parole”. Cina: cancellato programma tv “Interviste prima dell’esecuzione” Tm News, 19 marzo 2012 Dopo cinque anni di successo in prima serata, con 40 milioni di telespettatori, la televisione cinese Legal Tv della provincia di Henan ha sospeso il programma ‘Interviste prima dell’esecuzione”, giustificandosi con “problemi interni”. Una decisione causata invece, secondo alcuni resoconti, dallo scalpore suscitato dal programma sulla stampa internazionale, dopo essere stato rilanciato dalla Bbc e dall tv Usa Pbs. Pensato per dissuadere futuri criminali, “Interviste prima dell’esecuzione” era diventato uno dei programmi televisivi di maggior successo in Cina, un reality tv che mostrava la confessione e la richiesta di perdono dei detenuti pochi minuti prima o pochi giorni prima di essere giustiziati. La conduttrice, Ding Yu, era diventata una celebrità e veniva soprannominata “la bella con la bestia”. Nelle oltre 200 interviste realizzate, Ding iniziava chiedendo ai condannati dei loro film e delle loro canzoni preferite, quindi li incalzava sui dettagli violenti dei loro crimini, spingendoli a chiedere scusa. Dopo la confessione e le scuse, Ding prometteva di far arrivare i loro ultimi messaggi alle famiglie, che non sono autorizzate alle visite nel braccio della morte, mentre le telecamere continuavano a seguire il detenuto fino a quando non veniva portato davanti al plotone di esecuzione o preparato per l’iniezione letale. “Alcuni spettatori possono pensare che sia crudele intervistare un criminale prima che venga giustiziato - ha detto Ding, citata oggi da El Pais - invece è tutto il contrario. Vogliono essere ascoltati. Alcuni criminali che ho intervistato mi hanno detto: “Sono veramente contento. Le ho detto così tante cose che avevo dentro. In carcere non c’era nessuno con cui parlare”. Un portavoce dell’emittente Legal Tv ha tuttavia annunciato alla tv Usa Abc che “Interviste prima dell’esecuzione” verrà sostituto con un nuovo programma di questioni legali. Il programma veniva trasmesso solo nella provincia di Henan, nel centro del Paese. Sono 55 i crimini puniti con la pena di morte in Cina, l’unico al mondo a non diffondere i dati sulle esecuzioni compiute ogni anno. Si stima che siano circa un migliaio le persone giustiziate ogni anno. Afghanistan: Ong denuncia, torture e abusi in almeno 10 prigioni Agi, 19 marzo 2012 Un nuovo rapporto diffuso oggi dalla Commissione indipendente afghana per i diritti umani (Airhc), denuncia le sistematiche torture della polizia e dei servizi segreti afghani (Nds) contro i detenuti in almeno una decina di prigioni. Alcuni ricercatori hanno trovato prove tangibili di tortura in 9 sedi del (Nds) e in molti centri di detenzione della polizia afghana. Tra le torture inflitte - si legge nello studio - vi sono pestaggi, sospensione dal soffitto, scosse elettriche, minacce e casi di abusi sessuali e altri tipi di abusi fisici e mentali utilizzate regolarmente per estorcere confessioni o altre informazioni. Già nell’ottobre scorso un rapporto delle Nazioni Unite denunciava torture sistematiche in cinque centri di detenzione. Quasi la metà dei detenuti intervistati che avevano soggiornato nei locali del Nds denunciavano di aver subito tecniche di interrogatorio simili alla tortura. Notizie subito smentite dal portavoce dei servizi segreti afghani Lutfullah Mashal, per il quale il lavoro dell’Airhc è senza fondamenti. Anche Sediq Sediqqi, portavoce del ministro dell’Interno ha totalmente rigettato tutte le accuse che riguardano la polizia. Per Sediqqi, la polizia non indaga ne tortura nelle prigioni, dove non fa che tenere in custodia i detenuti. Ma indagheremo sui casi denunciati ha aggiunto. Nel Rapporto, l’Ong afghana si dice “seriamente preoccupata” per la poca trasparenza