Giustizia: il digiuno di Marco Pannella per l’amnistia e la lunghezza dei processi di Valter Vecellio Notizie Radicali, 16 marzo 2012 “Il problema della lunghezza dei processi non si può risolvere con la bacchetta magica”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Paola Severino, replicando a chi le chiedeva della sentenza europea contro l’Italia. “Di interventi”, dice Severino, “ne abbiamo proposti tanti, ma solo tutti insieme possono risolvere. Bisogna quindi armarsi di pazienza, i tempi sono stretti, le esigenze tante. Pazienza però non vuole dire perdere tempo”. Chi si deve armare di pazienza, le migliaia di detenuti in carcere in attesa di processo, signor ministro? Chi si deve armare di pazienza, le migliaia di persone che devono attendere anni e anni prima di ottenere giustizia, sia che si tratti di un processo penale, sia che si tratti di un processo civile, signor ministro? Chi si deve armare di pazienza, le migliaia di persone che ogni anno si vedono prescrivere il processo - 150mila processi circa ogni anno - e resta così con un pugno di mosche in mano, signor ministro? Si devono armare di pazienza le corti di giustizia europee che ci condannano a tutto spiano, signor ministro? Lo si vada a dire al segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjorn Jagland che bisogna armarsi di pazienza. Per Jagland “Il funzionamento del sistema giudiziario e la sua indipendenza ed efficacia è un problema diffuso che mina lo Stato di diritto e il normale funzionamento delle istituzioni democratiche in molte parti d’Europa. Guardando le sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani, ad esempio l’Italia è il principale responsabile dell’arretrato (della Cedu) a causa della lentezza eccessiva dei procedimenti giudiziari nel Paese. Il danno collaterale degli arretrati è quello di bloccare il normale funzionamento della Cedu, che non è mai stata intesa come corte di ultima istanza per sistemi giudiziari incapaci di proteggere internamente i Diritti Umani”. Per dire: per ogni detenuto si spendono 3,8 euro al giorno per la colazione, il pranzo e la cena di ogni detenuto. Il comune di Roma per ciascun ospite dei suoi canili ne spende 4,5. Basta questo dato per raccontare di una tragedia italiana; ma bisogna armarsi di pazienza. A San Vittore in celle di sette metri quadrati, faticano a respirare sei detenuti per 20 ore al giorno. A Poggioreale ne ammassano anche una dozzina per ogni gabbia. A Montacuto, nell’anconetano, i reclusi sono costretti a fare i loro bisogni in appositi “pappagalli”, perché i bagni sono sufficienti per 178 ospiti e non per i 448 esseri umani che ci vivono; ma bisogna armarsi di pazienza. “Una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile… una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell’estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile…Ci si rifletta seriamente, e presto, da ogni parte”. Così ha detto nel luglio scorso il presidente Napolitano. Ora siamo al “bisogna armarsi di pazienza” del ministro Severino. Poi dici che uno s’incazza. Giustizia: perché la Corte europea dei Diritti dell’Uomo dà così fastidio? di Lanfranco Palazzolo La Voce Repubblicana, 16 marzo 2012 Anton Giulio Lana, avvocato Corte dei Diritti dell’Uomo, ci parla delle vere possibilità in mano ad ogni cittadino. Tutti i cittadini hanno il diritto di adire la Cedu. Lo ha detto alla “Voce” l’avvocato Anton Giulio Lana, avvocato patrocinante alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Prof. Lana, la presidenza britannica del Consiglio d’Europa sta tentando di modificare le regole della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu). Cosa ne pensa? “La riforma del funzionamento della Corte europea è un tema sul quale si dibatte da molti anni. Come si suole dire, la Corte europea dei Diritti dell’Uomo è vittima del suo stesso successo. Nel senso che, nel corso degli anni, la Corte europea dei diritti umani è venuta ad assumere un ruolo sempre maggiore. Ed è sempre maggiore il numero delle persone che ricorrono a questo importante strumento per la tutela dei diritti umani. La Corte è ingolfata di questi ricorsi. Ecco perché si pensa ad una riforma e a come ripensare questo straordinario strumento dei diritti umani”. Che cosa è stato fatto finora? “Sono state varate due riforme importanti. La prima è stata realizzata con il protocollo 11 del 1998 e una con il protocollo numero 14, entrata in vigore nel 2010. Adesso si discute nuovamente perché, sebbene l’ultima riforma sia molto recente, essa non pare risolutiva per alleviare il grande peso di ricorsi che la Corte riceve dai suoi 47 membri. Questa è la realtà dei dati. Ecco perché occorre sveltire le procedure dinanzi alla Corte perché sia tempestiva la procedura di fronte a questo organo dei diritti umani. Dall’altro lato vi è un intento, da parte di alcuni paesi membri del Consiglio d’Europa, di ridurre la portata e lo straordinario peso e autorevolezza che la Corte ha avuto con le decisioni che i paesi del Consiglio devono adottare”. L’obiettivo della Gran Bretagna è quello di restringere il raggio di azione della Cedu limitando il campo dei ricorsi? “Il pericolo è proprio questo. L’importanza della Corte è dovuta all’importanza dei ricorsi individuali per ottenere una decisione di condanna dello Stato o degli Stati che hanno fatto violazioni. L’aspetto rivoluzionario della Corte Europea è dovuto proprio a questa possibilità data a tutti i cittadini. Questa peculiarità deve essere mantenuta. La Corte deve essere adita dalla vittima, dal singolo cittadino che vede violati i propri diritti. Il cittadino ha il potere di portare sul banco degli imputati lo Stato. Gli Stati hanno visto questa possibilità con perplessità perché l’hanno letta come una rinuncia alla loro sovranità. Alcuni Stati, infastiditi per le decisioni della Cedu, che sono state dirompenti nel proprio ordinamento interno, hanno cercato di introdurre dei filtri che - secondo me - non sono corretti”. Qual è stata la sentenza che ha fatto arrabbiare la Gran Bretagna? “Senza dubbio quella sul diritto di voto delle persone detenute”. Giustizia: quando nelle carceri si suicidano anche le guardie… di Andrea Managò L’Espresso, 16 marzo 2012 Ogni due mesi, in Italia, un agente di custodia si toglie la vita, impiccandosi o sparandosi. È l’altra faccia dell’inferno del sistema penitenziario: un sistema fatto di degrado e disumanizzazione, aggravato dai tagli agli organici e dalla fatiscenza delle strutture. Un cappio legato al collo o un colpo di pistola: di solito le guardie carcerarie decidono di farla finita così. Sì, perché in Italia di carcere non muoiono solo i detenuti. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria stima, dal 2000 ad oggi, 68 suicidi tra gli agenti carcerari. Solo lo scorso anno ne sono avvenuti otto. Numeri discordanti da quelli censiti dai sindacati autonomi di categoria, che confermano le stime sul 2011, sostenendo però che in totale sono 88 quelli che si sono tolti la vita nell’ultimo decennio. In ogni caso, un bollettino di guerra. E nei primi due mesi del 2012 al lungo elenco si sono aggiunti altri due “baschi azzurri”: entrambi prestavano servizio a Rebibbia, Roma. Fatti che testimoniano, se ce ne fosse ancora bisogno, il pessimo stato di salute del sistema penitenziario italiano, affetto da mali cronici come sovraffollamento, inadeguatezza strutturale e carenza di personale. L’ultima “pianta organica” della Polizia Penitenziaria risale al maggio 2000 e prevede 45.121 agenti. A quella data il corpo contava 42.800 unità e la quota fissata era in linea con la capienza delle carceri. Ma nell’ultimo decennio l’organico è calato costantemente, complice il blocco del turnover non sono stati rimpiazzati i 700 agenti che ogni anno vanno in pensione: attualmente gli effettivi in servizio sono circa 38 mila. Con un sottorganico che sfiora le 7.000 unità, gli agenti sorvegliano 66.632 detenuti, censiti il 29 febbraio dal ministero della Giustizia, ammassati uno sopra l’altro perché la capienza regolamentare dei 206 penitenziari italiani è di 45.742 posti. Una situazione che genera continue tensioni, come testimoniano le oltre 5.000 giornate di lavoro perse ogni anno in seguito alle aggressioni subite da parte dei detenuti. Per affrontare la piaga sovraffollamento, a febbraio il Parlamento ha varato il decreto salva carceri approntato dal Governo Monti, che punta a diminuire il numero di accessi negli istituti di pena, ma la cui efficacia è ancora da valutare. Per l’emergenza suicidi tra le guardie carcerarie le risposte sono state solo parziali. Ad aprile 2008, dopo due casi nell’arco di pochi giorni, l’allora capo del Dap Ettore Ferrara annunciò la creazione di un apposito call center dedicato gli agenti. Ma il servizio non è mai partito. Gli anni passano e i problemi restano gli stessi. A ottobre 2011, dopo l’ennesimo caso, l’ex numero uno del Dap Franco Ionta ha istituito una commissione di studio sul fenomeno. “Nella lunga serie di suicidi tra la Penitenziaria a volte c’è un mix di fattori personali e cause di servizio che può risultare fatale”, spiega Donato Capece, segretario del Sappe. Poi sottolinea: “Spesso gli agenti vivono per lunghi periodi lontano dalle loro famiglie, accumulano turni su turni per riuscire a ottenere un paio di riposi in fila e poter tornare qualche giorno nelle loro città. Una volta a casa si trovano di fronte i problemi di una famiglia da cui sono assenti, e il peso di tutte queste responsabilità può travolgerli”. Non è raro che in cella gli agenti si trovino faccia a faccia con la morte, in molti casi sono i primi a trovare i corpi dei detenuti che si tolgono la vita. Nei casi in cui dopo il decesso di un detenuto viene aperto un fascicolo di inchiesta, “capita anche che gli agenti vengano sospesi dal servizio, con stipendio dimezzato, altre volte vengono trasferiti in un’altra struttura”, spiega ancora Capece. Che respinge al mittente le accuse di negligenza: “Con questo organico non possiamo svolgere al meglio il nostro compito, soprattutto nei penitenziari più grandi di notte una sola persona sorveglia anche 100 detenuti. A Rebibbia mediamente ci sono 25 unità in servizio nel turno di notte, distribuite su 8 padiglioni: come possono sorvegliare a dovere oltre 1.700 detenuti?”. Lo scorso 13 dicembre è stato bandito un concorso per 455 nuove guardie carcerarie, 375 uomini e 80 donne. La selezione è attesa entro l’estate, con oltre 4.200 candidati in lizza. Basterà per risolvere i problemi della Polizia Penitenziaria? Giustizia: Idv; Severino intervenga su condizioni agenti custodia Il Velino, 16 marzo 2012 “Il ministro Severino solleciti interventi mirati per la polizia penitenziaria. La situazione nelle carceri italiane non è più sostenibile, e i primi a pagarne le conseguenze sono gli agenti di custodia, con condizioni di lavoro molto difficili, ai limiti della sopportazione”. È quanto dice in una nota Antonio Borghesi, vicepresidente dell’Italia dei Valori alla Camera, che questa mattina ha fatto visita alla Casa circondariale di Verona. Borghesi annuncia di aver già preparato un’interpellanza da presentare al ministro della Giustizia. “Ho fatto visita al carcere della mia città - spiega Borghesi - ma idealmente alle strutture di detenzione di tutto il Paese, proprio per rendermi conto, più che delle condizioni dei carcerati, di quelle degli addetti della polizia penitenziaria. Sempre più spesso questi lavoratori sono sotto organico e sopportano anche il peso delle diminuite condizioni di sicurezza all’interno delle carceri”. Giustizia: strage Alcamo; pena sospesa per condannati, loro odissea cominciò nel 1976 Adnkronos, 16 marzo 2012 Pena sospesa per Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, condannati rispettivamente a 14 e 22 anni, per la strage nella caserma di Alcamo Marina. Nell’eccidio, avvenuto nel 1976, furono uccisi due carabinieri. A disporre la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena emesso dalla Procura generale di Caltanissetta nel 1992 la Corte d’appello per i minorenni di Catania, che ha accolto la richiesta avanzata durante l’udienza del processo di revisione per i due imputati che vivono in Brasile. Il terzo accusato della strage, Giuseppe Gulotta, è stato assolto il mese scorso dopo avere scontato da innocente 21 anni di carcere. L’odissea giudiziaria di Giuseppe Gulotta, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo è iniziata nella notte tra il 12 e il 13 febbraio 1976, a due settimane dalla strage nella casermetta dei carabinieri di Alcamo Marina. I due militari Apuzzo e Falcetta erano stati uccisi a colpi di arma da fuoco il 27 gennaio da un commando di sicari che aveva fatto irruzione nella caserma e ucciso i carabinieri che riposavano sulle brandine. Giuseppe Vesco venne trovato con una pistola calibro 9 e marca Beretta, dello stesso modello di quelle usate dalle forze dell’ordine. Portato in una caserma a qualche chilometro di distanza da Alcamo, fu sottoposto a torture e sevizie al punto da essere costretto ad autoaccusarsi della strage e a fare i nomi dei suoi complici. Tirò in ballo Gulotta, Ferrantelli e Santangelo che a loro volta vennero sottoposti a sevizie e costretti a firmare un verbale autoaccusatorio. A condurre l’interrogatorio fu il capitano dei carabinieri Giuseppe Russo, successivamente ucciso in un agguato mafioso. ‘ex brigadiere Renato Olino ha confessato, dopo trent’anni, che i sospettati furono denudati e posti su una tavola inclinata, costretti a ingerire acqua e sale con un imbuto e a sopportare scariche elettriche ai testicoli pur di strappare loro una confessione. Dopo le torture, fu addirittura cambiata la disposizione delle suppellettili e il colore delle pareti della stanza per non ricondurre a quella caserma come il luogo delle avvenute sevizie. Nell’autunno di quello stesso anno Giuseppe Vesco fu trovato impiccato in carcere. Un fatto strano considerando che era monco. Anni più tardi il pentito Vincenzo Calcara ha confessato di essere stato costretto a lasciarlo solo in cella perché “fosse suicidato”. Una morte, secondo le sue dichiarazioni, avvenuta con la complicità delle guardie carcerarie. Approfittando di un momento di libertà nell’intricata vicenda giudiziaria, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo sono fuggiti in Brasile prima che la sentenza diventasse definitiva mentre Giuseppe Gulotta è rimasto in Italia. Gulotta è stato condannato all’ergastolo in via definitiva nel 1990 e, dopo le dichiarazioni dell’ex brigadiere Renato Olino, ha ottenuto per primo il processo di revisione conclusosi con la revoca della sentenza di condanna emessa dalla Corte d’appello di Reggio Calabria. Dopo 22 anni di carcere da innocente e una vicenda giudiziaria durata 36 anni. Anche Ferrantelli e Santangelo, condannati a 14 e 22 ani di reclusione, hanno ottenuto il processo di revisione davanti alla Corte d’appello per i minori di Catania. A dicembre si è svolta la prima udienza. Nella lista dei testi c’è anche il pentito Vincenzo Calcara, e oggi, intanto, è stato sentito l’ex carabiniere Olino. “A causa di questa vicenda sono stato costretto a lasciare l’Arma dei Carabinieri. Non ho un reddito e non posso chiedere un risarcimento perché è tutto prescritto. Chiederò al Capo dello Stato