Giustizia: la civiltà in gabbia di Marco Pannella Tempi, 3 maggio 2012 “Speriamo che questi espertissimi capiscano che il problema della giustizia è contro la crescita. Amnistia subito per uscire dalla flagranza di reato”. Pubblichiamo stralci del comizio tenuto da Marco Pannella il 25 aprile a Roma al termine della seconda Marcia per l’amnistia e la giustizia. Senza nessun suggerimento, da sette carceri è arrivata la notizia che i detenuti avrebbero manifestato con la non violenza. Questa è la loro forza. Allora io ho interrotto, per comunità, lo sciopero della fame. Ieri sera ho bevuto un bel bicchiere di vino. Io so che noi siamo la gente comune. Non vogliono farci ascoltare, impedendo l’abc democratico. Siete impotenti e violenti, signori della partitocrazia. Abbiamo abolito la pena di morte in quasi tutto il mondo e qui da noi si “muore per pena”. Dite che il popolo italiano ha paura dell’amnistia, ma il popolo italiano non ha paura di voi, figuratevi se ha paura della delinquenza vecchio stile. Noi ci mobilitiamo perché per voi non ci sia una piazzale Loreto, non una “morte per pena”, ma qualche processo giusto. Dobbiamo preoccuparci, altrimenti quel carissimo coglione di Grillo dice: “Vengo, vi faccio il processo in piazza, vi impicco tutti, tutti ladri!”. Ma bisogna difendere anche Grillo, anche lui è un bravo ragazzo. Viva il 25 aprile, la liberazione che dobbiamo riconquistare! Per Bergson la durata è la forma delle cose. Bossi dice che la Lega è il partito più vecchio, ma quando loro nascevano all’osteria - ed è una bella cosa - noi eravamo presenti con Radio radicale, il partito esisteva da trent’anni. Non abbiamo mai ceduto, come accadde al Partito d’azione. Presidente, l’urgenza se la si consuma in una mattina e poi non dura minga, riduce il popolo italiano. Se siete camorristi e siete venuti da Scampia per dare una mano oggi, vi dico grazie. Io giudico le persone per quello che scelgono di fare. Presidente, stia attento. Tutto quello che è stato imposto all’antico e vivissimo popolo napoletano - dopo Achille Lauro, quarant’anni con i vari Bassolino - vogliamo imporlo al popolo italiano? Sta succedendo. No presidente, no. Quello schifo di procura napoletana... Ricordo il caso Tortora, o quando denunciammo le truffe elettorali e fu incaricato un procuratore di interrogare i tremila che denunciarono la cosa: quella era la procura di Napoli! Noi non lottiamo non per avere privilegi. Sappiamo che il Pireo fa concorrenza a un grande porto calabrese, ma il Pireo riceve il triplo degli investimenti perché in Grecia gli imprenditori hanno maggiori garanzie sul piano del diritto civile. Speriamo di incutere un po’ di coraggio a questi espertissimi. Speriamo che Monti capisca che il problema della giustizia è contro la crescita. C’è una sola proposta che ci consente di uscire immediatamente dalla condizione di flagranza criminale: l’amnistia. “Basta fare nuove carceri”, dicono. No, bastano quelle che ci sono. Ci devono stare 20 mila detenuti, non 70 mila. Giustizia: Gherardo Colombo; sì amnistia, nelle carceri solo 10-15mila detenuti pericolosi Ansa, 3 maggio 2012 “Qualche mese fa ero perplesso, e pensavo che sarei stato d’accordo con l’amnistia a patto che fosse condizionata ad una assunzione di responsabilità. Ma pensandoci e ripensandoci sono arrivato alla conclusione che l’amnistia deve essere amnistia, punto e basta”. Lo ha detto Gherardo Colombo, ex pm milanese, intervistato da Radio Radicale. “In carcere, su oltre 67 mila persone, solo 10 o 15 mila persone sono effettivamente pericolose - ha aggiunto - Si potrebbe riportare il numero complessivo dei detenuti a quello della capienza regolamentare, e senza mettere a repentaglio la sicurezza generale della cittadinanza”. “Sono arrivato a questa conclusione - dice Colombo - perché vedo che non cambia nulla, si legge di suicidi che non fanno quasi mai notizia. La situazione non soltanto non migliora, ma tende verso un peggioramento continuo. Si potrebbe modellare l’amnistia perché sia applicata solo ai reati meno gravi, ma il tema della rieducazione, messa tra virgolette, cioè della riabilitazione delle persone alla vita insieme agli altri, potrebbe essere affrontato in modo più dilazionato. È la situazione di fatto, che appunto non migliora, che mi ha indotto a far cadere questa sorta di condizione preliminare che vedevo prima”, ha concluso Colombo, “bisognerebbe che si prendesse una iniziativa concordata da uno schieramento che sia il più ampio possibile per riuscire a rendere meno invivibile il carcere, e a farlo immediatamente”. Giustizia: quei diritti umani che l’Italia non assicura di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 3 maggio 2012 Le visite che il presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo periodicamente svolge in ciascuno dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa