Giustizia: intervista a Capo Dap Tamburino; “più carcere” non è uguale a “più sicurezza” di Liana Milella La Repubblica, 11 marzo 2012 Il nuovo capo del Dap: un errore chiudere Pianosa e Asinara. L’uso del braccialetto elettronico va rivisto: è assurdo che da oltre dieci anni si paghi per un servizio inesistente. La cella è medicina pesante con effetti collaterali: va somministrata solo in caso di necessità Un “contratto” tra lo Stato e il detenuto. Per un “carcere leggero”. Per 20mila detenuti definitivi che oggi passano il tempo chiusi in cella. Un accordo che, se infranto, comporterebbe l’inasprimento della pena. Giovanni Tamburino, ex presidente dei tribunali di sorveglianza di Venezia e Roma, al suo attivo la famosa inchiesta sulla Rosa dei venti e la richiesta d’arresto per il generale Miceli, parla per la prima volta con Repubblica da quando il Guardasigilli Paola Severino l’ha scelto per dirigere le carceri. Dà un dato: “calano i detenuti in Italia”. Davvero? E che sta succedendo? “Le ragioni sono due: l’effetto delle nuove leggi, impropriamente definite “svuota carceri”, e un calo del numero dei reati puniti con la detenzione. I due fattori portano a una lievissima flessione che contiene un elemento assai interessante, l’andamento discendente è sì molto lieve, ma costante. Andiamo da un picco di quasi 69mila detenuti a metà 2010 a 66.600 di qualche giorno fa”. Allora perché costruire nuove carceri? “Non se ne può fare a meno perché comunque, rispetto ai 47-48mila posti effettivi, abbiamo 66mila detenuti e lo scarto è intollerabile. L’Italia è nella media europea quanto al rapporto popolazione-detenuti, mentre è molto al di sotto in quello posti carcere-detenuti”. Di quanti posti avreste bisogno? “Tra Rieti, Cagliari, Oristano, Tempio Pausania, Avellino e anche altri disporremo in tempi brevi di circa 3mila posti in più. Ma ce ne vorrebbero almeno altri 7-8mila”. Lei è qui da venti giorni. In quanti le hanno chiesto un indulto o un’amnistia? “Vivo nel mondo delle carceri da oltre dieci anni, ne ho visitate tantissime, e ovviamente i detenuti lo chiedono. Da quando sono qui, percepisco ancor più questa attesa. Ma come dice il ministro Severino ogni iniziativa al riguardo è strettamente politica”. Ci dà un’istantanea delle patrie galere? “L’immagine è molto variegata. Ci sono zone con condizioni positive e accettabili, altre intollerabili. C’è una grave insufficienza per le offerte di lavoro. Questo è uno degli elementi più pesanti nella quotidianità, perché porta all’abbrutimento di chi sta dentro, in quanto l’ozio senza alternative ti uccide”. E la macchina che dirige? “Ha risorse umane molto ricche, ma non riesce a metterle a frutto. Gli stessi poliziotti penitenziari non possono limitarsi al gesto tradizionale di aprire e chiudere la cella, devono diventare specialisti nel rapporto umano con i detenuti”. Utopia? “No, avanzamento culturale possibile che cambierebbe non solo il gusto di fare questo lavoro, di per sé ingrato, ma pure le condizioni di sicurezza”. Pensa a un carcere leggero? “Vi sono detenuti, certamente non tutti, in grado di assumere un impegno e di rispettarlo. Chi contravviene al patto dovrà pagare seriamente il tradimento. Ciò cambierà la vita interna in carcere e le modalità della custodia”. Che patto sarebbe? “Un modello cui ispirarsi è il carcere di Bollate, pensato oltre 10 anni fa da Francesco Gianfrotta, allora responsabile della direzione generale dei detenuti e da me, che ero all’ufficio studi. Lì il soggetto resta “libero” per buona della giornata e lavora”. Quanti detenuti coinvolgerebbe? “Si può realisticamente pensare che circa la metà dei definitivi, intorno a 20mila, potrebbe essere coinvolto con buoni risultati”. Non pensa alle reazioni della Lega? “Di sicuro il carcere “aperto” non può andar bene per tutti, perché le esigenze di sicurezza sono molto diversificate. È ovvio che non penso assolutamente a quel tipo di detenzione per mafiosi e violenti”. Non è solo propaganda? “Già adesso lavora il 20% dei detenuti, troppo poco. E ci sono esperienze positive come quelle di Padova e della Gorgona. Altre lo erano e sono state abbandonate, come Pianosa e l’Asinara. Forse non è stata una decisione saggia, anche perché, soprattutto a Pianosa, le strutture erano in ottime condizioni e non compromettevano l’ambiente. È stato un vero e proprio spreco di risorse”. Braccialetto. Il Viminale ha rinnovato il contratto Telecom da 10 milioni di euro. Lo usate o solo uno spreco? “La gestione è affidata in via esclusiva al Viminale. Il Dap non ha nessuna contrarietà ad usarlo. Il punto è che pochissimi magistrati hanno chiesto finora di applicarlo. A mio parere occorre rivedere la questione perché se da oltre 10 anni si paga molto per un servizio pressoché inesistente, è evidente che qualcosa non va”. Il carcere fa notizia per le condizioni disumane dei detenuti e per i suicidi, già 11 nel 2012. E lei? “Rispondo con uno slogan: “più sicurezza per la società e meno carcere”, perché l’equazione “più sicurezza uguale più carcere” è falsa. Bisogna costruire pene alternative con una grande forza deterrente, diverse dal carcere. La cella è una medicina pesante e con molti effetti collaterali. Va somministrata solo in caso di effettiva necessità”. Giustizia: tre punti sulle carceri… lettera aperta al capo del Dap Giovanni Tamburino di Mauro Palma (ex presidente Comitato europeo anti tortura e presidente onorario di Antigone) Il Manifesto, 11 marzo 2012 Giovanni Tamburino è un magistrato di lunga esperienza che conosce bene importanza e limiti dell’azione di giustizia. Soprattutto conosce le criticità della detenzione in carcere. Lungo la sua carriera ha avuto incarichi di rilievo nel Dipartimento dell’ amministrazione penitenziaria di cui conosce, quindi, la complessità organizzativa e la vischiosità ambientale che hanno reso difficile l’attuazione. di innovazione anche da parte delle persone più accorte che vi hanno lavorato e vi lavorano. È stato nel periodo più recente presidente del Tribunale di sorveglianza prima a Venezia e poi a Roma e ha quindi familiarità con i problemi della detenzione quotidiana, dello stato degli Istituti penitenziari e della costruzione affannosa e a ostacoli di un percorso che accompagni verso la libertà, così come prefigurato dalla nostra Costituzione e dall’ordinamento penitenziario. Non solo, ma in quest’ultima funzione si è misurato con il regime più securitario, quel 41 bis di cui il Tribunale di Roma ha competenza esclusiva. Non c’è dunque alcun bisogno di segnalare a Giovanni Tamburino i problemi e le criticità del carcere di oggi, divenuto luogo al limite e anche oltre quel trattamento inumano e degradante che è vietato non solo dal senso comune della civiltà giuridica di un paese, ma anche da obblighi internazionali inderogabili. Non ci eserciteremo perciò nel suggerirgli un progetto per la sua nuova direzione del Dap. Al contrario, attendiamo da lui un’indicazione che valuteremo in un confronto franco e attento. Quello che ci sembra importante segnalare subito, nell’attesa di tale progetto, è la necessità di tenere ben chiare nella sua delineazione tre direttrici. La prima riguarda la necessità di riportare il carcere a luogo di legalità. È paradossale che la legalità non sia tutelata proprio nel luogo che a essa pretende di rieducare. Ma, purtroppo, questa