Una “Marcia per l’amnistia, la giustizia e la legalità” nel giorno di Pasqua… di Rita Bernardini e Irene Testa Ristretti Orizzonti, 18 marzo 2012 Nel Natale del 2005, forse anche tu hai marciato con noi a Roma per l’amnistia, la giustizia e la legalità. Per denunciare e chiedere al Parlamento un impegno concreto e solerte per far fronte alle drammatiche condizioni in cui versano la giustizia e le carceri nel nostro Paese. Allora e anche oggi, ormai da decenni, si tratta di una delle più grandi questioni sociali in Italia, fonte continua, ripetutamente sin dal 1980, di condanne da parte delle corti di giustizia europea e internazionali, per violazione di diritti umani fondamentali. Non si tratta solo della condizione delle carceri, nelle quali 67.000 detenuti sono ammassati in celle che potrebbero ospitarne al massimo 45.000, ma della vita di milioni di cittadini italiani e delle loro famiglie, che sono parti in causa negli attuali oltre 10 milioni di procedimenti penali e civili pendenti nei nostri tribunali, molti dei quali destinati a risolversi dopo troppi anni se non anche vedere i reati imputati cadere in prescrizione; in media sono infatti 500 ogni giorno le prescrizioni di reati che maturano nel silenzio. Anche oggi, come ieri, continuiamo a ritenere che per far fronte a questa grave situazione, solo uno strumento tecnico quale un provvedimento di amnistia, la più ampia possibile, che possa da subito ridurre drasticamente il carico processuale della Amministrazione della Giustizia, perché essa, sollevata dal peso immane di un arretrato impossibile da smaltire, possa così tornare al più presto a operare con efficienza. Amnistia che sia premessa e traino di quella Riforma della Giustizia da anni invocata e mai realizzata. Assieme a questa, un indulto. Per ripristinare la legalità nelle nostre carceri. Per rilanciare nuovamente con forza queste istanze, da tempo e sempre più avvertite come insostituibili esigenze sociali, stiamo in queste ore verificando la fattibilità in termini di slancio e di presenze di una “Seconda Marcia per l’amnistia, la giustizia e la legalità” nel giorno di Pasqua, il prossimo 8 aprile. I tempi sono strettissimi e l’obiettivo molto ambizioso, ma, crediamo, anche doveroso. L’idea è di ripercorrere lo stesso tracciato che nel 2005 portò alla costituzione di un Comitato promotore della marcia, e nelle prossime ore avvieremo un primo giro di contatti per capire chi di quei promotori di allora voglia far parte oggi di questa nuova iniziativa, e anche per sondare e suscitare nuove eventuali adesioni. Don Antonio Mazzi, Giulio Andreotti, Emilio Colombo, Francesco Cossiga, Rita Levi Montalcini, Giorgio Napolitano, Sergio Pininfarina, Antonio Baldassarre, Giuliano Vassalli, questi i nomi prestigiosi che convocarono la Marcia del 2005. Uniamo a questa comunicazione la richiesta di una vostra valutazione e riflessione in merito a questa proposta, e dell’eventuale disponibilità a partecipare ai prossimi appuntamenti convocati a breve, durante i quali andremo definendo meglio cosa sarà opportuno fare, con la convinzione, crediamo da te condivisa, che per realizzare questo nostro obiettivo, sia ovviamente essenziale la massima disponibilità di tutti. Giustizia: nelle carceri anche l’emergenza delle patologie infettive e psichiatriche di Mariano Parise Gazzetta del Sud, 18 marzo 2012 Destano sempre allarme i casi di malattie infettive come la tubercolosi e la scabbia che vengono segnalati nelle sovraffollate carceri italiane: si dice allora che i penitenziari sono focolai di infezione. Ma non sono solo quelle le emergenze sanitarie che la vita da ristretti produce. Il 42% della popolazione carceraria soffre, infatti, di disturbi psichiatrici di primo asse, quelli meno gravi come i problemi nell’interazione o nell’apprendimento, che all’esterno affliggono un numero molto minore di persone: il 7,3% degli italiani. E circa il 16% dei detenuti - spiega la dottoressa Gemma Brandi, psichiatra e responsabile della salute mentale nelle carceri fiorentine, a un seminario alla Cei - è affetto da gravi disturbi della personalità, mentre “fuori” ne soffre una parte limitata della popolazione, intorno all’1,5%. Malattie non trasmissibili, ma che la prossimità scatena: si tratta infatti di disturbi già esistenti, e che in carcere si evidenziano con maggiore gravità, o di risposte di tipo psicotico ad eventi traumatizzanti come la privazione della libertà e il rimorso. Una sorta di “epidemia” anche questa, i cui esiti si manifestano con estreme conseguenze con i suicidi e gli atti di autolesionismo. Strettamente collegata a queste patologie, la tossicodipendenza: ne è affetto più di un detenuto su 3 (il 35%) sui circa 67 mila nelle carceri italiane. Anche in questo caso è richiesto un trattamento specifico, che i grossi numeri, le scarse risorse e una carcerazione disumanizzante impediscono. Anche la Cei lancia l’allarme: “Il sovraffollamento, la promiscuità e la privazione di libertà peggiorano le condizioni di salute, aumentando le malattie psichiche e le patologie infettive”, dice monsignor Andrea Manto, medico e direttore dell’Ufficio per la pastorale della Sanità, ma “quelle dei carcerati non possono essere vite a perdere”. Il trasferimento di competenze dalla sanità penitenziaria in atto dal 2008 e l’imminente chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari hanno “un forte impatto nelle istituzioni sanitarie a livello nazionale, regionale e locale”, riconosce il ministro della Salute, Renato Balduzzi. Giustizia: Cei; 8 detenuti su 10 hanno problemi di salute fisici e psichici Ansa, 18 marzo 2012 Ogni anno più di 90.000 persone entrano nelle carceri italiane e 66.500 vi restano stabilmente: di queste, 8 su 10 hanno problemi di salute, fisici e psichici, più o meno gravi. Sono alcune cifre che emergono dalla giornata di studio sul tema “salute e carcere” organizzata a Roma dalla Cei attraverso l’Ufficio nazionale per la pastorale della sanità della Conferenza episcopale italiana. “Un problema, quello della salute in carcere - sottolinea la Cei - che il sovraffollamento aggrava e che richiede un forte impegno di tutti i soggetti coinvolti e un approccio culturale nuovo”. In un messaggio inviato al convegno, il ministro della Giustizia Paola Severino afferma che “la sanità in carcere è un tema complesso, che va affrontato mettendo in rete competenze di soggetti istituzionali e il contributo generoso e competente delle associazioni di volontariato e dei cappellani che da sempre assicurano un supporto fondamentale nell’assistenza ai detenuti”. Per il ministro della Salute Renato Balduzzi, “occorre un lavoro di lungo periodo per far evolvere mentalità e pratiche assistenziali, radicare l’assistenza primaria ai detenuti nella più vasta rete dei servizi sanitari territoriali, precisare sempre meglio i bisogni delle persone detenute, così da inserire nel percorso quella che potremmo chiamare la cittadinanza sanitaria”. “L’amministrazione penitenziaria deve fare quanto possibile, affinché le condizioni di detenzione già rese difficili dal sovraffollamento non finiscano per aggravare la salute dei detenuti - avverte Giovanni Tamburino, capo del Dap - Siamo arrivati a un punto, in questo Paese, in cui una trasformazione è possibile in questo campo ma occorre unire le forze di tutti”. “La salute in carcere è un problema drammatico, perché coinvolge oltre 100mila persone: i 66.500 detenuti, 24miladei quali stranieri, ma anche il personale, gli operatori, gli educatori: oltre 40mila persone senza contare le famiglie”, ha sottolineato Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum Salute e Carcere. “L’amministrazione penitenziaria deve fare quanto possibile perché le condizioni di detenzione già rese difficili dal sovraffollamento non finiscano per aggravare la salute dei detenuti”, ha ammonito Giovanni Tamburino, capo del Dap secondo il quale, “siamo arrivati ad un punto, in questo paese, in cui una trasformazione è possibile in questo campo, ma occorre unire le forze di tutti”. Sulla necessità di una trasformazione nell’approccio al problema concordano anche medici e psichiatri. “Il carcere è di per sé un limite oggettivo alla cura della salute: occorre un cambiamento culturale, prendendo atto di che cosa si può iniziare a modificare”, ha spiegato il responsabile sanitario di Regina Coeli, Andrea Franceschini; mentre per Gemma Brandi, psichiatra responsabile Salute mentale degli istituti di pena di Firenze, “dobbiamo fare degli istituti di pena dei luoghi non di vendetta ma di espiazione della pena”. Vi sono poi i problemi delle dipendenza, alcol, droga, il dramma dei bambini (53 in tutta Italia) in carcere con le loro madri e la carenza di attività lavorative, fondamentali per la salute psicologica di chi deve scontare una pena. Anche la Chiesa, naturalmente, “è decisa a fare la sua parte” ha ribadito monsignor Andrea Manto, direttore della pastorale della sanità della Cei. “La comunità cristiana sul territorio può e deve farsi carico della comunità cristiana che vive in carcere, tanto più se malata: dalla desolazione possiamo e dobbiamo passare alla consolazione. Tutto ciò con particolare attenzione alla dignità dei soggetti coinvolti, all’accompagnamento pastorale, al rapporto tra carcere, territorio e comunità cristiana ed a eventi di stretta attualità quali l’imminente chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Giustizia: Manto (Cei): carcere non sia “discarica sociale” ma luogo di recupero persona Radio Vaticana, 18 marzo 2012 Interrogarsi sulla tutela della salute nelle carceri, con uno sguardo rivolto al necessario accompagnamento pastorale: è l’obiettivo del Seminario dal titolo “Salute e carcere: quale pastorale?”, che si è tenuto oggi a Roma. In un messaggio il ministro della Giustizia Paola Severino assicura la più alta attenzione su questo aspetto mentre il ministro della Salute Renato Balduzzi sostiene che si sta lavorando sui requisiti minimi per le strutture che ospiteranno le persone internate negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dopo il loro superamento entro il primo febbraio 2013, disposto nel decreto carceri. Debora Donnini ha intervistato mons. Andrea Manto, direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della sanità della Cei, che ha promosso l’incontro: R. - Per la comunità cristiana, oggi, c’è una grande necessità di conoscere la realtà del carcere. Questo perché, dal 2008, in modo particolare, la competenza sanitaria sul carcere è stata tolta all’Amministrazione penitenziaria ed è passata alle Regioni. C’è quindi il problema di far dialogare i Servizi sanitari regionali e il territorio con il carcere. D. - Questo convegno parla della salute. Oltre al dramma dei suicidi in carcere, oltre al problema del sovraffollamento, quali sono i problemi fisici e psicologici che i malati incontrano di più in carcere? R. - Le statistiche ci dicono che sui circa 66 mila detenuti oggi in Italia, un numero pari all’80 per cento ha patologie in qualche modo significative, che vanno da quelle più comuni come il diabete, l’ipertensione e altre patologie cardiovascolari, fino, soprattutto, al tema del