non hanno né lo stile, né il contenuto di una ispezione. Tuttavia non si tratta solo di tener contatti protocollari e di cortesia. Non saranno quindi privi di interesse gli incontri che il presidente della Corte - che è il giudice britannico Nicolas Bratza - e il giudice italiano Guido Raimondi avranno oggi con il Presidente della Repubblica e la ministra della Giustizia. Sarà l’occasione per fare il punto. L’Italia ha più di un problema quanto all’obbligo di riconoscimento e protezione dei diritti e delle libertà assicurati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, assunto con la ratifica nel 1955. Prima fra tutte la questione dell’inefficienza del sistema giudiziario, nelle sue componenti di complesse norme procedurali, utilizzazione delle risorse a disposizione, attività della magistratura, incidenza dell’imponente avvocatura italiana. Sono ormai quasi trent’anni che la Corte segnala il grave problema, con le condanne dell’Italia per la violazione del diritto delle parti alla ragionevole durata dei procedimenti. Nessun decisivo passo verso la soluzione è stato fino ad ora compiuto, mentre addirittura da qualche tempo l’Italia si espone a nuove violazioni della Convenzione ritardando in ogni modo il pagamento delle somme che le Corti di appello assegnano ai ricorrenti per riparare la violazione del loro diritto. La massa dei ricorsi alla Corte di Strasburgo è tale da avere ormai portato un consistente intralcio al normale funzionamento della Corte e quindi del sistema europeo di protezione dei diritti fondamentali, che sul ruolo della Corte si fonda. Un altro fronte si è recentemente aperto e riguarda le condizioni dei detenuti, che per il sovraffollamento delle carceri sono spesso tali da poter essere qualificate come trattamento inumano e degradante. Sono ormai centinaia i ricorsi presentati alla Corte da altrettanti detenuti italiani. Entrambi i temi, urgenti e ineludibili, sono ben presenti alle autorità e ai cittadini italiani. Essi hanno anche un risvolto di responsabilità dello Stato, che incide sulla sua credibilità internazionale. In recente passato, il governo precedente aveva dato luogo a vive proteste da parte del Consiglio d’Europa per le ripetute violazioni degli obblighi derivanti dai provvedimenti della Corte. Con comportamenti inusitati da parte di uno Stato europeo, sono state ignorate le disposizioni della Corte di non espellere determinate persone in Tunisia ove sarebbero state esposte a serio rischio di torture. Si trattava, è vero, di condannati in Italia per attività di sostegno a reti terroristiche, ma il divieto di tortura, nella cultura europea, garantisce tutti ed è inderogabile. Quelle violazioni commesse dall’Italia e sanzionate dalla Corte europea sono passate qui incredibilmente quasi sotto silenzio, ma a livello europeo hanno fatto molto male alla reputazione dell’Italia. L’occasione della visita e degli incontri in Italia consentirà al presidente Bratza di discutere e chiarire anche l’esito della recente conferenza di Brighton, in cui i governi dei paesi membri del Consiglio d’Europa hanno indicato la necessità di riforma del sistema, per permettere alla Corte di svolgere efficacemente il suo ruolo. Ora la massa di ricorsi (oltre 50.000 all’anno) schiaccia le strutture della Corte, ritardandone oltre misura le decisioni. La conferenza, oltre ad indicare una serie di modifiche procedurali e a dar atto della necessità di elaborare più profonde riforme destinate ad assicurare l’efficienza del sistema a lungo termine, ha affrontato un tema molto delicato. Il Regno Unito, organizzatore della conferenza, spingeva perché si inserisse nella Convenzione una disposizione che obbligasse la Corte a riconoscere agli Stati un ampio margine di valutazione nazionale nell’adempiere ai loro obblighi. In molte ipotesi - ma non quando si tratta di diritti inderogabili, come quello alla libertà personale o il divieto di tortura o trattamenti inumani o degradanti - un margine di apprezzamento nazionale è riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte. Ma l’intenzione del Regno Unito era di andare ben oltre, in una misura che avrebbe finito per vanificare il controllo europeo che la Corte svolge a garanzia dei diritti dei singoli. Il tentativo non è andato a buon fine. Pare che il richiamo al margine di apprezzamento nazionale troverà posto in qualche modo nel Preambolo della Convenzione. Competerà comunque alla Corte di elaborare la propria giurisprudenza in proposito, senza cedere agli interessi dei governi a scapito della protezione dei singoli. L’indipendenza della Corte e la sua natura strettamente giudiziaria sono il pilastro della costruzione europea del sistema di difesa dei diritti individuali. Di ciò ha parlato a Brighton il presidente della Corte, ricordando che non c’è tutela dei diritti se non c’è la possibilità di accesso a