è la situazione attuale. Chi finisce in carcere vive in un ambiente che sembra a ogni istante ricordargli che le norme sono soltanto enunciazioni, spesso rigide, ma di fatto incapaci di mutare la quotidianità. Il regolamento emanato 12 anni fa è applicato in misura ridottissima e bellamente bypassato: già solo questo è un messaggio dirompente in grado di annullare il senso stesso del concetto, di per sé piuttosto ambiguo, di rieducazione. Riportare il carcere alla legalità - e dunque alla piena attuazione del regolamento - vuol dire tra l’altro non investire le risorse esistenti in progetti edilizi che inseguono la tendenza bulimica della carcerazione, bensì impiegarle nella risistemazione degli Istituti fatiscenti e nel far finalmente funzionare quelli già pronti da tempo. Questo punto apre alla seconda direttrice, che è quella dell’investimento sul personale in termini di migliore utilizzo di quello esistente, fuori dai molti compiti che hanno finito col rendere grande le distanze tra organico, personale formalmente in funzione e personale davvero in servizio. Significa anche investire sul riequilibrio numerico tra coloro che sono impiegati nelle varie aree (sicurezza, rieducazione, ass.za sociale) e sulla coerenza della loro formazione con la realizzazione di un progetto riconoscibile. Il carcere non può più essere il luogo dove si lascia fluire il tempo in una sorta di infantilizzazione forzata; i detenuti devono essere attori - guidati, controllati -ma attori di un percorso di cui rispondono in prima persona e che ne potenzi la possibilità di reinserimento sociale. C’è infine una terza ineludibile direttrice: quella di non inviare alcun messaggio che possa essere interpretato come impunità rispetto ad accertati episodi di maltrattamenti in carcere o timidezza nell’indagine delle purtroppo non rare denunce. Recentemente ad Asti alcuni agenti sono stati prosciòlti in primo grado soltanto perché nel codice non è prevista una figura di reato come la tortura, adeguata alla gravità dei fatti che il processo ha accertato: giustamente, prima di prendere definitivi provvedimenti, occorre attendere quella definitiva. Tuttavia è buona norma che nel frattempo queste persone non siano più a contatto con i detenuti e siano impiegate altrimenti. Ci attendiamo che in questo e in simili casi le decisioni siano rapide e chiare perché l’inerzia in quest’ambito non è neutrale: al contrario è indicativa del segno che si dà all’intera gestione dell’amministrazione penitenziaria. Sono direttrici apparentemente semplici, ma il loro perseguimento è il test a cui molti sottoporranno la nuova gestione. Giustizia: Opg, gli ultimi manicomi… quale futuro dopo la loro chiusura? di Giusy Gabriele www.linkontro.info, 11 marzo 2012 Il 31 marzo, finalmente, dopo anni di battaglie civili delle associazioni e anche grazie ai recenti scandali suscitati dalle condizioni vergognose nelle quali vengono trattenuti i pazienti, chiuderanno gli ospedali psichiatrici giudiziari. Già nel 1978 all’atto di promulgazione della legge 180 che sancì la chiusura dei manicomi molti, a partire da psichiatria democratica, sollevarono la contraddizione che in quella riforma non si facesse cenno ai manicomi giudiziari. Ci sono voluti più di trent’anni di impegno e di dibattito per fare l’ulteriore passo. Adesso, mentre festeggiamo per questa vittoria, dobbiamo, però, mantenere ferma l’attenzione e la vigilanza sulle scelte successive che verranno fatte in materia di assistenza a quei pazienti che hanno commesso reati. Il primo rischio che si corre è che le strutture regionali siano sanitarie solo nella forma, ma che nella sostanza mantengano quel carattere custodialistico e repressivo che mette in secondo piano la cura e l’assistenza al punto da renderle impraticabili. Basaglia aveva più volte sottolineato come senza libertà e rispetto dell’altro nei suoi diritti fondamentali non sia possibile essere terapeuti. Pertanto sarà proprio a livello regionale che bisognerà attuare un attento monitoraggio per capire a che tipologia di strutture verranno affidati i pazienti che, dopo anni di atroci sofferenze, tornano nel territorio di appartenenza. C’è, inoltre, un altro livello di riflessione che va proseguito e approfondito ed è quello giuridico. Infatti la questione più complessa, ma dirimente, è quella dell’imputabilità dalla quale nasce la contraddizione tra cura e custodia. C’è una necessità di non sottrarre all’individuo “il diritto al processo” e, in tutti i casi, ad un processo equo. Nel passato con la definizione di “pericolosità sociale” si sono trattenute per anni in questi istituti orribili, persone che avevano commesso reati di entità minima per la quale altri, cosiddetti sani, non sarebbero neanche stati arrestati. Insomma permettetemi la semplificazione: per uno schiaffo alla propria moglie, uso questo esempio non a caso, un uomo “normale” non subisce nessuna conseguenza, mentre un sofferente psichico può passare anni chiuso in una struttura. Ritengo che il secondo avrebbe preferito essere processato e condannato e non ritenuto “incapace”, considerate le conseguenze. Sulle facoltà mentali del primo, ovviamente, non mi esprimo per evitare di apparire faziosa. Dunque, intanto che facciamo questo primo passo di liberazione parziale dall’inferno degli Opg, occasione importante da non perdere e da non sottovalutare, dobbiamo tenere fermo l’orizzonte della Giustizia che ci deve guidare per garantire che tutti i cittadini siano uguali compresi o, forse, a cominciare da quelli più in difficoltà. Giustizia: Radicali; l’amnistia è l’unica soluzione per l’emergenza carceraria Ansa, 11 marzo 2012 “Non ci sono alternative all’amnistia per rientrare subito nella legalità costituzionale”. Questa la posizione dei radicali, sintetizzata dal deputato Rita Bernardini, componente della commissione giustizia, che è intervenuta ad un convegno dell’Associazione radicale di Napoli su “Amnistia per la Repubblica. Indulto, misure alternativa alla detenzione”, organizzato al termine di una serie di sopralluoghi nella carceri campane. “L’amnistia - ha detto Rita Bernardini - riguarda soprattutto i processi penali pendenti. Se ci suggeriscono un modo alternativo siamo apertissimi, ma non esiste”. Secondo dati diffusi dai radicali a Poggioreale vi sono 2.638 detenuti a fronte dei 1.410 della capienza prevista, 1.861 dei quali sono in attesa di giudizio. Il 25% dei reclusi è tossicodipendente. Gli agenti penitenziari sono 750, mentre la pianta organica ne prevedrebbe 950. A S. Maria Capua Vetere (Caserta) i detenuti sono 952, rispetto ai 522 previsti. 345 detenuti sono in attesa di giudizio. Nel carcere femminile di Pozzuoli le detenute sono 202 rispetto alle 82 previste. 