Giustizia: nel carcere di San Vittore c’è la tortura… in tutta Europa è vietata www.linkiesta.it, 14 marzo 2012 Celle infestate dagli scarafaggi. Niente acqua calda, un’unica finestra ostruita dai letti, nessuna doccia ma solo una sola, minuscola, latrina. Niente carta igienica. Stanze talmente piccole che restare in piedi è impossibile. E l’intera giornata viene trascorsa sdraiati sulle brandine in un ambiente che non conosce mezze misure: freddo glaciale d’inverno e caldo infernale d’estate. Condizioni, in una parola, “disumane”. E dunque illegali. È un’istanza senza precedenti quella che, presentata ieri davanti al gip Laura Marchiondelli del Tribunale di Milano, chiede la scarcerazione di quattro ventenni tunisini, arrestati lo scorso 16 gennaio durante una rivolta al Cie di via Corelli e ora detenuti in attesa di giudizio nel carcere di San Vittore. Che si basa su uno dei principi garantiti dall’articolo 3 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo: nessun essere umano può essere sottoposto a tortura, a trattamenti inumani o degradanti. Pertanto, se questo diritto viene infranto, si viola la legge. Un “atto simbolico” o meglio “politico”, lo definiscono Eugenio Losco e Mauro Straini, i due coraggiosi legali che hanno presentato l’istanza davanti al giudice. Ma che, se dovesse essere accolta, segnerebbe un precedente importantissimo. Una relazione ricca di particolari. Che apre uno squarcio drammatico sulla condizione delle carceri italiane, e in particolare sul penitenziario di piazza Filangieri a Milano. Walid, Mohamed, Ali e Ben, tutti detenuti nel sesto raggio, descrivono nei dettagli le celle nelle quali sono rinchiusi da tre mesi: ogni detenuto deve farsi bastare uno spazio di due metri quadrati. La cella, che ospita sei persone e che in tutto misura quattro metri per tre, è occupata interamente dalle brandine. Dunque i detenuti non possono stare in piedi, tantomeno camminare. L’unica finestra presente nella stanza è bloccata da uno dei letti a castello: è impossibile aprirla e garantire un ricambio di aria. Il bagno è una latrina “alla turca”. Dove mancano acqua calda e persino carta igienica. Le docce, che si trovano in un’altra parte del carcere, sono in comune. Ma il loro orario di apertura coincide con quello dell’ora d’aria. Dunque occorre fare una scelta: o lavarsi o camminare. La cella è infestata dagli scarafaggi. E la pulizia è riservata agli stessi detenuti. Ai quali però non vengono dati stracci né detersivi per pulirla. “Un giorno - raccontano i detenuti nella relazione - si è rotto il riscaldamento nella cella 308. Non ha funzionato per otto giorni”. Il cibo, invece, viene servito tre volte al giorno. Ma mancano le posate. E allora bisogna mangiare con le mani. “Le condizioni detentive alle quali sono costretti i detenuti, principalmente a causa del sovraffollamento - spiega l’avvocato Eugenio Losco - oltre che non umane sono illegali, perché in contrasto con numerose norme nazionali e internazionali prime tra tutte quelle di cui all’articolo 27 della Costituzione e all’articolo 3 della Convenzione Europea per i diritti dell’uomo”. La Convenzione Europea, infatti, parla chiaro: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità ma devono al contrario rieducare il condannato. Il quale non può essere sottoposto a tortura ma neppure a trattamenti inumani o degradanti. “Noi, purtroppo, sappiamo che quasi certamente questa istanza verrà respinta - spiegano i legali - ma dalla nostra parte abbiamo anche un’altra carta: trasmetteremo gli atti alla Corte Costituzionale perché valuti se l’applicazione di custodia cautelare avviene in violazione di legge”. “Dopodiché, dopo aver affrontato la giustizia italiana - spiegano ancora gli avvocati - ci sarà il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. E lì, forse, avremo qualche chance in più”. I numeri sul carcere di San Vittore, del resto, parlano chiaro: secondo gli ultimi dati diffusi dalla direttrice Gloria Manzelli, con 1.570 detenuti e poco più di 100 detenute, a fronte di una capacità ricettiva totale di 900 posti, per il penitenziario di piazza Filangieri, “il sovraffollamento è ormai una disumana costante”. Giustizia: nuovo sciopero della fame a oltranza di Pannella per l’amnistia e l’indulto Tm News, 14 marzo 2012 "O si danno un obiettivo che sia intellettualmente onesto paragonare alll'amnistia e all'indulto - vasti e immediati - o noi continueremo ad oltranza la nostra lotta". Marco Pannella, dalle frequenze di Radio Radicale, ha confermato l'intenzione di intraprendere da domani uno sciopero della fame a oltranza, dopo l'ennesimo richiamo del Consiglio d'Europa: "l'ultimo dell'ultratrentannale serie sull'eccessiva durata dei processi nel nostro Paese e la necessità di misure urgenti su larga scala in grado di risolvere il problema". Una decisione, quella della nuova protesta, ha spiegato il leader Radicale, "non motivata dall'esasperazione" bensì "dalla speranza forte che riusciremo a venire a termine di questa situazione criminale che connota la realtà formale e sostanziale della giustizia italiana". "Si continua a parlare delle carceri , e nessuno mi può rimproverare di non averne parlato evidentemente , ma questo - ha sottolineato Pannella - è un modo che le istituzioni italiane, le forze politiche e gran parte del mondo "democratico" hanno per eludere in modo ignobile un altro fatto sul quale la giurisdizione europea e noi insistiamo da trent'anni. Le condanne del Consiglio d'Europa riguardano ciò che fa meno impressione quando la si enuncia: la lunghezza irragionevole dei processi" Pannella ha poi dato atto a Monti di aver sottolineato l'importanza del funzionamento della giustizia anche dal punto di vista economico: "il Presidente del Consiglio ha affermato che: "la giustizia è una delle determinanti della competitività di un'economia - e della attrattività o meno di un territorio agli investimenti, sia esteri sia nazionali - oltre che fondamentale per la vita civile". E ha citato inoltre la Commissione Europea e l'Ocse, che individuano nella giustizia civile - "nel senso soprattutto della tempestività del suo funzionamento e quindi della prontezza di disponibilità di uno strumento essenziale per il rispetto dei contratti e per lo svolgimento di una ordinata economia di mercato - una delle dimensioni della giustizia stessa particolarmente rilevanti". "Su questo stiamo sputtanando l'Europa in modo ignobile, con un riflesso di regime, di classe, antiliberale - quello che ci viene indicato come la causa di tutto è appunto il problema del Diritto, il problema dei processi; è su questo che si tenta inutilmente di mettere l'accento. Ma adesso si usa il problema delle carceri per eludere la necessità della soluzione alla immonda violazione del diritto, del processo, che riguarda più di un terzo delle famiglie italiane", ha concluso il leader radicale. Giustizia: intervista a Nicolò Amato; mi cacciarono da Dap per trattare con la mafia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 marzo 2012 “Io sono una vittima della trattativa tra lo Stato e la mafia. Sono l’agnello sacrificale fatto fuori per attuare una politica carceraria più morbida nei confronti della criminalità organizzata”. Dopo l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino che dice di essere stato raggirato, ecco che un altro protagonista istituzionale della stagione “piena di ombre” - come l’hanno definita i magistrati che indagano o hanno giudicato sulle stragi del 1992 e 1993 - si chiama fuori da qualunque patto sottobanco. Nicolò Amato, ex direttore generale degli istituti di pena rimosso il 4 giugno 1993, tra un attentato e l’altro sul continente, ha appena dato alle stampe un libro (“I giorni del dolore, la notte della ragione”, Armando Editore) per lanciare la sua denuncia: “Avessero accolto le mie proposte, anziché cacciarmi, la lotta alla criminalità non sarebbe arretrata e non ci sarebbe stato nemmeno l’oggetto dell’eventuale trattativa”. Ma scusi, avvocato Amato, non fu lei a proporre all’allora ministro della Giustizia Conso di non rinnovare il “carcere duro” per i mafiosi, nel famoso appunto del 6 marzo 1993? “Neanche per sogno. Io proponevo di sostituire l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, quello sul carcere duro appunto, con una legge che rendesse obbligatorio il controllo audio e la registrazione dei colloqui dei detenuti, per impedire sul serio le comunicazioni dei mafiosi con l’esterno. Era l’unica norma efficace, che poi fu introdotta nel 2002, 9 anni dopo la mia proposta. In più suggerivo le videoconferenze per evitare il “turismo giudiziario” dei detenuti che dovevano partecipare ai processi in giro per l’Italia, con tutto ciò che ne conseguiva in termini di sicurezza. Anche questa norma è stata introdotta nel 2001. Si sono adeguati con un po’ di ritardo ai miei consigli”. Però dopo il suo appunto di marzo sono cominciate le mancate proroghe dei “41 bis”. “Non è vero neanche questo. Il 15 marzo, cioè nove giorni dopo il famoso appunto di cui tutti parlano ma che pochi hanno letto, io ho proposto al ministro di mettere al carcere duro altri nove detenuti di mafia. Le pare l’atteggiamento di uno che non vuole il 41 bis?”. Allora perché l’altro ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, in carica fino al febbraio del 1993, continua a ripetere che lei era per l’abrogazione del carcere duro? “Le ho già spiegato che io proponevo di sostituirlo con una legge ancor più incisiva, che avrebbe eliminato la discrezionalità delle misure restrittive eliminando l’oggetto stesso dell’ipotetica trattativa: se una cosa è discrezionale si può spingere per farla rimuovere, se è obbligatoria per legge non più. Piuttosto Martelli dovrebbe spiegare come mai non aderì alla mia iniziativa di rinchiudere oltre 5.000 detenuti per reati legati alla criminalità organizzata in 121 prigioni ad hoc ed applicare il 41 bis a quegli istituti nella loro interezza”. Perché, secondo lei? Forse non le ha mai perdonato di non averla trovata la sera del 19 luglio 1992, dopo la strage che uccise Borsellino e cinque agenti di scorta? “È un’altra falsità. Io trascorsi quella notte in ufficio per organizzare il trasferimento dei detenuti sulle isole di Pianosa e dell’Asinara, come risposta immediata all’eccidio”. Ma se il decreto dovette firmarlo il ministro in persona, sul cofano di una macchina a Palermo... “Fu una richiesta precisa di Martelli, che volle compiere un gesto politico firmando personalmente l’ordine di traduzione di un gruppo di detenuti, come atto simbolico. Ma gli indicai io i cinquanta da portare via dall’Ucciardone. La verità è che io sono diventato una specie di capro espiatorio, mentre invece ora ho la prova che la mia cacciata avvenne su precisa richiesta della mafia. È stata una scoperta sconvolgente”. Di che sta parlando? “Sto parlando della lettera anonima arrivata il 17 febbraio 1993 all’allora presidente della Repubblica Scalfaro, in cui un gruppo di sedicenti parenti di reclusi al 41-bis lanciava minacce se non si fosse attenuato il regime carcerario. Una lettera spedita anche a Maurizio Costanzo, al vescovo di Firenze e al Papa: e guarda caso di lì a poco ci fu l’attentato a Costanzo, e poi quelli a Firenze e al Vicariato di Roma. All’epoca nessuno mi disse nulla, l’ho scoperta ora. Ma in quella lettera si intimava di “togliere gli squadristi al servizio del dittatore Amato”. Volevano la mia testa, insomma, e l’hanno ottenuta subito dopo le bombe contro Costanzo e gli Uffizi. Io me ne sono andato il 4 giugno, e il 26 c’è stato il primo appunto del nuovo direttore delle carceri che propone di non rinnovare una quota di 41 bis”. Come aveva già fatto lei a marzo... “Ma senza proporre le misure più incisive suggerite da me. E le indico un’altra scoperta inquietante: il 29 luglio ‘93, due giorni dopo gli attentati di Roma e Milano, il dipartimento propose di togliere dal carcere duro 19 detenuti “per non inasprire inutilmente il clima”. Le pare normale, 48 ore dopo 5 morti e non ricordo quanti feriti? Io non so se la trattativa c’è stata davvero, so che dopo la mia rimozione la politica carceraria è cambiata. Mi hanno tolto di mezzo senza darmi alcuna spiegazione, adesso ho capito perché”. Giustizia: Gasparri; da Amato clamorose conferme su resa dello Stato alla mafia Ansa, 14 marzo 2012 “L’intervista di Nicolò Amato, già direttore dell’amministrazione penitenziaria, con una intervista al Corriere della Sera offre clamorose conferme sulla vergognosa resa dello Stato alla mafia nel 1993. Quando comandavano Scalfaro, Ciampi, Mancino e altri fu cancellato il carcere duro per centinaia di boss. Amato parla della lettera di presunti parenti di mafiosi che in quel tempo avrebbe condizionato Scalfaro e altri. È una pagina di vergogna che impone processi veri a chi trattò con i boss. E furono coloro che avevano il potere politico nel ‘93, non altri. Le gravi denunce di Nicolò Amato non possono rimanere senza seguito”. Lo ha dichiarato il presidente del gruppo Pdl al Senato Maurizio Gasparri. Giustizia: Associazione Georgofili; sgomenti dopo intervista Nicolò Amato Ansa, 14 marzo 2012 “Perché non è venuto a testimoniare nelle dovute sedi invece di rendere noti certi episodi “oggi sui giornali dicendo che ne è venuto a conoscenza solo di recente?”