Per capire cos’è davvero il carcere Il Mattino di Padova, 12 marzo 2012 Quando, nei mesi scorsi, il magistrato di Sorveglianza di Padova, Marcello Bortolato, ha accompagnato Gip, Gup, Pubblici ministeri, giudici minorili a visitare le carceri, lo ha fatto con uno scopo chiaro: “Essendo magistrati ci occupiamo di carcere, mandiamo le persone in carcere e qualche volta le facciamo uscire, per questo abbiamo la volontà di capire esattamente che cosa è il carcere e per fare questo vogliamo provare a vederlo da dentro”. È proprio dalia constatazione che spesso si parla di carcere, si condanna al carcere e si chiedono a gran voce più anni di carcere senza conoscere questa realtà, e senza conoscere chi ci vive dentro, che nascono alcune riflessioni sul processo, la prima del magistrato di Sorveglianza, le altre di due persone detenute. Il Giudice. Importante valutare persona e movente Tra le varie riforme che dobbiamo chiedere c’è quella di distinguere il giudice del fatto dal giudice della pena. Questo è un obiettivo di civiltà che noi dobbiamo raggiungere. In certi Paesi c’è il Giudice che decide se tizio ha commesso quel reato in base alle prove, e basta, il suo lavoro si ferma lì. Poi c’è un Giudice che dice “per quel fatto ti do quella pena, ed allora a quel punto vedo chi sei”. Cioè prima ho scattato la fotografia (è un’immagine bella che usa sempre come metafora il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, dottor Giovanni Maria Pavarin), c’è il giudice che scatta la fotografia e poi c’è il giudice che la guarda e vede che cosa c’è dietro la fotografia, perché la pena a mio modo di vedere dovrebbe essere adeguata alla persona più che al fatto, per poter soddisfare il fine rieducativo dell’art. 27 della Costituzione. Ecco perché per lo stesso chilo di eroina uno prende 12 anni ed un altro 6: siamo tutti diversi, giudici e imputati. Anche noi giudici siamo diversi, c’è quello “più cattivo” e quello “più buono”, non c’è niente da fare, siamo uomini e la giustizia è amministrata da uomini. Un imputato può essere punito più gravemente per lo stesso fatto perché la persona è diversa e quindi la pena, se irrogata dopo che si è conosciuta la persona, forse è più giusta. Il processo attuale, in Italia, ti consente poco di conoscere la persona, non sappiamo nulla di cosa c’è dietro quella fotografia. Guardate anche il discorso del movente, noi tecnici ripetiamo spesso che il movente è irrilevante; ho fatto anch’io il giudice della cognizione ed anche io facevo le sentenze: il movente era irrilevante. Adesso che faccio il giudice di Sorveglianza, dico “Il movente è la cosa più importante per capire perché uno ha commesso un delitto, non è affatto irrilevante!”. Forse conta poco per “scattare la foto”: non mi interessa perché hai fatto la rapina, a me interessa sapere se sei stato proprio tu a compierla. Ma il giudice della pena deve invece sapere perché hai fatto quella rapina. Deve sapere come sei arrivato a quella rapina e attraverso quale strada; attenzione però, non c’entra nulla il buonismo, il relativismo, il determinismo sociale perché il reato è sempre il frutto di una scelta personale, c’è sempre un momento nel quale si sceglie, ci si arriva certo attraverso una serie di meccanismi, ma c’è sempre un momento in cui ci si potrebbe fermare prima ed invece si oltrepassa quel limite. Marcello Bortolato, magistrato di Sorveglianza La domanda. Perché al processo non ho potuto parlare? Sono entrato in carcere nel 2008; non conoscevo nulla della galera, avevo sempre avuto una vita regolare, con una attività mia, ma poi ho risposto all’aggressione di un gruppo di miei connazionali, che chiedeva il pizzo a me e alla mia famiglia, e la storia è finita tragicamente. Una volta in carcere, ho parlato con gli altri detenuti del mio reato, spiegando loro come erano andate le cose: tutti mi davano coraggio, mi dicevano di non pensare al peggio e di non preoccuparmi, “vedrai che le cose cambieranno quando andrai al processo”. L’accusa però era molto pesante, “omicidio volontario premeditato”. Mi dicevano che c’erano da considerare alcuni elementi a nostro favore, e denunce che avevamo fatto ai carabinieri, perché quella persona non ci lasciava in pace, era arrivata anche a scontri fisici, lesioni e ferite e a dimostrarlo c’erano i rapporti ospedalieri. I miei compagni di cella mi spiegavano che non dovevo stare così in ansia, perché qui in Italia fanno le indagini analizzando tutto e tutti, quindi avrebbero interrogato anche il datore di lavoro, le persone che conoscevo, i locali che frequentavo. Al processo sono stato condotto in tribunale, e qui prima di tutti ha parlato il P.M. e dopo la difesa, attraverso la voce di chi mi rappresentava, l’avvocato dì fiducia. io mi aspettavo di poter dire la mia verità, che all’imputato fosse data la possibilità di parlare, invece nulla. Dopo un po’ il Giudice si è ritirato, rientrando dopo due ore per leggere la condanna a sedici anni. Il fatto di non essere stato parte attiva, di non aver potuto dire la mia, e che tutte le denunce fatte ai carabinieri non erano state tenute in considerazione. mi ha dato la sensazione di essere calpestato nei miei diritti; non tanto per la sentenza di condanna, ma per l’aver subito la privazione della parola, che mi ha privato del mio essere una persona. Questo mi ha portato a pensare che quella frase presente e ben leggibile, posta alle spalle dei Giudici, che dice “La legge è uguale per tutti” non sia tanto giusta. Dopo la condanna definitiva mi hanno allontanato dalla mia famiglia e questa lontananza amplifica la pesantezza della pena: io infatti non sono solo privato della libertà ma anche dei miei affetti familiari. Il tempo è ancora lungo da trascorrere tra queste mura fredde, ma se dovrò rinunciare ai colloqui per le difficoltà dei miei a venire a Padova ho paura che la mia famiglia si allontani e si divida, in un incontro con alcuni magistrati nella redazione di Ristretti Orizzonti, il magistrato di Sorveglianza, che era accompagnato da altri Giudici, ha detto che “il processo attuale, in Italia, ti consente poco di conoscere la persona”, e che invece è molto importante “guardare” la persona e non solo il reato commesso, lo avrei tanto voluto, prima di essere condannato, di essere considerato come persona. Quamar Abbas Aslam Se oltre al reato c’è un essere umano Da oltre quattro anni mi trovo in stato di detenzione per aver commesso il reato più grave che una persona possa mettere in atto, l’omicidio nell’ambito della mia famiglia. Questo mi ha portato ad essere processato e ad avere una prima sentenza, il 19 settembre 2008. Una giornata che difficilmente potrò dimenticare. Un Giudice, con le formule di rito, dopo aver ascoltato la difesa, si è preso un po’ di tempo per poter decidere una parte del mio futuro, a conseguenza di ciò che mi ha portato in carcere. Alle ore 12, tutti rigorosamente in piedi, abbiamo ascoltato la sentenza. Colpevole... la condanna viene definita in anni 18.... con una elencazione di motivazioni che non sono più stato in grado di seguire. Un numero che mi ha “inchiodato” la mente, la riflessione, ma ciò nonostante non ho perso una affermazione del giudice, non scritta nel verbale: “Non ho valutato la persona ma il fatto compiuto”. Ho commesso un grave reato, anche se in una particolare situazione, e non avevo mai neppure pensato alla pena che avrei potuto prendere né ho chiesto indicazioni al mio difensore, ma certo 18 anni non sono pochi. Quello che penso è che non tutto si può definire “Giustizia”, la giustizia che si basa sul fatto non tiene conto che. prima di arrivare a uccidere, ero una persona mite che non aveva mai alzato una mano contro qualcuno. Sono convinto che. proprio perché gli uomini sono diversamente imperfetti, nel processo sì dovrebbe dare più attenzione al singolo individuo, al soggetto uomo rispetto al reato in sé. Ulderico Galassini Giustizia: obiettivo stop a suicidi in carcere; Tamburino (Dap) attiva unità monitoraggio Adnkronos, 12 marzo 2012 Da inizio anno al 17 febbraio scorso sono otto i detenuti che si sono tolti la vita e 21 è il totale dei decessi avvenuti nelle carceri, di cui 9 per cause ancora da accertare. Nel 2011 si sono suicidati 63 detenuti (38 italiani, 25 stranieri) su un totale di 186 persone decedute per cause naturali o da accertare (in 23 casi sono in corso indagini giudiziarie). Dal 2000 al febbraio 2012, si sono uccisi 700 detenuti e ammonta a 1.954 il totale dei “morti di carcere”. Con l’obiettivo di prevenire e ridurre i tentativi di suicidi nelle carceri, con provvedimento del 2 marzo scorso, il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, ha disposto con effetto immediato la riattivazione dell’Umes, l’Unità di monitoraggio degli eventi di suicidio, che da direttore dell’ufficio studi del Dap aveva attivato nel 2001, anno in cui si toccò un picco di 69 casi di suicidio. L’Unità ha l’incarico di verificare l’applicazione e l’efficacia delle direttive emanate dal Dipartimento, a partire dal 2000 per la prevenzione del fenomeno. Il carcere fa vittime anche tra le fila della Polizia Penitenziaria: dal duemila ad oggi, 85 per suicidio e 6 per incidenti sul lavoro. I numeri sono della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, che