un giudice la cui indipendenza non sia messa in crisi o appannata dalle pressioni dei governi. C’è motivo di credere che su questo il presidente della Corte riceverà assicurazioni da parte dei suoi interlocutori italiani. Giustizia: caso Cucchi, funzionario assolto… nessun rispetto per la morte di Stefano di Ilaria Cucchi Notizie Radicali, 3 maggio 2012 Noi abbiamo sperato nella conferma della condanna di colui che ha fatto in modo che Stefano, ferito, venisse nascosto agli occhi di tutti e soprattutto ai nostri occhi, facendolo ricoverare al Pertini. Ma il nostro avvocato ci aveva avvisati. All’udienza preliminare si è rivolto ai pubblici ministeri dicendo queste precise parole “cambiate il capo d’imputazione. La famiglia Cucchi non vuole contentini ma solo verità e giustizia”. Infine si era girato verso di loro dicendo “non portateci al massacro. Vedete tutti questi valenti avvocati? Ci faranno a pezzi con questo capo d’imputazione”. Noi siamo normali cittadini che pagano le tasse e rispettano la legge. Abbiamo chiesto alla procura di avere copia della fonoregistrazione di quell’intervento per farlo ascoltare ma ci è stata inspiegabilmente negata. Comprendiamo questa sentenza che era stata prevista anche dal nostro avvocato. Quello che non comprendiamo è l’atteggiamento della procura di Roma. Tutti possono sbagliare o accorgersi che le proprie idee o convinzioni vengano superate o corrette dagli eventi processuali e non. Ma perché questo per principio non “deve” mai accadere ai pm? Perché noi dobbiamo assistere ad alleanze strane quanto incomprensibili tra pm e difese a seconda dei momenti e degli accadimenti, ma comunque sempre contro di noi? Attendiamo con fiducia la nomina dei periti del processo principale. Quando ne conosceremo l’identità capiremo meglio ciò che dalla giustizia ci verrà riservato. Immagino che ora, come le vittime di piazza della loggia, dovremmo anche noi pagare le spese processuali. Giustizia: “ecco come pestavamo i detenuti”, le intercettazioni di 5 agenti di Asti di Antonio Crispino Corriere della Sera, 3 maggio 2012 La falange del dito destro l’hanno cercata tutto il giorno in cella. Era nello stomaco del detenuto assieme ai tendini strappati alla guardia penitenziaria. A.P. era intervenuto per sedare una rissa nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto. Lui, piccolo, magro, contro un extracomunitario due volte la sua altezza, rinchiuso in una piccola cella da chissà quante ore. Esasperato, non ci ha visto più e l’ha aggredito. I colleghi, i sindacati, la stampa sono intervenuti per sottolineare la gravità del fatto, la violenza che si vive quotidianamente in carcere. Tra l’altro anche la beffa giudiziaria di vedere assolto il proprio aggressore. Ma la violenza in carcere ha tante facce. Quella più oscura è quella sui detenuti, difficile da trattare, da dimostrare e persino da ipotizzare. Quello che avviene all’interno del carcere resta chiuso tra quattro mura. Nessuno denuncia niente. O si trova il modo di fargli cambiare idea. “A Sollicciano, il carcere fiorentino, i detenuti si stavano rivoltando per i pestaggi. Le rivolte sono state sedate con la semplice promessa che li avrebbero fatti lavorare e guadagnare qualche soldo in carcere” racconta Alessio Scandurra dell’associazione Antigone. Andiamo a Poggioreale. Da qui ci giungono la maggior parte di segnalazioni di violenze, pestaggi, vessazioni. “Non credete a quello che vi fanno vedere. Sicuramente vi porteranno nei reparti migliori come l’Avellino. Ma negli altri reparti i detenuti malmenati non si contano”. Lo scrive la moglie di un ragazzo detenuto a Poggiorele da quattro anni. Quasi una veggenza. Il giorno dopo ci portano a visitare il padiglione Avellino e quello Venezia. Tutto pulito e nuovo. I detenuti all’interno non ci sono. Solo televisori accesi. Non ci permettono di parlare con nessuno. La nostra domanda è sempre la stessa: “Vi risultano violenze in carcere?”. Quando un anziano si avvicina alle sbarre e inizia a raccontare qualcosa, il capitano delle guardie penitenziarie di Poggioreale ci spintona via, cerca di strapparci la telecamera di mano. “Se non chiudi ‘sta telecamera te la spacco in testa”. La visita finisce lì. Ma è ad Asti che capiamo bene cosa davvero può succedere in un carcere. Le intercettazioni di un processo descrivono cinque guardie dedite quotidianamente al pestaggio. Ma la scoperta avviene per caso. Gli inquirenti se ne accorgono seguendo il filone della droga che gira in quel carcere. Troppa. Tanti detenuti, anche non tossicodipendenti, risultato positivi ai test durante le visite mediche. Sono gli agenti che la portano, insieme con i superalcolici ed altro. Si scopre uno strano scambio di favori tra guardie e detenuti che consigliano dove comprare la cocaina. Da qui vengono fuori pestaggi gratuiti, ingiustificati, coperti dall’omertà degli