. È quanto chiede la presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, Giovanna Maggiani Chelli, che si dice sgomenta dopo l’intervista dell’ex Direttore generale degli istituti di pena Niccolò Amato al Corriere della Sera. In una nota, ricordando che Amato non si presentò a testimoniare al processo di Firenze contro Francesco Tagliavia, poi condannato all’ergastolo per le stragi del 1993, motivando l’assenza “con un certificato medico”, Maggiani Chelli annuncia che su quanto detto dall’ex Direttore delle carceri l’Associazione si riserva di intervenire nelle dovute sedi affinché attraverso i tribunali si operi per la ricerca della verità e non con criticabili interventi sulla stampa che non mettono nessuno davanti alle proprie responsabilità”. Interventi che secondo l’Associazione sono “buoni sì per raggiungere l’opinione pubblica, ma anche per avvelenare l’esistenza di chi dalle istituzioni - conclude Maggiani Chelli - è stato troppo spesso ampiamente abbandonato e vilipeso come noi le vittime della strage di via dei Georgofili, perché sulla stampa noi non troviamo giustizia”. Parma: Corleone; dal 2009 61 detenuti in borsa lavoro, riportare carceri nel centro città Dire, 14 marzo 2012 In tre anni (dal 2009 al 2011) sono stati 61 i detenuti del carcere di via Burla a Parma che hanno intrapreso 82 percorsi di inserimento lavorativo tramite una borsa lavoro. Si tratta per la maggior parte di cittadini italiani tra i 30 e i 39 anni, che grazie a risorse regionali e del Comune per 75 mila euro complessivi nel triennio hanno trovato una attività lavorativa al di fuori della struttura penitenziaria per periodi dai 3 ai 6 mesi. In particolare il 73% ha trovato collocazione nel settore del no profit (il 90% in cooperative sociali), il 16% in aziende private, e il 7% nel settore pubblico. È il bilancio del tavolo tecnico con sede in Provincia a cui siedono anche il Comune - che esprime da statuto il presidente - le associazioni di volontariato, e la cooperazione che fa capo al Consorzio di solidarietà sociale. Ad illustrare i dati Assan Bassi del consorzio, Franco Corleone ex sottosegretario alla Giustizia, e Roberto Cavalieri, consulente del Comune per il miglioramento delle condizioni di vita carceraria in via Burla. Secondo Corleone, che evidenzia come “nei detenuti che svolgono attività lavorative il tasso di recidiva è inferiore”, è inoltre un errore la scelta adottata a Parma come in altre città di spostare le case circondariali nella periferia della città. “Per i detenuti non sottoposti al 41-bis, Parma potrebbe sperimentare delle strutture per riportare i detenuti al centro della vita comunità, creando una rete che di certo farebbe diminuire molto il pregiudizio che si ha nei confronti di chi sconta una pena”. Parma: carcere senza sapone e carta igienica, Partito Comunista lancia raccolta fondi Dire, 14 marzo 2012 Mancano carta igienica e sapone nel carcere di Parma. È la denuncia che arriva a margine della presentazione sui dati dell’inserimento lavorativo dei detenuti, a pochi giorni di distanza dalla visita del garante regionale dei detenuti Desi Bruno, che ha sottolineato l’inadeguatezza delle prestazioni sanitarie fornite. Dal Pcl (Partito comunista dei lavoratori) è già partita una raccolta di fondi senza connotazione politica per dotare la struttura di beni di prima necessità. Intanto, secondo Franco Corleone, presidente della cooperativa “La Società della ragione”, lo scorso 7 febbraio la Corte di Strasburgo avrebbe dato ragione ad un detenuto del carcere ducale che aveva denunciato l’amministrazione penitenziaria per le vessazioni a cui era stato sottoposto durante la detenzione. In sede comunitaria sarebbe stato stabilito un risarcimento per danni morali di 10 mila euro. Piacenza: il Garante; inaccettabile che solo 40 detenuti su 350 possano lavorare Dire, 14 marzo 2012 Non è di certo una relazione positiva quella presentata questo pomeriggio in commissione consiliare dal garante per i detenuti Alberto Gromi. Il carcere di Piacenza, fa sapere Gromi, è completamente sprovvisto di un progetto educativo riguardante il lavoro e la formazione professionale. Solo 40 dei 350 detenuti possono lavorare e la scuola è completamente abbandonata a se stessa. “Servono progetti e sostegni economici esterni - commenta il garante - non è di certo un periodo facile per nessuno, ma una struttura come quella di Piacenza non può tralasciare quelli che sono due aspetti fondamentali per il recupero dei detenuti”. Per quanto riguarda la piaga del sovraffollamento, con la costruzione del nuovo padiglione solo due delle sezioni rimangono interessate dal problema, risolto invece per quelle comuni. Viterbo: scarafaggi in cucina, agenti rifiutano il cibo Ansa, 14 marzo 2012 Da oggi, gli agenti di polizia penitenziaria in servizio nel carcere viterbese di Mammagialla, rifiuteranno ad oltranza i pasti forniti dalla mensa di servizio. Lo “sciopero” del pranzo e della cena è stato indetto da tutte le sigle sindacali, Ugl, Sappe, Ospe, Cgil, Cisl, Uil e Sinappe, dopo che numerosi scarafaggi sono stati trovati nell’ingresso della cucina e nella stessa sala mensa. “La situazione igienico-sanitaria dell’istituto - dice una nota congiunta dei sindacati - è ormai insostenibile e, nonostante le nostre continue richieste d’intervento rivolte alla direzione della casa circondariale e alle autorità competenti, non è cambiato nulla”. Secondo i sindacalisti, gli agenti saranno così costretti a portarsi il cibo da casa o ad acquistarlo allo spaccio, sopportando, oltre al disagio per le condizioni igienico-sanitarie, anche il costo della protesta. “Non abbiamo altra scelta - sostengono - per denunciare l’incredibile situazione in cui gli agenti sono costretti a operare, in primo luogo per il sovraffollamento dei detenuti, poi la cronica carenza di organico e, ora, per le condizioni igienico-sanitarie non più accettabili, che non mettano a rischio l’incolumità degli operatori”. Imperia: figlio Bellavista Caltagirone visita padre in carcere; detenzione è inumana Adnkronos, 14 marzo 2012 Camillo Bellavista Caltagirone ha visitato questa mattina suo padre, Francesco, nel carcere ad Imperia. “È inumano che un uomo di 75 anni, non condannato e in cura da 15 anni, sia tenuto in carcere”, ha detto Camillo Caltagirone uscendo dall’istituto penitenziario. Il figlio dell’imprenditore, arrestato il 5 marzo scorso nell’ambito di un’inchiesta sulla costruzione del porto, ha poi riferito che suo padre “ribadisce la sua totale estraneità ai fatti che gli vengono contestati, nel pieno convincimento della legittimità dell’iniziativa imprenditoriale relativa al porto di Imperia”. Camillo Bellavista Caltagirone ha detto di aver trovato il padre “determinato e forte. Questa determinatezza - ha aggiunto - gli viene dalla consapevolezza della sua totale estraneità ai fatti che gli vengono contestati”. Proprio oggi è attesa la decisione del gip Ottavio Colamartino, sulla richiesta dei domiciliari avanzata dalla difesa dell’imprenditore. Ragusa: Osapp; carceri al centro di polemiche e tentativi di fuga La Sicilia, 14 marzo 2012 Domenica scorsa un detenuto 39enne, Domenico Quaranta aveva tentato la fuga dal carcere di Contrada Pendente a Ragusa durante l’ora d’aria. È solo grazie ad un agente della Polizia penitenziaria che è stata impedita l’evasione il