72 sono in attesa di giudizio. Per il deputato del Pdl Alfonso Papa, che sta accompagnando i radicali nelle visite ispettive alle carceri, il problema non è la costruzione di nuove case di pena. “Non c’è n’è bisogno. Circa la metà dei detenuti in Italia è in attesa di giudizio, abbiamo bisogno di umanizzare la loro condizione”. Per Alfonso Papa, detenuto a Poggioreale per 101 giorni, nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4, “la detenzione cautelare deve essere applicata - come prevede la Costituzione - solo nei casi di conclamato allarme sociale e di maggiore gravità, mentre il dato oggettivo testimoniato dalle cifre è l’ abuso della custodia cautelare”. Al convegno sono intervenuti il senatore Luigi Compagna (Pdl), che ha firmato la proposta di legge per l’amnistia, il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli Carminantonio Esposito, il presidente della Camera Penale di Napoli Domenico Ciruzzi ed il segretario del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) della Campania Emilio Fattorello. Giustizia: la misura cautelare in carcere è ancora un’estrema ratio di Riccardo Arena www.radiocarcere.com, 11 marzo 2012 Francesco Caltagirone Bellavista è stato condotto nel carcere di Imperia, perché indagato dal 2010 in ordine al reato di truffa a danni dello Stato per le modalità di assegnazione della concessione delle aree alla “Porto Imperia spa”. Paolo Iannelli, primario di ortopedia all’ospedale “Cardarelli” di Napoli, è stato portato in carcere in quanto indagato in ordine ai reati di concussione, abuso d’ufficio, falso e truffa in danno della pubblica amministrazione. Iannelli, con altri, è sotto indagine essenzialmente perché pare inducesse i pazienti a pagare per prestazioni che potevano essere erogate dal Servizio sanitario nazionale. È evidente che si tratta di ipotesi di reato gravi. Ipotesi che, ove accertate da un Giudice, certamente dovrebbero determinare una pena severa. Ma la questione ora è diversa. In ambedue i casi ci si trova nella fase delle indagini preliminari. Fase delicata, quanto mutevole per sua natura. Fase che ha come finalità, non l’arresto, ma l’esercizio dell’azione penale. Fase dove, secondo la legge, dovrebbe essere eccezionale il ricorso alla misura cautelare più severa: il carcere prima del giudizio. Misura che, se non adeguatamente controllata, può determinare l’errore giudiziario, in quanto coinvolge persone che sono, secondo la legge, presunte non colpevoli. Misura cautelare in carcere che, per tali ragioni, dovrebbe essere applicata solo se ricorrono concrete esigenze. Esigenze che non possono essere tutelate con misure meno gravose. Ora, nel caso di Caltagirone Bellavista, nel caso di Paolo Iannelli, come in tantissimi altre indagini analoghe, siamo certi che è stata corretta la scelta del carcere prima del giudizio? Siamo certi che non fossero sufficienti gli arresti domiciliari? Domande queste che andrebbero poste per migliaia di casi. Sono più di 13 mila le persone detenute in attesa di un primo giudizio. Un numero esorbitante. Una cifra che dimostra una disfunzione e che deve far riflettere sull’uso, o abuso, della custodia cautelare in carcere. Una disfunzione che ha una doppia causa: l’inosservanza delle norme sulla custodia cautelare e la lunghezza del processo penale. È evidente che occorre arginare tale pericolosa disfunzione. Come è evidente che occorre ridare giustizia ai tempi processuali. Lo scopo: ristabilire la certezza del diritto. Giustizia: troppa gente in carcere abbandonata a se stessa, servono pene alternative di Don Virginio Colmegna www.cadoinpiedi.it, 11 marzo 2012 Troppa gente entra in carcere e resta abbandonata a se stessa. Servono pene alternative, che si possono promuovere solo se il tempo della pena viene concepito non come distruttivo, ma come un’opportunità per diventare consapevoli dell’errore commesso e del dovere del risarcimento. Don Virginio Colmegna Seppure in un periodo di acuta crisi economica, la realtà carceraria in Italia non può passare sotto colpevole silenzio. Troppa gente entra in carcere e resta abbandonata a se stessa in un luogo sempre più sovraffollato di persone che, spesso, non hanno risorse e sono devastate umanamente e psichicamente. I dati sono allarmanti: 66.600 detenuti stipati in celle che ne potrebbero accogliere in tutto 45.700 e già 13 suicidi dall’inizio dell’anno, secondo Ristretti Orizzonti. Cifre che danno la misura di quanto sia radicata una concezione della condanna appiattita sul carcere. In Italia, non riusciamo ad immaginare modi diversi per far scontare una pena che, si legge nella nostra Costituzione, deve essere volta al ricupero e alla consapevolezza del risarcimento come atto dovuto. Per svuotare le carceri, al di là di provvedimenti straordinari come quello da poco varato dal governo, servono pene alternative. Che si possono promuovere solo se il tempo della pena viene concepito non come distruttivo, ma come un’opportunità per diventare consapevoli dell’errore commesso e del dovere del risarcimento. Per fortuna, qualcosa è stato fatto. I lavori socialmente utili, per esempio, vanno rilanciati. Penso ad alcune esperienze avviate in modo lungimirante da parte della magistratura che a Milano hanno visto l’adesione di diversi istituzioni locali e soggetti sociali. Noi stessi, in Casa della carità, accogliamo queste persone per alcuni periodi e la lista d’attesa si fa ogni giorno più lunga. Bisogna investire in cultura e far passare il messaggio che ogni persona ha una dignità che va sempre custodita, anche quando è privata della libertà per aver commesso dei reati. E va ribadito che chi questi reati li commette vivendo in uno stato di sofferenza o malattia psichica, deve essere curato e non messo in carcere. Una società che moltiplica e chiede sempre più istituzioni totali è una società che apparentemente dà sicurezza, ma di fatto sancisce esclusione sociale: la grande intuizione basagliana del superamento dei manicomi è una vittoria che ancora va realizzata sul piano culturale. Valle d’Aosta: primo sì a nuova Legge regionale sulla sanità penitenziaria Ansa, 11 marzo 2012 Via libera in commissione per le modifiche alla disciplina regionale delle funzioni in materia di medicina e sanità penitenziaria La modifica della normativa regionale sulle funzioni in materia di medicina e sanità penitenziaria ottiene il via libera della quinta commissione del Consiglio regionale della Valle d’Aosta e si appresta così all’esame definitivo dell’aula. Il disegno di legge presentato dalla giunta regionale ha avuto voto unanime. “Il testo - spiega il vicepresidente del Consiglio Andrè Laniece, nominato relatore del provvedimento - si compone di un solo articolo ed è volto a superare i rilievi di incostituzionalità sollevati dallo Stato, con particolare riguardo alla salvaguardia delle posizioni del personale già incaricato presso la Casa circondariale di Brissogne. Infatti, con la legge regionale n. 11/2011, la Regione aveva previsto il trasferimento del personale sanitario e delle risorse strumentali e organizzative dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria all’Azienda Usl. Con questa modifica, resa necessaria dall’impugnativa, vengono precisati i rapporti di lavoro del personale sanitario operante presso la Casa circondariale di Brissogne”. Bologna: restano in carcere poliziotti arrestati con l’accusa di aver rapinato alcuni pusher Dire, 11 marzo 2012 Restano in cella i poliziotti della Questura di Bologna arrestati lunedì scorso con l’accusa di aver rapinato alcuni pusher magrebini durante il servizio. Lo ha deciso il gip Alberto Ziroldi, a cui la difesa degli arrestati aveva chiesto l’attenuazione delle misure cautelari: oggi il giudice ha sciolto la riserva e deciso di lasciarli in cella. Scelta abbastanza prevedibile, se non altro visto che tutti i quattro poliziotti, giovedì, nell’interrogatorio di garanzia