ha approvato nei giorni scorsi il “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia”. Con la presidenza di Tamburino, l’unità di monitoraggio è composta da Simonetta Matone, vice capo dipartimento, Luigi Pagano, vice capo dipartimento, Calogero Piscitello, direttore generale del personale e Pietro Buffa, direttore della casa circondariale di Torino. Per Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’Umes “è uno strumento che serve, ma una buona efficienza penitenziaria - sottolinea all’Adnkronos - può avere una grande capacità dissuasiva rispetto ai tentativi di suicidio. Dobbiamo per esempio facilitare la possibilità per i detenuti di telefonare e parlare con i propri parenti, nei momenti in cui ne hanno bisogno”. “Un detenuto al quale viene in mente di togliersi la vita ed è disperato - sottolinea Gonnella - e telefonando a una persona che lo ascolta, può essere una madre o una moglie, potrebbe svelare quella sua disperazione oltre che trovare elenenti che possano dissuaderlo dal proposito. Se invece la telefonata si fa solo la mattina alle 10 -conclude il presidente di Antigone- questo non potrà mai avvenire”. Giustizia: dentro le carceri… la voglia di essere uomini di Pietro Bongiolatti www.tracce.it, 12 marzo 2012 Il Centro culturale di Milano ha invitato a parlare Mirella Bocchini, fondatrice di “Incontro e Presenza”, un’associazione che da venticinque anni assiste i detenuti. “Anche se tradita e seppellita, trovo la mia stessa struttura umana” Le carceri italiane scoppiano, 67.000 persone sono stipate dove c’è posto per 45.000. Più della metà sono recidivi e non passa giorno in cui non si parli di sovraffollamento, indulto e suicidi. Un sistema con molte lacune, ma è possibile essere uomini anche in queste condizioni? Questo il tema della serata di giovedì 8 marzo organizzata dal Centro culturale di Milano con Corrado Limentani, avvocato penalista, Guido Brambilla, magistrato di sorveglianza e Mirella Bocchini, fondatrice di Incontro e Presenza, un’associazione che da venticinque anni si occupa di assistere i carcerati di Milano. A “moderare l’immoderabile”, c’era Monica Poletto, presidente Cdo Opere Sociali che ha chiarito subito: non si sarebbe parlato di tecnicismi giuridici o di modelli da applicare: “A tema oggi c’è la vita, in quella situazione drammatica e dolorosa che è il carcere”. Il primo a raccontare la sua esperienza è Corrado Limentani, avvocato penalista del Tribunale di Milano: “Fino a quindici anni fa per me era impossibile parlare di aspetti positivi nelle carceri italiane”. Poi ha cominciato a guardare il lavoro in maniera diversa: “Il mio scopo resta sempre quello di tirare fuori il cliente, ma ho scoperto che un rapporto umano che vada oltre al “caso” può essere utile a entrambi. Quando mi accorgo che l’uomo che ho davanti ha il mio stesso bisogno, diventa il miglior cliente del mondo. E così il mio lavoro ha un nuovo valore, e per lui la detenzione può non essere solo tempo perso”. Mirella Bocchini ha iniziato ad interessarsi dei carcerati quasi per caso. È entrata a San Vittore per la prima volta il 28 dicembre 1985 come consigliere comunale di Milano: “Tra quelli che ho incontrato, c’erano ex terroristi di Prima Linea. Pochi giorni dopo alcuni loro compagni sono venuti da me su loro indicazione, per fare qualcosa per migliorare la situazione del carcere. Io ho chiesto aiuto ad amici e da lì è nata Incontro e Presenza”. Mirella Bocchini a San Vittore era andata con altri consiglieri, del Pci, di Democrazia Proletaria e dei Verdi: persone con cui i terroristi avevano fatto un cammino ideologicamente simile prima di darsi alla lotta armata. Eppure sono andati a cercare lei, cattolica, amica di quelli che prima bastonavano. “Quando gliel’ho fatto notare si sono messi a ridere”, ha raccontato Mirella: “Mi hanno detto: “Secondo te qua dentro ci interessano ancora queste etichette?”. Si erano dissociati, si erano accorti di essersi sbagliati. Non solo in quello che hanno fatto, ma sull’idea di uomo”. È l’inizio di un rapporto. Spiega: “Io, i miei amici e gli ex terroristi avevamo la stessa struttura umana. Tradita e seppellita sotto tonnellate di cemento, ma c’era, passata attraverso un rogo di rimorsi e di dolore. Il nostro incontro è stato possibile per questo, poi è nata l’idea di essere presenza in mezzo ai carcerati, di qui il nome”. Mirella e i suoi amici cominciano a capire il mondo del carcere: “In galera l’uomo è spellato come le rane di Galvani: vedi tutti i muscoli e le fibre. In quella situazione uno aspetta solo qualcuno che lo incontri e lo guardi come un uomo. Capiscono in cinque minuti se sei lì per metterti a posto la coscienza o se hai piacere a star con loro, se anche per te quel momento è prezioso”. Così prezioso che quando nasce un’amicizia, se qualche volontario non si presenta all’appuntamento, per i carcerati è un dramma, anche se erano stati avvisati: “Manca qualcosa, non so cosa, ma manca” dicono i detenuti a Mirella, che ha osservato: “Ecco, per noi cristiani questo avvenimento che nasce tra noi e loro ha un nome: Cristo”. Così, se uno ci sta, può recuperare la voglia di essere uomo: “Scommettere sulla propria struttura umana e i propri desideri è un rischio per chi è in prigione, soprattutto per chi è abituato ai soldi facili”, ha osservato Mirella: “La società dice che il bello della vita è avere la Porsche, il Rolex, le donne, lo sballo...”. Ma come si fa a scommettere su una cosa che non ti promette niente del genere? “Solo se c’è qualcuno che già corre questo rischio ed è disponibile a farlo con te. E per me non è stato diverso, al liceo Berchet molti anni fa”. Spesso chi scommette vince, anche se non uscirà mai di galera. Come quel bandito sardo, pluriergastolano, che in permesso premio a casa di un volontario è rimasto colpito perché veniva trattato come uno della famiglia. Ha raccontato Mirella: “Gli hanno affidato il bambino di tre anni e se ne sono andati nella stanza a fianco. M’ha detto: “Quel bambino rideva, e rideva... Saltando su e giù sulle mie ginocchia di assassino”. Quando l’ho raccontato all’ex direttore di San Vittore ha detto: “Una cosa del genere vale più di mille progetti educativi in carcere”“. Ma non si può reggere da soli tutta la sofferenza che si vede dietro le sbarre. Le alternative sono due: “Come dice un mio amico: o si burocratizza la solidarietà e il nostro è un servizio come un altro, oppure si ha vicino qualcuno con cui confrontarsi. Con cui si vive un rapporto dove si mostra un brandello di società nuova, in cui il carcerato può inserirsi da subito e per sempre”. Quel pezzettino poi si allarga, lentamente, con modi e tempi impensabili. Come quel trafficante d’armi che aveva promesso che una volta uscito non avrebbe più fatto i soldi sul sangue delle persone. “Quando è uscito ha fatto altre “cosette”, ma ha mantenuto la promessa”, ha raccontato Mirella. Ora è anziano, ha un alloggio popolare e porta fuori la spazzatura dagli uffici alle 3 di notte, ma sta recuperando i rapporti con la famiglia. “Il traffico d’armi gli fruttava milioni e milioni e odiava il mondo e se stesso. Ora è lieto, anche con 300 euro al mese perché una volta fuori non è rimasto solo. Il dramma è che per uno con cui nasce un’amicizia, ce ne sono migliaia con le mani tese”. Guido Brambilla, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Milano sottolinea che proprio il rapporto con i detenuti è il punto su cui occorre lavorare di più nel sistema delle carceri: “In questo modo il detenuto prende coscienza di sé e scopre di non essere determinato dalla categoria criminologica in cui è infilato. Il punto è una nuova concezione di uomo. Spesso si tratta chi si ha davanti solo come “un caso”, mentre uno ha bisogno di essere amato, qualunque uso abbia fatto della sua libertà”. Come con quella donna che si è presentata dicendo: “Sono una terrorista, ho ucciso due persone”. “Le ho detto che prima volevo sapere il suo nome e cognome, perché contano più di quello che ha fatto. Si è messa a piangere. Ma lo dicevo a lei perché ho bisogno di dirlo a me stesso”. Lo scopo del suo lavoro è trovare il percorso più adatto per rieducare ogni detenuto e reinserirlo nella società: “Ma cos’è la rieducazione? E cosa rende l’uomo giusto?”, ha chiesto Brambilla. A fine serata hanno raccontato la loro esperienza anche Andrea Villa, presidente della cooperativa “Il Carro” di Paullo, e un ex detenuto, che ha spiegato: “Avere davanti dei volontari che mi guardavano come un uomo è ciò che mi ha permesso di reinserirmi nella società. O di inserirmi per la prima volta”. Giustizia: ministro Severino; voglio istituti risocializzanti, impegno per cultura in carceri Dire, 12 marzo 2012 Il carcere deve avere una funzione “risocializzante”. È il messaggio che il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha voluto comunicare ai detenuti di Rebibbia incontrati oggi in occasione della proiezione del film dei fratelli Taviani “Cesare non deve morire”, realizzato proprio all’interno dell’istituto di pena romano con alcuni dei reclusi. Dopo la proiezione del film, al teatro “Piero Angerosa”, Severino è stata avvicinata da alcuni dei detenuti-attori e con loro ha scambiato qualche battuta. “Avete portato la