altri agenti, il digiuno forzato (fin anche una settimana) e poi le celle. Quelle di isolamento. “Le chiamavamo una estiva e l’altra invernale” racconta Andrea Fruncillo, una ex guardia penitenziaria cacciata dal corpo per favoreggiamento ai detenuti e altri reati. Lui era tra quelli che assistevano ai pestaggi, per non dissociarsi girava la faccia dall’altra parte. “Nella invernale li portavamo quando faceva freddo perché alle finestre non c’erano i vetri. In quella estiva quando era troppo caldo. La finestra c’era ma era sigillata con una lamiera e solo due buchi per far passare l’aria”. I particolari che racconta sono agghiaccianti. Tutti riscontrati nel processo di primo grado conclusosi a fine gennaio scorso. “Tutti assolti” scrive il giudice. Secondo il magistrato i comportamenti delle guardie configurerebbero il reato di tortura e in Italia sono anni che si tenta di introdurlo nel nostro ordinamento. L’udienza di appello è stata fissata il 21 maggio prossimo. “Prima che un’altra sentenza di Stato racconti una verità di carta - dice Fruncillo - voglio che la gente sappia cosa avviene in quel carcere e penso in tanti altri posti. Sono stanco di vedere davanti agli occhi gente pestata. Vivo con il rimorso di non aver denunciato prima. È ora che se ne parli e si inizi a parlare di questo strazio”. Giustizia: i detenuti minorenni e le difficolta di gestione degli Istituti penali minorili di Simona Carandente Il Mediano, 3 maggio 2012 Sono forti le difficoltà di gestione degli Istituti Minorili. Si è in attesa di una riorganizzazione della giustizia penale minorile. Le tristemente note dinamiche del sovraffollamento penitenziario, affrontate da mass media ed esperti con frequenza pressoché quotidiana, non riguardano esclusivamente i detenuti maggiorenni, costretti a scontare la pena con modalità che, sovente, sono lontane anni luce dalle finalità del trattamento penitenziario così come previsto dalla legge. Forti problematiche di gestione concernono, infatti, le condizioni degli Istituti Minorili presenti sul territorio italiano, che non sfuggono alle difficoltà attuali del complesso mondo della detenzione, ma con caratteristiche ed aspetti peculiari di tale, delicatissimo, ambito penitenziario. Allo stato attuale, a fronte della presenza di alcuni istituti a capienza massima (in particolare quelli di Milano, Cagliari, Roma e Nisida), vi sono strutture minorili che, pur se complete dal punto di vista architettonico e strutturale, sono allo stato vacanti e di fatto inutilizzate: si tratta, in particolare, degli istituti di l’Aquila e Lecce. Se nel primo caso la struttura, sgombrata a seguito dei tristemente noti eventi naturali, attende di fatto una definitiva ricollocazione, ben più complessa è la situazione dell’istituto di Lecce, il quale seppur chiuso continua a costare all’amministrazione penitenziaria milioni di euro, senza alcuna utilità. È in sostanza importante il numero di persone, tra Polizia Penitenziaria e comparto ministeriale, che continua ad essere parcheggiato nella struttura carceraria in attesa degli aventi, rappresentando tuttavia un costo per l’amministrazione penitenziaria anche e soprattutto in termini di stipendi, bollette di luce e gas, manutenzione ordinaria. Il problema della fruibilità di tali istituti, già portato più volte all’attenzione delle istituzioni, appare di non facile soluzione: eppure, oltre a risolvere o almeno tamponare il problema del sovraffollamento, potrebbe altresì consentire lo svolgimento di ulteriori lavori di ristrutturazione nelle carceri già esistenti, consentendo una generale rivisitazione della capienza complessiva degli istituti. “Se vogliamo recuperare i nostri minori, la predisposizione di nuovi spazi vitali è oltremodo necessaria- spiega Carmine D’Avanzo, Ispettore della Polizia Penitenziaria presso il Tribunale per i Minorenni di Napoli- Anche la struttura di Nisida, vero e proprio fiore all’occhiello dell’intero meridione, supera allo stato di ben dieci unità la propria capienza ottimale. È fondamentale altresì - continua D’Avanzo - una rinnovata attenzione sulle misure alternative alla detenzione, con particolare riguardo alle Comunità, che è giusto garantiscano ai minori delle esperienze detentive sane, specie alla luce dei costi sopportati per ciascun minore a carico dal dipartimento per la giustizia minorile”. Tra le proposte concrete avanzate alle istituzioni, la creazione in Campania di una vera e propria struttura all’avanguardia, di natura polifunzionale e multidisciplinare, che consenta anche di poter separare i detenuti primari (ovvero alla prima esperienza carceraria) dagli altri, in modo da poter differenziare in maniera concreta il trattamento penitenziario, evitando pericolose e pregiudizievoli commistioni. Giustizia: Consulta; sì misure alternative a carcere per reato di contraffazione Ansa, 3 maggio 