di valutare la mia situazione perché non sono riuscito a ricostruirmi una vita”, ha detto l’ex sottufficiale dei carabinieri che ha rivelato le torture subite dagli allora indagati. ‘Ho lasciato l’Arma - ha concluso - e per questo chiedo un sostegno, non per me ma per dare un futuro ai miei figli. Non hanno fatto niente e pagheranno le conseguenze di questa mia scelta di legalità”. l processo di revisione per Ferrantelli e Santangelo ha prospettive rosee alla luce dell’esito di quello di Giuseppe Gulotta e dopo l’udienza di oggi, durante la quale la Corte d’appello per i minorenni di Catania ha disposto per loro la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena, accogliendo la richiesta del legale dei due, che si trovano attualmente in Brasile. L’avvocato Maurizio Lo Presti ha commentato: “In verità è sicuramente una sorpresa che tutto sommato poteva anche essere messa in conto. Tutto questo ci lascia soddisfatti. Aspettiamo adesso che vengano in aula Ferrantelli e Santangelo a spiegare cosa accadde quella notte. Il 27 aprile spero di portarli in aula”. Una speranza in più per i due imputati costretti a lasciare l’Italia perché condannati ingiustamente. Di recente Gaetano Santangelo in un’intervista video ha confessato di avere aspettato fino all’ultimo minuto che venisse fatta giustizia, e poi essere stato costretto ad andarsene quando si è accorto che il processo non andava per il verso giusto. Una scelta tormentata che gli ha consentito di conservare la sua libertà sapendo di essere innocente. Piemonte: carceri e piano sanitario regionale… saga dell’ipocrisia e lacrime di coccodrillo Notizie Radicali, 16 marzo 2012 Dichiarazione di Igor Boni (presidente Associazione Radicale Adelaide Aglietta) e Giulio Manfredi (Direzione Radicali Italiani): “Abbiamo letto le ben sette pagine che il Piano socio-sanitario in discussione in Consiglio Regionale dedica alla “Medicina penitenziaria”. È la saga dell’ipocrisia e delle lacrime di coccodrillo. Basta una sola citazione: “Complessità del sistema. Quello penitenziario è un sistema complesso costituito a sua volta da sottosistemi complessi, rispetto ai quali vanno evidenziati alcuni aspetti: … ruolo del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale”. Alla faccia della complessità e della faccia di bronzo! Si cita il ruolo del Garante regionale delle carceri… che non è stato ancora nominato, anche se la legge istitutiva (L.R. 28 del 2 dicembre 2009) è di oltre due anni fa! E la maggioranza di centro-destra che voterà come un sol uomo il Piano socio-sanitario è la stessa che vuole abolire il Garante (vedi Pdl 188 “ammazza garanti” di Pedrale e altri)! Per il resto il Piano è una lunga serie di cose da fare per i carcerati, che testimonia solamente, ancora una volta, come la strada dell’inferno sia lastricata di buone intenzioni. Con singolare dimenticanze: rispetto agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg), l’Assessore Monferino che non si è accorto che un mese fa è entrata in vigore la legge sedicente “svuota-carceri” (L. n. 9 del 17 febbraio 2012), che ha previsto la chiusura degli Opg (sono sei in tutta Italia e “ospitano” 1264 persone) entro il 1° febbraio 2013. Nel Piano non è contenuto alcun riferimento a questa disposizione, ci pare non di poco conto (in Piemonte non vi sono Opg ma le Asl dovranno farsi carico degli internati residenti in Piemonte che usciranno dagli Opg). Empoli (Fi): incontro sulla situazione delle carceri di Pozzale e dell’Opg di Montelupo www.gonews.it, 16 marzo 2012 Si è parlato anche della situazione carceraria di Pozzale e dell’Opg di Montelupo Fiorentino a margine dell’incontro sulla detenzione femminile ospitato questa mattina venerdì 16 marzo, al liceo Pontormo di Empoli. In particolar modo gonews.it ha chiesto alcuni pareri a due persone che si occupano delle questioni: il garante dei detenuti di Firenze Franco Corleone e la direttrice di entrambe le strutture, Antonella Tuoni. Opg: lavori strutturali al traguardo Gli interventi di adeguamento alla normativa antincendio e ai requisiti minimi per le strutture psichiatriche riabilitative, il cui termine era inizialmente previsto entro la fine di gennaio come da ordinanza della commissione parlamentare presieduta da Ignazio Marino, dovrebbero essere alla conclusione. “Stiamo lavorando e siamo a un buon punto - spiega Antonella Tuoni - e a breve confidiamo nella consegna nuovi locali in ristrutturazione”. Per la direttrice la questione principale è un’altra: “Ci sarà sicuramente più spazio per i detenuti - precisa - ma il vero problema però non è strutturale, ma di risorse. Bisogna investire a livello finanziario ma soprattutto in risorse umane. Le persone detenute avrebbero bisogno di essere seguite con un rapporto di un operatore a persona, quindi è necessario il potenziamento degli addetti presenti. Ora dobbiamo solo rimboccarci le maniche, poi vedremo”. Queste considerazioni sono state fatte anche a fronte delle lamentele dei sindacati di polizia penitenziaria, in merito alle loro condizioni di lavoro e al clima difficile che si vive all’interno della Villa dell’Ambrogiana a Montelupo Fiorentino. Tematica, questa, su cui è stato interpellato anche Franco Corleone il quale, partendo da una considerazione generale, arriva al nocciolo della questione. “Bisogna far uscire più detenuti dal carcere, - ha commentato - sono troppi anche per colpa dell’infame legge sulle droghe: si sta dentro anche per la coltivazione di una pianta di canapa o a causa di un quantitativo minimo di stupefacente in tasca. Bisogna allargare la detenzione domiciliare e il lavoro all’esterno: è in questo senso che la chiusura di Montelupo Fiorentino si prospetta come una grande conquista. Potrebbe essere un passo notevole per aiutare la riforma del carcere”. “La legge prevede dal 2013 il superamento dell’Opg - prosegue la Tuoni - ma al momento non so quale sarà futuro della struttura: ci sarà prossimamente un tavolo tra amministrazione penitenziaria, Regione e Agenzia del Demanio. Posso pensare a una riconversione dell’attuale Opg in un istituto, magari a custodia attenuata, o a una casa di reclusione, ma non saprei rispondere con certezza. Far passare le persone da lì dentro a strutture in completa conduzione familiare non significa superare il problema psichiatrico. Quindi, come già ribadito, sarà necessario rimboccarsi le maniche e un potenziamento delle risorse del servizio sanitario per le strutture penitenziarie”. Casa circondariale, il Garante chiede un rilancio Riguardo alla struttura di Empoli, in passato prima chiusa, poi destinata a ospitare transessuali e infine tornata a essere carcere femminile, il garante Franco Corleone ricorda la mission del passato e chiede che vengano riprese le eccellenze di allora. “Era una struttura nata come custodia attenuata per tossicodipendenti, con lo scopo di aiutare e favorire il reinserimento sociale. Qui si produceva un giornale, “Ragazze Fuori”, e si dava la possibilità di svolgere lavori agricoli. Il problema è che oggi si deve rinsaldare il legame con la città: io ho questa impressione e credo che ci sia molto da lavorare. Tutti denunciano le situazioni intollerabili delle carceri, adesso il momento in cui bisogna passare dalle parole ai fatti”. Richiesta, questa, subito girata alla direttrice Antonella Tuoni: “Il carcere di Pozzale è una nicchia nello scenario penitenziario - spiega dal proprio punto di vista - le detenute sono poche e a regime aperto, così non soffriamo delle criticità comuni. Essendo un carcere aperto, ciò consente un percorso di abilità e competenze che entrando dentro quasi sempre si perdono. Noi comunque