disagio psichico nelle più varie forme e alle tossicodipendenze. La patologia psichiatrica è presente nelle persone detenute in numeri che sono 30, 40 volte maggiori rispetto alla popolazione generale. Noi abbiamo un 20 per cento di persone che è in buona salute e un 80 per cento di malati. Di queste persone che stanno male, il 30 per cento ha bisogno di essere seguita in maniera più importante. Se non si attiva una presenza che è insieme dell’operatore sanitario professionale medico, infermiere, o del volontario, e un’adeguata terapia farmacologica, queste persone rischiano la vita. D. - Secondo voi ci vuole un maggior impegno delle Regioni nelle carceri dal punto di vista medico e più volontariato? R. - Ci vogliono interventi coordinati. Non è facile far dialogare una Asl - che ha sempre pensato all’ospedale e al Servizio sanitario, al limite sul territorio o una lunga degenza - con il pianeta e sistema carcere. D. - Uno dei temi affrontati è quello della salute mentale. Voi come valutate la prossima chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari in Italia? R. - L’Ospedale Psichiatrico Giudiziario è sicuramente uno strumento che ha permesso di non mettere in regime di detenzione ordinaria persone con patologie psichiatriche molto gravi però anch’esso, per molti aspetti, richiede una revisione, una riforma. Pensare di chiuderlo può essere in prospettiva anche un traguardo importante ma non si può arrivare a chiudere la struttura dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario senza pensare a forme alternative che garantiscano la cura del malato psichico. La nostra attenzione è a far sì che l’attuazione della legge non sia qualcosa che più che risolvere alcuni problemi e criticità esistenti - perché gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari non sono tutti della stessa qualità e dello stesso livello in Italia - non ne causi o ne generi altri. D. - Quindi il vostro è uno sguardo di attenzione a quello che succederà? R. - È uno sguardo di attenzione. Tutto questo seminario in realtà vuole avere questo scopo: tenere viva l’attenzione, favorire l’integrazione tra carcere e territorio, tra i vari soggetti affinché quella esperienza non diventi quella di una discarica sociale ma quella di un luogo dove la dignità della persona sia il più possibile tutelata e si raggiunga l’obiettivo di una pena che sia la possibilità di un recupero della persona e non della definitiva distruzione. Giustizia: Nicolò Amato; finché ho guidato il Dap nessun mafioso è sfuggito al 41-bis Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2012 L’ex direttore del Dap Nicolò Amato non ci sta a passare per colomba sul 41 bis, rimprovera Claudio Martelli di aver mentito a Servizio Pubblico, e rispedisce l’accusa al mittente: “Fu il Guardasigilli a non applicare il carcere duro a oltre 5000 detenuti, come gli avevo suggerito”. L’ex ministro democristiano Calogero Mannino se la prende, invece, con il fatto Quotidiano e passa ad accusare i giornalisti che raccontano le indagini della Procura di Palermo (o torse gli stessi pm autori delle indagini, non si capisce) di “perversioni intellettuali”, frutto addirittura di “turbe della mente”. I riflettori dei media accesi sulla trattativa mafia-Stato provocano reazioni veementi, e a volte anche scomposte, da parte dei protagonisti di una stagione ancora tutta da chiarire. Nessuno vuol passare per un fautore della linea “morbida” con la mafia e Mannino, indagato a Palermo nell’inchiesta coordinata dai pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo per minaccia a corpo politico dello Stato, nega sdegnato di essere “l’ispiratore della trattativa” giurando, al contrario, di esserne una “vittima”. Il politico siciliano, che oggi è senatore del Gruppo misto, smentisce -come, del resto, ha sempre fatto - di essersi incontrato all’inizio del 1992 con il maresciallo di Agrigento Giuliano Guazzelli, e di avergli confidato poco dopo il verdetto di condanna della Cassazione sul maxi-processo, la sua paura di essere ammazzato. “Ora - gli avrebbe detto durante un colloquio riservato - o uccidono me o Salvo Lima”. Un’intuizione profetica, dal momento che il 12 marzo di quell’anno Lima viene assassinato a Mondello e il 4 aprile cade sotto i colpi di fucile anche Guazzelli ad Agrigento. “Tutte le dichiarazioni ufficiali dei carabinieri e funzionari di polizia che ho incontrato in quel tempo - afferma Mannino, nella sua replica rilasciata all’Ansa - sono state vagliate nel lungo processo che mi è stato fatto”. Ma adesso i pm provano a rileggere quelle dichiarazioni, nel tentativo di ricostruire la genesi della trattativa. Mannino probabilmente lo intuisce e per questo cerca di correre ai ripari. Cosi definisce l’episodio dell’incontro con Guazzelli, riportato dai giornalisti, “semplicemente ridicolo, o meglio, lo sarebbe se questo intento accusatorio non fosse mosso da una palese inimicizia, certamente frutto di turbe della mente”. Ma il dialogo tra l’ex ministro e il maresciallo è stato riferito ai magistrati, negli anni passati, da Riccardo Guazzelli, il figlio dell’investigatore ucciso, considerato anche lui vicino a Mannino al punto da essere stato consigliere provinciale di Agrigento, proprio grazie all’appoggio del notabile Dc. L’ex ministro, però, se la prende lo stesso con il Fatto Quotidiano parlando di “ricostruzione fantastica, da piccolo romanzo d’appendice poliziesco”, che “stupisce soltanto per l’arditezza della perversione intellettuale”. Non meno immediata e accesa la replica dell’ex direttore delle carceri, Nicolò Amato che, in una lettera inviata a Michele Santoro e al direttore del Fatto Quotidiano Antonio Padellare, contesta le dichiarazioni dell’ex Guardasigilli Claudio Martelli che, giovedì sera a Servizio Pubblico gli ha attribuito la paternità della proposta di abolire il 41 bis, durante il vertice del febbraio 1993 alla presenza di Conso (ministro della Giustizia, successore di Martelli), Mancino (ministro dell’Interno) e Parisi (capo della Polizia). “Affermazioni false. Fino a quando io ho diretto il Dap, nessun mafioso di rilievo è sfuggito al 41 bis - scrive Amato - tanto che, quando sono andato via, i detenuti sottoposti a tale regime erano oltre 1.300 e invece dopo, in pochi mesi, si sono ridotti a 436”. Secondo Amato, “onestà intellettuale e verità storica imporrebbero (a Martelli, ndr) di riconoscere che nella lotta alla mafia il direttore generale del Dap era davanti e non dietro a lui, forse anche perché non si era mai presentato alle elezioni in Sicilia”. Poi. la stoccata finale: “Martelli non è stato mandato via perché combatteva la mafia troppo duramente. Ha dovuto dimettersi perché chiamato in causa, magari ingiustamente, in una delle tante squallide storie di Tangentopoli”. Giustizia: il magistrato Giovanni Spinosa sulla Uno Bianca “dietro i Savi c’era la mafia” di Lorenzo Lamperti Affari Italiani, 18 marzo 2012 “I Savi erano l’ultimo anello di un vasto disegno della criminalità organizzata”. Giovanni Spinosa, presidente del Tribunale di Teramo ed ex pm alla Procura di Bologna, e sceglie Affaritaliani.it per parlare del suo libro “L’Italia della Uno Bianca”. Spinosa racconta una verità diversa da quella ufficiale: “Ho deciso di scriverne adesso perché non ne potevo più di tutte le bugie. Media e giustizia si sono appiattiti su una versione semplicistica. Nessuno ha avuto la forza di andare a fondo. Si è preferito credere alle confessioni dei tre fratelli piuttosto che all’evidenza dei fatti. I loro delitti fanno parte dello stragismo mafioso del decennio 1984-1993”. Dalle bombe di Pippo Calò sul rapido 904 agli attentati di Milano, Firenze e Roma, Spinosa fa un inquietante ritratto degli avvenimenti di quegli anni. “La trattativa Stato-mafia? Se vieni a patti una volta con i criminali, lo fai per tutta la vita”. E a proposito della sentenza della Cassazione su Dell’Utri: “Sono senza parole. Mi sembra impossibile sostenere che il concorso esterno in associazione mafiosa non esiste. La mafia è una cosa concreta. Ma spesso in questo Paese si preferisce chiudere gli occhi e fare finta di niente”. Sono passati 17 anni dall’ultima azione della banda della Uno Bianca. Perché scrivere ora questo libro? “Ho iniziato a occuparmi della Uno Bianca nel 1988, quando ero alla Procura di Bologna. Ho sempre seguito una certa strada, sono sempre stato convinto che le loro azioni si inserissero in un contesto criminale molto più ampio. Questo anche se all’inizio non era facile collegare tutte le vicende. Quando sono stati arrestati i fratelli Savi, fin dai primi interrogatori fui convinto che dicessero un sacco di bugie. Al processo per l’eccidio del Pilastro capii che avevo ragione. La sentenza diede ragione alla mia tesi, ovvero che i Savi rientravano in un grande disegno della criminalità organizzata nel quale facevano parte personaggi contigui alla trattativa con i servizi segreti per la liberazione del camorrista Cirillo. Tutto questo viene scritto nella sentenza e io pensavo di avercela fatta, di essere riuscito a scardinare l’interpretazione che si era data della Uno Bianca. Poi mi sono accorto che non era così. A quel punto mi sono reso conto che non c’era più spazio, ho restituito tutte le deleghe e non mi sono mai più occupato della vicenda. Non ho mai letto un libro o visto film, niente di niente... quando vedevo degli articoli sui giornali chiudevo gli occhi e andavo oltre. Poi due anni fa mi hanno proposto un’intervista per una trasmissione televisiva e mi sono lasciato convincere. Per me è stato molto difficile sul piano umano risalire la scaletta e prendere dal mio ripostiglio le fotocopie di tutti gli atti della Uno Bianca. Poi però non si è più fatto vivo nessuno. Nonostante questo, il programma l’hanno fatto comunque e ancora una volta ho visto le solite banalità. Mi sono cadute le braccia. A questo punto ho pensato che avevo il dovere di scrivere qualcosa. Davvero. Non sono uno scrittore, e dopo questo non scriverò altri libri. Scrivo e voglio continuare a scrivere solo atti giudiziari”. Perché media e giustizia si sono appiattiti su una versione, come la definisce lei, “semplicistica” sulla vicenda Uno Bianca? “Non lo so, non l’ho mai capito. Il giorno che uscii la sentenza del processo Medda il giudice venne autorizzato a fare una conferenza stampa nel quale disse: “Crediamo che i Savi fossero al Pilastro insieme a soggetti legati ad ambienti camorristi”. Lo ha detto pubblicamente. Io non so come sia stato possibile fare finta di niente. Credo ci siano anche dei fattori psicologici da tenere in considerazione. Non si vedeva l’ora di risolvere la questione perché la gente aveva paura. Ma non si è tenuto conto di dati di fatto inconfutabili. Dal 1984 all’Italia c’è uno stragismo mafioso. Si è voluto a un certo punto andare dietro alle piste eversive e al concetto delle “schegge impazzite” che ripercorrono Gladio, la banda del Brabante Vallone e tutto il resto. Dimenticando che dalle bombe sul rapido 904 del 1984 messe da Pippo Calò lo stragismo è legato alle azioni della mafia. Poi può essere anche eversivo, ma il primo aggettivo da mettergli di fianco è senza dubbio mafioso. È uno