2012 L’associazione per delinquere finalizzata alla contraffazione può prevedere misure alternative al carcere. La Corte Costituzionale ha bocciato una norma del “pacchetto sicurezza” 2009 dichiarando illegittima la parte in cui si prevede la sola custodia cautelare in carcere per il reato di associazione per delinquere finalizzata ai reati di contraffazione e commercializzazione di prodotti con marchi falsi. La Consulta aveva già dichiarato illegittima la stessa norma in precedenza. a 3 secondo periodo del codice di procedura penale come modificato dal “pacchetto sicurezza”, dove prevede che, quando sussistano gravi indizi di colpevolezza in ordine all’associazione per delinquere (art. 416 cod. pen.) realizzata allo scopo di commettere i delitti previsti dagli articoli 473 e 474 del codice penale - ossia contraffazione del marchio e commercializzazione di beni contraffatti - sia applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari; ma “non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”. La Corte Costituzionale ha quindi dato ragione al Tribunale e del Gip di Ancona in un procedimento che vede coinvolte quattro persone, nell’ambito del quale è stata sollevata questione di legittimità costituzionale sulle norme del pacchetto sicurezza. I magistrati avevano infatti sostenuto che “pur non potendosi parlare di reato relativo a condotte meramente individuali, non si attagliano ad essa i canoni interpretativi concernenti le fattispecie di mafia” e i reati contestati “abbracciano fatti marcatamente eterogenei tra loro e suscettibili di proporre, in un numero non marginale di casi, esigenze cautelari adeguatamente fronteggiabili con misure diverse e meno afflittive di quella carceraria”. In precedenti occasioni la Consulta aveva già bocciato la stessa norma: in particolare nel luglio 2010 per quanto riguarda i procedimenti per violenza sessuale, atti sessuali con minorenni e prostituzione minorile, rispetto ai quali il “pacchetto sicurezza” aveva operato una stretta prevedendo l’obbligo di custodia cautelare in carcere; e nel maggio 2011 per il reato di omicidio volontario per cui il pacchetto disponeva l’obbligo della sola custodia cautelare in carcere, senza prevedere misure alternative. Giustizia: Nicolò Amato; mi hanno cacciato dal Dap per trattare con la mafia Intervista di Giovanni Fasanella Panorama, 3 maggio 2012 L’ex capo delle carceri rivela: “Nel 1993 Cosa nostra ottenne la mia testa. Ho i documenti che lo provano”. Fui cacciato a pedate nel sedere. Senza un perché. Ma oggi l’ho capito, grazie a documenti che non conoscevo: li avevano tenuti nascosti perché troppo imbarazzanti; avrebbero svelato aspetti inquietanti della cosiddetta trattativa Stato-mafia per l’abolizione del carcere duro”. Nicolò Amato era direttore del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, quando nel 1992 Cosa nostra inaugurò la stagioni delle stragi. Il 4 giugno 1993 fu improvvisamente rimosso. A volere la sua testa fu il presidente della Repubblica Oscar Luigi Seaifaro, d’accordo con il presidente del Consiglio Cario Azeglio Ciampi e con il ministro della Giustizia Giovanni Censo. Ma perché la cacciarono? Perché ero un ostacolo a ogni trattativa o tacita intesa con la mafia. Sono stato vittima di una trama squallida e oscena, che ha riguardato le istituzioni che rappresentavo. Dopo l’assassinio di Giovanni Falcone attuai verso i mafiosi in carcere la risposta più dura. Riaprii le carceri di massima sicurezza di Asinara e Pianosa e proposi al ministro della Giustizia Claudio Martelli l’applicazione del 41 bis ai 532 boss più noti. Poi, dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, inviai un appunto al ministro per estendere il regime duro a tutti i 5.300 detenuti di mafia: non sempre conoscevamo le esatte gerarchie mafiose. Un detenuto apparentemente poco importante poteva essere in realtà un capo? Sì. Bisognava impedire ai detenuti di mafia di utilizzare altri detenuti e troncare ogni possibilità di comunicazione illecita con l’esterno. Così individuai 121 carceri o sezioni di carceri in cui mettere quei 5.300 mafiosi e chiesi a Martelli di varare un solo decreto 41 bis su quelle 121 strutture invece di tanti provvedimenti ad personam. La risposta di Martelli? Girò il mio appunto all’ufficio legislativo e alla direzione affari penali del ministero. Una procedura del tutto insolita, visto die la mia proposta non prevedeva modifiche di legge e quindi quei due uffici non avevano alcuna competenza. Allora scrissi al ministro, chiedendogli di assumersi responsabilità dirette. Ma lui si rifiutò e si limitò a rilasciarmi una delega per l’applicazione del 41 bis. Feci quel che potevo e i provvedimenti di restrizione salirono a 1.300. Che cosa accadde quando alla Giustizia arrivò Conso? Gli scrissi che il 41 bis, essendo un decreto ministeriale, era il prodotto di