si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. La decisione di mantenere la custodia cautelare in carcere è motivata da Ziroldi con il pericolo di inquinamento delle prove ma anche con la possibile reiterazione del reato. Come aveva sostenuto la Procura nell’opporsi alla loro uscita dal carcere, i quattro potrebbero tornare a rapinare anche in futuro, perché chi compie rapine in divisa potrebbe farlo anche in borghese. Intanto, i tre poliziotti delle “volanti” che da lunedì sono alla Dozza (Francesco Pace, Alessandro Pellicciotta e Valentino Andreani) hanno deciso di rinunciare alla prerogativa, prevista per gli appartenenti alle forze dell’ordine, di essere detenuti in un carcere militare. Non saranno dunque trasferiti al carcere di Santa Maria Capua a Vetere (nel casertano) ma resteranno alla Dozza, se pure nel circuito protetto in cui sono stati fino ad ora. Il quarto agente arrestato, Giovanni Neretti, per il momento è ancora al S.Orsola. Questa mattina, in Procura, il procuratore aggiunto Valter Giovannini ha convocato e ascoltato come persona informata dei fatti Eugenio Migliano, il sostituto commissario del commissariato Due Torri (in pensione da un mese) che nei mesi scorsi avrebbe avuto dei contatti con Pellicciotta, uno degli arrestati. Salerno: il piano dell’Asl per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari Città di Salerno, 11 marzo 2012 Otto posti alla struttura di salute mentale di Mariconda e altrettanti all’interno del carcere di Fuorni. È questo il progetto messo in campo dall’Asl per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari in provincia. L’apertura delle due strutture è prevista già per il prossimo mese di giugno. Ad annunciarlo è stato Antonio Maria Pagano, direttore del dipartimento di salute mentale della struttura di Mariconda, al centro nelle scorse settimane, di numerose polemiche sia all’interno dell’Asl che da parte del sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, che aveva fortemente contestato l’apertura in città di una struttura che dovrebbe accogliere detenuti che stanno per esaurire la propria pena. “Il progetto - ha sottolineato Pagano - è stato condiviso non solo dal commissario straordinario dell’Asl di Salerno, Maurizio Bortoletti, ma anche dal presidente del Tribunale di Salerno”. In città, quindi, non arriveranno criminali come aveva denunciato Antonio Zarrillo, altro dirigente del dipartimento di salute mentale. Dunque per l’estate la città di Salerno potrà accogliere sedici malati psichiatrici che hanno commesso anche dei reati e per i quali stanno scontando la loro pena all’interno delle carceri o degli ospedali psichiatrici giudiziari. I l progetto di Pagano viene accolto con freddezza dai Radicaliche, inizialmente, avevano appoggiato la scelta di trasferire i malati psichiatrici nella struttura di Mariconda. “Siamo - ha spiegato Michele Capano - ancora lontani da una seria programmazione da parte dell’Asl. Su 40 malati in provincia di Salerno, si mettono a disposizione soltanto sedici posti, di cui la metà all’interno del carcere di Fuorni. Li cacciamo dagli Opg - conclude - per chiuderli di nuovo?”. Giustizia: il Garante; il decreto “svuota-carceri” non basterà, trafile lunghe e complesse Giornale di Vicenza, 11 marzo 2012 “Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle case circondariali”. Tradotto dal burocratese significa “decreto svuota-carceri” che porta la data del 22 dicembre. A gennaio i detenuti ammessi alla detenzione domiciliare all’interno di San Pio X erano 93. Trentasei attendevano l’esecutività della sentenza, visto che avevano raggiunto il terzo grado di giudizio. Il totale dei reclusi interessati, sulla base del fine pena, era di 129, pari al 38,85% del totale dei reclusi in via Della Scola. I dati sono stati resi noti dalla direzione della casa circondariale il mese scorso. “Letti i numeri, si potrebbe determinare anche una situazione favorevole - spiega il garante per il carcere di Vicenza Federica Berti - in realtà i problemi sono molto più intricati”. In sostanza la trafila è lunga, i detenuti non devono avere pene superiori ai 18 mesi da scontare, anche se ci sono alcune eccezioni, devono accettare i controlli a domicilio e, soprattutto, devono avere un posto che li possa accogliere e dove possano essere messe in atto le misure di sorveglianza previste dal decreto”. Come al solito le intenzione sono buone, ma tra la legge e l’applicabilità c’è un mare in mezzo. Fatto di carte, burocrazia. “Istruire queste pratiche non è semplice - spiega Berti - servono tempo, strutture. Senza dimenticare che poi l’ultima parola è del magistrato di sorveglianza di Verona che decide se il detenuto può andare ai domiciliari oppure no. La situazione di Vicenza? I numeri corrispondono a quelli forniti dalla direzione, poi sui tempi, la strada da percorrere è sicuramente lunga. Inoltre, non bisogna dimenticare che il 60 per cento dei reclusi a San Pio X è straniero e questo complica la situazione non di poco”. E pensare che, secondo i dati del Ministero, dovrebbero uscire dal carcere circa 7 mila detenuti e dovrebbero essere assunti almeno 2 mila agenti di polizia penitenziaria, senza dimenticare i finanziamenti per gli ampliamenti. Parole. Vicenza: Sappe; rissa nel carcere di S. Pio X, agente picchiato da un detenuto Giornale di Vicenza, 11 marzo 2012 Una rissa a San Pio X e ad avere la peggio è stato un agente della polizia penitenziaria che è stato portato in ospedale. All’uscita otto giorni di prognosi per botte, contusioni e una ferita da taglio sopra l’arco sopraccigliare. “Purtroppo non è la prima volta che accade - spiega Luigi Bono, segretario provinciale del Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria - la situazione all’interno della casa circondariale di Vicenza è sempre più tesa, preoccupante. Gli agenti sono pochi rispetto a detenuti, costretti a vivere in spazi angusti: la capienza della struttura di pena non dovrebbe superare 146 unità, invece i reclusi sono 330, abbiamo raggiunto numeri più elevati e gli agenti sono sempre e solo 130. Pochi. Soprattutto se prendiamo in considerazione i riposi, che spesso si saltano, le malattie e le ferie”. Il problema si ripropone, questa volta i contorni sono diversi. Nell’agosto scorso il direttore, Fabrizio Cacciabue aveva proibito ai detenuti di utilizzare il campo da calcio: troppe risse, troppi diverbi tra le varie etnie, nei quali gli agenti dovevano intervenire rischiando più volte di prenderle. Quanto accaduto mercoledì scorso è decisamente più grave. Non si tratta più di un discussione per un pallone non entrato in rete o per un tiro deviato, l’assistente capo F. A. di 44 anni in servizio a Vicenza da oltre 20, è stato colpito all’interno di una cella, si è preso un pugno dritto nell’occhio, è caduto, ha battuto la testa sulla branda, ed è dovuto ricorrere alle cure dei sanitari. “Siamo in prima linea - prosegue Bono - e in pochi lo capiscono. Molti hanno ancora la convinzione che gli agenti penitenziari siano duri, rigidi per certi versi cattivi nei confronti dei reclusi, non è così. Purtroppo episodi del genere si verificano in continuazione, non solo a Vicenza, ma in tutte le case circondariali del Veneto e di altre regioni. Noi siamo preoccupati, abbiamo sollevato la questione più volte, però non vediamo risultati. Anzi, va sempre peggio. Con gli