stragismo diverso da quello precedente. Le bombe di piazza Fontana e piazza della Loggia erano azioni golpiste. Ma dal 1984 lo stragismo mafioso ha pochi golpe da fare visto che in buona parte lo Stato sono loro. Era evidente che i Savi si inserissero all’interno di un ingranaggio molto più vasto e complesso”. Com’è possibile che nei vari processi si sceglie di credere sempre alle confessioni dei Savi e tralasciare invece le parecchie testimonianze di cittadini e vittime delle rapine o violenze? “La risposta alla sua domanda è una frase di Roberto Savi. A un certo punto il perito Farneti smentisce la ricostruzione che sta facendo di una delle loro rapine e lui risponde: “Farneti può dire quello che vuole, perché solo chi c’era può dire quello che è successo”. Questa frase è stata come un macigno messo sopra le indagini. Allora o si ha la capacità di operare una lettura organica e di cogliere i fatti nel loro insieme e vedere come messi uno di fianco all’altro hanno una coerenza, oppure l’affermazione di Savi ti tappa la bocca ed è impossibile avere la forza di controbattere. Era difficile, davvero difficile, andare contro il comune senso di liberazione che c’era nel pensare di aver trovato i colpevoli. Era complicato dire: “Fermi tutti, non è vero niente”. E invece i Savi avevano messo in atto una radicale organizzazione del depistaggio”. Che ruolo hanno allora i Savi nella storia della Uno Bianca? “Sono l’ultimo anello. Ci sono degli episodi clamorosi, dove è evidente che c’è qualcosa che passa sopra le loro teste. Una volta dicono di aver parcheggiato l’auto in un posto ma viene ritrovata da tutt’altra parte. Un’altra volta viene ritrovato nella loro auto il bossolo di un revolver che i Savi non hanno mai avuto. La Corte d’Assise deve arrivare a ipotizzare che il bossolo è stato esploso da un’arma rubata dai Savi durante una rapina dei quali entrambi hanno perso il ricordo e della quale non c’è traccia. E rubare una calibro 357 non è una cosa che passa molto inosservata. In molti casi i Savi non erano nemmeno consapevoli di quello che stava accadendo”. Che cosa ci guadagnano a confessare colpe non loro? “I Savi sono segnati. È dal 30 gennaio 1988 che la loro condanna all’ergastolo è inevitabile. La domanda da fare allora è un’altra: ‘che cosa sarebbe cambiato se loro avessero detto che si erano limitati a fornire le armi?’. Dal punto di vista giudiziario, avrebbero comunque avuto l’ergastolo. Ammettere di aver agito insieme a personaggi della criminalità organizzata poteva portargli il rischio di un regime carcerario più duro. Senza contare l’argomento dei benefici penitenziari: chi viene condannato per reati di mafia deve dimostrare la rottura dei rapporti con il mondo esterno. Loro invece oggi non devono dimostrare nulla perché ufficialmente hanno fatto tutto da soli. E poi non si dimentichi che a un certo punto i Savi provano a parlare. Dopo il primo ergastolo Roberto dice che ha raccontato una valanga di bugie. Lo ripete anche Alberto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere facendo anche dei nomi di personaggi di Poggiomarino. Ma non è stato fatto niente per indagare. La versione della banda famigliare era troppo comoda”. Nell’estate 1993 le principali città italiane vengono colpite dalle bombe: Milano, Firenze, Roma. Come mai Bologna viene risparmiata? “Perché Bologna aveva la Uno Bianca. Mi venne immediatamente in mente in quell’estate. Quando nel novembre dell’anno dopo vengono preso i Savi ho capito tutto. Poi recentemente vengo anche a sapere che per gli attentati di quel luglio erano state usate della Fiat Uno. C’è addirittura un pentito che racconta che a costo di rubare una Fiat Uno è arrivato fin sotto una questura. Qualcosa vorrà dire”. Come ha reagito quando è stato isolato all’interno della Procura di Bologna? “Io sono un magistrato, e lavoro in un ufficio gerarchico. Ho capito che la mia linea non era condivisa e mi sono tolto di mezzo. Per me è stata una sofferenza, non volevo andarmene via. Però sentivo davvero di essere diventato una specie di capro espiatorio, anche per gli organi di stampa”. Pensa che qualcuno possa definire il suo libro come “complottista”? “L’esplosivo del 1984 è lo stesso delle bombe degli attentati di via D’Amelio e di Capaci. Questi sono dati di fatto. Io credo di aver dimostrato con molteplici fatti che i Savi non erano soli e che hanno preparato un depistaggio gigantesco. Non volerlo capire significa rassegnarsi a non scoprire la verità su una pagina oscura della storia del nostro Paese. L’esistenza di un complotto sta nei fatti e non nei libri”. Recentemente è uscito Occhipinti dal carcere, uno di quelli che avrebbero aiutato i Savi nelle loro rapine. Pensa che il caso si possa riaprire? “Spero sinceramente di sì. E ci credo, anche”. Lei è stato uno dei primi a indagare sulle infiltrazioni mafiose al Nord. Trent’anni fa quanto era difficile affermare che la criminalità organizzata si stava estendendo anche nelle regioni settentrionali? “Ma guardi, vada dalle parti di Sassulo, di Reggio Emilia o di Modena. La presenza della mafia sul territorio è fortissima, l’economia la controllano loro. Se vogliamo dirla tutta, la vicenda della Uno Bianca ha avuto come effetto collaterale anche quello di bloccare tutte le indagini a questo proposito. Nel 1984 quando esplodono le bombe di Pippo Calò sul rapido 904 stavo indagando su tale Salvatore Rizzuto. Rizzuto era un fedelissimo di Calò e grazie all’interruzione dell’inchiesta è riuscito a portare a termine un affare spaventoso che lo ha fatto diventare il re di tutte le bische della Romagna. La mafia al Nord è di casa. Io oggi lavoro a Teramo, ma gli amici che ho lasciato in Emilia mi dicono: “Le stiamo prendendo dappertutto”. Si parla molto del concorso esterno in associazione mafiosa dopo la decisione della Cassazione di far ripetere il processo d’appello a Dell’Utri. Lei come interpreta quello che ha detto il pg Iacoviello? “Guardi, davvero.... sono senza parole. Mi sembra impossibile che un uomo della cultura di Iacoviello possa affermare che il concorso esterno in associazione mafiosa non esiste. Questo reato non è un’astrazione dei giuristi, ma è una cosa concreta. Se io le dò una dritta per una rapina e lei la fa, siamo colpevoli entrambi. Lei per aver compiuto la rapina, io per aver concorso a fargliela fare. Anche per l’associazione mafiosa funziona così. Se si capisce che la mafia è una cosa concreta, fatta di riti, gradi, vincoli allora si capisce anche perché esiste l’articolo 110 del codice penale”. Negli scorsi giorni nelle motivazioni di una sentenza si afferma, al di là di ogni dubbio, che una trattativa tra Stato e mafia è esistita. Ma secondo lei si è mai conclusa? “Questo non lo so. Però posso dire che quando si scende a patti una volta con i mariuoli, siano essi mafiosi o di qualsiasi altro colore o vestito, lo si fa per tutta la vita”. Giustizia: il procuratore antimafia Gratteri “Riina jr a Padova? Un virus mafioso” di Massimo Guerretta La Stampa, 18 marzo 2012 Come un virus, in grado di infettare il tessuto che lo circonda. L’arrivo a Padova di “Salvuccio” Riina alimenterà il dibattito sul rapporto tra Stato. e mafia ben oltre il suo definitivo insediamento, dopo la decisione del tribunale di Palermo di autorizzarne la sorveglianza speciale in Veneto. Infatti, oltre agli strali della Lega Nord arrivano quelli del procuratore distrettuale antimafia Nicola Gratteri, in città per un convegno. “Il trasferimento di Riina junior a Padova è una notizia negativa e preoccupante per la città. Il soggiorno obbligato è la cosa peggiore che abbia fatto il legislatore in Italia”. Il magistrato di Reggio Calabria condanna il provvedimento che, tra meno di un mese, consentirà a Riina di arrivare a Padova: “Il fatto è ormai conclamato: abbiamo accelerato il processo di infezione della mafia. Quando il mafioso si sposta si porta appresso tutta la tribù, i suoi picciotti. Crea un suo governo e un suo stato nel territorio. Questo è quello che la storia ci ha insegnato e non è questione di essere razzista: sono un meridionalista convinto, noi meridionali abbiamo costruito anche culturalmente il Nord ma abbiamo anche infettato i vostri territori”. Lo stesso sindaco di Padova, Flavio Zanonato, ha ricordato che la mafia è una realtà consolidata anche al Nord: “Gli ingenti capitali di cui dispone non possono che essere riciclati nelle aree dove l’economia è più florida e dove ci sono più occasioni di investimento, come nel Nord Est”. Il rischio, secondo Gratteri, è quindi di contrarre un virus altamente infettivo, che può risultare fatale proprio in questo periodo di crisi economica. “Questa è una guerra e non vedo ancora la vittoria”, ha detto il magistrato parlando della possibile perdita di libertà e di dignità delle imprese. Un tasto spinto più volte dalla Lega Nord. Dopo le polemiche per l’arrivo di Riina jr a Padova e le contestazioni leghiste, la presidente dell’associazione Noi-Famiglie padovane contro l’emarginazione e la droga, Tina Ciccarelli, si è dimessa dall’incarico: “Ha avuto problemi con la giustizia e fa da garante a Riina?”, si è opposto il Carroccio, mentre Telepadania proponeva un “vademecum” di buone maniere da consegnare al figlio del boss di Cosa Nostra. Più concretamente, la Lega Nord ha presentato una mozione in Senato in cui si impegna il governo a “rendere vincolante il parere degli amministratori locali nei casi di trasferimento di esponenti mafiosi e di loro fami-gliari in località diverse da quelle di residenza”. Lettere: caro Marco, e il garantismo? di Alfonso Papa L’Opinione, 18 marzo 2012 Caro Marco, ho appreso da Radio Radicale che hai cominciato l’ennesimo sciopero della fame per chiedere quello che un paese civile avrebbe già da tempo dovuto disporre. L’amnistia è liberazione dei detenuti dalla tortura legalizzata cui sono sottoposti; è interruzione della flagranza di reato di cui lo stato italiano è ritenuto responsabile dalle massime istituzioni internazionali; è innanzitutto, come tu riassumi in modo impareggiabile, “amnistia per la Repubblica”. Nei miei 101 giorni a Poggioreale ho vissuto la realtà carceraria, dove tutto - dico tutto - è violenza. A dispetto delle volgari illazioni mosse nei miei confronti, posso affermare senza tema di smentita di aver sempre informato la mia attività di magistrato alla lezione “sciasciana”. Sai quante volte ho richiesto in qualità di pubblico ministero la custodia cautelare in carcere? Quattro, soltanto quattro, non per una deformazione personale, ma in virtù di una pedissequa applicazione del diritto. Non ho mai disposto le intercettazioni di utenze telefoniche coperte da immunità, non ho mai fatto intercettare i miei indagati in cella o durante i colloqui con i loro stretti familiari o, peggio ancora, con i loro difensori. Perché ti racconto questo, e perché proprio a te? Accade che nella vita ti capitino cose che non avresti mai immaginato. Non avrei mai immaginato di ritrovarmi con un cartellone “Per l’amnistia” in un sit-in dei Radicali davanti al Tribunale dove per oltre dieci anni ho prestato servizio; non avrei mai immaginato - e ne sono stato onorato - di duettare con te