un’emergenza. Perciò proponevo di sostituirlo con una legge, che avrebbe reso permanente, più efficace e più dura la risposta dello Stato alla mafia. La .situazione era estremamente pericolosa. Avevamo appena scoperto il piano per l’uccisione di alcuni agenti del carcere di Pianosa, sventandolo per un soffio. Arrivava dal carcere l’ordine di uccidere? Sì: questo era il problema cui occorreva dare una risposta più decisa. La sicurezza sarebbe stata tanto più garantita quanto più forte fosse stato il controllo sulle comunicazioni tra il carcere e fuori, che passavano attraverso la corrispondenza e i colloqui. Chiedevo un rafforzamento della censura sulle lettere e la possibilità di ascoltare e registrare i colloqui. E inoltre che i mafiosi chiamati a depone nei processi potessero farlo solo attraverso un collegamento audiovisivo, senza essere portati in udienza. Reazioni? Da Palermo Cosa nostra inviò una lettera anonima al presidente Scalfaro. Arrivò anche al Vaticano e ad altri, tra cui il ministro dell’interno (Nicola Mancino, ndr). La lettera invitava a “togliere gli squadristi al servizio del dittatore Amato”, cioè a cacciarmi. Fatto gravissimo: di quella lettera non venni mai messo al corrente. La data? Febbraio 1993. Tre mesi dopo, visto die ero ancora al mio posto, esplose l’auto-bomba in via Fauro a Roma (14 maggio) e d fu la strage di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio). Il 4 giugno venni rimosso dal mio incarico e sostituito con Adalberto Capriotti. Ma i lettori di Panorama sanno già come andò, visto che avete dato conto della testimonianza dell’ex segretario generale della presidenza della Repubblica, Gaetano Gifuni, e poi avete intervistato il vicecapo dei cappellani penitenziari, Fabio Fabbri, che ebbe un molo importante in quella storia: fu Scalfaro, il primo destinatario dell’anonimo, a volere la mia testa. La sua rimozione facilitò la trattativa? La scelta del mio successore fu praticamente affidata ai cappellani, gli stessi che avevano trattato per il Vaticano e lo Stato nel sequestro Moro. È un fatto, ma ce ne sono altri: documenti che ho potuto vedere solo di recente e che dicono in modo eloquente cosa accadde subito dopo la mia rimozione. Quali documenti? E che cosa accadde? Agli atti dell’inchiesta condotta all’inizio del 2000 da Gabriele Cheiazzi, pm di Firenze, ci sono una serie di lettere e appunti dei miei successori, Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio, i quali proponevano al ministro Conso una serie di revoche del 41 bis. Nel giro di pochi mesi i detenuti di mafia a regime duro crollarono da 1.300 a 436. Basta per dire che ci fa una vera trattativa? E che la revoca del 41 bis arrivò in cambio della pax mafiosa? Tra i documenti ne ho trovato uno a dir poco agghiacciante È un appunto in cui il Dap chiede una serie di revoche del 41 bis. Ma attenzione alla data: è del 29 luglio 1993. Nei due giorni precedenti c’erano stati gli attentati di piazza San Giovanni e alla Chiesa di S. Giorgio al Velabro, a Roma, e la strage di via Palestro a Milano. E attenzione: 5 morti, 12 feriti e danni ingenti al patrimonio artistico vengono definiti una “delicata situazione generale, che impone di non inasprire inutilmente il clima all’interno degli istituti di pena”. Quindi, di revocare un ulteriore gruppo di 41 bis… però l’inchiesta di Chelazzi non approdò a nulla… Chelazzi morì all’improvviso (il 16 aprile 2003, ndr) mentre stava indagando; il suo lavoro si bloccò. È inquietante che nessuno abbia sentito il bisogno di riprendere il filo della sua indagine. Quei documenti sono sepolti in un archivio da quasi un decennio. Ma lei se la sente di affermare che una trattativa ci fu? Io non so e non posso sapere se c’è mai stato un tavolo formale intorno al quale si sono seduti mafia e Stato. Ma non c’era bisogno di alcun tavolo per discutere di certe cose. La trattativa era implicita e il patto finale era tacito, visto che l’una sapeva die cosa voleva l’altro, e viceversa. Dunque, una trattativa implicita? Sì, una trattativa implicita. E il prezzo pagato alla mafia furono la mia testa e la fine del carcere duro. Lei crede che Borsellino sia stato ucciso perché si opponeva alla trattativa? No. Gli attentati contro Falcone e Borsellino sono una storia completamente diversa. Ancora tutta da scrivere. Cagliari: Sdr; trasferito in Opg il detenuto che incendiò la cella a Buoncammino Comunicato stampa, 3 maggio 2012 Nelle scorse settimane un cittadino privato della libertà, extracomunitario, aveva incendiato una cella del Centro Diagnostico Terapeutico della struttura di Buoncammino. Un gesto grave che aveva provocato l’evacuazione degli altri pazienti. Era esasperato perché chiedeva di poter continuare ad assumere la terapia che uno psichiatra gli aveva prescritto facendolo stare bene e che invece secondo un altro specialista non era adeguata. R.C. avrebbe lasciato il carcere il prossimo 7 luglio avendo terminato di scontare la pena. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con un provvedimento d’urgenza lo ha trasferito nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino. Nonostante l’ormai imminente annunciata chiusura, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari insomma vanno a gonfie vele. Lo denuncia in una nota Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” richiamando l’attenzione sulla necessità che “i detenuti affetti da disturbi psichici siano considerati innanzitutto pazienti e accuditi con particolare sensibilità”. “Quello dello psichiatra - sottolinea Caligaris - è un compito molto difficile e complesso in quanto deve lenire il dolore mentale senza poter vedere l’organo interessato dalla terapia. La situazione è ancora più complicata in un ambiente carcerario dove l’individuo ha perso la libertà e non è sempre in grado di contenere le proprie reazioni emotive. Il caso del cittadino extracomunitario deve far riflettere tutti gli operatori del sistema e chiamarli a una condivisione di una situazione altrimenti non gestibile”. “Non si può in questi casi - conclude la presidente di Sdr - tralasciare di considerare il dramma umano di un uomo extracomunitario, lontano dalla famiglia che, in procinto di riacquistare la libertà, pur con un disturbo mentale curabile, è invece stato internato in un Opg con il rischio di non poter più ottenere quello che aveva acquisito come diritto avendo pagato il suo debito con la giustizia”. Lanusei (Og): Sdr; situazione sanitaria insostenibile al carcere “San Daniele” Comunicato stampa, 3 maggio 2012 Nuova denuncia di un gruppo di detenuti del carcere di Lanusei, la struttura penitenziaria dell’Ogliastra risalente al 1870, ricavata da un antico convento. In una lettera all’associazione “Socialismo Diritti Riforme” descrivono i numerosi disagi con i quali sono costretti a convivere. “Carenze di carattere igienico-sanitario, l’impossibilità di svolgere un lavoro e le precarie condizioni di salute di diversi cittadini privati della libertà - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr - sono state ancora una volta rappresentate con chiarezza e precisione. I detenuti sono costretti a condividere spazi angusti e a trascorrere le giornate in totale inattività con evidenti rischi per la sicurezza considerando la oggettiva difficoltà a condividere la cella quando si è in sei persone e si registrano problemi di salute. In questo modo non è possibile la rieducazione e il reinserimento sociale e la detenzione si limita alla pena che incattivisce e disumanizza”. “Siamo collocati in una cella non fumatori - hanno scritto - perché tra di noi ci sono alcuni che hanno gravi problemi respiratori avendo anche subito interventi chirurgici. Accade però che ogni tanto viene aggiunto qualche detenuto fumatore con inevitabili tensioni e rischi per la salute. Attualmente siamo in 6 ma in cella ci sono 7 brande e purtroppo presto aumenteremo di numero. Viviamo in condizioni non sopportabili anche perché siamo chiusi per troppe ore. Non ci sono soldi per poter svolgere qualche lavoro. Abbiamo trascorso - hanno sottolineato - un inverno freddissimo e ora, che siamo in procinto dell’estate ci preoccupano non poco le condizioni di vivibilità. Non abbiamo neppure la possibilità di avere neppure un po’ di acqua fresca. Il nostro convincimento è che non si possa andare avanti in questo modo. Diteci voi come ci dobbiamo comportare”. Firenze: Protocollo d’Intesa per rafforzare servizi sociali rivolti ai detenuti minorenni Redattore Sociale, 3 maggio 2012 È stato firmato questa mattina in Palazzo Vecchio dall’assessore alle politiche sociali Stefania Saccardi e da Giuseppe Centomani, dirigente dei centri di giustizia minorile di Toscana e Umbria. Un protocollo d’intesa per rafforzare e migliorare la presa in carico sociale dei detenuti minorenni. A firmarlo, questa mattina in Palazzo Vecchio, l’assessore alle politiche sociali Stefania Saccardi e Giuseppe Centomani, dirigente dei centri di giustizia minorile di Toscana e Umbria. Attualmente, nell’istituto penitenziario fiorentino per detenuti minori sono disponibili 201 posi letto e, al 30 aprile scorso, sono 176 i minori in carico, mentre nel 2011 sono stati ospitati 219 persone. “Nessuno in Italia - ha detto Centomani - ha le risorse economiche e di personale per andare avanti, questa carenza genera circoli viziosi, ma in Toscana siamo riusciti” ad instaurare “un circolo virtuoso”. “Questo protocollo - ha poi aggiunto - genera una risposta in tempo reale”, necessita di “risposte esaustive”. Sassari: Protocollo d’Intesa tra il Servizio Nidi del Comune e la Casa Circondariale Ristretti Orizzonti, 3 maggio 2012 Il Protocollo d’Intesa tra il Comune di Sassari e la Casa Circondariale San Sebastiano, fortemente voluto