detenuto ha scavalcato i muri del cortile passeggi e si è incamminato nell’intercinta. Si è quindi nascosto dentro un piccolo casotto in attesa del momento opportuno per scavalcare il muro di cinta. Uno degli agenti si è però accorto che mancava un detenuto rispetto a quelli contati all’inizio dell’ora d’aria ed ha dato subito l’allarme; le immediate ricerche hanno permesso di bloccare l’uomo. Il detenuto sarà processato il prossimo 3 aprile. L’uomo, che si trova in carcere dal 2001 per i reati di strage, danneggiamento e porto abusivo di armi da guerra, è accusato di avere fatto esplodere una bombola da gas all’interno della metropolitana di Milano e di avere compiuto un attentato nel tempio della Concordia, ad Agrigento. Il trentanovenne ha confermato il tentativo di evasione, motivandolo con il fatto di attirare l’attenzione sul suo caso, perché si professa innocente per i reati per i quali la Cassazione nel 2006 ha confermato la condanna a 16 anni di reclusione. A chiedere invece di economizzare le poche risorse a disposizione è il vice segretario nazionale dell’Osapp, Domenico Nicotra, che ha rileva che nella casa circondariale di Modica ci sono 50 detenuti a fronte di un organico di 48 agenti di polizia penitenziaria. Nicotra ha chiesto al governo, in un periodo di crisi, di ridurre le spese sull’organico soprattutto in provincia di Ragusa dove, nel raggio di appena 18 chilometri, c’é l’istituto di Modica e quello del capoluogo ibleo. Se prima dunque ci si poneva il problema del sovraffollamento all’interno delle celle ora l’Osapp, organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria pone al centro il problema dei costi per mantenere le unità di polizia penitenziaria nelle carceri. Secondo Nicotra poi è troppo dispendioso tenere due carceri a pochi chilometri di distanza. Catania: causa maltempo al carcere di Bicocca pasti freddi ai detenuti La Sicilia, 14 marzo 2012 Il maltempo ha danneggiato la rete idrica del carcere di Bicocca e l’assenza di acqua potabile ha bloccato l’attività delle mensa e cibi caldi sono stati sostituiti con pasti freddi. Il nubifragio che, nei giorni scorsi, si è abbattuto su Catania ha danneggiato la rete idrica del carcere di Bicocca e l’assenza di acqua potabile ha bloccato l’attività delle mensa e cibi caldi sono stati sostituiti con pasti freddi. Lo rende noto il vice segretario nazionale del sindacato della polizia penitenzaria Osapp, Domenico Nicotra. “La situazione che si è venuta a creare a Bicocca - aggiunge il sindacalista - appesantisce ulteriormente il lavoro del personale costretto a fare doppi turni anche di dodici ore per la grave carenza e il numero elevato di malattie”. Taranto: soldi per “aggiustare” un processo; un giudice e un avvocato finiscono in carcere Tm News, 14 marzo 2012 Soldi per “aggiustare” un processo. A Taranto il giudice Pietro Vella, presidente di sezione del tribunale civile, e l’avvocato civilista Fabrizio Scarcella sono finiti in carcere con l’accusa di concorso in concussione. La vicenda nasce dalla denuncia ai carabinieri di un imprenditore al quale l’avvocato avrebbe promesso, dietro il pagamento di un lauto compenso, il buon esito del processo. L’uomo ha finto di essere d’accordo e poi ha raccontato tutto ai carabinieri. Così è scattata la trappola. Ieri mattina l’imprenditore si è presentato nello studio dell’avvocato con 4mila euro, acconto sull’importo totale chiesto da questi per “aggiustare” la causa. Ma le banconote erano state fotocopiate dai carabinieri. In più, l’imprenditore indossava un registratore ed una telecamera con la quale ha ripreso l’incontro e la consegna dei soldi. Durante il colloquio tra i due sarebbe stata registrata anche una conversazione ritenuta dagli inquirenti di grande rilievo per le indagini. Raccolte le prove, i militari si sono presentati all’appuntamento tra avvocato e giudice, anticipando l’incontro durante il quale doveva esserci lo scambio del denaro. Il gip di Potenza, tribunale competente nel caso di coinvolgimento in indagini di magistrati che operano a Taranto, nelle prossime ore deciderà se convalidare o meno l’arresto dello stesso magistrato e del legale. Ancona: “Diritto alla verità”, un incontro per ricordare Stefano Cucchi di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 14 marzo 2012 Presentazione del libro “Vorrei dirti che non eri solo” di Ilaria Cucchi scritto con Giovanni Bianconi. La saletta dedicata dalla Libreria Feltrinelli di Ancona alle presentazioni è veramente piccola per contenere tutti gli interessati, e alcuni la lasceranno anche prima della fine per raggiungerci poi al Cinema Azzurro. Cosa può spingere molte persone di tutte le età a conoscere l’autrice di un libro che parla di violenza poliziesca, omertà delle istituzioni e soprattutto della morte di suo fratello Stefano Cucchi? “Vorrei vedere un giorno queste persone che non hanno fatto il loro dovere, rispondere per ciò che hanno fatto, come non ha potuto fare Stefano, a cui è stata tolta anche la possibilità di un processo” ha detto Ilaria. Stefano Cucchi muore a 31 anni nel reparto di Medicina Protetta dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma sei giorni dopo il suo arresto. Negli ultimi sei giorni della sua breve vita gli sono stati negati tutti i diritti. È il 22 0ttobre 2009 e a quella data Stefano è la 148 persona che perde la vita in un carcere italiano. Daniela Marchili e Anna Pia Saccomandi della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia, organizzatrici assieme ad un link di associazioni impegnate nel campo della Giustizia e del disagio, introducono Ilaria attraverso le motivazioni forti di chi conosce un’alternativa alla semplice detenzione, combatte la criminalizzazione del colpevole e del comportamento deviante, e vuole aiutare la conoscenza fra operatori, familiari dei detenuti e far conoscere un’alternativa che dia speranza. Ilaria ripercorre l’agonia di Stefano e della sua famiglia, rivela la semplice assurdità di 6 giorni passati dall’arresto alla morte fra negazioni di visite, deviazioni di responsabilità di 140 persone, fra agenti di polizia penitenziaria, carabinieri e medici che hanno incontrato Stefano. Di questi nessuno lo ha inquadrato come una persona con dei diritti, ma come un problema da accantonare. Vedremo poi nel film come questa omertà che avrebbe potuto schiacciare la famiglia, è stata pian piano rivoltata contro chi ha taciuto, e a tutt’oggi avvocati, famiglia Cucchi e società civile stanno lottando per conoscere la verità dalla bocca di chi ha conosciuto Stefano in quei giorni. Al termine della rielaborazione del suo dramma Ilaria ha risposto alle domande, che sono andate dall’impunità dello Stato rilanciata da Genova 2001, Bolzaneto e Diaz, all’eco del caso Cucchi conosciuto dietro le sbarre da alcuni detenuti semiliberi presenti in sala. Il contrasto vissuto da Ilaria è infatti quello