vostra voce fuori dal carcere e dimostrato che il carcere può mantenere una umanità dentro”, ha detto il Guardasigilli ai detenuti che le facevano notare di aver usato “la spinta dell’arte” anche come forma di sopravvivenza e riscatto all’interno dell’istituto di pena. “Ho sempre pensato che il carcere non sia solo espiazione della pena, ma anche momento di redenzione e risocializzazione”, ha aggiunto Severino. Intervenendo poi dal palco, al piccolo dibattito post-proiezione cui hanno preso parte gli stessi registi Paolo e Vittorio Taviani ed il presidente del Dap Giovanni Tamburrino, il ministro della giustizia ha detto di aver provato “una emozione fortissima. Quello dei Taviani è un film scarno ed essenziale che non pone l’accento su sentimenti facili da diffondere ma con poche pennellate dipinge il carcere come luogo di sofferenza ma anche di redenzione”, un luogo dove “si possono apprendere anche delle cose per tornare nella società a pieno titolo”. Severino ha sottolineato la frase che chiude la pellicola, pronunciata da uno degli attori-detenuti: “Ora che ho conosciuto l’arte questa cella mi sembra una prigione”. “È solo nel momento in cui ci si rende conto che intorno c’è la società e la vita, che si sente la menomazione del carcere - ha commentato il ministro - ma è là che inizia il momento della redenzione”. “Questo è un film di speranza”, un film che sottolinea la funzione “risocializzante” del carcere. “Vorrei che così ridiventasse il carcere, spero che venga realizzato con una serie di provvedimenti”, ha concluso il ministro, assicurando un “forte impegno del Ministero” per realizzare momenti di cultura in carcere. Per esempio “l’insegnamento delle lingue in carcere e altre iniziative già intraprese, sono materie sulle quali è necessario dedicare la massima attenzione: pensate alla compagnia che fa un libro in carcere”. Giustizia: ministro Severino; ddl su sanzioni alternative sta partendo in Parlamento Adnkronos, 12 marzo 2012 “Continua il lavoro del governo sulle carceri. Io sarò soddisfatta quando la legislazione dirà che della carcerizzazione si può fare anche a meno. Il disegno di legge che sta partendo in Parlamento dice proprio questo e cioè che ci devono essere sanzioni diverse dal carcere”. Lo ha dichiarato il ministro della Giustizia Paola Severino a margine della proiezione del film dei fratelli Taviani ‘Cesare deve morirè nel teatro di Rebibbia. La responsabile del dicastero ha poi evidenziato che misure alternative sono, ad esempio, “la messa alla prova e la detenzione domiciliare. Misure che possono essere ugualmente efficaci”. La Severino ha anche posto l’accento sull’importanza delle iniziative di scolarizzazione, insegnamento delle lingue e, più in generale, culturali all’interno delle carceri. Tutte questioni nei confronti delle quali il ministero della Giustizia ha “la massima attenzione. Poter leggere un libro in carcere ed avere il conforto della cultura è estremamente importante. Da parte del ministero ci sarà un impegno su questi fronti e spero che tutto questo venga realizzato con una serie di provvedimenti”. Giustizia: a Napoli convegno dei Radicali sull’amnistia, sintesi degli interventi di Fabrizio Ferrante Notizie Radicali, 12 marzo 2012 Ieri al Terminus hotel di Napoli si è svolto il convegno, organizzato dall’associazione radicale Per la grande Napoli, dal titolo “amnistia, indulto e misure alternative” che intendeva aggiornare lo stato della situazione carceraria, a distanza di due mesi dall’incontro dello scorso dicembre. Al convegno sono intervenute personalità del mondo politico, sindacale e associativo impegnati sul problema. Tra gli ospiti, Rita Bernardini, Luigi Compagna, Alfonso Papa e Domenico Ciruzzi, Presidente delle Camere Penali di Napoli. Dopo l’intervento introduttivo del segretario dei radicali Per la grande Napoli, Luigi Mazzotta, la discussione è entrata immediatamente nel vivo grazie all’accorato intervento del Presidente delle Camere Penali di Napoli, Domenico Ciruzzi. Del suo lungo intervento, meritano una particolare segnalazione due passaggi. Nel primo caso, l’Avvocato ha lanciato un vero e proprio je accuse contro una politica avvezza all’uso strumentale della giustizia e della percezione di insicurezza dei cittadini. A parere di Ciruzzi, tale percezione sarebbe artatamente alimentata dai partiti, con lo scopo di aumentare il proprio bacino di consensi. Ciruzzi ha evocato lo spirito del carcere anni 70, allorquando fioccavano progetti di recupero come laboratori e circuiti rieducativi. L’associazione collegata alle Camere Penali, denominata “Il carcere possibile”, ha presentato un inquietante report sulla mortalità nelle carceri italiane. Nel 2010, su 186 morti in cella si sono verificati 66 suicidi. Nel 2011 i morti sono stati 184 con ancora 66 suicidi, mentre nell’anno in corso - dato riferito a febbraio - su 25 morti, sono 11 i casi di gesti estremi. Il primo dei politici intervenuti a prendere la parola è stato Luigi Compagna. Il senatore Pdl è il presentatore di un disegno di legge sull’amnistia che continua a languire nei cassetti di Palazzo Madama. A nostra precisa nostra domanda sullo stato dell’iter del provvedimento, Compagna ha testualmente detto: “Vada a domandarlo a Schifani”. Ha evocato l’intervento in Senato di Giovanni Paolo II del 2003, da cui ha preso la stura la ripresa delle lotte di Pannella sull’amnistia. Singolare il siparietto in cui Rita Bernardini ha interrotto Compagna, ricordando interventi di Pannella del 1977, ancora attuali rispetto alle problematiche di oggi. Il senatore ha replicato asserendo: “Ci auguravamo che con l’avvento di Giuliano Vassalli, avremmo assistito a un miglioramento della situazione”. Compagna ha richiamato il ministro della Giustizia, Paola Severino, a un intervento più deciso sull’amnistia rispetto al pilatesco “decida il Parlamento”. Il Senatore ha inoltre avuto parole molto dure verso parte della magistratura che, a suo dire, rappresenta una corporazione di “stampo sovietico” che impedisce ogni ammodernamento del sistema. Dunque amnistia, indulto ma anche separazione delle carriere e superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale, questa la ricetta proposta da Compagna. L’intervento del Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Carmine Antonio Esposito, è andato in direzione favorevole rispetto alle istanze sollevate dal convegno, in merito al rispetto dei diritti umani nelle celle. Ha inoltre ricordato, Esposito, la necessità che la pena torni alla sua funzione rieducativa, piuttosto che affidarsi alla procedura sbrigativa dello “buttar via la chiave”. Il carcere restituisce persone peggiori e incattivite con la società e bisogna porre fine a questo circolo vizioso. Esposito ha poi avanzato la proposta di distinguere i luoghi di detenzione per custodia cautelare, rispetto alle carceri, che dovrebbero ospitare unicamente i colpevoli passati in giudicato. Rita Bernardini ha replicato ad Esposito ricordando che le idee del Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, sono contenute in proposte di legge radicali ignorate dai Presidenti delle Camere che puntualmente non le calendarizzano. Ha poi ricordato, la Bernardini, che “a pochi metri da qui, a Poggioreale, sappiamo che mentre parliamo si stanno perpetrando dei reati che violano l’articolo 3 della convenzione Cedu sui diritti umani”. La Bernardini ha parlato della vita dei detenuti, costretti a stare per 22 o 23 ore al giorno in celle sporche e sovraffollate, per giunta privi di un sistema sanitario decente. A esemplificare tale dato, la deputata ha citato il caso di una donna reclusa a Rebibbia, salvata in extremis da un carcinoma alle ovaie, curato come fosse un banale mal di pancia. La Bernardini ha anche richiamato l’attenzione sulle carceri come luogo di tortura, come ammesso dallo stesso Guardasigilli, Paola Severino all’uscita dal carcere di Sollicciano, in provincia di Firenze. “Le celle sono luoghi di tortura”, parola del ministro Severino. Anche il dato del lavoro dietro le sbarre lascia esterrefatti. Solo il 20% dei detenuti lavora, con scarsa retribuzione e per soli due mesi all’anno. Indicativa in tal senso la lettera aperta scritta da Carmelo Musumeci, in cui l’ergastolano ostativo detenuto a Spoleto invoca la dignità del suo lavoro da bibliotecario, umiliata con una paga da terzo mondo. Rita Bernardini ha elencato poi tutte le norme quotidianamente violate dell’ordinamento penitenziario, richiamando anche al ruolo dei magistrati di sorveglianza, che non seguono quanto accade nelle strutture, passando per la cronica assenza di figure intermedie fra detenuti ed agenti. Ma i numeri che testimoniano quanto l’Italia sia “delinquente professionale in senso tecnico”, citando Pannella ripreso ieri dalla stessa Bernardini, la deputata li sciorina al termine del suo intervento. I giudizi per l’irragionevole durata dei processi, ovvero una delle cause primarie di un sistema al collasso, sono 1.139 negli ultimi 30 anni. In Europa nessuno può vantare un numero di procedimenti così elevato. Il Comitato dei ministri Ue, continua a chiederci interventi strutturali, arrivando a sentenziare nel 2010 che in Italia “sono in grave pericolo lo stato di diritto per via della