ultimi tagli - prosegue il segretario provinciale del Sappe - non sappiamo nemmeno se ci sarà l’ampliamento del carcere come all’inizio era stato deciso dall’ex ministro Algelino Alfano. Ora, il guardasigilli, Paola Severino, pare sia più intenzionata a mettere in atto provvedimenti di natura amministrativa per svuotare le carceri e favorire i domiciliari, ma a Vicenza il 60 per cento dei reclusi è di nazionalità straniera e molti non hanno alcuna possibilità di uscire perché non sanno dove andare, non hanno un’abitazione”. Il clima in via Della Scola non è sereno, puntualizza ancora il rappresentante sindacale. “Si tratta di una situazione che si protrae da troppo tempo, ormai gli animi sono lacerati, stanchi. Da parte di tutti. Facciamo turni di 8 ore invece di 6, gli straordinari ci vengono pagati, ma non oltre 41 ore al mese e molti di noi ne fanno di più, senza alcuna speranza di recuperare un euro. Viaggiamo su mezzi per il trasporto in carcere dei detenuti, che hanno anche 300 mila chilometri e a volte ci siamo dovuti fermare perché non c’erano i soldi per il carburante, senza dimenticare la manutenzione. Come si può andare avanti così? A gennaio scoppiò una rissa furibonda nel carcere di Bolzano, i reclusi avevano incendiato i materassi, alcuni avevano tentato di evadere. Nel cuore della notte siamo dovuti partire per andare a prenderne alcuni e trasportarli a Vicenza per calmare gli animi. La situazione carceraria è grave ovunque. Vorremmo sensibilizzare l’opinione pubblica al riguardo - conclude Luigi Bono- , vorremmo che la gente capisse anche il nostro disagio nei confronti di una professione che comincia ad avere connotazioni sempre più pericolose per noi e anche per chi occupa celle sempre più inadatte ad accogliere tre o quattro persone”. “Servono dignità, diritti. Per tutti. La nostra vuole essere una denuncia. Speriamo che qualcuno la raccolga”. Bolzano: la Provincia spende 16 milioni € per i terreni su cui costruire il nuovo carcere Alto Adige, 11 marzo 2012 Con le pubbliche amministrazioni si possono fare ottimi affari, quando si ha il fiuto e l’obiettivo di raggiungerli. Prendiamo l’area dove sorgerà il nuovo carcere del capoluogo: 4,2 ettari a Bolzano sud, nei frutteti accanto all’aeroporto. Ancora non si sa con certezza quando l’immobile verrà costruito. La volontà della Provincia però è quella di partire con il bando di gara già il mese prossimo. E magari di arrivare all’inizio dei lavori entro l’anno in corso. In passato, nell’anno 2006, un progetto era già stato presentato: dalla Rauchbau, impresa edile di Nalles. Non è detto che il progetto venga realizzato, vista la volontà di portare avanti un concorso, ma intanto la stessa impresa Rauchbau, insieme al gruppo Podini, proprietari dell’area attraverso la società “Landkast srl”, un bel traguardo l’hanno raggiunto. La Provincia di Bolzano che in base all’accordo di Milano ha messo a disposizione cento milioni di euro per la realizzazione del nuovo carcere, pagherà ai proprietari dei 4,2 ettari di frutteti poco meno di 16 milioni di euro, esattamente 15,8. Un bell’affare per la “Landkast Srl” e quindi per il gruppo Podini e la Rauchbau. Naturalmente non è dato sapere quanto questi ultimi abbiano pagato ai precedenti proprietari dell’area, ma i frutteti sono frutteti, seppur pregiati. Un terreno destinato invece a una simile struttura, ha un valore più alto, non fosse altro che per la difficoltà di reperire il luogo idoneo alla erezione di un nuovo carcere. La nuova struttura, come annunciato dal presidente della provincia Luis Durnwlader nelle scorse settimane, dovrebbe iniziare il suo iter concreto a breve, con la gara europea per la progettazione e la costruzione. La nuova struttura andrà a sostituire la vecchia e fatiscente casa circondariale di via Dante, teatro di recente di un atto di protesta da parte dei circa 130 carcerati, stipati in un edificio che al massimo potrebbe ospitarne una ottantina. Il nuovo carcere, dotato di una sezione femminile attualmente mancante a Bolzano (il primo carcere femminile si trova a Rovereto), dovrebbe ospitare fra i 200 e i 220 detenuti. L’inizio dei lavori di costruzione dovrebbe avvenire - questa almeno l’intenzione del presidente della giunta provinciale, commissario straordinario per la costruzione del nuovo carcere - entro la fine del 2012. Il cantiere dovrebbe protrarsi per circa trenta mesi. Dopodiché, il vecchio carcere di via Dante sarà liberato e messo a disposizione, questi gli accordi con lo Stato, della Provincia, che ne potrà disporre a suo piacimento. La questione dei frutteti venduti dai proprietari di due masi chiusi alla “Landkast Srl” del tandem Podini Rauchbau ha fatto indignare le opposizioni in consiglio provinciale, dove si mormora che la successiva vendita alla Provincia abbia portato a un guadagno assai sostanzioso. Non è il primo caso del genere. Un altro episodio simile riguarda il vecchio palazzo ai civici 5 e 7 di via Renon, dove l’amministrazione provinciale ha intenzione di realizzare la nuova sede della ripartizione al Personale. L’edificio preesistente, che ora dovrà essere abbattuto, è stato venduto alla Provincia da una finanziaria, la “R59”, per 9,782 milioni di euro. Un prezzo eccessivo, sempre a detta delle opposizioni. Caltanissetta: Cisl-Fnp; carcere inadeguato e insicuro, struttura in stato di abbandono La Sicilia, 11 marzo 2012 Carcere “Malaspina” inadeguato, insicuro. Non a norma, insomma. Per chiunque lo frequenti: detenuti e poliziotti penitenziari. Stavolta è il segretario generale provinciale della Cisl-Federazione nazionale sicurezza, Michele Claudio Alessi, a denunciare le “precarie condizioni della casa circondariale” parlando di “disagio che subisce il personale della Polizia penitenziaria nello svolgere i propri compiti istituzionali, costretto a vivere giornalmente in ambienti di lavoro alquanto obsoleti, strutturalmente carenti, con spazi inadeguati e con evidenti carenze igienico-sanitarie”. Nella lettera inviata al prefetto Umberto Guidato a cui chiede di convocare un incontro per affrontare la questione, Alessi critica duramente il direttore del carcere Angelo Belfiore per le promesse non mantenute. “Oggi la Cisl-Fnp intende dire basta a questa situazione di immobilismo, di inerzia più assoluta, di tedioso abbandono delle condizioni dell’istituto penitenziario nisseno”. E sciorina quali sono le criticità della struttura: “Lo stato degradante della caserma agenti, dove cadono i solai a causa delle acque piovane, lo stato di abbandono della stanza adibita al personale di polizia penitenziaria femminile, dove soggiorna il personale pendolare quando rimane alloggiato in istituto e dove la privacy intima è solo un miraggio in quanto nel locale tutto è in comune, anche i servizi igienici - aggiunge il segretario del sindacato di categoria - che rimangono aperti al limite della indecenza della dignità della persona”. Da qui la proposta di creare un nuovo grande complesso penitenziario “che abbia spazi adeguati alle norme di sicurezza, costruito con tecniche moderne che abbia nel tetto i pannelli solari per alimentarsi di energia con la luce solare e si possa fare la raccolta differenziata dei rifiuti, dove la polizia penitenziaria abbia il giusto e doveroso riconoscimento. La riuscita di questo progetto - osserva ancora Alessi - porterebbe