fra la legge e l’ordine che erano i punti fermi della sua vita, e la mancanza di senso del dovere di tutti i funzionari che hanno decretato la morte di Stefano. Una speranza ci è stata data dagli alunni del Liceo Classico Rinaldini di Ancona che sono venuti alla presentazione ed hanno con pazienza, rispetto e professionalità intervistato Ilaria e Simona, produttrice del film. 148: mostri dell’inerzia Siamo al Cinema Azzurro, Ancona, specializzato in proiezioni di qualità. Davanti ad un pubblico (200 persone) che merita un caldo ringraziamento è più facile spiegare che oltre alla diffusione del film e del libro, si vuole rafforzare la rete esistente ad Ancona e nelle Marche nel campo del disagio e della giustizia. Centri di ascolto, comunità, sportelli che funzionano e potrebbero funzionare di più, soggetti che hanno contribuito a leggi sulle dipendenze, sul carcere, sulla violenza sulla donna e sul comportamento sessuale: da qui gli organizzatori vogliono ripartire, con chi è presente, molti detenuti semiliberi ed ex detenuti seguiti dal lavoro degli operatori ed inseriti in progetti di inserimento, e chi ci sarà. La prima cosa che colpisce del documentario è la dolcezza del padre di Stefano e Ilaria, Giovanni, che sembra un omone rispetto alla fragilità di Stefano. Cammina per le strade di Tor Pignattara, Roma, fa rilevare che Stefano dimostrava tre anni in meno di media, quindi quando i suoi amici si comportavano da undicenni lui era costretto a fare da mascotte nel gruppo per essere ammesso, oppure le prendeva di santa ragione. Tornerà sull’argomento nelle lettere alla sorella Ilaria, dichiarando che s’era costretto ad ottenere le cose che voleva solo rubando, perché non aveva voluto farne a meno. Suo padre non amava Tor Pignattara, mentre Stefano si, nei suoi difetti e pregi, come nella sua vita e persona. Il primo brivido lo riceviamo nell’udienza, quando la sua voce è debole, confusa, e ripete meccanicamente date ed indirizzo quando viene ripreso dalla cancelliera. 22-10-2009 la data della morte. Dalle parole di Ilaria emana l’immagine di una vita considerata un numero da cancellare. Così dalle prime frasi pronunciate dell’avvocato della famiglia, Fabio Anselmo, che punta il dito contro un tribunale che lo ha ignorato, non lo ha guardato in faccia, senza di conseguenza accorgersi del suo stato di salute. Come in un gioco assurdo, invece di garantire la vita a Stefano lo si è iniziato ad ammazzare, senza mai fermarsi. Nasce la reazione della famiglia, nel racconto dell’avvocato Fabio Anselmo e di Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A buon diritto”. Si passa dal dolore strutturato della famiglia, alla rabbia che chiede giustizia, e per prima cosa decide di esporre quelle immagini tremende di Stefano pestato, le stesse che Ilaria sostiene lui non avrebbe mostrato potendo scegliere. Da quel momento in poi si smette di parlare di morte cadendo per le scale, di morte perché un drogato non si nutriva (Ministro Calderoli). A chiudere con queste falsità ci pensa la prima pagina di Liberazione, che aveva già mostrato Aldrovandi ucciso, perché si smettesse di parlare di droga. L’immagine di Stefano picchiato squarcia le versioni ufficiali. Ancora la disattenzione in carcere: Stefano diviene albanese e senza fissa dimora. Più segui il documentario, ed a volte viene voglia di ripetersi, più si ha l’impressione di una consuetudine dalla quale non si può evadere, molto ma molto simile a quella dei carceri, della giustizia tutta. Quando si entra in un ospedale si perde già in potenza. Il solo perdere la posizione eretta lo causa. A maggior ragione se si è malati e privati dalla libertà. La metafora della giustizia ridotta e della libertà vigilata, purtroppo, è la metafora di questo film, ed è per questo che a ragione i difensori riuniscono le cause di Uva, Aldrovandi, Cucchi, e altri, nella causa dello Stato di non diritto. Finisce il documentario di Maurizio Cartolano, prodotto da Simona Banchi per Ambragroup. Sono presenti ora davanti allo schermo vuoto, con Fabio Anselmo, legale delle famiglie, Simona Cardinaletti della Coop La Gemma, già psicologa carceraria e “tutor” di molti di noi nei corsi di preparazione all’ingresso come volontari nelle carceri. Così ci ha saputi unire Giacomo Curzi, avvocato penalista, in rappresentanza del lavoro di Anselmo presso il Tribunale di Ancona, per far si che la battaglia per sollevare la pietra dell’omertà non sia confinata in una o un’altra città. Rispondiamo a turno alle domande del pubblico: quelle meravigliate, al limite dello scandalo, poste da una donna cilena, che si chiede se l’Italia sia una democrazia, lei che di dittature se ne intende. Si può arrivare, per tutelare i detenuti e i fermati, all’obbligo di cura? come è stato pensato il documentario? quali sono i servizi per nuovi giunti un carcere? Da ascoltare tutte le domande e le risposte, puntualizziamo però la precisazione di Ilaria. “È giusto rivolgersi agli avvocati e non demordere, non l’ho fatto solo io. Ma contano molto le qualità e le volontà degli avvocati”. Affinché questa bellissima occasione di informazione e conoscenza reciproca risponda in modo positivo anche a questa affermazione di Ilaria, servono lavoro, convinzione, perseveranza: la verità è un diritto che si acquisisce quando si nasce, e non scade mai. A giovedì, È stato morto un ragazzo. Roma: Festa del papà nel carcere di Civitavecchia con la Coop “I Naviganti” Roma One, 14 marzo 2012 Ancora un’importante iniziativa della cooperativa “I Naviganti” di Cassino, per rendere il carcere più vivibile e non solo luogo in cui scontare il proprio debito con la giustizia. Questa volta “I Naviganti” hanno traghettato la loro iniziativa in favore dei detenuti del carcere di Civitavecchia. Sabato 17 marzo, in occasione della vicina Festa del papà, nella Casa Circondariale Nuovo Complesso di Civitavecchia, il sodalizio cassinate ha organizzato con l’animazione Il Biancoconiglio una giornata dedicata totalmente ai papà detenuti ed ai loro figli. “Sono ormai molti le carceri della Regione Lazio che ci chiamano per portare avanti progetti di animazione sociale - afferma Simona Di Mambro, presidente della cooperativa, questo ci riempie d’orgoglio perché da oltre due anni, grazie anche all’ottimo rapporto lavorativo instaurato con l’ufficio del Garante dei detenuti della Regione Lazio, abbiamo potuto conoscere realtà molto particolari a cui non sempre è permesso accedere”. “Quello che ci preme sottolineare - continua il responsabile del progetto Carmine Mernini - è lo scopo di progetti come quello avviato qui a Civitavecchia, cercare di rendere meno traumatico l’incontro tra i genitori e i figli facendo vivere almeno per una giornata una sorta di “normalità”. Anche il carcere di Civitavecchia, come già quello di Latina, Settore femminile di alta sicurezza, e quello di Rebibbia Nuovo complesso