negazione di diritti sanciti nella Convenzione”. La Bernardini ha chiuso l’intervento portando i saluti di Pannella e rivendicando la necessità dell’amnistia, quella vera, in luogo di quella “di classe” rappresentata da 200 mila prescrizioni all’anno. L’intervento successivo, quello di Alfonso Papa, ha preso le mosse dalla sua esperienza a Poggioreale, che ha restituito alla politica un uomo nuovo, impegnato nella lotta contro la carcerazione preventiva e il proibizionismo. Proprio in relazione alle sue recenti aperture in temi di droghe e di carcere, Papa ha ribattuto alle critiche in maniera franca: “Solo gli stupidi non cambiano idea”. Particolarmente significativo un passaggio di Papa, che ha raccontato alcuni episodi che testimoniano l’enorme umanità, a tratti rintracciabile nelle celle. “Se oggi non faccio parte della fredda statistica dei suicidi, lo devo ai miei compagni di cella”, ha detto Papa con gli occhi lucidi. Papa ha anche espresso il pensiero secondo cui va eliminato l’ergastolo ostativo: “Se l’ergastolo ostativo è tollerabile, allora si introduca la pena di morte perché, per chi non lo sapesse, di carcere in Italia si muore ogni giorno”. Gli ultimi interventi sono stati quelli di Mario Barone, vice presidente campano di Antigone, che ha ricordato la situazione drammatica degli Opg, dei cosiddetti “ergastoli bianchi”, interrogando le istituzioni su quali provvedimenti si intenderà prendere, una volta chiusi gli Opg a partire dal prossimo 31 marzo. Barone ha ricordato la scarsa propensione del Tribunale di Sorveglianza di Napoli nella destinazione di detenuti a misure alternative, anche per mancanza cronica di strutture in grado di accogliere i detenuti all’esterno. È il caso delle cooperative che gestiscono - specialmente al Nord Est - le case di lavoro. Barone ha chiuso il suo intervento citando una frase di Franco Basaglia: “La nave del manicomio è affondata, altre navi, solo in apparenza meno minacciose, si stagliano all’orizzonte”. Degno di nota anche l’intervento di Emilio Fattorello, del Sappe, Sindacato autonomo Polizia Penitenziaria. Fattorello ha rivendicato il ruolo degli agenti penitenziari, di “servitori dello Stato”, riprendendo il filo già tirato dal recente documento del Sidipe, ovvero la sigla che riunisce i direttori penitenziari. “Siamo agenti ma siamo uomini e spesso dobbiamo improvvisarci psicologi, educatori e quant’altro. Non rappresentiamo solo la repressione, ma anche l’umanità”. E ancora: “Se il detenuto è l’ultimo anello della catena, noi siamo il penultimo”. Parole pesanti, come pesanti sono stati i dati sviscerati da Emilio Martucci - radicali Per la grande Napoli - in merito alla situazione di 3 istituti campani: “A Santa Maria Capua Vetere, laddove dovrebbero essere detenute 522 persone, ce ne sono 952, di cui 345 in attesa. Gli educatori sono 9. A Pozzuoli, carcere femminile, 202 presenti in una struttura da 82, uno psicologo per 15 ore al mese e un solo magistrato di sorveglianza. A Poggioreale, invece, 2638 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 1410?. Numeri agghiaccianti quelli presentati da Martucci, cui hanno fatto seguito gli ultimi due interventi. Quello di Rosario Scognamiglio, incentrato sull’esigenza di fare chiarezza sui numeri del penitenziario minorile di Nisida e di Francesco Giunta, avvocato iscritto all’associazione radicale Per la grande Napoli che ha parlato delle contraddizioni nella gestione della giustizia e di alcune sue prassi. Il convengo, svoltosi alla presenza di numerosi parenti di detenuti, ha visto l’intervento della madre di un ragazzo napoletano recluso a Lecce. Egli, con un passato da tossicodipendente, è vittima di continui trasferimenti da una struttura all’altra, in spregio di ogni logica prassi di recupero del condannato oltre che della stessa Costituzione. Giustizia: intervista a Rita Bernardini… “amnistia, indulto e misure alternative” Notizie Radicali, 12 marzo 2012 A margine del convegno dal titolo “Amnistia, indulto e misure alternative”, promosso dall’Associazione radicale Per la grande Napoli abbiamo sentito la deputata radicale, Rita Bernardini. La parlamentare, nota nella comunità penitenziaria come “Santa Rita delle carceri”, oltre a interloquire costruttivamente con tutti gli interlocutori presenti al convegno, ha fatto il punto della situazione. Bernardini ha illustrato alcune delle innumerevoli disfunzioni, attualmente rinvenibili nel pianeta giustizia in Italia. Onorevole Rita Bernardini, partiamo dal dato più evidente, il sovraffollamento. “La sostanza del sovraffollamento è che mancano 21.000 posti nelle nostre carceri. Ci sono, allo stato, 66.000 persone, ristrette in 45.000 posti e in condizioni igieniche e sanitare da quarto mondo. Non a caso l’Europa ci continua a sanzionare, come paese, in modo pressoché ininterrotto dagli anni 80”. Questo è il dato relativo all’intera popolazione carceraria. Com’è la situazione nelle carceri femminili, di cui si parla sempre troppo poco? “Delle carceri femminili si parla meno, essendo le donne appena il 5% dei detenuti in questo paese. Anche lì vi sono criticità ma, oggettivamente, anche in virtù di un numero relativamente basso di detenute le condizioni generali sono leggermente migliori rispetto alle carceri maschili”. Dal prossimo 31 marzo, il Governo prevede di attuare la chiusura degli Opg. Un passo in avanti o un pericoloso salto nel buio? “Per le persone ristrette negli Opg, va previsto un percorso di reinserimento sociale. Va benissimo chiudere tali strutture, il problema sarà trovare una soluzione fattiva per chi oggi è internato”. Quali sono i rischi di una mancata pianificazione in questo senso? “Bisogna far attenzione a non commettere passi indietro, come fu all’epoca della legge Basaglia, allorquando furono chiusi i manicomi. Attenzione a non far attivare i “repartini” carcerari, ovvero sezioni dei penitenziari avulsi dai controlli dove di frequente vengono compiute violazioni di diritti fondamentali. Occorre intervenire in modo serio su una legislazione che ci portiamo dietro dal periodo fascista nei confronti degli internati. Una persona ritenuta socialmente pericolosa non può essere mandata in carceri sovraffollate o tenuta in Opg e case di lavoro, naturalmente senza lavoro”. Un meccanismo infernale da cui difficilmente si esce, dunque. Parlando invece del dato politico della vicenda, quali sviluppi parlamentari può avere la battaglia pro-amnistia? “Da una parte ci siamo noi radicali, che portiamo avanti in Parlamento le battaglie che da anni conduce Marco Pannella. Parliamo di amnistia - e indulto - come riforma che traina tutte le altre riforme. I partiti su questo punto restano ancorati a posizione securitarie e spesso demagogiche. In più, negli anni, il sistema carcerario è stato appesantito da leggi criminogene e carcerogene come la ex Cirielli per i recidivi, la Fini-Giovanardi sulle droghe e la Bossi-Fini, sugli immigrati, ovvero le tre categorie più presenti nelle patrie galere”. Antiproibizionismo e depenalizzazioni, secondo molti l’altra faccia della medaglia per leggere compiutamente il quadro della giustizia italiana. “Sulla questione, nel tempo si sono succedute due commissioni - Pisapia e Nordio - che, da destra come da sinistra, indicavano nel carcere l’estrema ratio, ma sul piano legislativo come ho già detto prima si è andati in direzione opposta. Sulle droghe nello specifico, ormai è in corso da tempo un dibattito internazionale per rivedere le convenzioni che hanno favorito l’instaurarsi di legislazioni fortemente proibizioniste e, come nel caso italiano, carcerogene”. I cosiddetti colpevoli di reati senza vittime... “Certo, ma non solo il cittadino diventa criminale agli occhi della società, pur non essendolo, ma spesso è capitato che il proibizionismo abbia portato il dato di criminalità perfino nelle istituzioni. Ogni tanto, infatti, vengono alla luce casi di poliziotti o carabinieri coinvolti in traffici illeciti”. Ti riferisci all’ultimo caso, quello del Generale Ganzer? “Mi riferisco a quel caso ma anche ad altri meno roboanti. Quello, in ogni caso, non è l’ultimo episodio di questo tipo in ordine di tempo, semmai il penultimo”. Giustizia: reinserimento lavorativo dei detenuti… che fine ha fatto l’Anrel? www.prodottinliberta.it, 12 marzo 2012 Anrel è l’agenzia nazionale per il reinserimento lavorativo dei detenuti ed ex carcerati. Nata nel 2010 con 4.8 milioni di € di finanziamento della Cassa delle ammende non ha più dato segno di sé. Il progetto è stato affidato alla Fondazione Mons. F. Di Vincenzo e di Rinnovamento nello Spirito Santo, realtà che ha nel suo curriculum il reinserimento di 12 persone in campo agricolo in Sicilia grazie a un progetto pilota del 2003. L’agenzia avrebbe dovuto formare al lavoro 1.800 persone; sembra che i fondi non siano mai arrivati e che di conseguenza l’avvio previsto per l’anno scorso in cinque regioni sia da allora bloccato. Il progetto presentato coinvolgeva 6 mila detenuti ed ex di cui 1.800 avrebbero dovuto essere formati e collocati al lavoro: 1100 in cooperative sociali, 150 avviando 65 imprese e 500 come lavoratori autonomi. Il sito anrel.it presenta solo la homepage e i link alla capofila e allo sponsor. Nel frattempo, i fondi pubblici