cerchiamo nei limiti delle risorse disponibili di insistere sulla responsabilizzazione, sul lavoro, sui laboratori e sulle attività per evitare che la reclusione non sia un ozio forzato, ma l’opportunità per recuperare la dignità di cittadine”. Sulle attività in corso: “Stiamo riprendendo faticosamente le azioni svolte in passato - conclude - con il sostegno di istituzioni e scuole, abbiamo avviato una collaborazione con il liceo Pontormo per il laboratorio “Oltre i muri”. C’è da ricostituire una rete di contatti e a gradi lo stiamo facendo”. L’incontro al Liceo Pontormo I due ospiti erano presenti alla presentazione del libro “Alice nel paese delle domandine” curato da Monica Sarsini, per la prima volta illustrato all’interno di una scuola, all’interno del quale si racconta la vita e le difficoltà delle detenute di Sollicciano a Firenze. Duecento studenti del liceo delle Scienze Sociali hanno letto la pubblicazione e così il dirigente scolastico Daniela Borghesi e gli insegnanti hanno promosso questo incontro per approfondire le tematiche da vicino. Invitati anche il vicesindaco di Empoli Carlo Pasquinucci, la consigliera regionale del Partito Democratico Daniela Lastri, il direttore della casa circondariale di Sollicciano Oreste Cacurri e il responsabile educativo Gianfranco Politi, oltre al vicecommissario di polizia penitenziaria della struttura di Pozzale, Maria Grazia Grassi. Carlo Pasquinucci ha sottolineato “quanto sia profondamente poco democratico sentirsi dire che, il fondo destinato al disagio e alla non abilità, è stato azzerato e che la nostra Regione cercherà di intervenire in qualche modo. E democrazia - continua Pasquinucci - significa pensare a tutti e quando dico tutti, significa tutti. Ma senza risorse, da soli, non ce la facciamo e trovo aberrante non tenere di conto di questi problemi”. Daniela Lastri ha riconosciuto quanto sia importante “riflettere sulla specificità delle donne in carcere, attraverso questo libro che racconta di una “Alice nel paese delle domandine”, attraverso la quotidianità, le emozioni. Valorizzare tutto questo, come il percorso di scrittura creativa, è strumento di forza, dà loro la possibilità di potersi esprimere. I sentimenti che possono ritornare - spiega Lastri - possono alleviare la durezza, quella corazza che ti allontana dal resto del mondo. La scrittura aiuta a combattere le ansie, a confermare la parola che è identità. Sono davvero contenta che i giovani come voi si interessino di carcere, del carcere, ma soprattutto delle persone che sono in carcere”. Franco Corleone ha centrato il suo intervento su come prima le carceri fossero vicine al centro della città ed i cittadini parlavano con i detenuti, mentre adesso le carceri sono lontane; ora non si riesce più a vedere chi è ristretto. “Il carcere di Empoli - spiega Corleone - non ha vissuto situazioni di emergenza per sovrappopolamento dei detenuti, come Sollicciano, ma altre traversie, che in molti di noi conoscono bene. Adesso ci sono le detenute comuni - continua Corleone - sperando che torni ad essere carcere di sperimentazione con la sua rivista Ragazze Fuori, e sempre meno di costrizione. E cito il cardinal Martini: che il carcere sia un luogo di seria ed austera risocializzazione. Il carcere deve responsabilizzare persone adulte e non creare una sorte di infantilizzazione generale”. “Il percorso che stiamo facendo con il liceo è molto valido - ha sottolineato la direttrice della Casa circondariale femminile di Empoli, Antonella Tuoni- ed a breve queste studentesse incontreranno coloro che vivono oltre i muri. Vorrei anche aggiungere che sono stati fatti ancora dei tagli alla scuola in carcere. Ma noi andiamo avanti e speriamo di poter riavere con noi anche la rivista Ragazze Fuori”. La presentazione del libro Alice nel paese delle domandine si è tenuta alla presenza dell’autrice, Monica Sarsini, scrittrice e artista fiorentina che da tre anni per l’associazione “Il giardino dei ciliegi”, un giorno la settimana, entra in carcere e tiene un corso di scrittura creativa alle inquiline della sezione femminile. Da questo laboratorio è nata l’idea del libro, che raccoglie le storie delle detenute, con le “domandine” che sono i mille moduli da compilare all’amministrazione penitenziaria per qualsiasi richiesta o desiderio. Maria Grazia Grassi, vice commissario di Polizia Penitenziaria della Casa circondariale di Empoli, ha raccontato le origini del corpo di polizia penitenziaria, spiegandone l’evoluzione nei ruoli, negli obiettivi e nel rapporto con il detenuto. Bari: Osapp; nel carcere 200 detenuti oltre la capienza e una sezione chiusa per lavori Ansa, 16 marzo 2012 Dopo il blitz delle forze dell’ordine compiuto oggi a Bari con la notifica di 32 ordini di carcerazione per condanne definitive (comprese tra i sette anni di reclusione e i due mesi) nei confronti di pregiudicati vicini al clan mafioso barese Strisciuglio nel carcere di Bari ci sono solo posti in piedi e su prenotazione. Lo denuncia in una nota il vicesegretario generale nazionale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, Domenico Mastrulli. Questa ennesima azione di polizia giudiziaria ha messo in seria difficoltà - si sottolinea - l’attività organizzativa nel penitenziario del capoluogo pugliese, se si considera che già oggi a Bari il carcere di Corso Sicilia (dove c’è un intero reparto, la seconda sezione, chiuso per ristrutturazione) ospita oltre 449 uomini e 18 donne per un totale di 467 persone contro una capienza regolamentare che non potrebbe superare 256 uomini e 36 donne. Nelle 11 strutture penitenziarie della Puglia ci sono 4.442 detenuti mentre il numero regolamentare previsto è di 2.463 persone. Modena: visite straordinarie per festa del papà Redattore Sociale, 16 marzo 2012 Colloqui straordinari in occasione della Festa del papà. Il 19 marzo 35 bambini potranno incontrare il loro papà nel carcere di Modena. L’iniziativa fa parte del progetto “Cittadini sempre”. Un modo per mantenere e rafforzare la relazione. Quest’anno sarà un 19 marzo un po’ particolare per i detenuti del carcere di S. Anna di Modena. Nonostante il lunedì non sia giorno di visita, saranno organizzati dei colloqui “straordinari” tra i figli dei detenuti e i loro papà. L’iniziativa fa parte del progetto “Cittadini sempre”, un percorso formativo sul carcere e sulla pena, promosso dall’assessorato alle Politiche Sociali della Regione Emilia-Romagna in collaborazione con la Provincia di Bologna, la Conferenza regionale volontariato giustizia e l’Ordine dei giornalisti. L’obiettivo è di informare e sensibilizzare le persone, anche coloro che non vivono a contatto con la realtà della reclusione, sul delicato tema della genitorialità reclusa, coinvolgendo anche i mass media. Saranno 20 le famiglie coinvolte nell’iniziativa, per un totale di 35 bambini. “Nonostante il lunedì sia un giorno lavorativo abbiamo raggiunto un bel numero”, commenta Chiara Tassi del Centro servizi per il volontariato di Modena. “Non siamo riusciti a coinvolgere tutti i bambini ma è un inizio”. Sono infatti molte le famiglie lontane che difficilmente riescono a raggiungere il carcere di Modena, anche nei tempi e nei modi consueti. Grazie ai fondi raccolti dalla parrocchia SS. Crocefisso - S. Caterina quest’anno potrà partecipare all’iniziativa anche una famiglia siciliana con 2 bambini. Gli organizzatori hanno voluto offrire ai parenti un’opportunità in più per incontrare i familiari in questa data particolare. In occasione della giornata i volontari della Federazione internazionale “Ridere per vivere” e del Gruppo Carcere-Città hanno allestito e decorato le sale d’incontro