Braccio di massima sicurezza, vedranno la realizzazione di progetti con la cooperativa i Naviganti per tutto l’anno. Certo è una goccia nel “mare delle problematiche” che il sistema penitenziario nazionale deve affrontare, ma sicuramente la visione di un carcere “a misura di detenuto” è un primo passo verso il reinserimento sociale attraverso lo sviluppo delle affettività familiari. Roma: con “Rebibbia on the wall” l’arte contemporanea arriva nel braccio Alta sicurezza Adnkronos, 14 marzo 2012 Un progetto di arte contemporanea nel braccio di Alta Sicurezza del carcere romano di Rebibbia. “Rebibbia on the wall”, presentato oggi a Palazzo Valentini, è uno dei progetti vincitori del bando “Iniziative Creative” promosso dal Dipartimento Innovazione e Impresa dell’amministrazione provinciale e ideato da Walls, un’associazione che da sempre si impegna per la “diffusione dell’arte contemporanea nel tessuto urbano”. “Rebibbia on the Wall” ha coinvolto 15 detenuti della sezione di Alta Sicurezza del carcere della Capitale che, fra il 2010 e il 2011, sotto la supervisione dell’artista Agostino Iacurci, hanno realizzato due murales artistici negli spazi destinati alla loro “ora d’aria”. Lo stesso Presidente Zingaretti ha affermato che l’esperienza è stata molto positiva perché in Italia anche all’interno delle carceri “è necessario investire sul capitale umano e cercare nella persona un valore aggiunto per la comunità”. Le opere, portate a termine anche grazie alla collaborazione del Circolo “La Rondine”, un’associazione fondata proprio all’interno del carcere, hanno rappresentato un modo per impegnare in maniera diversa i detenuti, e, come ha affermato Angiolo Marroni, Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio, per “rendere il carcere più vivibile” perché “il carcere deve essere considerato una parte della città”. È intervenuto alla presentazione anche il direttore della Casa Circondariale di Rebibbia Carmelo Cantone che si è detto molto soddisfatto del progetto perché, come dice, “proprio in questi luoghi di confine si devono elaborare nuove forme d’arte”. Anche Simone Pallotta, curatore artistico del progetto, ha affermato che questa è stata “una possibilità importante per chi si trova in una condizione dove lo spazio reale è limitato”. E infatti, come ha avuto modo di dichiarare anche Cosimo Rega, fondatore del circolo “La Rondine”, dentro al carcere l’arte e la cultura permettono un “ritorno al presente troppo spesso cancellato da pensieri fissi sul passato e sul futuro”. Volterra: la denuncia di Armando Punzo; fare teatro in carcere, tra boicottaggi e silenzi Il Tirreno, 14 marzo 2012 Se la prende con una direzione dei carcere che definisce “poco illuminata e ancor meno lungimirante”. Si scaglia contro quella che lui chiama “piccolissima schiera di volterrani e la provveditrice regionale contrari al progetto”. E per questo il Don Chisciotte del Teatro Stabile nel carcere di Volterra, Armando Punzo, scrive al presidente della Regione che a fine anno fece visita al Maschio elogiando il progetto e tutta l’esperienza della Compagnia della Fortezza come modello nazionale e internazionale. Ma il padre dei “detenuti-attori” da Volterra, lancia l’ allarme: i 25 anni di lavoro della Compagnia potrebbero essere in pericolo. “Non sarà piacevole ma sarà necessario fare i nomi dei responsabili diretti e degli ignavi che stanno sostenendo questo insensato tentativo di annullamento della Compagnia”. Sono parole forti le sue. Tutte motivate: “Il 21 dicembre abbiamo consegnato il progetto architettonico definitivo del Teatro Stabile, così come ci era stato chiesto, alla direttrice del Maschio. Doveva essere presentato alla Casa Ammende, ma non abbiamo più saputo niente. Una modalità scorretta, tipicamente carceraria, da quel momento si sono interrotte tutte le comunicazioni”. E conclude: “Ormai le cene in carcere a Volterra sono l’unico interesse di una direzione poco illuminata. L’esperienza più importante di teatro in carcere in Europa non deve avere un futuro”. Immigrazione: la Garante Desi Bruno; necessario intervento legislativo sullo “jus soli” Ristretti Orizzonti, 14 marzo 2012 La Garante delle persone private sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale per la Regione Emilia-Romagna, avvocato Desi Bruno, durante la visita effettuata ieri al Cie di Modena ha incontrato Andrea e Senad, i fratelli di 23 e 24 anni, con modesti precedenti penali, ristretti presso quella struttura perché trovati senza passaporto né permesso di soggiorno. I ragazzi sono nati in Italia, da genitori originari della Bosnia, la madre stessa è venuta in Italia da bambina, all’età di cinque anni. Vivono da sempre a Sassuolo e in quel paese non hanno mai messo piede, non conoscono neppure la lingua. In contatto con il territorio fin da ragazzi, riferiscono di non essere mai stati informati che avrebbero potuto essere naturalizzati italiani entro la maggiore età. Il Garante ha trovato i due giovani “molto spaventati” per l’incerto destino che li attende in attesa di sapere se la Bosnia, rispondendo alla richiesta del Cie, riconoscerà loro la cittadinanza. Uno dei ragazzi è anche padre di due figli piccoli, uno di 2 anni e uno di 8 mesi. “La vicenda - afferma Bruno - è emblematica e restituisce immediata concretezza alla pressante necessità più volte indicata dal capo dello Stato di intervenire per modificare la legge sulla cittadinanza affrontando il problema di quanti nascono nel nostro Paese da genitori con altra nazionalità e vi vivono stabilmente. Se saranno riconosciuti come cittadini bosniaci saranno espulsi e inviati in un Paese che non conoscono, dove non hanno riferimenti né familiari né altri. Se dovessero essere dichiarati inespellibili perché la Bosnia non li riconosce, Andrea e Senad - afferma Bruno - verranno rilasciati, ma rischiano di tornare dentro nel caso di ulteriori procedimenti di identificazione, dando avvio ad un tragico dentro-fuori che già in altri casi ha portato stranieri al limite della depressione. Una difficile strada di uscita rimane quella di una richiesta di permesso di soggiorno per motivi umanitari, in attesa di un evidente e necessario intervento legislativo sullo “jus soli”. Immigrazione: vietato ingresso giornalista nel Cie di Milano, protestano Arci e Antigone Redattore Sociale, 14 marzo 2012 Nel Cie di via Corelli a Milano la situazione è talmente tesa e drammatica che nessuno può visitarlo. È la Prefettura ad ammetterlo, tanto da metterlo nero su bianco nella risposta inviata a Ilaria Sesana, giornalista freelance, che per Terre di mezzo-street magazine ha chiesto più volte di entrare nella struttura. “A seguito di disordini avvenuti di recente, presenta alcune parti inagibili, che hanno reso necessario l’avvio di lavori di ristrutturazione”, premette la Prefettura, che poi nega alla giornalista l’accesso al Cie per ragioni di