su Radio Radicale a proposito di giustizia e diritti dei detenuti, in qualità però di “ex galeotto”; non avrei neppure immaginato di “radicalizzarmi” nelle proposte politiche e persino nel linguaggio al fine di essere quantomeno ascoltato, nella denuncia di una stortura che tu autorevolmente hai sempre denunciato in tutte le sedi e che io ho vissuto dolorosamente sulla pelle mia e su quella della mia famiglia. Devo dire però che non avrei neppure immaginato di apprendere dai giornali che nella Giunta per le autorizzazioni della Camera un parlamentare Radicale, il collega Maurizio Turco, ha votato a favore della richiesta dei pm di Napoli relativa all’utilizzazione dei tabulati telefonici a me intestati. Una scelta che mi ha stupito, non la prima, ammetto. La richiesta della procura napoletana infatti richiamava un capo di imputazione, quello per l’associazione a delinquere, che è già stato espunto dalla Corte di Cassazione. La quale Cassazione ha scritto nero su bianco che la P4 non esiste. Ora, io speravo che tale pronuncia - che dimostra come infondata fosse la richiesta per la mia carcerazione preventiva - bastasse a stornare i dubbi e a frenare il prepotente accanimento dei magistrati nei miei confronti. E invece, dopo che gia’ il 20 luglio 2011 la pattuglia dei Radicali - la pattuglia che fa della primazia del diritto la sua battaglia principale- aveva contribuito col voto favorevole al mio arresto preventivo, giunge questo voto, che - sia chiaro - non scuote per la sua incidenza (direi nulla) sul mio processo, ma per la sua portata antigiuridica, in quanto autorizza un atto di indagine (l’acquisizione dei tabulati telefonici) relativo ad un capo di imputazione che non mi è più contestato. A te, Marco, rivolgo queste mie riflessioni perché se c’è una cosa di cui sono fermamente convinto è che, quando in ballo ci sono il diritto di difesa e le garanzie processuali, non si possono ammettere tentennamenti, compromessi, errori. Io sono finito dietro le sbarre per poi sentirmi dire dalla Suprema Corte che non ci sarei mai dovuto andare. Sono finito dietro le sbarre anche con il voto vostro, ma questo è il meno. Io non sono un Radicale, sono un garantista “sciasciano” con una stima infinita per il movimento radicale, che è e rimane presidio di civiltà non solo per i detenuti, ma per ogni cittadino del nostro Paese. Per queste ragioni, caro Marco, sappi che il mio appunto non è delusione ma monito. Il garantismo non ammette deroghe. Si può essere incarcerati con il voto pigro e ignavo di una classe politica senza cultura, per poi sapere dalla Cassazione che mancavano i presupposti per il suo arresto. Si può essere violati in ogni diritto di difesa e finire a giudizio immediato custodiale a causa della foga dei pm di chiudere un processo per il quale le accuse hanno cominciato a sgretolarsi dal giorno successivo all’arresto. Mi sembra però paradossale vedere autorizzate in giunta richieste relative a tabulati di utenze già abusivamente intercettate al solo fine di “mettere a posto” le carte, per di più con il voto fondamentale e simbolico di chi, come il collega Turco, proprio da Radio Radicale il 16 febbraio scorso aveva denunciato l’esistenza di un “Caso Papa” e di un “un mosaico inquietante” composto da singoli abusi. Con l’affetto di sempre e la certezza che il garantismo e il rispetto delle regole sono valori assoluti e non “tendenziali”, ti abbraccio. Lettere: occorrono carceri decenti, dignitosi, attrezzati per la vivibilità… di Lucia Brischetto La Sicilia, 18 marzo 2012 Sarà inutile la scarcerazione dei 3.500 detenuti a seguito dell’ultimo provvedimento Severino. Qualche migliaio di detenuti “fuori” che presto ritorneranno negli istituti, non risolveranno l’annoso problema penitenziario. Occorrono istituti decenti, dignitosi, attrezzati per la vivibilità. Com’è noto, nella generalità dei casi la persona ristretta patisce sempre la perdita della sua identità e acquisisce un mortificante complesso di inferiorità, di impotenza e di declassamento sociale che lo colloca fra gli ultimi e i diseredati. Questo accade “regolarmente” quando il detenuto viene inserito coattivamente in una convivenza forzata e gli viene inevitabilmente programmato un ruolo inferiore in assenza di totale di comunicazione con l’esterno. A quel punto vogliamo ancora chiamarlo persona o è giusto appellarlo marionetta? Da decenni lo Stato non è in grado di garantire ai detenuti il rispetto della loro dignità e l’applicazione del diritto penitenziario specialmente nella parte ove si richiama la rieducazione e il reinserimento sociale. La situazione è di particolare gravità in tutte le regioni d’Italia ma la Sicilia si è conquistata il primo posto. Negli istituti siciliani, fatiscenti, sono violati i diritti umani e tutti i principi costituzionali e legislativi. Lo scenario è complicato specie se si pensa che molte leggi sono state varate per porre fine a cotanto maltrattamento istituzionale. I numeri dicono che l’offerta scolastica dentro gli istituti continua ad essere carente e disarmonica, che i detenuti affetti da Hiv vivono la condizione di obsolescenza del sistema sanitario penitenziario, che la capienza tollerabile non è più gestibile, che lo spazio utile dove vivere è sempre più angusto e ristretto e che la qualità della vita offerta è più scadente che mai. Da tempo si contano morti e suicidi che non onorano un Paese civile. E c’è anche qualcuno che asserisce essere inutile il disegno di legge approvato dall’attuale Ministro e che non serve a lenire il problema che sta divampando. Inoltre nel contesto sociale c’è chi ritiene scandalosi gli eventuali provvedimenti che potrebbero essere emessi dal Tribunale di Sorveglianza e che consentirebbero di fare scontare la pena ai domiciliari quando questa non supera i 12 mesi. Per il passato, al fine di smaltire più velocemente possibile le procedure penitenziarie, si è anche ipotizzato utile affidare questa competenza alla direzione degli Istituti. Per intanto i gesti di autolesionismo in carcere sono segnali costanti che dovrebbero indurci alla riflessione e ad un intervento più efficace possibile. E mentre si disegnano progetti di nuovi penitenziari, si dimenticano quei 40 istituti in tutta Italia, incompiuti e/o inutilizzati in attesa di comprendere a che cosa serviranno. Ma forse la cosa più grave attiene al fatto che nei tanti provvedimenti emanati non si citano anche le risorse disponibili e si progetta invece tanto altro nuovo. Persino l’appello del Presidente della Repubblica che ha riconosciuto e sollecitato il Parlamento a provvedimenti più idonei possibili è caduto nel vuoto. La sollecitazione di aumentare il numero delle figure educative e di promuovere le misure alternative alla detenzione è caduta anch’essa nel vuoto e gli stessi “esperimenti” Severino non fanno sperare nulla di buono se non un brevissimo periodo di relativa “calma”. Sono ancora sospesi diversi concorsi (Educatori - Polizia Penitenziaria) già emanati e già espletati di cui si sconosce la loro applicazione. E tutto questo sia sul piano umano che su quello giuridico, anche a livello europeo, è davvero umiliante. Sul profilo formale si può davvero affermare che non è ancora applicata la riforma penitenziaria e che quel detenuto il quale ebbe a dire: “Non accendono i termosifoni? non ci sono soldi per accendere i termosifoni in carcere? giusto! Qua non siamo al fresco? al fresco dobbiamo stare!” Forse aveva ragione? Marche: l’Associazione Antigone presenta le prigioni malate d’Italia… peggiori d’Europa di Stefano Pagliarini Agenzia Radicale, 18 marzo 2012 Venerdì 16 marzo ad Ancona, presso l’aula del mare, al porto di Ancona, l’associazione nazionale Antigone ha presentato l’ottavo rapporto sulle condizioni della detenzione in Italia. Per l’occasione sono stati presenti Patrizio Gonnella (Presidente nazionale Antigone) e Samuele Animali (Presidente Antigone Marche). Gonnella ha parlato di un’Italia a macchia di leopardo, in cui vi sono istituti gestiti bene, senza violenza e legali, come anche l’esatto contrario. Note positive ce ne sono state perché questo è stato l’anno della presa di coscienza, infatti se si pensa che fino a poco tempo fa avevamo un ministro (Castelli) che parlava di carceri come di alberghi a cinque stelle e oggi, abbiamo un Presidente della Repubblica che ha parlato di “prepotente urgenza nelle carceri” e un Governo tecnico che, indipendentemente dai contenuti, ha varato una legge apposita, si deve rilevare che c’è stato un passo in avanti. Si è poi paragonato il nostro paese all’Europa: su circa 68.000 detenuti, abbiamo in carcere la più alta percentuale di detenuti in attesa di giudizio del continente (42%), la più alta percentuale di detenuti rei di aver violato la legge nazionale sulle droghe e la più alta percentuale di immigrati. Del resto proprio l’Europa, nel 2009, ha sanzionato il nostro paese per non aver garantito ai detenuti lo spazio minimo, al disotto del quale vi è la tortura: 3 metri quadrati. I dati del Ministero? Un bluff per Gonnella, perché si parla di 45.000 posti letto quando almeno mille sono reparti chiusi, si parla del 20% dei detenuti che lavorano, ma quanti di questi lavorano stabilmente e non un’ora a settimana? Infine ha concluso parlando della questione dei suicidi e del fondamentale rapporto che le amministrazioni penitenziarie devono mantenere con il volontariato. Proprio riguardo a quest’ultimo, Gonnella cita un caso di allontanamento di un volontario Caritas dal carcere di Montacuto e ha lanciato un appello: “L’Italia non ha nulla da invidiare a nessuno perché c’è un mondo di impegno sociale, impegno che non deve mai essere messo alla prova con atti di forza […]. A Regina Coeli se non ci fosse stata la Caritas, i detenuti da Novembre a Gennaio avrebbero dormito senza materassi sulle coperte. Allora siccome ad Ancona ci sono stati casi di volontari a cui immotivatamente non è stato concesso di proseguire la loro attività di volontariato, ritengo che queste cose debbano essere stigmatizzate […]”. Chiediamo formalmente e ufficialmente - ha proseguito il presidente di Antigone - di riammettere in carcere tutti i volontari che, per un legittimo esercizio di diritto di critica, sono stati estromessi dall’attività di volontariato. “Ha concluso l’incontro poi Samuele Animali sulle Marche, parlando di un consiglio regionale che si sta occupando della questione carceri, di un garante civico che lavora a pieno regime, di due giornali che sono nati nelle carceri di Ancona e Ascoli Piceno, ma anche di una regione che rispecchia a pieno la fotografia nazionale. Anche le Marche sono dunque a macchia di leopardo, per dimostrarlo Animali è partito dal caso più eclatante che è Montacuto, uno tra i più sovraffollati d’Italia, di fronte al quale ci sono carceri come quello di Fossombrone e Barcaglione che sono mezzi vuoti. Ma queste carceri non sono la risposta a Montacuto in quanto inadatte ad ospitare carcerati, nelle celle non ci sono le grate e sono stati aperti perché due Governi fa si dovevano aprire delle carceri nuove. Per Animali questo dimostra come, la lettura secondo la quale la soluzione al sovraffollamento è la