per renderle più accoglienti. Saranno inoltre organizzati spettacoli di trucchi e magie, e verranno regalati dolcetti e pupazzi per i bambini. Tutto questo affinché gli ospiti vivano la giornata all’insegna del divertimento in un clima d’affetto. Molto spesso la detenzione in carcere è causa di allontanamento tra genitori e figli. I bambini sono vittime dell’impoverimento della relazione e rischiano di subirne le conseguenze per tutta la vita. Il colloquio è l’unico mezzo tramite il quale questa relazione può mantenersi e rafforzarsi. I bambini vivono il momento dell’incontro con grande emozione, ansia e curiosità e, a causa di queste aspettative, molti detenuti scelgono di rinunciarvi. I volontari accompagnano genitori e figli in questo percorso, affinché sia un’esperienza educativa per tutti. “Questo è un investimento che vogliamo fare, per assicurare ai bambini un rapporto di qualità”, commenta Tassi. Questa non è la prima nè l’ultima esperienza “extra”. In passato infatti erano già state organizzate iniziative simili e ne sono in programma altre per il 2012. L’obiettivo è gettare le basi per un rapporto vivo, saldo e che duri per tutto il periodo di detenzione. Imperia: due medici entrano in carcere per visitare Francesco Bellavista Caltagirone Agi, 16 marzo 2012 Due consulenti medici, nominati dalla difesa, hanno vistato oggi in carcere, a Imperia, l’ingegnere Francesco Bellavista Caltagirone, detenuto dallo scorso 5 marzo, nell’ambito dell’inchiesta per truffa ai danni dello Stato sul costruendo porto turistico di Imperia. I due dottori hanno così voluto sincerarsi dello stato di salute dell’imprenditore: sia per avere una situazione aggiornata sia per individuare possibili patologie che, nel caso, potrebbero portare ad un’eventuale richiesta di scarcerazione per motivi di salute. Nel pomeriggio, Caltagirone - a cui fa capo la “Acquamare srl” (azionista al 33,3% della Porto Imperia spa, società concessionaria dell’approdo turistico) - ha ricevuto la visita dei suoi legali: gli avvocati Nerio Diodà e Alessandro Moroni. Roma: convegno su salute in carcere; intervengono capo Dap, cappellani, medici e direttori Adnkronos, 16 marzo 2012 Non c’è solo il sovraffollamento fra le priorità urgenti per le carceri italiane ma anche il riuscire a garantire adeguata attenzione alla salute fisica e psicologica di chi vive negli istituti di pena: oltre 66.600 persone di cui 24mila stranieri, secondo i dati più aggiornati. La tutela della salute e i necessari interventi per la cura della persona nelle carceri, saranno al centro della giornata di studio organizzata per domani dall’Ufficio nazionale per la pastorale della sanità della Cei, (dalle 8,30 alle 17, via Aurelia 796) con la partecipazione di dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, medici, psichiatri, psicologi, esponenti del Parlamento, del volontariato e religiosi impegnati nel campo della salute e delle carceri. Interverranno, fra gli altri, il Capo del Dap, Giovanni Tamburino, il direttore di Rebibbia, Carmelo Cantone, il direttore sanitario di Regina Coeli, Andrea Franceschini, il responsabile per la pastorale della salute del Triveneto, monsignor Dino Pistolato, l’Ispettore generale dei Cappellani delle carceri italiane, don Virgilio Balducchi, i cappellani di Regina Coeli e di Rebibbia, esponenti della Caritas, della Comunità di Sant’Egidio, delle Missionarie Scalabriniane, il coordinatore delle associazioni di volontariato, senatore Roberto Di Giovan Paolo, e monsignor Andrea Manto, direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale sanitaria della Cei. L’iniziativa intitolata “Salute e carcere: quale pastorale”, nasce nell’ambito dei lavori della Consulta dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della Sanità, per avviare un percorso di riflessione a quattro anni dal Dpcm 2008 che ha trasferito alle Regioni la competenza sanitaria sulle carceri. Tutto ciò con particolare attenzione alla dignità dei soggetti coinvolti, all’accompagnamento pastorale, al rapporto tra carcere, territorio e comunità cristiana ed a eventi di stretta attualità quali l’imminente chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Roma: l’Università di Rebibbia, Goliarda Sapienza e il carcere di ieri e di oggi Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2012 Esiste un luogo dove si viene ridotti a nuda essenza, dove è impossibile fingere di essere quello che non si è: il carcere. La scrittrice Goliarda Sapienza lo chiama il “regno della chiarezza apparente”. Qui entrò nel 1980, e così nacque L’università di Rebibbia pubblicato per la prima volta nel 1983 e ristampato ora da Einaudi. La scrittrice catanese racconta i suoi primi tre giorni di carcere. Aveva rubato dei gioielli a una ricca signora. Alcuni biografi dicono che l’attrice e scrittrice, che diventerà famosa solo dopo la morte con la pubblicazione nel 1998 de L’arte della gioia, fosse spinta da miseria, lei racconta il gesto quasi come una vendetta antiborghese, associata al desiderio di conoscere una realtà per poterla poi raccontare. Attraverso il suo corpo il lettore entra a Rebibbia. Sente gli odori. Vede le luci accese durante la notte. Impara le regole di comportamento e scopre che chi si presenta con “ cognome e nome “ha origini popolari, mentre chi usa il nome prima del cognome viene classificata come “ politica”. Era la fine degli anni di piombo. Nel 1975 era stata appena approvata la prima riforma del carcere, niente più divise ma le classi sociali, apparentemente rese omogenee dall’imprigionamento, emergono ineludibili dai modi di parlare o da ciò che si riesce a comprare al negozio interno. Fu quella stessa riforma a introdurre educatori e psicologi, allora guardati con sarcasmo dalle detenute più colte, che li considerano strumento di omologazione. Sono passati trentadue anni, ora educatori e psicologi vengono invocati. Altre riforme si sono susseguite. Ma proprio come dice una delle detenute raccontate da Goliarda Sapienza il carcere è “il regno degli archetipi eterni”. Per questo ha senso rileggere le pagine de L’università di Rebibbia, per dare volti, abitudini e comportamenti alle donne recluse, anche ai giorni nostri e far sì che non restino solo numeri, anche se impressionanti: sono 20. 890 i detenuti in più rispetto alla capienza delle carceri italiane, di questi 2. 872 sono donne, 300 più del previsto. Laura Astarita in uno speciale sulla detenzione delle donne dell’organizzazione “Ristretti Orizzonti” riprende alcune osservazioni del medico Donatella Zoia sulle principali conseguenze fisiche del carcere sulle donne: variazioni significative del ciclo mestruale, ansia, depressione, anoressia e bulimia e senso di colpa per aver abbandonato i figli. È proprio la relazione mamma-bambino il punto su cui occorre urgentemente un intervento secondo Irene Testa, segretaria dell’Associazione radicale “Il detenuto ignoto”: “Sono 54 i bambini in carcere con le madri, hanno meno di tre anni. Per evitare che vivano una vita da innocenti dietro le sbarre le ultime leggi prevedono la costruzione di Icam (Istituti a custodia attenuata per madri), ma finora ce n’è solo uno a Milano. Ovviamente pieno. E l’erogazione dei fondi è rimandata al 2014”. Chissà cosa “pagherebbe” Goliarda Sapienza per entrare in carcere oggi e chissà con quanta più rabbia lo racconterebbe. Cinema: ma in “Cesare deve morire” il dramma del carcere non si vede… di Alessandro Litta Modignani Notizie Radicali, 16 marzo 2012 Diciamolo subito, a scanso di equivoci: “Cesare deve morire” è un bellissimo film, un capolavoro meritatamente premiato con l’Orso d’Oro a Berlino. Ma da un punto di vista