per sostenere il lavoro dei carcerati sono calati del 30 negli ultimi 5 anni (fonte Dap/Ristretti Orizzonti): per esempio, le colonie penali sarde che avevano un’ottima produzione agricola biologica sono ferme. Le cooperative sociali hanno grosse difficoltà economiche; il decreto che doveva autorizzare l’aumento a 700 € di credito d’imposta per le aziende che assumono carcerati è stato bloccato a fine febbraio per mancanza di fondi. Giustizia per la Camorra record numero di pentiti e di detenuti al 41-bis Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2012 Il primato, spiegano i magistrati, dipende dal numero elevatissimo dei gruppi camorristici operanti nel distretto antimafia di Napoli, che ha competenza anche su Caserta, Benevento e Avellino. È un primato che dimostra la qualità delle investigazioni dei magistrati napoletani, capaci di mettere sempre più alle strette i clan e costringere i boss a “passare dall’altra parte”, spezzando la catena di comando delle cosche. Coi suoi 355 pentiti e 22 testimoni di giustizia la Dda di Napoli è la procura antimafia col il maggior numero di collaboratori di giustizia rispetto a tutte le altre procure distrettuali dello stivale. C’è da essere contenti? Fino a un certo punto, spiegano i procuratori napoletani in una relazione alla Procura Generale che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare. Perché il primato, spiegano, dipende anche dal numero elevatissimo dei gruppi camorristici operanti nel distretto antimafia di Napoli, che ha competenza anche su Caserta, Benevento e Avellino: oltre cento le ‘famigliè censite. È un record, quello dei pentiti, che è a sua volta frutto di un altro record: quello dei detenuti assegnati al regime speciale del 41 bis. Sono 289 i camorristi sottoposti a una misura che innegabilmente, come sottolineano i procuratori “incentiva il fenomeno delle collaborazioni con la giustizia”. Sono così tanti che gli istituti di custodia si sono rivelati insufficienti a gestirli. Ma la problematica non può essere aggirata ridimensionando l’uso del 41 bis, che invece, ribadiscono i pm nella relazione, “va adottato ogni qualvolta ne ricorrano i presupposti, senza alcun condizionamento derivante dall’insufficienza delle strutture logistiche”. Perché produce risultati. A cominciare dall’interruzione delle relazioni camorristiche tra i boss che rimangono dentro e i camorristi a piede libero. Il meccanismo del 41 bis, però, non sempre funziona. Le relazioni possono essere mantenute attraverso i colloqui con i familiari e con i difensori. Avvocati che in qualche caso si prestano a fare da intermediari degli ordini dei capoclan. Emblematico è il caso di Michele Santonastaso, ex legale del boss dei Casalesi Francesco Bidognetti, accusato di essere una sorta di suo ambasciatore fuori dal carcere. Santonastaso è detenuto e in carcere per i reati di associazione camorristica, falsa perizia e corruzione in atti giudiziari. Prima di essere arrestato, nel settembre del 2010, ebbe il suo quarto d’ora di notorietà nel marzo 2008 per aver letto in aula durante il processo d’appello Spartacus un’istanza di trasferimento del dibattimento a Roma, per conto dei suoi clienti Bidognetti e Antonio Iovine, perché a loro dire la corte si sarebbe fatta influenzare dagli scritti di Saviano, del giudice anticamorra Raffaele Cantone e della giornalista de ‘Il Mattinò Rosaria Capacchione (dalla settimana successiva, anche alla Capacchione venne assegnata la scorta). Nei giorni scorsi Anna Carrino, ex compagna di Bidognetti, ha confermato in aula le accuse verso l’avvocato: Santonastaso le chiese, ottenendoli, 100.000 euro da girare a un perito del Tribunale di Napoli affinché falsificasse una perizia fonica a carico di Aniello Bidognetti (figlio di Francesco), facendolo scagionare. La signora Carrino è una collaboratrice di giustizia dal 2008. Le sue dichiarazioni stanno infliggendo colpi importanti alla tenuta del clan Bidognetti. La Carrino è uno dei 280 casi di programma speciale di protezione a cura della Dda. Altri 65 pentiti sono titolari di un piano provvisorio di protezione (più un caso di revoca). Infine, dieci collaboratori sono in attesa. Senza i pentiti molte indagini sarebbero ferme alla casella di partenza. “Le loro dichiarazioni - affermano i magistrati dell’ufficio della Procura - continuano ad essere una fonte di prova indispensabile, anzi insostituibile, pur se sempre più spesso associata ad altre fonti e mezzi di prova, specialmente alle intercettazioni telefoniche ed ambientali”. Giustizia: presidi “No Tav” davanti alle carceri di Torino, Genova, Ivrea e Alessandria Ansa, 12 marzo 2012 Circa 150 attivisti No Tav hanno partecipato, ieri sera a Torino, al presidio organizzato davanti al carcere delle Vallette. Si è trattato del capitolo torinese di una mobilitazione che, con iniziative analoghe, si è tenuta ad Ivrea (Torino), Alessandria, Milano e Genova in segno di solidarietà con gli attivisti No Tav arrestati lo scorso 26 gennaio nell’inchiesta sugli scontri in Valle di Susa dell’estate scorsa e tuttora detenuti. Gli attivisti si sono avvicinati in diversi punti alle recinzioni del penitenziario, che sono controllate da uno schieramento di forze dell’ordine. Non sono stati segnalati momenti di tensione. Corteo di manifestanti “No Tav” in movimento anche dalla centrale piazza De Ferrari a Marassi, dove si trova il carcere genovese di fronte al quale è prevista una manifestazione di protesta per l’arresto del 23enne Gabriele Filippi, che secondo la procura di Torino partecipò agli scontri in Valsusa nell’estate scorsa. Il corteo di trova in via XX Settembre, quindi devierà in Valbisagno. Una cinquantina di attivisti No Tav si sono radunati a Ivrea (Torino) davanti al carcere in cui è rinchiuso uno dei loro compagni arrestati il 26 gennaio per gli scontri dell’estate scorsa in Valle di Susa. È il primo dei tre presidi c davanti alle case circondariali del Piemonte (gli altri sono stati annunciati a Torino e Alessandria) in segno di solidarietà con i simpatizzanti No Tav tuttora detenuti. Al presidio di Ivrea si sono viste le bandiere di Rifondazione comunista. Fra gli striscioni, uno diceva “La Valle non si arresta” e un altro “No Olimpiadi? E allora No Tav”. È spuntato anche un cartellone con la scritta Acab, che è l’acronimo di “All cops are bastard”. A Torino si è tenuta una manifestazione davanti al carcere delle Vallette, cui hanno preso parte - riferisce la Questura - una cinquantina di No Tav. Iniziative analoghe si sono svolte anche fuori Piemonte: a Milano i simpatizzanti No Tav si sono radunati davanti al carcere di San Vittore. A Genova il concentramento era previsto nella zona di Marassi, ma c’è stato un rinvio per permettere il deflusso dei tifosi che avevano seguito la partita di calcio. Lettere: in carcere solo ozio e tanta aggressività di Roberto Martinelli (Segretario Nazionale Sappe) La Repubblica, 12 marzo 2012 Nel pomeriggio di venerdì è scoppiata una rissa nel penitenziario d’Imperia, albanesi da un lato, italiani dall’altro. Già qualche giorno fa, durante l’ora d’aria, un detenuto italiano ed uno albanese erano arrivati allo scontro fisico. Noi della polizia penitenziaria ribadiamo da anni che il fatto che i detenuti non siano impiegati in attività lavorative o comunque utili alla società (come i lavori di pubblica utilità) favorisce l’ozio in carcere e l’acuirsi delle tensioni. Ricordo a me stesso che, secondo le leggi ed il regolamento penitenziario, il lavoro è elemento cardine del trattamento penitenziario e “strumento privilegiato” diretto a rieducare il detenuto e a reinserirlo nella società. In realtà, su questo argomento c’è profonda ipocrisia. Tutti, politici in testa, sostengono che i detenuti devono lavorare: ma poi, di fatto, a lavorare nelle carceri oggi è una percentuale davvero irrisoria, con ciò alimentandosi una tensione detentiva nelle sovraffollate celle italiane fatta di risse, aggressioni, suicidi e tentativi di suicidi, rivolte ed evasioni che genera condizioni di lavoro dure, difficili e stressanti per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Brescia: dentro il carcere di Canton Mombello, il più sovraffollato d’Italia di Antonio Crispino Corriere della Sera, 12 marzo 2012 La Lombardia è la regione con il più alto numero di detenuti in Italia. Ce ne sono più di 9mila. Talmente tanti che spesso sono costretti a trasferirli nelle carceri del Sud. Per capire qual è la situazione andiamo nel carcere di Canton Mombello a Brescia. È una vecchia struttura di fine ‘800. Il sovraffollamento è al 260%. Ci dovrebbero essere 200 persone e invece ne sono affastellate quasi 600, il triplo. Non a caso è il più sovraffollato d’Italia. Il direttore è una donna, Francesca Gioieni. È contenta che finalmente qualcuno vada a vedere in che condizioni sono. Ci spalanca le porte del carcere e ci consente di scattare una fotografia ancora più nitida e impressionante rispetto alla precedente puntata. La prima cella è piccola, saranno meno di 8 mq ma sembrano essere in pochi. Dall’esterno si vedono solo un ragazzo accanto alla cancellata e un altro steso su una branda. Quando entriamo escono fuori in cinque, non capiamo bene da dove. Si spingono uno accanto all’altro per stare