costruzione di nuove carceri, sia sbagliata. Ma che cos’è in fondo il sovraffollamento? Un problema di numeri che non tornano per molte persone e per molte amministrazioni, ma nonostante la coscienza e l’attenzione dell’opinione pubblica si sia risvegliata su questo tema negli ultimi mesi, le carceri italiane restano ad oggi ancora dei luoghi in cui si muore, si violano le norme dell’ordinamento penitenziario, si subiscono torture e ingiustizie. E quando ci chiediamo che cos’è il sovraffollamento, potremmo risponderci come risponderebbe Patrizio Gonnella: il sovraffollamento è lo schizofrenico del carcere di Teramo che dorme al terzo piano di un letto a castello non a norma, cade durante una crisi e resta paralizzato. Napoli: nel carcere di Poggioreale comanda il boss… spesa gratis per i detenuti poveri Di Viviana Lanza e Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 18 marzo 2012 I carcerati sono oltre quota 2.800 ma la cucina basta solo per 1.300 I penalisti: così i clan fanno reclute. La Procura di Napoli indaga sul carcere di Poggioreale, dove le condizioni di detenzione totalizzano una quantità di record negativi, primo tra tutti il sovraffollamento: 2.800 detenuti invece dei 1300 previsti. E tra i tanti casi, spunta quello che vede i pasti in carcere come strumento di affiliazione alla camorra. Con una sola cucina programmata per 1.300, la maggior parte dei detenuti cucina in cella, e così, ai più indigenti, i boss assicurano la sussistenza quotidiana rifornendoli di cibo. Non solo i soldi fatti confluire dall’esterno sui libretti di risparmio di alcuni detenuti, anche l’approvvigionamento quotidiano diventa occasione di affiliazione. E su questo, e molto altro ancora, indaga la Procura di Napoli, grazie ad un esposto presentato oltre un anno fa dall’avvocato Riccardo Polidoro. Che con l’associazione “Il carcere possibile” ha fatto sistemare all’interno della camera penale uno striscione per segnalare l’urgenza d’intervenire a Poggioreale con la scritta: “Fate presto”. I clan pronti ad affiliare detenuti in cambio di un pasto decente “Se a Poggioreale ci sono circa 2.800 detenuti a fronte di una capienza di 1.300, ci chiediamo come sia possibile, con una sola cucina e in condizioni igieniche che sappiamo essere terribili, che il sistema funzioni. Tanti disagi favoriscono la criminalità organizzata, che è pronta a supplire alle carenze dello Stato per ottenere consensi”. Lo denuncia l’avvocato Riccardo Polidoro, presidente del “Carcere possibile”, la onlus della Camera penale di Napoli impegnata in attività di denuncia e tutela dei diritti dei detenuti. Che le carceri italiane siano al collasso non è una novità. E a Poggioreale la situazione è ai limiti, colpa del sovraffollamento e della mancanza di risorse sufficienti. La direzione fa quel che può, il personale anche. “Quella del carcere è un’emergenza da anni e non se ne esce se non si adottano provvedimenti concreti e urgenti - aggiunge Polidoro. Non servono soluzioni tampone, serve una riforma organica delle norme e del Codice. Noi siamo perla depenalizzazione, per l’abolizione di norme carcerogene, per il ricorso a misure alternative e pene diverse dalla carcerazione, per la riforma del codice di procedura penale. Se non si rivedono queste cose nell’insieme, l’emergenza si ripresenterà”. La camorra sfrutta lo stato di emergenza e il degrado per imporsi come alternativa. Negli anni 80 lo fece Raffaele Cutolo, e anche oggi la criminalità organizzata riesce a offrire illusioni con i propri soldi. In carcere basta un pasto caldo, qualcosa di migliore di quel che passa la mensa, e si innesca una catena di favori che induce i più bisognosi a essere riconoscenti al boss che ha i mezzi per acquistare cibo buono allo spaccio. “Accade anche questo e noi del Carcere possibile chiediamo l’intervento della magistratura”, spiega l’avvocato Polidoro. Nelle carceri c’è un alto tasso di diffusione di malattie infettive, la pulizia scarseggia, cucina e bagno sono a una distanza di metri se non centimetri. Si arriva a stare persino in dieci in una stanza di sette o otto metri quadrati e con il caldo tutto peggiora. “Carcere possibile” ha presentato in passato un esposto in Procura sollecitando accertamenti sulle condizioni in cui versano il carcere di Poggioreale e quello di Secondigliano, e chiedendo in particolare verifiche sulle visite delle Asl che, come prevede la legge, devono essere fatte almeno due volte l’anno e finalizzate ad accertare lo stato igienico-sanitario, l’adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive e le condizioni igieniche e sanitarie dei detenuti. E ancora accertamenti su modalità di svolgimento dell’ora d’aria con riferimento ai tempi e alle condizioni dello spazio offerto, sullo stato in cui versano le celle con riguardo alla possibilità di cucinare e mangiare, ai servizi igienici, all’ingresso di luce naturale e artificiale, all’aerazione diurna e notturna, al riscaldamento e al numero di detenuti presenti in ciascuna cella. “Personalmente - conclude l’avvocato Polidoro - sono per una pena certa e severa, ma scontata in maniera legale. Bisogna comprendere che la sicurezza sociale non si ottiene con un carcere che non rispetta la legge “. I pasti in carcere come strumento di affiliazione alla camorra In quell’interno in terra che si chiama Poggioreale può capitare anche questo: che ai detenuti indigenti - come a quelli dimenticati persino da amici e parenti - il “sistema” garantisce la sussistenza quotidiana. Con il cibo. La chiamano “fratellanza”, ma la generosità non è l’ingrediente vero che muove a compassione boss e gregari dei clan. No. Il nostro giornale lo denunciò nel marzo del 2010: la pioggia di soldi fatta confluire dall’esterno sui libretti di risparmio di alcuni detenuti serviva anche a foraggiare l’arruolamento delle nuove leve di una camorra che ha un bisogno indispensabile di trovare nuova manodopera; e poco importa se si tratta anche di poveracci o di extracomunitari: tanto, il conto alla fine verrà presentato e la riconoscenza - si sa - diventa un collante prezioso in questi casi. Prima o poi le porte del carcere si apriranno, e a quei detenuti comuni sostenuti e aiutati nel momento di difficoltà qualcuno chiederà di sdebitarsi. Accade nel carcere dei record negativi in assoluto, in quella bolgia drammatica che la legge immagina come luogo di rieducazione e che, spesso, si trasforma invece in palestra di criminalità. Succede a Poggioreale, dove ad oggi restano stipati circa 2.800 carcerati (molti dei quali in attesa di giudizio) in celle nelle quali ormai i letti a castello hanno raggiunto sette livelli di altezza; dove le mura trasudano acqua e umidità, e in cui gli standard igienico-sanitari sono talmente bassi da avvicinarsi a quelli dei paesi del terzo mondo. E su questo, e molto altro ancora, indaga la Procura di Napoli, grazie ad un esposto presentato oltre un anno fa dall’avvocato Riccardo Polidoro: una denuncia articolata presentata per conto dell’associazione “Il carcere possibile onlus”, da sempre impegnato nella battaglia civile per migliorare le condizioni dei detenuti. Ma se le indagini proseguono lo si deve a una decisione del gip Pasqualina Laviano, che di fronte a una richiesta di archiviazione dell’indagine su Poggioreale formulata dalla stessa Procura, e vista l’opposizione dell’avvocato Polidoro, ha disposto invece che il pubblico ministero prosegua e approfondisca l’inchiesta. Nei giorni scorsi, all’interno della sede della Camera penale guidata da Domenico Ciruzzi, Polidoro ha fatto sistemare uno striscione che - mutuando la celebre prima pagina del “Mattino” nei giorni del dopo terremoto in Irpinia – invocava l’appello: “Fate presto”. Ma torniamo all’argomento cibo. Sono in molti, i detenuti di Poggioreale, che al vitto della mensa preferiscono quello cucinato in cella. Un diritto previsto per regolamento. Presso lo spaccio interno si possono acquistare carne, pasta e olio. Chi può, provvede così al proprio sostentamento. Ma, come conferma al “Mattino” l’ex direttore di Poggioreale Cosimo Giordano (al quale è subentrata la neo-direttrice Teresa Abate), “il numero di detenuti indigenti si fa sempre più alto”. Ecco dunque come la camorra riesce ad insinuarsi tra le pieghe di questa povertà resa ancor più drammatica dalla condizione carceraria. Tanto si sa: una mano lava l’altra. Fortunatamente da Poggioreale arriva anche qualche buona notizia. Come conferma lo stesso ex direttore Giordano, sono stati avviati i lavori per la ristrutturazione della sala colloqui e del Campetto sportivo, mentre sono appena arrivati i fondi per rinnovare le cucine. Ancora troppo poco, si dirà: ma in questi che sono tempi di magra per i già ridotti bilanci della Giustizia è già qualcosa. E a Poggioreale guarda con attenzione il ministro Paola Severino, che - lo ha già espresso più volte - presto potrebbe venire a visitare la struttura penitenziaria più sovraffollata d’Europa. Rieti: carcere nuovo quasi vuoto; arrivano 50 detenuti da Roma, ma direttore Asl protesta Ansa, 18 marzo 2012 In una situazione di generale sovraffollamento a Rieti c’è un carcere nuovo quasi vuoto, ma si incontrano difficoltà e resistenze nel trasferimento dei detenuti, come è stato raccontato dal neo insediato capo dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino durante un seminario sulla salute nelle carceri alla Cei. Si tratta, ha spiegato, di una struttura di recente costruzione, occupata solo in parte, ma con circa 200 posti liberi: ‘arrivando al Dap mi è sembrato incredibile che a 70 chilometri da Roma dove c’è una grave situazione di sovraffollamento, ci fosse una struttura inutilizzata. Abbiamo quindi cominciato a mandare lì i detenuti. Ne sono già arrivati una cinquantina, arriveremo a 150’. Il fatto ha scatenato le proteste del direttore della Asl locale, deputata alla sanità nell’istituto, che ha inviato una lettera di protesta ai ministeri della Salute e della Giustizia, parlando di “atto unilaterale” che ha causato un aumento del carico di lavoro non supportabile. “Secondo questo ragionamento - ha aggiunto Tamburino, cui il fatto è sembrato paradossale - sarebbe un atto unilaterale anche il trasferimento di una famiglia o la nascita di più bambini. Si incontrano problemi - ha concluso - anche laddove non si aspetterebbero. Mentre per superarli occorre anche un diverso modo di approcciarsi al prossimo”. Avellino: a Sant’Angelo reparto per detenuti psichiatrici; dalla reclusione alla reinclusione di Rossella Strianese www.ottopagine.net, 18 marzo 2012 Ecco come l’Azienda sanitaria locale si prepara a prendere in cura, dal giugno 2012, i carcerati con disturbi mentali. Il problema della sanità in carcere è oggi uno dei temi più dibattuti negli ambienti penitenziari, quasi quanto quello del sovraffollamento degli Istituti di pena. Nella discussione si frappongono due questioni di uguale importanza: da un lato il diritto alla salute sancito dalla Costituzione per cui anche i detenuti hanno diritto alle cure e alla riabilitazione. Dall’altro le risorse, umane ed economiche, sempre più scarse soprattutto per istituire modelli assistenziali possibili e individuare