sviluppo economico in quanto darebbe lavoro alle imprese in un momento dove l’economia stenta a riprendersi”. Agrigento: agenti della polizia penitenziaria “agitati”, preannunciano gazebo La Sicilia, 11 marzo 2012 Gli agenti della polizia penitenziaria del carcere di contrada Petrusa, aderenti ai sindacati Sappe, Cisl, Uil Pa e Ugl hanno dichiarato lo stato di agitazione. Per l’ennesima volta negli ultimi anni. Ce l’hanno con il direttore della struttura carceraria e con il capo del corpo della polizia penitenziaria del capoluogo, “rei” a loro dire di “comportamenti antisindacali”. I nervi sono tesi tra “agenti sindacalizzati” e vertici della casa circondariale ormai da mesi e il notevole numero di detenuti da controllare non aiuta certamente a instaurare un clima di dialogo tra le parti. A rafforzare lo stato di agitazione, gli agenti penitenziari hanno comunicato che il prossimo 28 marzo verrà posizionato un gazebo dinanzi la Prefettura e un altro davanti la casa circondariale. Saranno eretti, nelle intenzioni dei sindacati, per fare “evadere” i problemi che a loro non renderebbero facile il lavoro al Petrusa. In una corposa nota stampa inviata ieri, i sindacati firmatari dello stato di agitazione hanno esposto la situazione in atto al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. Ricordando come questi abbia iniziato la propria carriera dirigenziale proprio alla guida del carcere agrigentino, del quale fu il primo direttore nella nuova sede di Petrusa, i sindacati lo hanno informato su come lavorerebbero gli agenti. Vengono sottolineati i presunti pessimi rapporti di comunicazione tra dirigenza e poliziotti, condizioni di lavoro precarie, comprese le divise sdrucite. L’atmosfera è calda, ma non è una novità assoluta dalle parti di Petrusa. Mantova: il carcere di Revere, costruito e mai utilizzato, diventerà un ospedale geriatrico? di Francesco Abiuso Gazzetta di Mantova, 11 marzo 2012 Cordata d’imprenditori pronta a investire due milioni per servizi alla terza età. Ma la richiesta di accreditamento è al palo. E la struttura subisce incuria e furti. Qualcosa si è mosso all’orizzonte, per il vecchio carcere di Revere. Ma nel libro dei sogni dell’amministrazione comunale, che progetta di crearvi all’interno una struttura di tipo sanitario, manca purtroppo un capitolo decisivo: il sì da parte della Sanità regionale all’accreditamento di alcuni posti letto. Un sì che renderebbe sostenibile e allettante l’investimento da parte di privati. Che darebbe carburante a un progetto che, per ora, alterna momenti di grandi passi avanti a momenti di calma piatta. Ma questo sì, almeno per ora, non arriva. E tutto si ferma. Carceri, la vergogna di Revere, titola il sito dell’Espresso, che dedica un servizio di Tommaso Canetta e Roberto Brambilla, corredato da foto e da video, all’ex struttura creata dal ministero della Giustizia e mai utilizzata. Doveva essere un carcere mandamentale, collegato alla vicina pretura di allora. Lavori iniziati nel 1988 e mai finiti. Prima un’infinita serie di sospensioni, poi l’archiviazione definitiva del progetto. Anno del signore, il 2003. L’equivalente di due milioni e mezzo di euro buttati al vento. L’erba che cresce fra le palazzine quasi terminate, l’azione lenta ed erosiva di pioggia e neve, quella rapace e furtiva dei ladri di rame, infissi e termosifoni (gli ultimi ad agire, lo scorso novembre, furono quasi tutti arrestati grazie alla sorveglianza dei reveresi). Che fare del carcere, che carcere non fu mai? L’antica questione si è riproposta anche l’anno scorso con la sfida per il Comune tra Sergio Faioni (civica di centrosinistra) e Alberto Cavicchioli (civica di centrodestra). Ha vinto Faioni che, sin dall’inizio della sfida politica, rese note le sue intenzioni: destinare la vecchia struttura per una nuova iniziativa che unisse la finalità sociale a quella sanitaria. Pochi mesi dopo l’elezione, l’idea sembra prendere piede. Da Roma arriva una comunicazione del ministero della Giustizia: lo Stato decide in via definitiva di disfarsi dell’edificio. Le chiavi passano in mano al Comune di Revere. E subito si fa avanti una cordata di imprenditori con un progetto. Dietro a questa cordata, che nel Mantovano si appoggia allo studio dell’architetto ostigliese Alessandro Cabrini (con la collaborazione di Ennio Alberici), l’idea di puntare sull’assistenza ai lungodegenti. Oppure creare un ospedale di comunità, cioè una struttura che segue a distanza pazienti con malattie croniche che hanno la necessità di ricoveri frequenti ma di non lunga durata. “Due milioni per il recupero del carcere, per la sua trasformazione in una struttura sanitaria”, spiega l’architetto Cabrini. Venticinque o ventisei camere, una cinquantina di posti letto. Top secret i nomi degli investitori (emiliani, riferiscono), mentre per la gestione della struttura dovrebbe essere scelto qualche imprenditore della sanità privata del Mantovano cui verrebbe chiesto di elaborare dei progetti (evitando di creare “doppioni” in riferimento al resto del Destra Secchia). L’idea viene portata all’attenzione dell’Asl e del presidente della Provincia, Alessandro Pastacci. Già, ma per dare concretezza al progetto, e garantire introiti sicuri, serve la Regione. E cioè l’accreditamento al servizio sanitario nazionale di alcuni posti letti. Ma qui il progetto s’infrange con un ostacolo: “Di questi tempi la Regione è più orientata a tagliare i posti letto in accreditamento, che ad aumentarli” racconta Faioni. Così tutto si ferma. E il filo della vicenda s’arrotola fino a tornare all’inizio. Ma proprio all’inizio: “Se tutto deve restare fermo - azzarda il primo cittadino - allora meglio farci un albergo”. Come già si diceva anni fa. Nuoro: metti un pallone dietro le sbarre… La Nuova Sardegna, 11 marzo 2012 Valicare quell’odioso muro non è stato facile. Anni di diffidenza, quasi risentimento, hanno contribuito a rendere il carcere di massima sicurezza di Badu e Carros l’appendice indesiderata e dolorante della città. Ci è voluta la potenza inarrivabile dello sport a recuperare un po’ di tempo perduto. Bastava vedere, sabato scorso, i detenuti delle squadre “Libera” e “Azzurra” fraternizzare, soffrire e gioire con i 102 “esterni” (tanti erano, tra giocatori e tecnici), durante la fase finale del progetto “Liberi nello sport”. Una scommessa vinta, organizzata per il secondo anno consecutivo dall’Unione sportiva Acli di Nuoro, con il patrocinio della presidenza nazionale e regionale. Il presidente provinciale dell’Us Acli, Salvatore Rosa, a stento trattiene ancora l’emozione per il piccolo miracolo che si è riusciti a realizzare: “La testimonianza più toccante è venuta proprio da uno dei detenuti, che ci ha ringraziato a non finire per essere riusciti a realizzare nel carcere di Nuoro quello che non è mai riuscito a vedere in altre realtà grosse della Penisola (compreso il più grande, quello di Opera)”. Questa riflessione ha fatto capire a Salvatore Rosa che il progetto ha fatto centro, e che l’esigenza di superare la visione di un carcere di massima sicurezza imposto dallo Stato, staccato dal resto della città, è stata tradotta finalmente in fatti concreti. Nuoro è così riuscita a entrare nel suo odiato carcere per mezzo di un pallone da calcio. E bisognava vedere, sabato pomeriggio, con quanta foga i detenuti mostravano