in piedi. Ci accompagna il Garante dei diritti dei detenuti. Calcola che ognuno ha circa 50 cm di spazio per muoversi. Per la Corte di Giustizia Europea ci vogliono almeno 7 metri per ogni detenuto, altrimenti è tortura. La struttura del carcere è vecchia è inadeguata. Da anni si parla di un edificio più dignitoso. “Solo parole” commenta laconica la Gioieni. “A ogni ispezione di politici, istituzioni, sindacati, rappresentiamo sempre gli stessi problemi ma non cambia mai niente. Ogni volta ci lasciano in queste condizioni”. In “queste condizioni” significa che in ogni cella mediamente ci sono 14 detenuti. Ma non è il peggio che può capitare. Al primo piano, in una sola cella, ne sono ammassati 18. Un solo bagno. Chi proprio non riesce a trattenere i bisogni li fa in una bacinella che poi la pulisce nel lavabo. Un unico lavabo dove cucinano, si lavano e puliscono i bisogni, appunto. Si respira un’aria pestilenziale. Solo quando chiediamo di aprire un po’ le finestre ci accorgiamo che le brande dei letti sono arrivate fin sopra gli infissi. Non si possono aprire per far passare l’aria. Più andiamo avanti e più si assottigliano le differenze con un lager. Per andare alle docce bisogna passare un varco alto poco più di 1,60 mt. Spesso non c’è acqua calda. Solo in alcune celle ci sono i frigoriferi (un lusso per molte carceri) per conservare gli alimenti. Tutti gli altri li depositano in cassette di legno che appoggiano accanto al gabinetto per mancanza di spazio. In Italia gli stranieri rappresentano meno dell’8% della popolazione ma in carcere arrivano al 60%. A Canton Mombello questa percentuale sale al 70%. Senza la possibilità di avere documenti e un posto in cui vivere, agli stranieri è impossibile beneficiare, ad esempio, degli arresti domiciliari. Ecco perché, pur commettendo reati meno gravi, rispetto agli italiani restano in carcere di più e più a lungo. “Le misure cautelari per loro sono vietate - dice il garante. Anche quando potrebbero uscire restano in carcere perché attorno hanno il vuoto”. Ma anche la situazione generale è drammatica. L’VIII rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia redatto dall’associazione Antigone riporta che le persone che accedono alle misure alternative in Italia sono 13.383. In Francia sono 123.349 e in Spagna 111.994. Significa che in Italia oltre al carcere non c’è alcuna prospettiva. Se è già difficile immaginare questo tipo di detenzione per un colpevole, si trasforma in incubo se si pensa che la maggior parte dei detenuti che visitiamo a Canton Mombello sono in attesa di un giudizio, cioè tecnicamente innocenti. Su circa 600 detenuti solo 188 sono definitivi. La loro unica speranza per non impazzire tra le mura di questi lager resta il lavoro in carcere. Peccato che sono finiti i fondi della Legge Smuraglia, una legge che prevedeva sgravi contributivi e fiscali per chi assumeva detenuti” taglia corto Gioieni. A Canton Mombello, come in tante altre realtà, vanno avanti con le donazioni delle associazioni e il volontariato, si sta attenti anche a un solo euro perché, se da un lato aumentano i detenuti dall’altro diminuiscono gli stanziamenti per il carcere. Non diminuiscono, invece, gli stanziamenti per gli stipendi dei manager. L’ex capo dipartimento Francesco Ionta, sostituito appena da qualche giorno, percepiva 543 mila euro all’anno, quello del dipartimento minorile ne percepisce quasi 300 mila per dodici mesi di lavoro. Cifre che fanno sorridere i detenuti di un progetto di giornalismo che incontriamo nella biblioteca bresciana. Da mesi sono alla ricerca di 700 euro per stampare la loro rivista. “Ci è indispensabile per far capire che non siamo nati così, che se ci danno un’opportunità possiamo recuperare o, quanto meno, non uscire peggiori, con una rabbia che non è nostra ma è figlia di quello che si vive qui dentro”. In queste condizioni, parlare di rieducazione o di cura per i tossicodipendenti diventa persino paradossale. “Ma se non abbiamo lo spazio dove metterli, come facciamo a pensare a tutto il resto? - dice il dottore incaricato - Continuare così vuol dire fargli pagare la pena due volte”. Porto Azzurro: un ex detenuto “non è più il carcere che ho conosciuto in tutti questi anni” Il Tirreno, 12 marzo 2012 “Finalmente respiro”. È la prima cosa che ha pensato Costantin Stroe, ex detenuto del carcere di Porto Azzurro, quando mercoledì ha lasciato per sempre l’istituto di Forte San Giacomo. Ha respirato a fondo. E stavolta l’aria non era pesante come dietro le sbarre, dove ha vissuto gli ultimi cinque anni della sua vita tenuto in piedi dalla passione per gli scacchi e per la sua attività di bibliotecario. Costantin era un detenuto modello: finito dentro per reati contro il patrimonio si è meritato l’encomio per il suo comportamento e per le numerose attività che ha compiuto quando era dentro. Ne ha viste tante, in questi anni. Ma ha accumulato abbastanza esperienza per rendersi conto che, da un po’ di tempo, il carcere di Porto Azzurro sta cambiando rispetto a quando, due anni fa, vi era stato trasferito. “Una volta il problema era il sovraffollamento - racconta il 62enne di origine romena - ora non è più solo questo. L’aria è pesante, soprattutto nel terzo reparto, dove sono sistemati i nuovi arrivati”. Costantin allude al rapporto complicato tra i detenuti con le pene lunghe e “gli scappati di casa”, il soprannome che usa per definire quelli messi dentro per periodi più brevi. “Sono entrate persone che non hanno niente da perdere e che non accettano di dover vivere la reclusione - racconta l’ex detenuto - la tensione sta salendo e se, per il momento, si è evitato lo scontro tra le due diverse tipologie di detenuti, il merito è degli agenti”. Non è quindi solo il sovraffollamento a incidere negativamente sulla qualità della vita dei detenuti storici, secondo quanto afferma Costantin, bensì il deterioramento delle caratteristiche che, fino ad oggi, hanno reso Porto Azzurro un carcere all’avanguardia. “Purtroppo le cose che non vanno sono molte - spiega - ci sono tanti detenuti problematici che, necessariamente, assorbono tempo che gli altri detenuti utilizzavano per le attività e per stare con gli educatori. E poi il clima è peggiorato. Il terzo reparto è chiuso, prima portavo i libri anche i quel reparto, ora non si può più fare. La biblioteca è chiusa e mancano i soldi per mandare avanti le attività lavorative. Anche il progetto degli scacchi, che avevo portato avanti io in prima persona, non sarà portato a termine. Quando sei dietro le sbarre attività come queste ti danno la forza di resistere”. Al clima complicato si aggiungono problemi concreti, come quelli relativi alla struttura vecchia. “Se venisse un perito chiuderebbe subito quella struttura”. La tensione cresce, dunque, e si avverte anche oltre le mura dell’istituto, sempre più chiuso verso l’esterno. “Sarei ben lieto di visitare la struttura quanto prima”, ha commentato il sindaco di porto azzurro, Maurizio Papi in relazione all’approvazione dell’emendamento presentato alla Camera dai Radicali che estende ai primi cittadini la possibilità di visitare gli istituti carcerari senza autorizzazione, seppure “nel rispetto della propria funzione”. “La novità è interessante - ha dichiarato il sindaco di Porto Azzurro - sappiamo che nella struttura vi sono problemi legati al sovraffollamento e difficoltà economiche che limitano le attività lavorative. Devo valutare nel dettaglio quanto è stabilito dall’emendamento, ma mi piacerebbe visitare la struttura per valutare la salute e la sicurezza sia dei detenuti che degli agenti che lavorano nella struttura”. Bolzano: presidente della Provincia Durnwalder; procedura trasparente per nuovo carcere Adnkronos, 12 marzo 2012 Procedura trasparente e corretta nei lavori di preparazione per realizzare il nuovo carcere a Bolzano sud. Lo ha ribadito oggi il presidente della Provincia di Bolzano Luis Durnwalder al termine della seduta della Giunta provinciale: “Risulta con evidenza che la Provincia intende costruire la casa circondariale d’intesa con lo Stato e attraverso i finanziamenti nel quadro dell’Accordo di Milano, che prevede un fondo di 60 milioni di euro all’anno per coprire costi finora di competenza dello Stato”. Anche l’obiezione che si poteva costruire la struttura nel verde agricolo non sta in piedi, ha sottolineato: “È semplicemente impossibile, perché la legge urbanistica provinciale lo impedisce. Per decenni abbiamo chiesto allo Stato di rispettare nei suoi progetti le normative provinciali in materia, non saremo certo noi ad andare contro l’interesse della Provincia”, ha spiegato ancora Durnwalder. E anche costruendo nel verde agricolo, non ci sarebbero stati risparmi negli espropri: “L’indennizzo è commisurato alla destinazione futura del terreno, sarebbe quindi stato dello stesso importo”, ha aggiunto Durnwalder. Chiara la posizione anche in merito ai presunti utili milionari dei soggetti espropriati: “Per acquistare i terreni erano stati sborsati a suo tempo circa 12 milioni di euro più IVA, la somma dell’esproprio si aggira sui 15 milioni, che corrispondono alla valutazione dell’Ufficio estimo”, ha concluso Durnwalder. Reggio Calabria: il Coisp lancia l’allarme sul decreto svuota carceri