sicurezza: “Il Ministero dell’Interno, interessato al riguardo da questa Prefettura, ha perciò espresso parere che, per prevenire il ripetersi di nuovi episodi, per il momento non possa essere consentito l’ingresso nella struttura ad estranei”. La presenza di una giornalista rappresenterebbe quindi la scintilla che fa scoppiare una nuova rivolta. Una motivazione che ribalta la logica dei fatti: i reclusi (circa 90) si ribellano per le difficili condizioni di vita all’interno del Cie di via Corelli e non perché una giornalista vuole documentarle. L’ultima rivolta è avvenuta il 15 gennaio, mentre nel 2011 è accaduto altre due volte. Inoltre il 21 marzo tre reclusi hanno tentato di suicidarsi ingerendo detersivo e altri due cercando di impiccarsi. Arci: Corelli, mostro che mangia persone Per l’associazione la risposta della Prefettura che ha negato a “Terre di mezzo” l’accesso al Cie conferma che “c’è un’emergenza democratica”. “Corelli è un mostro che mangia le persone”. Per Ilaria Scovazzi, di Arci Milano, la risposta della Prefettura che ha negato a “Terre di mezzo” l’accesso al Cie, conferma “quello che da tempo denunciamo: in quella struttura c’è un’emergenza democratica”. L’associazione ha anche istituito un numero verde per raccogliere le denunce di maltrattamenti subiti dai reclusi. “Fino a giugno abbiamo ricevuto le telefonate, poi probabilmente qualcuno ha staccato gli adesivi che avevamo messo al Cie e da allora c’è stato solo il silenzio. Non vogliono che qualcuno controlli”. I Cie non sono delle carceri e i reclusi dovrebbero avere solo l’obbligo di non allontanarsi. “Eppure subiscono un regime durissimo - sottolinea Ilaria Scovazzi. Gli viene sequestrato all’entrata il cellulare e non possono mettersi in contatto con nessuno. Ci sono delle cabine telefoniche, ma di fatto sono isolati dai loro familiari e dal mondo. Molti sono ex detenuti, in attesa di essere espulsi: hanno scontato la loro pena, ma vengono privati della libertà per altri 18 mesi. Per questo c’è così tanta tensione”. Comunicato stampa dell’Associazione Antigone Lombardia Abbiamo appena appreso dall’agenzia di stampa “Redattore Sociale” il diniego da parte della Prefettura all’ingresso di una giornalista all’interno del Cie di Milano - via Corelli, motivato da presunti lavori di ristrutturazione in corso conseguenti a recenti episodi di rivolta, e al fatto che “per prevenire il ripetersi di nuovi episodi, per il momento non possa essere consentito l’ingresso nella struttura ad estranei”. Riteniamo di particolare gravità che la Prefettura di Milano dichiari, nero su bianco, che non è attualmente in grado di garantire l’ordine pubblico e la sicurezza all’interno di una porzione del territorio della città e che il mero ingresso di estranei possa essere fonte di episodi di rivolta da parte delle persone trattenute all’interno della struttura. Ricordiamo che i Cie non sono carceri e che il trattenimento di una persona nel Cie è motivato esclusivamente dalla violazione della normativa sull’immigrazione, non da accuse di aver commesso reati penali; l’unica limitazione nella libertà personale delle persone ristrette nel Cie dovrebbe consistere nell’impedimento ad allontanarsi in attesa della prevista espulsione dal territorio nazionale. Chiediamo Ministero degli Interni e alla Prefettura di Milano di fornire immediatamente e pubblicamente una spiegazione di questa situazione. Chiediamo inoltre alle autorità cittadine e in particolare al Sindaco di Milano, all’assessore alla Sicurezza e coesione sociale, all’assessore alle Politiche sociali, al Presidente e ai membri della commissione Sicurezza e coesione sociale del Consiglio comunale di intervenire immediatamente per verificare quali siano le effettive condizioni di trattenimento nella struttura di via Corelli e per far sì che vengano immediatamente ripristinate le condizioni ordinarie di sicurezza all’interno del Cie nel pieno rispetto dei diritti e delle garanzie delle persone trattenute. Immigrazione: sesso per permessi soggiorno, per poliziotto arrestato donne consenzienti Ansa, 14 marzo 2012 Le donne straniere con cui Claudio D’Orazi ha avuto rapporti sessuali erano consenzienti. Così si è difeso nell’interrogatorio di garanzia in carcere, davanti al Gip Pasquale Gianniti, Giuseppe D’Orazi, l’agente che lavorava all’ufficio immigrazione della questura di Bologna, arrestato ieri per concussione sessuale continuata. Per l’accusa, portata avanti dalla squadra Mobile della Polizia, coordinata dai pm Valter Giovannini e Lorenzo Gestri, l’assistente capo addetto alle verifiche domiciliari utilizzava il proprio ruolo per ricattare donne straniere e ottenere da loro favori sessuali in cambio di facilitazioni sul rilascio o sul rinnovo dei documenti di soggiorno. Sono accertati contatti con quattro straniere, dieci episodi. Nell’interrogatorio, secondo quanto si apprende, l’indagato ha sostenuto di non avere mai esercitato forme di influenza nei confronti delle donne, legata ad una possibilità di ingerirsi nei procedimenti amministrativi. “Ha risposto a tutto - ha detto l’avvocato Gabriele Bordoni, che ne ha assunto la difesa - dando spiegazioni molto dettagliate, rimandando a particolari”. Il legale non ha chiesto i domiciliari durante l’interrogatorio ed è stato confermato il carcere. Medio Oriente: Save The Children; 8mila ragazzini palestinesi arrestati da forze israeliane Ansa, 14 marzo 2012 Save The Children denuncia il dramma dei quasi 8.000 ragazzini palestinesi arrestati dalle forze israeliane. Più del 90% dei bambini detenuti soffrirebbe di Sidrome da Stress Post Traumatico, secondo un rapporto pubblicato lunedì dall’associazione nata per difendere i diritti dei più piccoli. La maggior parte di loro manifesta crisi d’ansia, fa la pipì a letto e soffre d’incubi, ma è comprensibile per bambini strappati alle loro famiglie e rinchiusi in carceri per adulti e trattati come terroristi nemici. Il 98% di loro ha subito violenze fisiche o verbali da parte dei soldati israeliani. I dati si riferiscono a un’indagine su 292 bambini rilasciati dalle carceri israeliane. L’anno scorso ne sono stati arrestati 2.301, l’anno precedente 3.407 e a oggi ne restano 170 nelle carceri israeliane, a segnalare un’abbondante uso della pratica dell’arresto e della detenzione prima del giudizio a scopo punitivo. Punizioni che lasceranno tracce su quei bambini per sempre, come accadrebbe a qualsiasi bambino trattenuto giorni o settimane o mesi per aver tirato un sasso ai soldati che loro vedono come occupanti che opprime sempre di più genitori, parenti e amici appoggiandosi unicamente al diritto del più forte. Bambini strappati nel sonno dalle loro case o arrestati per strada, bambini di dodici anni processati di fronte alle corti militari, bambini oggetto di pesanti interrogatori volti ad ottenere informazioni o confessioni. Anche questa è una delle facce