strettamente politico, sotto il profilo specifico della lotta radicale in corso per l’amnistia e la riforma della Giustizia, questo film non aiuta, se non alla lontana. Esso mantiene una sua indubbia utilità culturale e anche politica forse, ma in un altro senso e in un’altra direzione. La pellicola dei fratelli Taviani sta ottenendo al botteghino risultati anche superiori alle aspettative. I fattori che concorrono a questo successo di pubblico - oltre alla critica favorevole e al prestigioso premio - sono molteplici. Spicca su tutti la sorprendente bravura dei detenuti attori, che rivelano doti recitative ed espressive davvero ammirevoli. Queste caratteristiche dei reclusi impegnati, la capacità dimostrata di immedesimarsi nei personaggi shakespeariani, la loro condizione stessa di carcerati sono gli elementi del film che conquistano il cuore dello spettatore. Se si aggiungono la ben nota maestria dei due anziani registi nella fotografia e - ultimo ma non minore - la grandezza del testo di Shakespeare in un film praticamente privo di sceneggiatura, ne esce un risultato straordinario. Onore al merito alla Sacher di Nanni Moretti per avere assunto il rischio di distribuire un film “difficile”: chi ama la letteratura, il teatro e il cinema troverà in questo spettacolo la più completa soddisfazione dei sensi. Pur nella squallida cornice del carcere di Rebibbia, tuttavia, la tragica realtà del sovraffollamento, del degrado e della violazione di molti fondamentali diritti umani, nel film non appare. I detenuti sono ripresi in celle ampie da soli o al massimo con un compagno, possono dedicarsi allo studio teatrale con concentrazione e impegno, i cortili sono tetri ma spaziosi, i corridoi sempre semideserti. È doveroso spiegare che questo quadro d’insieme, tutto sommato positivo, non corrisponde al vero. Occorre ripeterlo, altrimenti lo spettatore disinformato potrebbe essere indotto a pensare che, a giudicare dal film, i detenuti italiani non se la passano poi così male, anzi hanno la possibilità di dedicarsi a un’attività ricreativa e culturale di grande interesse, ai fini rieducativi. Quest’ultimo aspetto - quello della rieducazione del reo prevista dalla Costituzione - rappresenta certo un altro titolo di merito del film: fa capire un riscatto è possibile, non è vero che chi si è macchiato di gravissimi delitti non abbia diritto alla possibilità di rifarsi una vita. Ma anche in questo caso, occorre essere consapevoli che solo un’infima minoranza, nella popolazione carceraria, accede effettivamente alla possibilità di studiare e recitare nelle condizioni ottimali rappresentate nel film. Quella che vediamo è l’eccezione, non la regola. “Cesare deve morire” ha moltissimi pregi e meriti, è consigliabile a chiunque, ma non rappresenta neanche lontanamente la realtà drammatica e tragica delle carceri italiane. Questa considerazione, sia ben chiaro, non vuole assolutamente essere una critica a chi ha concepito e realizzato il film, che non è né voleva essere un documentario. Diciamo soltanto chiaro e forte, da militanti impegnati in una difficile battaglia per l’amnistia e la giustizia, che la realtà è un’altra. Oltre alla finzione cinematografica esiste un carcere vero, dove si consumano (spesso per sempre) la salute, la dignità e molte vite umane. Immigrazione: il Garante dei detenuti; Cie Roma, egiziano suicida e sciopero fame “ospiti” Agi, 16 marzo 2012 Da ieri circa 120 ospiti maghrebini del Cie di Ponte Galeria hanno iniziato lo sciopero della fame per denunciare la morte, per suicidio, di un ex ospite del Centro, un egiziano di 30 anni. A renderlo noto è il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. La protesta è stata organizzata per denunciare le circostanze che hanno portato il giovane a togliersi la vita. La vittima, Abdou Said, era giunto a Lampedusa lo scorso luglio e da qui era stato trasferito al Cie di Ponte Galeria. A settembre l’uomo avrebbe tentato, con molti altri, la fuga ma sarebbe stato ripreso quasi immediatamente dalle forze dell’ordine. Secondo gli ospiti del Cie, l’egiziano sarebbe stato riportato al Centro con evidenti segni di percosse sul corpo e, dopo questo episodio, avrebbe progressivamente perso il controllo fino a dover essere curato, per mesi, con psicofarmaci. Uscito dal Cie alla fine di febbraio con il decreto di espulsione, Abdou Said ha trovato alloggio a Roma, nell’abitazione di un amico. Il 9 marzo scorso l’uomo si è prima ferito con una lametta, quindi si è tolto la vita gettandosi da una finestra. Quando la notizia della morte di Abdou Said è arrivata all’interno del Centro, immediata “è scattata la protesta - racconta Marroni - Attualmente la salma è custodita all’obitorio del Policlinico Umberto I perché in Italia non vi sono parenti in grado di identificarlo. L’unico congiunto in grado di farlo è un fratello, anch’egli ospitato nel Cie di Ponte Galeria, che solo questa mattina è uscito dal Centro”. “Ormai da mesi denunciamo le precarie condizioni di vita all’interno del Cie di Ponte Galeria - ha detto il Garante dei Detenuti Angiolo Marroni. Una situazione estremamente complessa e precaria dove basta poco per scatenare la miccia della protesta e della contestazione. In questo quadro, giudico grave e inquietante la vicenda denunciata in queste ore. Una situazione sulla quale invito le autorità a fare immediata chiarezza, per rispetto della memoria della persona deceduta e dell’onorabilità di quanti lavorano con coscienza e dedizione per garantire la sicurezza e condizioni di vita più umane nel Cie di Ponte Galeria”. Immigrazione: Cie Bologna; giovane tunisino muore per overdose dopo ricovero ospedale La Repubblica, 16 marzo 2012 Non ce l’ha fatta il tunisino di 21 anni ricoverato dal 4 marzo scorso al Sant’ Orsola, dopo essere stato colto da malore in seguito a un’ overdose all’interno del Cie di via Mattei. Dopo 10 giorni in terapia intensiva, il giovane è morto, probabilmente per le conseguenze dell’arresto cardiaco che lo aveva colpito dopo l’assunzione di droga. Insieme a lui era stato ricoverato, sempre per overdose, anche un altro ospite del Cie, un marocchino di 31 anni, che nei giorni scorsi si è ripreso ed è stato dimesso, facendo ritorno nella struttura di via Mattei. Immigrazione: Arci; Cie Milano vietato a giornalisti… allibiti da risposta prefettura Redattore Sociale, 16 marzo 2012 Parlano Filippo Miraglia e Ilaria Scorazzi: “Siamo davanti a un pericoloso esempio di sospensione di democrazia e di militarizzazione di una struttura detentiva in nome della prevenzione e della sicurezza”. “Sapevamo da tempo che il Cie di via Corelli è una struttura detentiva, per chi non ha commesso nessun reato, poco propensa a farsi visitare e controllare. Sapevamo da tempo che la struttura produce quotidianamente tentativi di suicidi, disperazione e rivolte, oltre a ledere e violare ripetutamente il diritto di difesa e calpestare la dignità delle persone. Ma la risposta della Prefettura del 14 marzo scorso ci rende allibiti”. Così Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci, e Ilaria Scorazzi, responsabile immigrazione di Arci Milano, sul perdurante rifiuto della prefettura di Milano nel negare l’accesso ai giornalisti nel Cie di via Corelli a Milano. “Per evitare rivolte e per ordine di sicurezza pubblica a novembre del 2010 si sequestrano i cellulari ai detenuti, il 14 marzo si vieta l’ingresso di “estranei”... e cosa altro - si chiedono i 2 responsabili dell’Arci? Siamo davanti a una censura e occultamento sistematico di una struttura e di 132 persone. Siamo davanti - anche se non è una novità - a un pericoloso esempio di sospensione di democrazia e