politiche di intervento nelle realtà penitenziarie. Su tutto la consapevolezza che non si può più “curare il reato e punire la malattia” ma creare le condizioni per una vera reinclusione con l’obiettivo di reinserire il detenuto nella comunità. Di questo si è parlato nel corso del Convegno organizzato dall’Asl di Avellino presso il Carcere Borbonico alla presenza del presidente della V Commissione Sanità alla Regione, Michele Schiano di Visconti e del presidente della Provincia Cosimo Sibilia. All’organizzazione del convegno hanno collaborato oltre alla Regione, anche la Provincia di Avellino e la Società Cooperativa Sociale “Un posto nel mondo” di Paternopoli che ha curato con l’Asl il progetto destinato ai detenuti psichiatrici che dal giugno 2012 dovranno essere presi in carico totalmente dal servizio sanitario nazionale. l trasferimento delle funzioni sanitarie nei confronti dei detenuti e degli internati dal Ministero della giustizia al Servizio sanitario nazionale, è stato infatti l’atto conclusivo, con il decreto legge del 2008, di un lungo processo di riflessione e di ricerca che ha visto progressivamente coinvolti organi politici, studiosi e addetti ai lavori . “Entro giugno 2012 le Asl dovranno farsi trovare pronte per prendere in carico le nuove sezioni delle carceri che ospiteranno i detenuti psichiatrici - spiega il dottor Emilio Fina, referente del Tavolo Regionale Dismissioni Ospedali Psichiatrici Giudiziari - creando adeguate strutture alternative per i detenuti in regime provvisorio con pena sospesa (che potranno essere seguiti anche a casa) e quelli definitivi che dovranno entrare in comunità terapeutiche esterne. L’Asl di Avellino ha avviato un progetto con fondi regionali, pari a 150 mila euro, per seguire nel tempo di otto mesi, cinque detenuti psichiatrici e formarli su attività che potranno risultare utili quando rientreranno da cittadini liberi nella comunità”. A questo va aggiunta la realizzazione di un reparto destinato proprio ai detenuti psichiatrici all’interno del carcere di Sant’Angelo dei Lombardi, con dieci posti disponibili. “La sanità penitenziaria è una vera sfida per noi operatori - spiega la dottoressa Gabriella Pugliese, responsabile dell’Unità Tutela Salute in Carcere dell’Asl Avellino. Il direttore generale Sergio Florio ha sposato questo impegno adoperandosi subito per predisporre e accompagnare il mandato istituzionale che ci è stato dato dalla Regione, la quale ha recepito gli indirizzi del decreto legislativo e ha dato alle Asl il compito di stipulare dei protocolli di intesa con gli istituti di pena. Alla firma manca ormai pochissimo ma bisogna mettere a punto la rete diagnostico-terapeutica e assistenziale. Le criticità più grandi sono tre - aggiunge la Pugliese - la salute mentale, le tossicodipendenze e le patologie infettive. L’unità che dirigo farà da raccordo tra le varie strutture che sono chiamate ad intervenire”. La dimensione in cui si trovano i detenuti psichiatrici è oggettivamente una terra di confine. “Per fortuna, con l’eliminazione degli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari) si è capito anche che il malato di mente tout court non differisce in nulla dal malato di mente che sta in carcere e pertanto ha diritto a parità di trattamento - spiega il dottore Francesco Fiore, direttore del Dipartimento Salute Mentale dell’Asl Avellino. Per questo oggi siamo qui a impegnarci tutti, dall’Asl agli attori del territorio, comune, provincia e no profit, per aggiornare le nostre competenze e offrire un servizio di alto valore etico giuridico, capace non solo di curare ma anche di reinserire questi pazienti nella società”. Salerno: proteste contro il “ricovero” per ex detenuti con problemi di disabilità psichica La Città di Salerno, 18 marzo 2012 La scelta di trasformare la struttura di salute mentale di Mariconda in un “ricovero” per ex detenuti con problemi di disabilità psichica ha scatenato nel popoloso quartiere una vera e propria rivoluzione. “Qui abitano molti anziani - ha tuonato Beniamino Mancuso, presidente dell’associazione “Il quadrifoglio” - La gente ha paura. Chi ci assicura che queste persone non possano rappresentare una minaccia? Mariconda ci ha messo anni per superare il degrado. Ora è un quartiere bellissimo grazie all’impegno del Comune. Non roviniamolo”. A confermare la paura dei residenti, anche l’Anspi presieduta da Antonio Petrocelli: “Noi curiamo le attività dell’oratorio e dunque abbiamo a che fare con bambini e ragazzi. Gai in passato gli ospiti della salute mentale sono venuti in chiesa con fare minaccioso. E non si trattava di persone che hanno avuto problemi con la giustizia. Siamo spaventati. Non lo accettiamo e siamo intenzionati ad opporci in tutti i modi”. Finora associazioni, residenti e gli esponenti del comitato di quartiere si sono riuniti in assemblea, appellandosi all’assessore Franco Picarone per avere, nella loro battaglia, anche il sostegno dell’amministrazione comunale. “È una situazione delicata - ha spiegato l’assessore. La gente teme per la propria sicurezza”. Sospendere i provvedimenti finora adottati e aprire un confronto per evitare di creare un nuovo ghetto a Mariconda: è invece questa la richiesta di Lello Albano della Uil, indirizzata al commissario straordinario, al sub commissario alla sanità ed al direttore del Dipartimento di salute mentale. Albano sottolinea che la legge non impone di creare strutture esclusivamente dedicate agli ex internati, ma di attivare, con i finanziamenti previsti, percorsi personalizzati all’interno del Dipartimento di salute mentale, “alla stregua di qualsiasi altro utente, finalizzato alla restituzione al sociale della persona nei propri luoghi di origine”. Il sindacalista, inoltre, sottolinea come la “creazione di fittizie o inappropriate residenze” possa correre il rischio di riprodurre “l’antica logica della custodia, della separazione e della esclusione, ovunque esse vengano allocate”. La proposta è quella di assorbire la struttura di Mariconda nella normale rete delle residenze psichiatriche. Catania: Piazza Lanza carcere lager; class action dei detenuti con il sostegno del Garante La Sicilia, 18 marzo 2012 Una class action dei detenuti di piazza Lanza per ottenere un risarcimento, magari non in denaro, ma in tema di restituzione di un trattamento adeguato alla dignità umana. È l’idea che il Garante dei diritti dei detenuti siciliani Salvo Fleres, senatore della Repubblica, sta portando avanti in questi giorni insieme all’avvocato Vito Pirrone, presidente dell’Anf Catania. L’azione giudiziaria collettiva si sta rivelando possibile anche perché finalmente i detenuti cominciano a superare tutte quelle riserve - dettate dalla paura di ritorsione interne - che finora avevano loro impedito di agire. Sono già oltre trenta i reclusi che hanno firmato la delega per la class action consegnandola al Garante. Un gesto per molti versi rivoluzionario e che prende forza da una recentissima ordinanza del Magistrato di sorveglianza di Catania il quale per la prima volta ha riconosciuto la degradante condizione in cui vivono i carcerati di piazza Lanza; nell’ordinanza il Giudice ha dato ragione a un detenuto che chiedeva di poter scontare la pena in condizioni meno umilianti e più umane e, a titolo simbolico, mirava ad ottenere un risarcimento simbolico di 1.000 euro (risarcimento che però non gli è stato concesso in quanto il giudice, dichiarandosi incompetente in materia, ha rinviato la questione al giudice civile”. Estensore dell’esposto è stato l’avvocato Vito Pirrone, col pieno appoggio del senatore Salvo Fleres, il quale nella doppia veste di parlamentare e Garante dei diritti dei detenuti, il giorno stesso dell’emissione dell’ordinanza, il 7 marzo scorso, ha fatto un intervento in Senato sollecitando immediate azioni del Governo affinché venisse attuato quanto sancito dal giudice affinché i diritti dei detenuti venissero rispettati. È stata questa la prima volta in cui un magistrato ha finalmente riconosciuto il sovraffollamento e l’invivibilità di piazza Lanza. Il provvedimento non è stato ancora notificato al ministro Paola Severino (e coi tempi della burocrazia chissà quando lo sarà), per questo il senatore Fleres ha anticipato i tempi per informarla tempestivamente facendo l’intervento in Senato. Ma v’è di più, dato che Fleres intende sollecitate i colleghi Garanti delle altre regione a intraprendere analoghe azioni giudiziarie collettive, dal momento che condizioni subumane di sussistenza riguardano anche molte altre carceri del Paese. Parma appello Garante regionale dei detenuti per migliori condizioni di pulizia delle celle Sesto Potere, 18 marzo 2012 Facendo seguito alla sua prima visita al carcere di Parma, il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Desi Bruno, in accordo con la Direzione del Carcere, rivolge un appello alla società parmense, affinché venga organizzata una raccolta di materiale utile a migliorare le condizioni di pulizia delle celle e degli spazi comuni. I continui tagli ai finanziamenti destinati al carcere stanno infatti determinando inedite difficoltà nel garantire elementari condizioni igieniche, soprattutto ai detenuti indigenti, e questa esigenza è stata avvertita e segnalata anche dai volontari che operano all’interno dell’Istituto penitenziario. Sapone, detersivi, shampoo, dentifricio, carta igienica, ciabatte per la doccia, sacchi per l’immondizia, detergenti per pavimenti e disinfettanti… serve tutto quel che è necessario per l’igiene personale e per la disinfezione ambientale. Il garante si rivolge ai cittadini, alle associazioni, alle parrocchie, ai centri sociali, e anche alle aziende che producono questi oggetti, affinché ne facciano offerta gratuita, come è già avvenuto a Bologna e in altre realtà territoriali. Accompagnata dal Direttore dell’Istituto, Anna Albano, e dal comandante degli agenti di Polizia penitenziaria, Andrea Tosoni, nella sua visita al carcere di Parma, Desi Bruno ha potuto verificare la situazione del carcere parmense, nel quale sono rinchiusi 629 detenuti, tutti uomini (la capienza regolamentare è 382, quella “tollerata” 616). Il sovraffollamento è evidente, ma il Garante ha riscontrato una situazione meno drammatica che in altri Istituti, anche per la buona manutenzione finora assicurata. Altrettanto evidente la carenza di personale della polizia penitenziaria: a una pianta organica di 479 elementi, corrispondono 418 assegnati e 366 effettivamente in servizio. Ancora più deficitaria la situazione degli educatori (9 in pianta organica, 4 assegnati, 3 in servizio). La principale criticità deriva dalla compresenza nello stesso carcere di detenuti in condizioni assai diverse. Convivono 56 persone in regime di 41 bis, 71 in “alta sicurezza”, 83 tossicodipendenti. La carenza di personale di polizia risulta più grave perché tanti detenuti richiedono livelli di sorveglianza massimamente incisivi. Venezia: carcere sovraffollato; 80 detenuti in meno di un anno fa ma sempre 100 di troppo La Nuova Venezia, 18 marzo 2012 Ottanta detenuti in meno rispetto ad un anno fa, ma sono pur sempre 273 quelli oggi a Santa Maria Maggiore su una capienza di 160: fino