dell’occupazione della Palestina, così diversa dalla favole del “esercito più morale del mondo” che mantiene la sicurezza in una terra di barbari. Anche se loro si difendono così, per bocca di Arye Shalitar, un portavoce militare israeliano: “Sembra che l’Idf (Israel Defence Forces) sia un organo impegnato ad arrestare bambini, ma la gente non capisce che questi ragazzi sono molto violenti. Non giocano, non sono calciatori, non sono innocenti, sono solo un pericolo per la vita degli israeliani”. Siria: Amnesty; aumentano le torture e i maltrattamenti ai detenuti di Alessia Perreca La Repubblica, 14 marzo 2012 Storie diverse, racconti agghiaccianti. C’è quella di un ex detenuto che dice di aver più volte considerato l’idea di suicidarsi piuttosto che di ritrovarsi nelle mani delle forze di sicurezza siriane ed essere oggetto di soprusi e continue torture. Storie di donne, uomini, ma anche bambini picchiati, maltratti e sottoposti ad angherie non solamente tra le quattro mura di una cella, ma anche durante il trasporto nei centri di detenzione. Un nuovo rapporto diffuso da Amnesty International denuncia l’incubo delle torture sistematiche vissute dalle persone vittime degli arresti di massa nel corso della rivolta siriana. E secondo l’organizzazione per i diritti umani, l’ampiezza delle violenze ha raggiunto un livello che non si vedeva da anni e che fa riemergere il periodo nero degli Settanta e Ottanta. I 31 modi per torturare. Il rapporto di Amnesty dal titolo “Volevo morire” e rilasciato un giorno prima dell’anniversario dell’inizio delle repressioni di massa nel paese contro il governo del presidente Bashar al-Assad, documenta 31 metodi di tortura e maltrattamenti praticati dalle forze di sicurezza e dalle “Shabiha”, le bande armate filo-governative. Modalità descritte dai testimoni e vittime incontrati dall’organizzazione in Giordania, nel Febbraio di quest’anno: una decina i siriani scappati dalla violenza, tra cui 25 persone che hanno denunciato le violenze subite. Il rapporto odierno comprende 19 di queste testimonianze. Oltre la metà dei casi riguarda la provincia di Dera, dove vennero uccisi i primi manifestanti nel marzo 2011. Gli altri casi sono relativi alle provincie di Damasco, Rif Dimashq, Hama, Homs, Latakia, al-Suwayda e Tartus. Il blocco di Russia e Cina. Le azioni delle forze di sicurezza siriane sono state ampiamente condannate da molti membri della comunità internazionale, ma a nulla sono valse per arginare l’ondata di proteste. Dal 4 Febbraio scorso in una bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si esprimeva una grave “preoccupazione per il deterioramento della situazione in Siria” e si chiedeva di cessare ogni forma di violenza. E anche Amnesty ha ripetutamente chiesto che la situazione della Siria venisse deferita al procuratore della Corte penale internazionale, ma fattori politici hanno finora impedito che ciò accadesse. La Russia e la Cina hanno bloccato due volte le proposte di risoluzione del Consiglio di sicurezza che neanche facevano riferimento alla Corte. I numeri parlano chiaro: sono 2.493 civili e 1.345 i membri delle forze dell’ordine uccisi dall’inizio dei disordini. Solo 632 ad Homs, terza città della Siria. Lo scopo delle sevizie. Le torture - sostiene Amnesty - sembrano destinate a punire, ad intimidire, a “confessare” e forse ad inviare un avvertimento. In quasi tutti i casi i detenuti sono tenuti in prigionie segrete, spesso per lunghi periodi, senza che le famiglie potessero avere accesso. In decine di casi le vittime hanno dichiarato di essere state picchiate al momento dell’arresto: al pestaggio è proseguito “l’Haflet al-Istiqbal” (Festa di benvenuto), all’arrivo nel centro di detenzione, con pugni e percosse con bastoni, calci dei fucili, fruste e cavi di corda intrecciata. I nuovi “arrivati” venivano solitamente lasciati in mutande ed esposti anche per 24 ore alle intemperie nel cortile del carcere. I momenti peggiori. Il momento di maggior pericolo era tuttavia quello dell’interrogatorio: parecchi sopravvissuti alla tortura hanno descritto ad Amnesty la tecnica del “Dulab (“pneumatico”)”: il detenuto veniva infilato dentro a uno pneumatico da camion, spesso sospeso da terra, e picchiato, anche con cavi e bastoni. Oppure attraverso la tecnica dello “Shabeh”: il detenuto era appeso a un gancio in modo tale che le dita dei piedi toccassero a malapena il pavimento. Tra le altre forme di sospensione c’era anche quella della crocifissione. Costretti ad assistere agli stupri. E poi ancora altri metodi come le scosse elettriche, le bruciature di sigaretta fino allo stupro. Nel corso dell’ultimo anno paiono essere diventate più comuni anche le torture basate sulla violenza sessuale. Tareq ha riferito ad Amnesty International che, nel luglio 2011, mentre era detenuto nella sede dei servizi segreti militari di Kafr Sousseh, a Damasco, è stato costretto ad assistere allo stupro di un altro prigioniero, Khalid. Molti degli intervistati in Giordania hanno detto che era abbastanza comune ricevere colpi nella regione genitale con i manganelli. Un uomo ha mostrato lesioni alla gamba e alla caviglia che ha detto sono stati causati da una pinza. Crimini contro l’umanità. Per Amnesty International, le testimonianze dei sopravvissuti costituiscono un’ulteriore prova dei crimini contro l’umanità commessi in Siria. E non essendo riuscito il tentativo di coinvolgere la Corte, l’organizzazione ha chiesto al Consiglio Onu dei diritti umani di prorogare il mandato della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulla Siria e rafforzare la sua capacità di effettuare monitoraggio, documentare e denunciare in vista della possibile incriminazione dei responsabili di crimini di diritto internazionale e altre gravi violazioni dei diritti umani. Nigeria: morto in carcere capo dei rapitori di Lamolinara Asca, 14 marzo 2012 Abu Mohammed, l’uomo ritenuto responsabile dell’organizzazione del sequestro dell’ingegnere britannico Chris McManus e del suo collega italiano Franco Lamolinara, è morto mentre era detenuto in seguito alle ferite riportate durante il raid. Il decesso sarebbe avvenuto il 9 marzo, il giorno dopo il blitz costato la vita anche ai due ostaggi, ma la polizia nigeriana lo ha reso noto solo oggi con un comunicato. Iraq: ergastolo per tre seguaci del vicepresidente al Hashimi accusati di terrorismo Nova, 14 marzo 2012 Un tribunale penale della città di Dhi Qar, nell’Iraq meridionale, ha condannato al carcere a vita tre seguaci di Tareq al Hashimi, vicepresidente della repubblica su cui pende un mandato di cattura per reati legati al terrorismo. Lo riferisce il quotidiano “al Sabah”. I tre sono stati riconosciuti colpevoli di “possesso illegale di armi e pianificazione di attentati terroristici” nel capoluogo della provincia, Nassiriya. I tre imputati hanno ammesso le loro responsabilità di fronte al tribunale.