di militarizzazione di una struttura detentiva in nome della prevenzione e della sicurezza”. “Ribadiamo, come facciamo da sempre - concludono -, l’urgenza di chiudere tutti i Cie d’Italia e l’intollerabilità della struttura di Milano, dove vengono negati quotidianamente i più elementari diritti delle persone”. Russia: tutti dietro le sbarre… pioggia di condanne per gli oppositori politici La Stampa, 16 marzo 2012 “Che voi siate maledetti”, ha gridato Olga Romanova, quando il giudice ha letto il verdetto che dichiarava suo marito, l’imprenditore Alexei Kozlov, colpevole di appropriazione indebita. Non che il verdetto fosse stato una sorpresa: Kozlov al mattino si è presentato in tribunale già con la borsa con tutto il necessario, pronto a farsi ammanettare in aula, come in effetti è successo, mentre una folla fuori scandiva “Vergogna” e cercava di impedire alle guardie di scortare l’imputato verso il cellulare che lo portava in prigione. Cinque anni di carcere, di cui 3,5 l’imprenditore li aveva già scontati, prima di venire tirato fuori dall’energia inesauribile di sua moglie, che da giornalista si è reinventata avvocato, trasformando un caso tutto sommato di ordinaria amministrazione in un simbolo dell’anti-giustizia russa. Kozlov era stato indagato per la sorte del 33% delle azioni di una società di cui, secondo l’accusa, si era appropriato in maniera illecita. L’imprenditore e sua moglie hanno sempre sostenuto che il caso era stato montato dall’ex socio di Kozlov, Vladimir Sluzker, all’epoca senatore. Business as usual, e Romanova aveva seguito la solita prassi russa per i processi di questo tipo, pagando gli inquirenti. Salvo poi ribellarsi, e passare all’offensiva, diventando difensore pubblico del marito e denunciando sia le infinite incongruenze dell’accusa che le condizioni di vita disumane nelle carceri russe. Il Butyrka-blog dei due coniugi (dal nome del tristemente famoso carcere di Mosca) ha fatto il giro del mondo, e dall’esperienza di Olga è nata “Rus Sidyashaya”, la “Russia dentro”, associazione di assistenza per le mogli di imprenditori che, ha scoperto Romanova, a decine finiscono dentro grazie a soci avidi, al sistema giudiziario corrotto e a una burocrazia che vuole il controllo di tutto quello che può essere fonte di lucro. Non detenuti politici in senso stretto, ma vittime comunque di un sistema repressivo e corrotto che non solo si presta a regolamenti di conti al servizio del miglior offerente, ma punisce chi non vuole “condividere” i frutti del proprio lavoro e ingegno. Olga è riuscita a fare il miracolo: la Corte Suprema ha prima rivisto l’iniziale condanna a 8 anni e poi rilasciato Kozlov riaprendo l’inchiesta. Il lieto fine sembrava avvicinarsi, quando i coniugi hanno avuto la malaugurata idea, un bel sabato di dicembre, di infischiarsene della prudenza (Alexei era ancora imputato e con l’obbligo di non abbandonare Mosca) e andare in piazza Bolotnaya, alla prima grande manifestazione dell’opposizione. Due settimane dopo, Olga era una delle anime del movimento di protesta, infaticabile organizzatrice, tesoriera sopra ogni sospetto, oratrice senza peli sulla lingua, che portava sul palco della politica la sua denuncia morale, parlando a nome di quella eterna “Russia dentro” che chiedeva libertà e giustizia, non solo come principi, ma come qualcosa di molto concreto. E nel frattempo gli ingranaggi del processo contro suo marito sono ripartiti, implacabili, fino a una condanna che negli ultimi giorni appariva scontata, e che in molti hanno sospettato essere anche una ritorsione contro l’attivismo politico della moglie dell’imputato. Che ha promesso al suo ritorno dal carcere, tra un anno e mezzo, di entrare in politica, stavolta a tempo pieno. Sempre se sopravviverà: qualcuno ha sussurrato a Olga che gli “organi dell’ordine” non perdonano la denuncia del loro operato, e che Kozlov rischia di venire ucciso in carcere. Sospetto che ha colpito anche il Consiglio per i diritti umani presso la presidenza (di Medvedev, almeno per ora), che ha chiesto al padrone del Cremlino di vigilare sul caso e garantire la sicurezza di Kozlov. Davanti al tribunale c’erano 200 persone, a gridare “Vergogna” e “Libertà a Kozlov”. Le ultime sedute del processo erano diventate anche un banco di prova per l’opposizione che ora sta cercando di reinventarsi nel dopo-piazza, e vede l’impegno in singoli casi e campagne, come quella di Kozlov, una delle possibili nuove forme di protesta e mobilitazione. Ma ieri i militanti in cerca di nuove cause avevano solo l’imbarazzo della scelta. In mattinata, un giudice ha inflitto 10 giorni di arresto a Serghei Udaltsov, il leader dell’ala sinistra della protesta fermato alle ultime due manifestazioni per aver cercato di formare un presidio sulla fontana di piazza Pushkin, e cinque giorni dopo, di essersi scostato con i suoi seguaci dal comizio sul Novy Arbat. Gesti che avevano spaccato il fronte d’opposizione, parte della quale accusa il giovane neo-comunista di voler andare allo scontro, spaventando la parte più moderata dei seguaci del fronte anti-putiniano. Udaltsov ha immediatamente proclamato uno sciopero della fame e della sete, e a nulla per ora è servita la richiesta di liberarlo dell’ex candidato alla presidenza e deputato Serghei Mironov. E per finire la giornata, dopo le voci da Kazan che la polizia arrestava i ragazzi che scrivevano sui muri “Putin ladro”, è arrivata la notizia che è stata fermata e incriminata un’altra punk del gruppo Pussy Riot, Irina. Altre due sue compagne sono già in carcere, per aver improvvisato un concerto anti-putiniano nella cattedrale del Cristo Redentore a Mosca. Le ragazze rischiano fino a 7 anni per “teppismo” e nonostante la mobilitazione a loro favore, il patriarcato rimane implacabile nel chiedere una punizione esemplare, a meno di un “pentimento”. Il giudice ha rifiutato la richiesta di domiciliari o cauzione nonostante le due imputate abbiano figli piccoli. Tutti dietro le sbarre, in un giorno che potrebbe sembrare un annuncio di quel “giro di vite” che, ridendo, aveva promesso Vladimir Putin dopo la sua rielezione. Oppure semplicemente il sistema è tornato a funzionare a regime, dopo che le prime proteste l’avevano costretto a una parziale retromarcia, e i manifestanti commossi riferivano di “poliziotti buoni” in piazza, alcuni addirittura con i simboli della protesta sui caschi. Al Cremlino, sempre giovedì, è stata chiusa l’ultima porta, con gli oppositori invitati da Medvedev a partecipare al gruppo di lavoro per la nuova legge sui partiti che se ne sono andati, sostenendo che tutti i loro emendamenti per facilitare l’ingresso dell’opposizione nella politica legale (sia dei liberali che della sinistra) venivano bloccati. Anche dai teleschermi è tornato a soffiare un vento gelido, con il canale Ntv che ha trasmesso una serie di “rivelazioni” sugli oppositori, con una voce metallica che li accusava di essere al soldo dell’ambasciata Usa, di aver organizzato messinscene di comparse pagate ai comizi putiniani (in realtà assoldati dagli oppositori per poi venire filmati), di stare preparando provocazioni e addirittura un omicidio illustre per accusare il regime e mobilitare la protesta, il tutto inframezzato da inquadrature di pacchi di dollari e automobili lussuose dei leader dell’opposizione. Un unico arresto sembra invece una buona notizia: a Kazan sono stati incarcerati i poliziotti accusato di aver picchiato, torturato e sodomizzato con una bottiglia di spumante un uomo che avevano fermato per una violazione dell’ordine pubblico. Il 52enne sventurato è morto in ospedale poche ore dopo, il clamore per l’accaduto ha costretto