a 7 detenuti in celle per 4 al terzo piano e una media di 3-4 dove dovrebbero stare in due. Lo racconta il senatore radicale Marco Perduca, al termine della sua annuale visita al carcere veneziano, insieme al coordinatore dell’associazione Coscioni Franco Fois: una visita che quest’anno coincide con l’ennesimo sciopero della fame avviato da Marco Pannella, per sollecitare il governo a rispondere alle indicazioni dell’Unione europea, che contesta i tempi lunghi dei processi italiani. “Tempi biblici che si ripercuotono sul sovraffollamento delle carceri”, insiste Perduca, “a Venezia, solo 156 detenuti hanno una pena definitiva, 120 sono ancora in attesa di giudizio, 66 dei quali non hanno mai visto un giudice dopo la convalida”. “La situazione è migliorata, ma resta sempre emergenziale”, prosegue Perduca, “il decreto Severino funziona perché non fa entrare le persone in carcere, ma non ne fa uscire: solo 15 detenuti hanno ottenuto gli arresti domiciliari e lamentano che i giudici di sorveglianza non vengono mai in carcere e hanno tempi lunghissimi per valutare le istanze, quasi sempre respinte. Ho trovato Santa Maria Maggiore pulita e ben tenuto, molto meglio di quanto la ricordassi, ma oltre allo spazio, mancano gli uomini: ci sono solo due educatori, 2 psicologi per affrontare una realtà così delicata: ben 181 detenuti sono stranieri, decine di nazionalità, circa 90 hanno problemi con droga e alcol: il Sert funziona, ma l’Asl ha negato un medico a tempo pieno”. In tutto questo, mancano all’appello 80 agenti penitenziari. In organico dovrebbero essere 190, ma tra nucleo navale, traduzioni, affidamenti ad altri uffici, restano in 120: tra ferie e malattie, in media 17 agenti per turno di giorno e 12 la sera. “La rete di telecamere risale agli anni Settanta”, conclude il senatore radicale, “se si rompe è difficile da riparare. Ci sono punti ciechi delle comunicazioni interne, con il personale che deve usare i cellulari privati per parlare. La direzione vorrebbe lasciare aperte per l’intera giornata le celle dei detenuti definitivi, ma non può perché mancano i fondi per realizzare una semplice rotonda di raccordo tra due ali. La ministra Severino ha detto che il nuovo carcere non si farà: bene, ma dica se i 100 mila euro che bloccati per i lavori a Santa Maria Maggiore sono disponibili oppure no”. “Ho invitato il Comune a un monitoraggio costante della situazione e ad accelerare l’iter per la nomina del garante dei detenuti, interfaccia fondamentale tra carcere ed istituzioni”, commenta Franco Fois, “a dicembre, il vicesindaco Simionato ha dichiarato che a breve sarebbe stato cambiato lo statuto, ma non si vede traccia di questa fondamentale figura”. Sassari: detenuto romeno tenta il suicidio infilandosi più volte un chiodo nel viso La Nuova Sardegna, 18 marzo 2012 Tentativo di suicidio, ieri pomeriggio, in una cella del carcere di San Sebastiano. Un detenuto romeno di 22 anni si è ferito gravemente con un chiodo, che avrebbe infilato più volte nella faccia. Il ragazzo - già protagonista di atti di autolesionismo - è stato soccorso dagli agenti della polizia penitenziaria e dal personale medico del carcere. Quindi trasportato in ospedale con una ambulanza del 118. Sono in corso gli accertamenti, anche per stabilire come il detenuto sia entrato in possesso del chiodo con il quale si è ferito. Reggio Emilia: un palcoscenico dietro le sbarre dell’Opg modello il “Teatro dell’oppresso” www.viaemilianet.it, 18 marzo 2012 Il carcere di Reggio ha aperto ieri le porte ai cittadini per due spettacoli portati in scena dai detenuti e dagli internati dell’Opg. Riflessioni sui conflitti e su come affrontarli. All’inizio degli anni 60 in Brasile il regista, scrittore e politico Augusto Boal creò il teatro dell’oppresso. Obiettivo di questo metodo popolare era fornire opportunità per il cambiamento personale, sociale e politico. Con questo spirito di trasformazione dei conflitti e dell’oppressione in riscatto è nata l’esperienza del teatro in carcere e nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio. 11 detenuti hanno seguito un corso di un anno tenuto dalla cooperativa sociale Giolli e ne è nato “Noi siamo”, messo in scena proprio in via Settembrini. “Lo spettacolo è un collage di testi che hanno scritto alcuni detenuti italiani e stranieri” spiega il direttore del laboratorio teatrale Roberto Mazzini. “Rappresenta l’apertura del carcere all’esterno” afferma il direttore degli istituti penali reggiani, Paolo Madonna. Parole come oppressione, pregiudizio e giustizia le conoscono bene anche gli internati dell’opg. Il loro spettacolo si chiama ‘Pitbull’ e sta girando diversi teatri e luoghi della città. “Insieme abbiamo cercato di scrivere e discutere - racconta la regista Monica Franzoni - persone con malattie mentali riescono in questo modo a trovare equilibrio, riescono a socializzare, il teatro migliora le relazioni tra loro”. “È una riflessione sull’Opg in vista della chiusura, nel 2013 - spiega Riccardo Paterlini, che ha collaborato alla realizzazione dello spettacolo - per dire ai cittadini ‘non ne abbiate paura”. Modena: visite straordinarie per Festa papà detenuti; 35 bambini potranno incontrarli Dire, 18 marzo 2012 Quest’anno sarà un 19 marzo un po’ particolare per i detenuti del carcere di Sant’Anna di Modena. Nonostante il lunedì non sia giorno di visita, saranno organizzati dei colloqui straordinari dei figli dei detenuti con i loro papà. L’iniziativa fa parte del progetto “Cittadini sempre”, un percorso formativo sul carcere e sulla pena, promosso dall’assessorato alle Politiche Sociali della Regione Emilia-Romagna in collaborazione con la Provincia di Bologna, la Conferenza regionale volontariato giustizia e l’Ordine dei giornalisti. L’obiettivo è di informare e sensibilizzare le persone, anche coloro che non vivono a contatto con la realtà della reclusione, sul delicato tema della genitorialità reclusa, coinvolgendo anche i mass media. Saranno 20 le famiglie coinvolte nell’iniziativa, per un totale di 35 bambini. “Nonostante il lunedì sia un giorno lavorativo abbiamo raggiunto un bel numero - commenta Chiara Tassi, del Centro servizi per il volontariato di Modena. Non siamo riusciti a coinvolgere tutti i bambini ma è un inizio”. Sono, infatti, molte le famiglie lontane che difficilmente riescono a raggiungere il carcere di Modena, anche nei tempi e nei modi consueti. Grazie ai fondi raccolti dalla parrocchia SS. Crocefisso e Santa Caterina, quest’anno potrà partecipare all’iniziativa anche una famiglia siciliana con due bambini. Gli organizzatori hanno voluto offrire ai parenti un’opportunità in più per incontrare i familiari in questa data particolare. In occasione della giornata i volontari della Federazione internazionale “Ridere per vivere” e del Gruppo carcere-città, hanno allestito e decorato le sale d’incontro per renderle più accoglienti. Saranno inoltre organizzati spettacoli di trucchi e magie, e verranno regalati dolcetti e pupazzi per i bambini. Tutto questo affinché gli ospiti vivano la giornata all’insegna del divertimento in un clima d’affetto. Molto spesso la detenzione in carcere è causa di allontanamento tra genitori e figli. I bambini sono vittime dell’impoverimento della relazione e rischiano di subirne le conseguenze per tutta la vita. Il colloquio è l’unico mezzo tramite il quale questa relazione può mantenersi e rafforzarsi. I bambini vivono il momento dell’incontro con grande emozione, ansia e curiosità e, a causa di queste aspettative, molti detenuti scelgono di rinunciarvi. I volontari accompagnano genitori e figli in questo percorso, affinché sia un’esperienza educativa per tutti. “Questo è un investimento che vogliamo fare, per assicurare ai bambini un rapporto di qualità”, commenta Tassi. Questa non è la prima né l’ultima esperienza “extra”. In passato, infatti, erano già state organizzate iniziative simili e ne sono in programma altre per il 2012. L’obiettivo è gettare le basi per un rapporto vivo, saldo e che duri per tutto il periodo di detenzione. Carinola (Ce): arrestati 2 agenti di Polizia penitenziaria, per “favori” a detenuti camorristi Caserta Sette, 18 marzo 2012 Figurano anche due agenti della polizia penitenziaria, in servizio nel carcere di Carinola (Caserta) coinvolti tra le otto persone in un’inchiesta della Dda su due omicidi commessi nell’ambito della faida di Castel Volturno tra opposti gruppi del clan dei Casalesi. Il blitz dei carabinieri di Caserta è scattato ieri all’alba. Gli agenti di polizia penitenziaria - secondo quanto accertato - avrebbero stretto rapporti con esponenti del clan detenuti ai quali vendevano droga, telefoni cellulari, profumi, orologi ed altri prodotti vietati. Sono stati arrestati in collaborazione con gli agenti del Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria. Le accuse alla base del provvedimento sono di omicidio, corruzione e cessione di sostanze stupefacenti. I due omicidi, oggetto dell’indagine della Dda, sono stati commessi tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004 e si inseriscono nel contesto della guerra interna al clan “dei Casalesi” tra i gruppi Tavoletta-Ucciero e Bidognetti, che si contendevano la supremazia nella gestione del crimine a Villa Literno, nel Casertano. Una faida che, nell’arco di dieci anni (1997-2007) contò numerose vittime tra i due schieramenti. Tra gli indagati nell’ambito del blitz contro il clan dei casalesi figura Angelo Ammaturo, agente della polizia penitenziaria che, quando era in servizio nel padiglione Genova del carcere di Poggioreale, secondo l’accusa, consegnò al boss liternese della fazione Bidognetti Massimo Iovine tre telefoni cellulari per i contatti personali e criminali. Si evince dall’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Raffaele Piccirillo su richiesta del pm Catello Maresca. Il gip tuttavia non ha accolto la richiesta di misura cautelare avanzata nei confronti di Ammatuiro dai pm della Dda di Napoli. Per ciascun apparecchio, Ammaturo secondo l’accusa ricevette 500 euro tramite l’intermediario Francesco Vitale, distributore di caffè nell’area di Villa Literno per conto dello stesso Iovine. Vitale riceveva le disposizioni di pagamento attraverso “pizzini” che Iovine consegnava ai propri familiari durante icolloqui. È stato lo stesso Massimo Iovine, oggi collaboratore di giustizia, a spiegare dove nascondeva i telefonini: “Occultavo il telefonino nella plafoniera della luce del bagno della cella 110. Con questo cellulare contattavo solitamente la mia fidanzata Wanda e qualche volta Vincenzo Catena (un altro affiliato, ndr)”. Continua il collaboratore di giustizia: “Angelo inoltre mi portava del vino, del pesce e degli orologi, compreso quello che indosso oggi, oggetti ricevuti sempre in cambio di denaro. Ricordo che in una sola occasione, nell’inverno 2006/2007, Angelo mi ha anche consegnato 250 grammi di hascisc che avevo chiesto sempre a Franco (Francesco Vitale, ndr) tramite dei bigliettini recapitati ai miei genitori. In verità io avevo chiesto una o due stecchette di hascisc. Ricordo che dividemmo il suddetto quantitativo di hascisc tra tutti i detenuti del padiglione. L’altro agente