www.ntacalabria.it, 12 marzo 2012 Riparte la campagna di denuncia e di sensibilizzazione “P.S. Pressing”, ideata e messa in campo dalla Segreteria Provinciale di Reggio Calabria del Coisp - il Sindacato Indipendente di Polizia, per far sentire da vicino la voce degli Operatori della Polizia di Stato. “Questo decreto, che vuole creare micro carceri sparse per le Questure, creerà grossi problemi - esordisce Gaetano Raffa Segretario Provinciale del Coisp Reggino - un provvedimento che pensa di scaricare i detenuti sulle spalle di polizia e carabinieri. Solo chi non ha nessuna conoscenza della reale situazione delle forze dell’ordine può inventare simili soluzioni. Il decreto voluto dal governo Monti porta delle novità sull’intero sistema sicurezza, gli indagati vengono mantenuti nelle camere di sicurezza delle Questure o delle caserme e di fatto, detto decreto, rende anche le pene successive più deboli, ponendo eventuali arrestati in misure diverse dal carcere”. “Lo scorso 10 marzo - continua Raffa - abbiamo inviato al Questore di Reggio Calabria una lettera aperta, nella quale manifestavamo le nostre serie preoccupazioni circa l’applicazione di questo Decreto”. “Inoltre, sull’argomento - sottolinea Raffa - recentemente, il Vice Capo della Polizia di Stato si è espresso anche sulle carenze strutturali delle camere di sicurezza presenti negli Uffici delle Forze di Polizia, affermando che Le camere di sicurezza sono troppo poche, 1.057 in tutto, e non garantiscono la dignità di chi vi dovrebbe essere rinchiuso, e proprio per questo motivo che i detenuti stanno meglio nelle carceri”. “Facciamo nostre la verità e le preoccupazioni espresse dal Prefetto Cirillo - precisa Gaetano Raffa - circa l’adeguatezza delle camere di sicurezza e chiediamo che vengano adottate idonee misure per verificare se le celle della nostra Questura siano conformi agli standard previsti dall’ordinamento penitenziario e dalla normativa sulla tutela dei diritti umani (Legge 26 luglio 1975 nr.354 e successive modifiche)”. “Noi - conclude il Segretario del Coisp di Reggio Calabria - non rimarremo indifferenti sulla vicenda e faremo di tutto affinché l’Amministrazione non affronti in modo superficiale la questione, intraprendendo ogni possibile iniziativa, affinché siano tutelate e salvaguardate la dignità e l’identità lavorativa dei nostri Colleghi”. Cagliari: premio a Suor Angela di Buoncammino… “amica di chi è solo” Ristretti Orizzonti, 12 marzo 2012 “Aldilà di qualunque retorica, non c’è un’altra persona che meriti un premio di solidarietà al pari di Suor Angela. Oltre all’umiltà, alla caparbietà e determinazione con cui quotidianamente vive l’esperienza dentro Buoncammino, Suor Angela ha la pazienza di ascoltare e soccorrere non solo chi non ha mezzi materiali ma soprattutto chi non ha famiglia, parenti, affetti. Chi è solo. Questo la rende unica e meritevole di ammirazione”. Lo ha detto Gianfranco Pala, direttore della Casa Circondariale di Cagliari, intervenendo all’assegnazione della prima edizione del “Premio Solidarietà Donna” promosso dall’associazione “Socialismo Diritti Riforme” e dalla sezione cagliaritana della Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari. Particolarmente toccante il messaggio fatto recapitare da Padre Massimiliano Sira, cappellano dell’Istituto di Pena, assente per problemi di salute. “Mi rende profonda gioia - ha scritto - il riconoscimento del suo servizio meraviglioso, unico, discreto in quel mondo bisognoso che è il carcere e voglio ringraziare Suor Angela per il suo grande cuore che ho potuto apprezzare in questi cinque anni condivisi con lei accanto ai fratelli e alle sorelle ristrette”. L’appuntamento, alla presenza di diversi rappresentanti degli Agenti della Polizia Penitenziaria con la Vice Comandante Barbara Caria, di alcuni educatori, tra i quali Giuseppina Pani, e delle associazioni di volontariato che operano nella struttura tra cui la Caritas e l’Orsac, è stata l’occasione per ripercorrere le principali tappe della vincenziana anche attraverso le testimonianze delle sue consorelle come Suor Rina Prevosto della Casa Famiglia di via Basilicata. Nel corso dell’incontro, coordinato da Gianni Massa segretario dell’associazione Sdr, la presidente della Fidapa di Cagliari ha illustrato gli scopi dell’iniziativa. Il “Premio Solidarietà Donna” è finalizzato a valorizzare l’impegno spesso sconosciuto che molte persone prodigano verso gli altri. L’iniziativa, che abbiamo accolto, si inserisce peraltro nel tema annuale scelto dalla nostra organizzazione a livello nazionale”. “Suor Angela Niccoli - ha sottolineato Maria Grazia Caligaris presidente di Sdr - è un esempio per tutto il volontariato carcerario”. Un messaggio di condivisione e di apprezzamento per l’iniziativa è stato recapitato anche dalla Presidente della Provincia Angela Quaquero. Si è svolta quindi la cerimonia di consegna del Premio consistente in una targa-gioiello rappresentante un Angelo con impresso l’aforisma di Sofocle “L’opera umana più bella è di essere utile al prossimo”, realizzata dall’artista Maria Conte, e in un rosario d’argento. Le parole di ringraziamento di Suor Angela Niccoli hanno suggellato l’appuntamento. Suor Angela Niccoli è nata a San Giorgio Piacentino il 23 giugno 1927. In Sardegna dal 1954, ha ricoperto l’incarico di Superiora a Sorso (Sassari). Si è quindi trasferita a Cagliari dove opera da 40 anni. È stata, tra l’altro, responsabile nel Conservatorio delle Ragazze negli anni Settanta e Superiora nella Casa di Riposo di viale Sant’Ignazio per sette anni. Dal 1989 lavora costantemente nell’Istituto Penitenziario di Buoncammino svolgendo diversi compiti non solo spirituali. Il suo impegno non si limita infatti a vivere l’esperienza a diretto contatto con le donne detenute ma si estrinseca con il supporto concreto per la soluzione dei diversi problemi dei cittadini privati della libertà. Dai francobolli e la carta da lettere per consentire ai reclusi di scrivere ai familiari lontani, al ritiro di documenti, dalle necessità più umili alla cura dei piccoli quando si trovano con le madri ristrette. È considerata un’imprescindibile sostegno all’interno del carcere e contribuisce con il Cappellano Padre Massimiliano Sira e il Diacono Mario Marini alla salute spirituale dei detenuti. Con il lavoro si è ritagliata uno spazio autonomo divenendo punto di riferimento di tutti gli operatori penitenziari a partire dagli Agenti e dagli Educatori. Roma: Severino e Polverini a Rebibbia per la proiezione del film “cesare deve morire” Dire, 12 marzo 2012 Quando il teatro - e il cinema - rendono liberi, quando la ricerca della verità e della finzione si fondono, quando fiction e documentario diventano una sola cosa. È allora che prende forma “Cesare deve morire”, la pellicola dei fratelli Taviani vincitrice dell’Orso d’oro al Festival di Berlino, che vede i detenuti del carcere romano di Rebibbia mettere in piedi una particolare rivisitazione del “Giulio Cesare” di William Shakespeare, con prove e provini annessi e integranti. E proprio oggi il film è stato proiettato nel teatro dell’istituto penitenziario, dove ad assistere, oltre agli stessi attori e ai registi, Paolo e Vittorio Taviani, c’era una platea d’eccezione composta, tra gli altri, dal ministro della Giustizia, Paola Severino, e dal presidente della Regione Lazio, Renata Polverini. In sala anche il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, l’assessore regionale alla Sicurezza, Giuseppe Cangemi, e il direttore del nuovo complesso circondariale di Rebibbia, Carmelo Cantoni. Voi, ha detto Severino ai detenuti al termine della proiezione, “avete portato la vostra voce fuori dal carcere, dimostrando che esso può mantenere l’umanità dentro le persone. Ho sempre pensato - ha aggiunto il ministro - che il carcere fosse sì espiazione della pena, ma anche un momento di redenzione e risocializzazione, e voi, con questo lavoro, avete dimostrato che ciò è possibile”. Per Polverini “è una grande emozione essere qui e vedere questo film per la seconda volta. Lo scorso anno sono stata qua per la consegna dei diplomi dei corsi di formazione promossi dalla Regione Lazio, proprio con i fratelli Taviani, e credo che tutto sia nato da lì”. Questo film, ha aggiunto la governatrice, “lo sentiamo anche un po’ nostro perché è un progetto che abbiamo fortemente sostenuto, e quando abbiamo appreso della vittoria dell’Orso d’Oro ci siamo sentiti premiati anche noi”. La Regione, ha concluso Polverini, “non ha competenze dirette sul mondo carcerario, ma per quello che possiamo fare cerchiamo di dare un contributo, perché è anche attraverso la formazione che si danno a queste persone nuove opportunità una volta libere”. Roma: Paolo Taviani; un’ingiustizia allontanare i detenuti dalle loro donne Adnkronos, 12 marzo 2012 “È un’ingiustizia che questi esseri umani siano allontanati dalle donne. Spero che questo Paese affronti con coraggio questo aspetto, anche facendo scelte magari impopolari”. Lo ha detto con forza Paolo Taviani al termine della proiezione del film di cui è regista assieme al fratello Vittorio, “Cesare deve morire”, nel carcere di Rebibbia. Emozionatissimo il fratello Vittorio che ha evidenziato i grandi doni dal punto di vista umano