il loro tifo contagioso, durante la finale per il primo posto giocata dalle squadre Longobarda e Erg Murru-Tecnocasa, e terminata ai rigori (9 a 8) dopo un match al cardiopalma. Da segnalare che le squadre di casa si sono comportate egregiamente, se è vero che l’Azzurra si è classificata ai quarti di finale, e che le due “Coppe fair play” se le sono aggiudicate proprio loro, con comprensibile soddisfazione dello staff di educatori e polizia penitenziaria. I detenuti hanno poi avuto l’onore di scegliere il miglior portiere del torneo di calcio a sette, optando per Marco Murru della Erg Murru-Tecnocasa. Premiati anche il capocannoniere Paolo Cossu (Ordine dei Geometri), e il “sempreverde” Giuseppe Malandrino (Ordine degli Avvocati), che si è appunto aggiudicato la “Coppa Evergreen”. “Mi preme ringraziare ancora - aggiunge Salvatore Rosa - il direttore di Badu e Carros, Patrizia Incollu, il comandante della polizia penitenziaria, Alessandro Caria, tutti gli educatori, il tecnico Massimo Becconi, che dallo scorso novembre ha seguito con costanza le squadre dei detenuti e il titolare dell’agenzia libraria Utet di Nuoro, Rino Fundarò, che ha generosamente donato i premi di questo torneo di calcio a sette”. L’auspicio di tutti è che il progetto non muoia qui. Ora che su quel muro invalicabile è stata aperta una breccia importante, che anche le istituzioni cittadine dovrebbero approfittarne. Roma: nella sezione G12 di Rebibbia realizzati oltre cinquecento metri di murales La Repubblica, 11 marzo 2012 Quattro ore d’aria per “perdersi”. Sui muri grigi della sezione di Alta sicurezza di Rebibbia compaiono ora piccole strade colorate che si allontanano in profondità grazie ad un tratto di pennello che via via si assottiglia. E tra le curve infinite fioriscono creature di mondi sognati in technicolor: cammelli, cactus, elefanti e personaggi che galleggiano su laghi dorati. È il nuovo orizzonte dei passeggi della sezione G12 del carcere romano, oltre cinquecento metri di murales che hanno ricoperto tutti gli ambienti comuni all’aperto, tra campo di pallavolo e calcio, realizzati dagli stessi detenuti insieme al giovane artista pugliese Agostino Iacurci. È il risultato del progetto “Rebibbia on the Wall”, ideato dall’associazione Walls in collaborazione col circolo La Rondine interno alla sezione di Alta Sicurezza, col sostegno del Garante dei Diritti dei detenuti. L’avventura di riqualificare attraverso l’arte la vivibilità dell’area dei passeggi partiva nel 2010, quando venne realizzato il primo murale di cento metri ispirato ad uno stilizzato aquilone cinese con l’artista Matteo Milaneschi. Ora il progetto, che ha vinto il bando “Iniziative Creative” del Dipartimento Innovazione e Impresa della Provincia di Roma, è giunto a conclusione e sarà presentato il 14 marzo a Palazzo Valentini insieme al libro fotografico di Achille Filipponi e al documentario girato durante i lavori, a cura della Lada Film. “Il nuovo intervento si è articolato tra giugno e novembre scorsi con il coinvolgimento di quindici detenuti volontari tra i 28 e i 60 anni, tutti a scontare lunghe pene, con un ergastolano”, racconta il curatore Simone Pallotta. Ma tutto ha preso vita in comune accordo: “Dopo la prima fase del 2010 abbiamo deciso con i detenuti di andare avanti e ideare nuove decorazioni che coprissero gli spazi dove trascorrono le loro quattro ore d’aria quotidiane”. Insieme sono nati i soggetti: “Ad ogni detenuto è stata affidata una figura in particolare per stimolare un’affezione verso l’opera”, ricorda Pallotta. Pennelli e tempere hanno fatto il resto. Location non nuove all’arte, visto che erano state già scelte dai fratelli Taviani per il set di “Cesare deve morire”. Subito dopo le riprese, abbiamo realizzato i murales”. E tra i volontari-pittori, sfilano anche gli attori della pellicola vincitrice al Festival di Berlino. Come Cosimo Rega, ergastolano che sta riguadagnando spazi di libertà col suo impegno intellettuale. “È questo un progetto - riflette il presidente Nicola Zingaretti - che mostra la forza della creatività. Che ci parla di come attraverso l’arte e il confronto si riesca, anche nei contesti più difficili, a cambiare le cose”. Noto (Sr): Festa del papà; la Crivop Onlus organizza l’incontro “Un’ora di arcobaleno” Comunicato stampa, 11 marzo 2012 Lunedì 19 marzo, in occasione della “Festa del papà”, la Crivop Onlus di Messina in collaborazione con l’associazione Comunione fraterna, competente in intrattenimenti per bambini, riproporrà nella struttura penitenziaria di Noto un incontro intitolato “Un’ora di arcobaleno”. Durante l’incontro si organizzeranno, a favore dei figli dei ristretti, puppets, canti, giochi di gruppo e degustazione di dolci. Quest’anno, dopo il successo del 2011, ci è stato chiesto dalla direzione del carcere di ripetere lo spettacolo per due volte nella stessa giornata (alle 10.00 e alle 14.00) per esaudire le richieste dei detenuti che non avrebbero potuto partecipare con i loro figli per mancanza di spazio. Sicuramente come nel 2011 sarà un giorno particolare, i figli dei ristretti avranno modo di gustarsi lo spettacolo restando sulle gambe dei propri papà e realizzando per qualche ora un sogno tanto atteso e desiderato. Michele Recupero Presidente Nazionale Crivop Immigrazione: nel Cie di Bari condizioni d’inferno, la Procura apre un’inchiesta La Repubblica, 11 marzo 2012 La procura di Bari ha aperto un’inchiesta sul caso del Cie, il Centro identificazione ed espulsione di Bari che, secondo quanto denunciato da una consulenza del Comune, sarebbe una struttura “non abitabile, inidonea all’uso per il quale è utilizzata”. La guardia di finanza ha chiesto formalmente al Comune copia della perizia ed eventuali fotografie ed immagini del Cie che documentino quello che appare come un vero e proprio grido d’allarme. La consulenza del Comune apre numerosi interrogativi che la procura ha deciso di approfondire. Secondo quanto riportato nella relazione, redatta da un ingegnere incaricato dal Comune nel giugno dello scorso anno, i servizi igienici del Cie sono in condizioni “raccapriccianti”. Non solo: per il professionista si tratterebbe di un complesso che “non assicura agli immigrati una necessaria assistenza e il pieno rispetto della loro dignità”, ma che “compromette e limita fortemente la loro libertà personale”. Le considerazioni contenute nella relazione destano preoccupazione. Per l’ingegnere è “un eufemismo considerare gli immigrati prigionieri nel Cie di Bari “ospiti” e non detenuti” e infatti, aggiunge: “Nel centro non sono garantiti neanche gli standard minimi previsti dalle norme sull’ordinamento penitenziario”. Si tratta di accuse che la procura ha deciso di verificare, partendo dalla relazione, ma non escludendo neanche la nomina di un proprio consulente. Durissimo il capitolo della relazione, agli atti del Comune, riguardante i servizi igienici, collocati “in piccoli vani”, solo “con vasi alla turca” e “oltre che insufficienti per una ricettività adeguata, in pessime condizioni”. “Buona parte dei box doccia dei vasi igienici sono vetusti e rotti”, oltre che “del tutto insufficienti a un consono movimento” scrive il consulente di Palazzo di Città che precisa: “I parametri dimensionali fissati dal ministero dell’Interno per la progettazione dei Cie, non sono rispettati”. E ancora