penitenziario arrestato è Daniele Abis, nativo di Sassari, che secondo l’accusa, nel carcere di Carinola (Ce), fornì a Massimo Iovine e a Pasquale Annicelli hascisc, cocaina, profumi e orologi. “All’acquisto dello stupefacente - ha spiegato Iovine - provvedeva la sorella di Annicelli che lui chiamava Nanà e poi questa contattava telefonicamente il sardo e glielo consegnava di persona. Il sardo, una volta in possesso della droga, la consegnava ad Annicelli. Per ogni consegna la guardia riceveva due-trecento euro”. Nello stesso modo, nel carcere di Carinola venivano introdotti profumi, cinture e orologi, ma anche un rasoio elettrico e cd pirata. Sulmona (Aq): detenuto evaso da un permesso è stato arrestato in provincia di Milano Ansa, 18 marzo 2012 Un marocchino di 31 anni evaso dal carcere di Sulmona durante un permesso di lavoro, è stato bloccato ieri sera dagli agenti della Polizia locale a Opera, nel Milanese, e poi rinchiuso a San Vittore. A ricostruire la vicenda, in una nota, è il Comune di Opera. È stato il sindaco, Ettore Fusco, a notare l’immigrato che con un connazionale beveva vino e faceva pipì contro gli alberi di un parco, e a ricordargli che il loro comportamento non era consono ad un luogo pubblico. I due hanno risposto in malo modo e sono scappati. Un agente in borghese li ha seguiti e ha guidato una pattuglia che li ha bloccati e consegnati ai carabinieri. A.A., il marocchino, dovrà ora scontare altri due anni e mezzo per traffico di droga e falsificazione di monete oltre a dover fare i conti con il reato di evasione. Immigrazione: togliersi la vita dopo sei mesi trascorsi nel Cie… L’Unità, 18 marzo 2012 Questa è la storia di un egiziano recluso nel centro di Ponte Galeria, ma potrebbe essere, se non per il tragico epilogo, la storia di molti altri reclusi nei Cie di tutta Italia. Era uscito da poco dal Cie, quel cittadino egiziano, perché in quel luogo aveva già trascorso il massimo del tempo previsto: 180 giorni. È in questi lunghi giorni che le autorità italiane non sono riuscite a realizzare il processo di identificazione per poi procedere all’espulsione. Giorni che devono essere stati davvero interminabili per un giovane egiziano provato dallo stress da reclusione, al punto di dover assumere dosi massicce di tranquillanti. Storie consuete in luoghi di reclusione ed esclusione da qualsiasi attività che alimenta no di fatto (indipendentemente dalla professionalità e dalla sensibilità degli operatori o della questura di ri ferimento, come nel caso di quella di Roma) noia, disperazione, inedia. Ed è probabilmente per questo che sono in molti a tentare la fuga, come ha fatto anche quell’egiziano. Tentativo non riuscito che ha fatto sì che l’ultimo periodo di permanenza a Ponte Galeria si sia rivelato il più duro. Una volta uscito non è andata meglio: dopo qualche giorno di tranquillità è ripiombato nella depressione. Il suo avvocato, Serena Lauri, non si è sorpreso di questa reazione perché, quel ragazzo da solo non sarebbe riuscito ad affrontare le difficoltà che comporta la condizione di persona immigrata e irregolare: continue incomprensioni a causa di una lingua sconosciuta, problemi nella ricerca di un alloggio, di un lavoro e di un sostegno psicologico. Avrebbe avuto bisogno di un supporto. Forse, se non fosse stato così solo, non sarebbe arrivato a compiere il gesto estremo di togliersi la vita. Immigrazione: il Centro di prima accoglienza di Ragusa “insicuro e a rischio di evasioni” Gazzetta del Sud, 18 marzo 2012 Il Centro di prima accoglienza di Pozzallo al quinto posto, in Italia, fra i luoghi di detenzione da dove si può fuggire con estrema facilità. Lo dice una nota dell’Europe Fortress, la scomoda organizzazione non governativa italiana che esegue un monitoraggio indipendente dei flussi di migranti. Al primo posto Roma (191 reclusi evasi). Al secondo posto, c’è il Cie di Brindisi, da dove sono riusciti a scappare in 140, segue Trapani (79 evasi tra il Cie di Milo e il Vulpitta), Torino (59) e poi Pozzallo, con 54 immigrati fuggiti dal Cpa solo l’anno scorso. Fra i Cie (centri di identificazione ed espulsione) e i Cpa (centro di prima accoglienza), Pozzallo taglia il non invidiabile traguardo del quinto posto, segno che la struttura deve ancora essere potenziata. Il 2011, per il sito all’interno del porto, è stato un anno da dimenticare. Diverse rivolte, quella più tragica quella del 22 agosto. Cinque carabinieri feriti, 30 africani fuggiti e solo alcuni ritrovati qualche giorno dopo. Qualche giorno prima, solo la solerzia di un carabiniere non ha fatto sì che alcuni migranti fuggissero da un “buco” nella parete fatto con i ferri di un letto smontato. Ingenti i danni procurati alla struttura di accoglienza. I cittadini Pozzallo hanno chiesto a gran voce, in passato, la presenza di molti più Carabinieri e agenti di Polizia, sia all’interno che all’esterno della struttura “colabrodo”. A settembre, la visita dell’ex sottosegretario di Stato all’Interno con delega all’immigrazione Sonia Viale, accompagnato dal prefetto, Giovanna Cagliostro, e dal capo dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione, Angela Pria, e la conferma della struttura quale avamposto per l’accampamento di altri migranti africani per un numero inferiore a 180 unità. “Perché aumentare il numero di forze dell’ordine per la struttura del porto - disse la Viale, nel corso della conferenza stampa - se nulla di dannoso è successo finora? Essendo un Cpa, Pozzallo non è in uno stato di allerta. Il numero di agenti è sufficiente”. Parole pronunciate dopo tre settimane circa i gravi fatti, coi cinque carabinieri feriti e molti altri agenti contusi. Eppure, non si contano più sulle dita della mano gli approdi che, conseguentemente, hanno visto più di 180 persone ubicate all’interno della struttura. Come lo sbarco dei 963 immigrati del 30 maggio 2011 dinanzi le coste iblee. Una situazione che colse la Prefettura di sorpresa e solo lo strenuo lavoro di Protezione civile e forze dell’ordine fecero sì che nulla di negativo accadesse. Quante volte, poi, nel corso di questi anni, si sono visti i locali della palestra dello stadio comunale occupati dalla presenza di migranti. Palestra, è bene ricordarlo, mai idonea per l’accampamento dei migranti africani.Nella struttura all’interno dell’area portuale di Pozzallo, da diversi anni, sono stati concentrati e detenuti centinaia di egiziani e tunisini, spesso senza che nemmeno avvocati e funzionari delle organizzazioni non governative fossero autorizzati dalla Questura a visitare i reclusi. Il tutto in una ostentata sospensione dello stato di diritto. Primo, perché la struttura non è giuridicamente configurata come un centro di detenzione, non essendo un Cie né un carcere. Secondo, perché la privazione della libertà personale non può avvenire senza la convalida di un giudice entro 48 ore. Libia: ex capo dell’intelligence, Abdullah al-Senussi, è stato arrestato in Mauritania Adnkronos, 18 marzo 2012 L’ex capo dell’intelligence libica Abdullah al-Senussi è stato arrestato oggi in Mauritania. Lo riferisce la Bbc. Esponente di spicco del deposto regime dell’ex colonnello libico Muammar Gheddafi, Senussi è ora detenuto presso l’aeroporto di Nouakchott. Senussi era il cognato di Gheddafi e da molti descritto come suo stretto confidente. Aveva lasciato la Libia quando l’ex colonnello era stato deposto e ucciso a ottobre dello scorso anno. Era ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità. Fonti della sicurezza mauritana hanno spiegato che Senussi è stato arrestato nella notte dopo che era arrivato a Nouakchott su un volo di linea proveniente dalla città marocchina di Casablanca con un falso passaporto maliano. Finora non sono giunti commenti ufficiali dalla Libia. Soprannominato “il macellaio”, Senussi è uno degli ultimi esponenti di spicco del regime di Gheddafi ancora a piede libero. Fonti libiche, arabe e occidentali lo hanno accusato di aver personalmente picchiato e abusato dei prigionieri nelle carceri della Libia. Si ritiene responsabili di purghe di oppositori del regime negli anni Ottanta e Novanta e della morte di 1.200 detenuti politici nel carcere di Abu Salim a Tripoli nel 1996. Pakistan: alcuni componenti della famiglia Bin Laden posti in “detenzione provvisoria” Tm News, 18 marzo 2012 Alcuni componenti della famiglia di Osama bin Laden, tra cui la vedova yemenita, sono stati posti in detenzione provvisoria fino al 26 marzo da un tribunale pachistano. Lo ha annunciato l’avvocato di famiglia. Amal Abdulfattah, la vedova più giovane di Bin Laden, era presente nella casa dove il capo di al Qaida fu ucciso lo scorso anno da un commando statunitense in Pakistan. “Dopo un’udienza preliminare, il giudice ha posto Adulfattah e i suoi cinque figli in detenzione provvisoria fino al 26 marzo”, ha detto Mohamed Aamir che rappresenta Amal Abdulfattah in questo caso. L’avvocato ha dichiarato che chiederà di potere vedere la cliente, detenuta in Pakistan dal mese di maggio 2011, e di poter consultare copia del primo rapporto d’indagine. La donna è accusata di essere entrate illegalmente nel Paese. “Chiederò al giudice di autorizzare un incontro anche con il fratello di Abdulfattah prima della prossima udienza, il 26 marzo”, ha aggiunto. Il 2 maggio scorso, un commando dell’unità d’elite dei Navy Seals statunitense aveva fatto irruzione in una villa di Abbottabad, a nord d’Islamabad, e aveva ucciso Osama Bin Laden, un figlio e due dei suoi messaggeri. Amal Abdulfattah era stato ferito con colpi d’arma da fuoco. Iran: 400 attivisti chiedono rilascio detenuti politici per capodanno persiano Adnkronos, 18 marzo 2012 Sono oltre 400 gli attivisti per i diritti umani, avvocati e intellettuali che hanno chiesto, in un comunicato rivolto alle autorità iraniane, il rilascio di tutti i prigionieri politici in occasione del capodanno persiano che sarà celebrato il 20 marzo in tutto il paese. Lo riferisce oggi Radio Zamaneh, spiegando che nel comunicato si sottolineano le difficili condizioni in cui gli attivisti per i dritti umani si trovano in questo momento in Iran. Nel documento poi si ricorda come noti avvocati e giornalisti quali Abdolfattah Soltani, Nasrin Sotudeh e Narghes Mohammadi siano stati condannati a diversi anni di carcere soltanto per aver svolto, in modo coerente, la propria professione. “Tali condanne - si nota nel comunicato - condizionano l’ambito delle attività dei giornalisti, degli intellettuali e degli avvocati nel paese”. Secondo quanto riferisce Radio Zamaneh, sarebbero al momento decine i prigionieri politici reclusi nelle carceri iraniane, tra questi anche noti avvocati, attivisti e giornalisti. Soltani, per esempio, avvocato attivo per i diritti umani, è stato condannato a 18 anni di reclusione, l’avvocato Sotudeh è stata condannata a sei anni di carcere, mentre sono tre gli anni che dovrà scontare Mohammadi, vice presidente del Comitato Nazionale per la Tutela dei Diritti Umani. “Attentato alla sicurezza Nazionale”, “propaganda contro la repubblica islamica” e “organizzazione di riunioni antigovernative” sono tra le motivazioni più ricorrenti per comminare tali condanne agli attivisti antigovernativi.