ottenuti girando questo film a Rebibbia: “Cesare deve morire ci ha permesso di incontrare persone che sono diventate nostre amiche come le guardie carcerarie o come Fabio Cavalli che è un grande personaggio. Un regista di grande talento che dedica la propria professionalità in gran parte ai detenuti di Rebibbia. Questa esperienza ha consentito, in generale, a persone di estrazione diversa di conoscersi e di volersi bene”. Vittorio Taviani ha poi ringraziato gli attori detenuti o usciti da poco che hanno recitato nel film sottolineando come insieme a loro siamo riusciti a trovare una “scheggia di verità”. Loro, ha detto, “hanno portato nello sguardo il loro dolore, la loro intensità. Non è vero che, come spesso dicono di se stessi, sono guardatori di soffitto. Sono, invece, persone che stanno cercando il senso della loro vita domani”. Siracusa: Crivop onlus va nelle carceri, per i giovani e per i figli dei detenuti Ristretti Orizzonti, 12 marzo 2012 Oggi Crivop (l’onlus Cristiani italiani volontari penitenziari) porta per la prima volta il “Cineforum Onesimo” nella Casa circondariale di Siracusa con il film d’ispirazione cristiana “Affrontando i giganti” di Eric Wilson. La proiezione è preceduta da una presentazione per predisporre i giovani ristretti a un confronto e a uno sviluppo dei messaggi di fede contenuti nel film. Lunedì 19 marzo, invece, in occasione della festa dei papà, la Crivop, in collaborazione con l’associazione Comunione fraterna attiva in intrattenimenti per bambini, riproporrà nella struttura penitenziaria di Noto (SR) l’incontro intitolato “Un’ora di arcobaleno”. Dopo la buona riuscita del 2011, è stato chiesto dalla direzione del carcere di ripetere lo spettacolo per due volte nella stessa giornata (alle 10 e alle 14) per esaudire le richieste di detenuti che altrimenti non avrebbero potuto partecipare con i loro figli per mancanza di spazio. Durante questo incontro si organizzeranno, a favore dei figli dei ristretti, puppets, canti, giochi di gruppo e degustazione di dolci. “Sarà - dichiara il presidente di Crivop, Michele Recupero - un giorno particolare: i figli dei ristretti avranno modo di gustarsi lo spettacolo restando sulle gambe dei loro papà, realizzando per qualche ora un sogno tanto atteso”. Verona: il 15 marzo l’incontro “La figura del garante delle persone detenute…” Ristretti Orizzonti, 12 marzo 2012 Nella mattinata di giovedì 15 marzo, si riuniranno in congresso a Verona i Garanti delle persone private della libertà personale presenti nelle carceri italiane. A seguire, alle ore 15, in sala Arazzi a Palazzo Barbieri, si terrà l’incontro “La figura del Garante delle persone detenute e l’effetto alone in Veneto. Un modello esportabile in tutte le amministrazioni”. Il convegno è promosso dalla commissione consiliare Affari sociali del Comune di Verona, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio comunale e l’Associazione Nazionale Comuni Italiani. “Durante l’incontro si parlerà del ruolo e dell’istituzione della figura del Garante, con particolare riferimento all’esperienza maturata nel nostro Comune - spiega la presidente della commissione Affari Sociali Antonia Pavesi - Verona è infatti una delle diciotto città italiane ad aver nominato il Garante delle persone detenute e si sta facendo promotrice dell’istituzione di questa importante figura in tutte le città del Veneto”. Interverranno il presidente del Consiglio comunale Pieralfonso Fratta Pasini, l’assessore ai Servizi Sociali del Comune di Verona Stefano Bertacco, la Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Verona Margherita Forestan e la presidente della commissione Affari Sociali Antonia Pavesi. Seguirà la relazione del dottor Franco Corleone, sottosegretario alla Giustizia dal 1996 al 2001, attuale Coordinatore dei Garanti nazionali e Garante del Comune di Firenze. La partecipazione all’incontro del pomeriggio è aperta al pubblico. Napoli: il 15 marzo conferenza stampa sulla condizione degli istituti di pena in Italia Comunicato stampa, 12 marzo 2012 Il Carcere Possibile Onlus - Camera Penale di Napoli. Giovedì 15 marzo 2012, ore 11.00 - Camera Penale, Palazzo di Giustizia di Napoli - Centro Direzionale. Conferenza Stampa sulla condizione degli Istituti di Pena in Italia. Nell’occasione saranno collocati nella sede della Camera Penale 2 striscioni con la seguente indicazione: detenuti morti nelle carceri italiane: Anno 2010: 186 - suicidi 66; anno 2011: 184 - suicidi 66; al 10 marzo 2012 : 34 - suicidi 13. Un decesso ogni due giorni, un suicidio ogni cinque. “Fate presto”, con proiezione di due video-inchieste sulle carceri italiane dove vivono stipate migliaia di persone, confinate oltre i limiti della legalità, tra miseria e solitudine, ai margini di una società per lo più ignara del dramma che ogni giorno si consuma nelle nostre galere. Celle dove i detenuti non possono stare in piedi tutti contemporaneamente perché non c’è spazio. Letti a castello anche a quattro piani. Gabinetti a vista, dove si cucina e si mangia. I bisogni corporali si fanno avanti a tutti. Dice un detenuto: “nemmeno i maiali sono trattati così”. Si vede su una branda un uomo di 86 anni in gravissime condizioni, che dopo la visita del giornalista e la ripresa video, sarà finalmente trasferito (ma quanti ancora ce ne sono in queste condizioni ?). N.B. per l’ingresso al palazzo di giustizia con macchine fotografiche e/o videocamere è necessario accreditarsi presso la procura generale. Stati Uniti: rapporto Onu sulla tortura denuncia “Manning trattato in modo crudele” Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2012 Il soldato, accusato di avere trasmesso informazioni riservate a Wikileaks, è stato detenuto in isolamento 23 ore al giorno per 11 mesi. Il Pentagono ha sempre negato un incontro privato tra l’imputato e l’inviato delle Nazioni Unite. Bradley Manning, il soldato accusato di avere rivelato dati riservati a Wikileaks, sarebbe stato sottoposto dagli Stati Uniti a un trattamento detentivo che ha violato la convenzione internazionale contro la tortura. È quanto emerge dal rapporto speciale dell’Onu “sulla tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti”. Manning è stato tenuto in isolamento 23 ore al giorno per 11 mesi, dal suo arresto a Baghdad il 29 maggio 2010, fino al 20 aprile 2011. L’inviato Onu ha chiesto più volte al governo di incontrarlo privatamente, ma il permesso è stato sempre negato. La conversazione, infatti, sarebbe comunque stata monitorata. Secondo Méndez, che ha stilato il rapporto al termine di un’inchiesta durata 14 mesi, “imporre condizioni di detenzione seriamente punitive su chi non è stato riconosciuto colpevole di alcun crimine è una violazione del diritto all’integrità fisica e psicologica e della presunzione di innocenza”. Accuse che riemergeranno davanti alla corte marziale preposta alla valutazione dei 22 capi di imputazione contro Manning, tra cui quello di “avere aiutato il nemico” degli States. Ovvero Julian Assange. E in un’intervista al Guardian Méndez ribadisce che “11 mesi in condizione di isolamento costituiscono come minimo un trattamento crudele, inumano e degradante in violazione dell’articolo 16 della convenzione contro la tortura. Se gli effetti in termini di dolore e sofferenze inflitte a Manning fossero più gravi, potrebbero costituire tortura”. Che non è mai potuta essere né confermata né smentita, visto che il Pentagono non ha mai concesso un faccia a faccia riservato tra il soldato e l’inviato delle Nazioni Unite. Polonia: i detenuti di Danzica diventano studenti universitari Ansa, 12 marzo 2012 L’Università di Danzica ha avviato da alcuni mesi un programma didattico finalizzato al recupero personale e lavorativo di alcuni detenuti. Studenti e professori universitari, infatti, hanno deciso di realizzare un breve corso di economia e marketing all’interno delle mura del carcere cittadino per formare i carcerati e dare loro una nuova possibilità. L’obiettivo dell’iniziativa è quello di aiutare i detenuti, prossimi alla fine della pena, a trovare un lavoro o ad avviare una propria impresa quando saranno usciti dal carcere. Durante le lezioni, infatti, i detenuti imparano come creare e finanziare un’attività commerciale, come scrivere un business plan, come comportarsi e cosa dire durante un colloquio di lavoro. Il programma dell’Università di Danzica ha coinvolto finora circa 160 detenuti, riscuotendo un notevole interesse: le autorità amministrative e la stessa università stanno pensando di coinvolgere nell’iniziativa altre carceri della regione. Nel frattempo, c’è da registrare il primo successo di un ex carcerato che, dopo aver lasciato la prigione, è riuscito ad avviare un’attività commerciale con la collaborazione di alcuni studenti universitari. Il progetto di formazione professionale, inoltre, ha ottenuto un grosso finanziamento dalla banca Hsbc e, recentemente, ha realizzato il secondo posto al Concorso “Andrew Walentynowicz” per Giovani Leader. L’iniziativa dell’Università di Danzica, dunque, ha permesso di ricordare a tutti che il carcere non deve avere una funzione esclusivamente punitiva, come purtroppo avviene spesso, ma deve invece aiutare a recuperare e riabilitare il detenuto alla vita sociale e lavorativa.