la polizia a licenziare tutti i dirigenti del distretto dove era avvenuta la tragedia, ma gli agenti accusati erano rimasti in libertà fino a ieri, quando le proteste davanti alla sede della polizia hanno costretto i loro superiori a provvedere. Albania: 436 milioni di dollari risarciti a detenuti e perseguitati politici in epoca comunista Nova, 16 marzo 2012 Lo stato albanese verserà 436 milioni di dollari come risarcimento a favore di ex detenuti e perseguitati politici nel paese durante il regime comunista: lo rivela un rapporto del governo presentato in parlamento. In tutto sono 10.997 le persone che dovrebbero beneficiare del risarcimento, che sarà versato in otto rate. Finora stata sborsata solo la prima rata, pari a poco più di 43 milioni di dollari. Secondo il ministero della Giustizia, a partire dal prossimo 26 marzo lo stato inizierà a versare la seconda rata. I primi a ricevere il risarcimento saranno le persone di et superiore a 85 anni. All’elenco degli ex perseguitati politici si aggiungeranno anche altre 200 persone che, secondo il ministero della Giustizia, sarebbero state rinchiusi in manicomi esclusivamente per motivi politici durante il regime comunista. Ucraina: Timoshenko; corte Strasburgo ordina cure adeguate per ex premier detenuta Ansa, 16 marzo 2012 La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha ordinato a Kiev di fornire cure adeguate in ospedale alla ex premier ucraina, Iulia Timoshenko, costretta a letto da mesi da forti dolori alla zona lombare della colonna vertebrale. Lo fa sapere l’avvocato della ex lady di ferro, Serghei Vlasenko, citato dall’agenzia Itar-Tass. Il ministro della Giustizia ucraino, Alexander Lavrinovich, ha reagito sostenendo che la corte di Strasburgo “non ha il compito di indicare chi debba essere sottoposto a una terapia, dove e in che modo. Se le condizioni della condannata richiedono una cura fuori del carcere - ha concluso, le leggi ucraine lo permettono”. Il servizio penitenziario ucraino finora ha rifiutato la richiesta di Timoshenko di essere curata in una clinica al di fuori del carcere. Qualche giorno fa, aveva assicurato che nel carcere di Kharkiv dove l’ex premier è rinchiusa da fine dicembre erano state “create le condizioni necessarie per la terapia riabilitativa”, ma che lei si rifiutava di sottoporsi alle cure chiedendo di essere trasferita in una clinica tedesca. Questa ipotesi è stata smentita da Vlasenko, secondo cui la sua assistita “chiede una cura che segua fedelmente quanto prescrittole dai medici tedeschi”, che l’hanno visitata in carcere un mese fa, precisando che questa terapia “è possibile solo in una clinica specializzata al di fuori del carcere”, ma non necessariamente in Germania. Turchia: Fnsi; petizione per i giornalisti detenuti Agenparl, 16 marzo 2012 “Da oggi sull’home page del sito del sindacato dei giornalisti, www.fnsi.it, è possibile firmare la petizione per liberare i giornalisti della Turchia, rinchiusi a decine nelle carceri di quel Paese. L’appello è rivolto al capo del Governo Tayyp Erdogan, perché abbia termine la vera e propria persecuzione giudiziaria contro giornalisti che hanno avuto il solo torto di fare onestamente il loro lavoro e di credere nel diritto-dovere di informare l’opinione pubblica. L’iniziativa della Fnsi, all’interno di una più vasta azione della Federazione internazionale ed europea dei giornalisti (Ifj e Efj), si propone di adottare virtualmente due colleghi rinchiusi nelle carceri turche. I loro nomi sono: Dedri Adanir, turco di origine curda, e Baha Okar, le cui storie umane e professionali potrete leggere appunto sul sito Fnsi. L’iniziativa di adozione dei due colleghi turchi, partita dalla Fnsi, sarà illustrata martedì prossimo, 20 marzo, dalle 14 in poi, nella sala dell’ex Hotel Bologna in Roma, oggi sede del Senato, nell’incontro dal titolo: “Quando la redazione va in galera. Libertà di stampa e democrazia in Turchia”. Al convegno parteciperanno: Pietro Marcenaro, Presidente Commissione Diritti Umani del Senato della Repubblica; Renate Schroeder, Direttore Efj (Federazione europea del giornalisti); Roberto Natale e Franco Siddi, Presidente e Segretario della Fnsi (Federazione Nazionale Stampa Italiana); Yasemin Taskin, corrispondente per Bbc Radio, Sabah (Qu - Turchia), Deutsche Welle; Ferda Cetin, giornalista curdo, membro del sindacato dei giornalisti francesi e rifugiato in Francia; Hevi Dilara, Direttore Ass. Europa Levante”. Così la Fnsi in una nota. Russia: videotelefono a pagamento per contattare detenuti Ansa, 16 marzo 2012 Da oggi parenti e amici di detenuti prigionieri in varie carceri russe potranno mettersi in contatto con loro con una video telefonata a pagamento. Il servizio, come riferisce il quotidiano governativo Rossiskaia Gazeta, è disponibile al telegrafo centrale di Mosca, dove è stata allestita una speciale cabina. Il servizio penitenziario ha promosso l’iniziativa per agevolare i rapporti dei detenuti con le persone più care impossibilitate per vari motivi di recarsi in visita nei carceri. India: corso intensivo a 500 volontari per lavorare nelle carceri sovraffollate di Santosh Digal Asia News, 16 marzo 2012 È un’iniziativa della Prison Ministry India (Pmi), associazione nazionale di volontariato, rivolta a sacerdoti, suore e laici. Riconosciuta dalla Conferenza episcopale indiana, la Pmi si occupa di riabilitazione di detenuti ed ex carcerati. Le 1.393 carceri dell’India soffrono un sovraffollamento del 115,1%. Più della metà dei prigionieri sono in custodia giudiziaria, in attesa di processo. Un corso di formazione rivolto a 500 sacerdoti, suore e laici di diverse diocesi dell’India, per servire come volontari a tempo pieno nelle carceri del Paese. È un’iniziativa della Prison Ministry India (Pmi), associazione nazionale riconosciuta dalla Commissione giustizia, pace e sviluppo della Conferenza episcopale indiana (Cbci). Il corso partirà il prossimo maggio a Bangalore, in Karnataka. Creata nel 1986 da una gruppo di studenti con l’idea di servire e assistere i carcerati nel loro cammino di riabilitazione, oggi la Pmi ha 850 basi sul territorio e 30 centri di riabilitazione per ex carcerati e bambini a rischio. Oltre seimila volontari lavorano con circa 370mila carcerati in tutta l’India. Nel 2011 ha organizzato 197 programmi di sensibilizzazione in parrocchie, università, scuole e altri istituti. P. Sebastian Vakumpadan, coordinatore nazionale della Pmi, spiega ad Asia News: “Invitiamo sacerdoti, suore, fratelli e laici che possono dedicarsi a tempo pieno al ministero della prigione. Facciamo loro un corso intensivo di un mese a Bangalore e in Kerala, poi li mandiamo a gruppi di due in diversi Stati dell’India, in base alla loro lingua e preferenza. Lì un responsabile Pmi li guiderà nell’anno successivo. C’è ancora tanto da fare: per cambiare l’atmosfera nelle prigioni e renderle strutture riformative; per cambiare l’atteggiamento delle persone e migliorare il reinserimento nella società degli ex detenuti”. Secondo il rapporto 2010 del National Crime Record Bureau of India, il Paese ha in tutto 1.393 strutture detentive. Uno dei problemi più gravi è il sovraffollamento: su una capacità totale di 320.450 persone, i detenuti sono 368.998 (115,1%). Il 95.9% sono uomini, il 4,1% donne. Questa situazione dipende in gran parte dai carcerati in custodia giudiziaria: 240.098 (65,1%), contro i 125.789 (34,1%) già condannati. L’Uttar Pradesh ha il numero più alto di detenuti (82.673), seguito dal Madhya Pradesh (31.318) e Bihar (29.700). Le prigioni del Chhattisgarh sono invece le più sovraffollate (237%), seguite dalle isole Andaman e Nicobar (222,7%).