della politica americana sui trasferimenti dei detenuti. In almeno tre casi, militari americani non appartenenti alle truppe Isaf hanno trasferito dei prigionieri afghani verso il centro del Nds di Kandahar dove sono stati torturati. L’Isaf, ha subito fatto sapere che manderà alcune squadre ad ispezionare i centri individuati dall’Aihrc. Dopo l’uscita del rapporto delle Nazioni Unite il contingente internazionale della Nato aveva deciso di non trasferire più i detenuti nei 16 centri denunciati. Cuba: a pochi giorni da visita Papa, arrestati oltre 50 attivisti Tm News, 19 marzo 2012 A una settimana dalla visita di Papa Benedetto XVI, la polizia cubana ha disperso una manifestazione dei parenti dei prigionieri politici e ha arrestato oltre 50 attivisti. La manifestazione era tenuta dalle “Dame in bianco”, che hanno denunciato l’arresto di loro 33 attiviste, tra cui la leader Berta Soler, avvenuto mentre lasciavano la sede dell’organizzazione per recarsi alla messa domenicale. Altre 20 persone sono poi state arrestate durante la manifestazione, perché non avevano rispettato il percorso abituale delle loro proteste settimanali. Le Dame in bianco, insignite del premio Sakharov per la pace, chiedono la liberazione dei prigionieri politici, tra cui figurano i loro coniugi o compagni. Di solito, le attiviste partecipano insieme alla messa della domenica, quindi manifestano per chiedere il rilascio dei detenuti. I dissidenti hanno moltiplicato le loro iniziative all’Avana in vista della prossima visita del Pontefice, in programma dal 26 al 28 marzo. Rilasciate attiviste gruppo “Damas en blanco” Le autorità cubane hanno rilasciato 50 attiviste del gruppo “Damas en blanco” (le signore in bianco), arrestate ieri nel corso di operazioni contro i dissidenti all’Avana in vista dell’arrivo di papa Benedetto XVI. Magaly Norvis Otero Suarez, membro dell’associazione per i diritti umani bandita dal regime, ha detto che la leader del gruppo, Berta Soler, e “quasi tutte” le altre attiviste arrestate sono state rilasciate durante la notte. In una delle operazioni, la polizia ha interrotto una marcia di protesta organizzata dalle mogli, vedove e madri dei prigionieri ed ha arrestato 20 manifestanti. Altre 33 donne, fra cui la Soler, sono state fermate mentre si recavano alla messa della domenica in una chiesa cattolica. Le “Damas en blanco”, vincitrici nel 2005 del premio Sakharov Prize, sono da tempo impegnate per il rilascio dei detenuti per motivi politici e hanno intensificato le dimostrazioni in occasione della prossima visita del pontefice. Russia: vietata manifestazione per avvocato morto in carcere Mosca Tm News, 19 marzo 2012 Le autorità di Mosca avrebbero rifiutato il permesso per una manifestazione su piazza Kaluzhkaja in memoria di Sergey Magnitsky, morto nel 2009 mentre era in custodia cautelare in un carcere russo in attesa del processo. L’organizzatrice della protesta, Natalia Pelevina, ha detto che il municipio ritiene non corretto il tema della manifestazione, ossia il comportamento “illegale” della polizia nel caso Magnitsky. La Pelevina è nota per aver organizzato una protesta a New York City a sostegno dell’articolo 31 della Costituzione russa e a sostegno dell’ex oligarca in carcere Mikhail Khodorkovsky. Il Picchetto a Mosca era in programma per il 24 marzo e doveva vedere la partecipazione di 500 persone. Magnitsky aveva accusato alcuni impiegati del ministero dell’Interno di aver usato compagnie consociate del fondo Hermitage Capital - per il quale lavorava lui stesso - per mettere in piedi una mega frode fiscale per centinaia di milioni di euro. La denuncia gli si è ritorta contro: Magnitsky è stato accusato di aver creato lo schema ed è finito in carcere, dove è poi morto in circostanze mai chiarite.