puntualizza il tecnico: “Il Comune di Bari, per la costruzione del Cie, non ha emesso alcun titolo concessorio e non risulta agli atti alcun procedimento o rilascio di certificazione di agibilità”. Nel Centro di identificazione ed espulsione di Bari, uno dei tredici presenti sul territorio italiano, vengono accompagnati i migranti che arrivano nel nostro Paese e che non hanno permesso di soggiorno. Dalla struttura non possono allontanarsi, in attesa di essere rimpatriati. I posti sono 196, a febbraio nel Cie si trovavano 108 persone. La struttura si compone di sette moduli. Tre sono chiusi, dopo essere stati danneggiati dalla rivolte dell’estate scorsa. Così come documentato in un reportage, pubblicato da Repubblica il 15 febbraio, i moduli assomigliano a “grosse celle”. Stati Uniti: il carcere di Guantánamo? niente male… di Alessandra Nucci Italia Oggi, 11 marzo 2012 La prigione dove gli Usa tengono gli uomini di al-Qaeda non è l’inferno che si descrive. Solo nel campo 5 (tute arancioni) vigono le regole dure. In tempi di deficit stratosferici per gli Stati Uniti, al campo numero 6 della prigione di Guantánamo stanno installando un campo da calcio al modico prezzo di 560mila euro. L’impianto va ad aggiungersi ad altre due strutture ricreative esistenti: un campo sportivo e una palestra modernamente attrezzata. Grande circa la metà di un campo da stadio, è stato costruito con un sistema di tunnel che permette ai detenuti di accedervi liberamente per 20 ore al giorno senza essere scortati dai militari. Il prezzo esorbitante è attribuito al costo del trasporto del materiale da costruzione, fatto arrivare in aereo o con dei barconi. E non sono queste le uniche amenità dell’unità 6 di Guantánamo. Qui, a quell’80% dei detenuti che rispettano le regole e sono in grado di vivere in un contesto comunitario, si offrono condizioni di vita che non hanno nulla a che vedere con la situazione di carcere duro denunciata da Human Rights Watch nel 2008. Anzi, alla descrizione sembrerebbe più un Club Med che una prigione. Essi hanno accesso a 21 tv satellitari, a 14 stazioni radio, a un certo numero di film visionabili in una sala apposita, a una biblioteca con oltre 25 mila libri, giornali e riviste in 15 lingue, videogiochi, ed, dvd, con una bibliotecaria a tempo pieno. Possono telefonare alle loro famiglie ogni quadrimestre e godono di una certa libertà di uscire dalle celle, camminare, mangiare e pregare assieme ai compagni. C’è anche un programma di istruzione che comprende lezioni di alfabetizzazione, lingue, disegno, informatica, economia. Il personale medico a Guantánamo conta oltre 100 persone, che assicurano una vasta gamma di cure: dalle vaccinazioni ai servizi di psichiatria, di chirurgia e di ortodonzia. Ogni anno sono distribuiti circa 130mila medicinali, le visite mediche sono quasi 5 mila e gli esami diagnostici comprendono tutte le specialità. Certo, c’è sempre quel restante 20% dei detenuti che è ancora al campo 5 dove vigono condizioni di carcere duro. Sono quelli che rimangono in tuta arancione, ristretti in cellette molto piccole, con il neon acceso 24 ore su 24 e due sole ore d’aria al giorno. Ma per passare al campo 6, dicono le autorità, basterebbe che rispettassero le regole, tipo quella di rinunciare ad aggredire le guardie. Esiste anche un settore 7 dove si trovano i 15 prigionieri più “ad alto valore”, delle cui condizioni però si sa poco. Allo stato attuale, a Guantánamo si trovano 171 prigionieri dei 241 ancora presenti all’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca nel gennaio 2009. Vanno dal cuoco personale di Osama bin Laden ad attentatori, finanziatori e reclutatoli di terroristi. La maggior parte di essi si trova in una sorta di limbo legale, perché le prove oggettive a loro carico sono poche, ma sono giudicati troppo pericolosi per poterli lasciare liberi. Ottantanove di loro potrebbero essere rilasciati anche subito, e fra questi i 17 Uiguri reclamati da Pechino, che non possono essere rimpatriati per la probabilità che al loro arrivo in Cina vengano torturati. Il conto per mantenerli a Guantánamo ammonta a 55 milioni di euro all’anno. La camera dei deputati americana ha deliberato di rifiutare loro l’ingresso negli Stati Uniti, ma, viste le condizioni assicurate a chi si comporta bene, secondo alcuni si è trattato di un regalo involontario ai detenuti stessi. “Khalid Sheikh Mohammed, che si autodefinisce lo stratega degli attacchi dell’ll settembre, può starsene fino a quattro ore al giorno seduto sotto il sole dei Caraibi a chiacchierare attraverso un reticolato con il detenuto del recinto a fianco”, ha notato Peter Finn sul Washington Post, commentando l’ambiente da paradiso tropicale. Al confronto, nelle strutture di massima sicurezza negli Usa (che ospitano attualmente l’attentatore al World Trade Center del 1993, Ramzi Yousef, l’”Unabomber” Teodoro Kaczvnskd e Terry Nichols, condannato per l’attentato del 1995 all’edificio federale a Oklahoma City), i detenuti stanno in isolamento per lunghi periodi di tempo: niente conversazioni, poca luce del giorno, condanne molto più lunghe e niente brezze tropicali. Arabia: Amnesty; sei uomini in prigione da un anno per aver “tentato una manifestazione” Tm News, 11 marzo 2012 Un anno dopo il tentativo di svolgere anche in Arabia Saudita la “giornata della collera”, almeno sei uomini languono in carcere, cinque di essi senza accusa né processo. Lo riferisce Amnesty International in un comunicato. L’11 marzo 2011 cinque soli uomini si presentarono all’ora e nel luogo fissati, nella capitale Riad, per lo svolgimento della protesta: Khaled al-Johani, Fadhel Nimr Ayed al-Shammari, Bandad Muhmmad al-Utaybi, Thamer Nawaf al-Ezi e Ahmed al-Abdul Aziz. Un sesto uomo, Muhammad al-Wad’ani, era stato precedentemente arrestato il 4 marzo. Amnesty International ha ricevuto informazioni secondo le quali uno dei sei detenuti sarebbe stato ripetutamente legato a una sbarra d’acciaio, anche per otto ore consecutive, e picchiato. Sarebbe stato anche privato del sonno per tre giorni, e colpito da una secchiata d’acqua ogni volta che finiva per addormentarsi. Nonostante la direzione sanitaria del carcere di al-Malaz, nella capitale, abbia consigliato il suo ricovero in ospedale, si troverebbe tuttora in detenzione. L’unico prigioniero sottoposto a processo è stato Khaled al-Johani. A febbraio è comparso di fronte alla Corte penale speciale di Riad, un tribunale istituito nel 2008 per giudicare imputati di terrorismo. Dopo la lettura delle accuse (tra cui sostegno a manifestazione, presenza sul luogo di una manifestazione, rapporti con mezzi d’informazione esteri con l’intento di danneggiare la reputazione del paese), il processo è stato aggiornato ad aprile. Amnesty International continua a chiedere il rilascio di Khaled al-Johani e di ogni altra persona che si trovi in carcere solo per aver esercitato in modo pacifico il suo diritto alla libertà di espressione e di riunione. Nel corso dell’ultimo anno, le forze di sicurezza saudite hanno arrestato centinaia di persone in relazione alle proteste che si sono susseguite, soprattutto nell’est del paese. La maggior parte di esse è stata rilasciata senza essere incriminata; altri restano in prigione senza accusa né processo; altri ancora sono stati incriminati per vaghe accuse relative alla sicurezza.