e promosso dal Garante dei detenuti di Sassari, dottoressa Cecilia Sechi, che ha iniziato la sua attività nel mese di agosto 2012, nasce per rispondere alle esigenze delle bambine e dei bambini, in età compresa tra i 3 e i 36 mesi, che si trovano a vivere, loro malgrado, in carcere insieme alle loro mamme detenute. La sottoscrizione del documento dal parte del Direttore della Casa Circondariale, Francesco D’Anselmo e il Sindaco di Sassari, Gianfranco Ganau, nasce con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita dei bimbi costretti a vivere di fatto come detenuti, attraverso il loro inserimento nei servizi socio educativi per la prima infanzia del Comune di Sassari o nelle strutture private convenzionate. Al dicembre del 2010 in Italia erano circa 74 i bambini tra 0 - 3 anni rinchiusi negli istituti penali: un’incidenza elevata che ha portato nel 2011 il Governo a varare la legge 62 che prevede l’istituzione di case protette per detenute con figli. L’unico comune italiano ad aver costituito una casa protetta è quello di Milano. Il 36% dei detenuti nei carceri italiani sono genitori e 50 mila i minori figli di detenuti. Sassari è l’unico comune sardo a siglare un accordo di questo tipo. In Italia città come Genova, Torino e Venezia hanno già sottoscritto un protocollo d’intesa per consentire ai bambini e alle bambine di frequentare un nido “esterno” e uscire quindi per qualche ora dalle case circondariali dove sono detenute le mamme. Solo il carcere di Rebibbia a Roma ha al suo interno un nido. A Sassari l’incidenza è di circa uno o due bambini all’anno, al massimo tre, ospitati all’interno del carcere. Attualmente la Casa circondariale San Sebastiano ospita un bambino di 16 mesi appena compiuti, figlio di una detenuta, in attesa di giudizio. Con la sottoscrizione dell’accordo, l’Amministrazione comunale si impegna a garantire presso le proprie strutture per la prima infanzia e presso strutture private convenzionate posti da destinare ai bambini e alle bambine in età 3/36 mesi ristretti, loro malgrado, con la loro madre presso la Casa circondariale San Sebastiano. Saranno gli operatori dell’Area Pedagogico - Trattamentale della Casa Circondariale di Sassari a richiedere, previo assenso formale da parte della madre del minore, l’inserimento prioritario nei sevizi per la prima infanzia. Alla realizzazione del progetto, che è stato particolarmente complesso e concretizzato grazie alla risposta dell’area trattamentale del carcere e di diversi agenti del carcere, ha contribuito la Reale Mutua Assicurazioni, in particolare il Direttore, Stefano Sardara, studiando e garantendo le necessarie coperture assicurative per un gruppo di mamme che hanno dato la loro disponibilità per l’accompagnamento del bambino al nido e per il rientro in carcere. Cagliari: in tribunale detenuto picchia 5 agenti, furibondo per il trasferimento negato L’Unione Sarda, 3 maggio 2012 L’uomo di Capoterra, 36 anni, è a processo per rapina, estorsione, tentato omicidio e adesso dovrà rispondere anche di lesioni, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Scene da far west al piano terra del Tribunale di Cagliari. Dopo un’udienza Antonio Farigu, 36enne di Capoterra a processo per una rapina avvenuta nell’ottobre del 2010 a Pula, torna nella sala d’aspetto riservata ai detenuti. Qui perde la testa, spintonando l’agente della polizia penitenziaria che lo controlla. La rabbia iniziale si trasforma in furia: nonostante le manette ai polsi riesce a spedire cinque poliziotti al Pronto soccorso. Trascorrono parecchi minuti, con un’udienza interrotta per le urla e i rumori provenienti dalla stanza vicina, prima che sia bloccato. Accompagnato nuovamente nel carcere di Buoncammino, Farigu è accusato di lesioni, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Livorno: Pd; domani convegno a Cecina sul sovraffollamento carcerario Adnkronos, 3 maggio 2012 “Vite sospese. Storie dal Carcere” è il titolo dell’iniziativa organizzata dal Circolo Pd di Marina Centro di Cecina (Livorno) dedicata alle tematiche del sovraffollamento carcerario che si terrà venerdì prossimo 4 maggio a Cecina alle 18 presso l’Auditorium di via Verdi. All’incontro, moderato dalla segretaria del circolo Pd di Marina di Cecina Luna Biondo, ed introdotto da Emiliano Costagli, membro della segreteria del circolo Pd Marina Centro, interverranno il capogruppo del Pd in Commissione Giustizia al Senato, e responsabile regionale del partito del Forum tematico del settore, Silvia Dalla Monica, il coordinatore nazionale del forum Giustizia del Partito Democratico Sandro Favi, il responsabile carceri e diritti dei detenuti del Pd toscano Roberta Rossi. Parteciperanno inoltre il sostituto Procuratore di Livorno Giuseppe Rizzo, Alberto Panu, giudice presso la Corte di Appello di Firenze, il garante dei diritti dei detenuti del Comune di Livorno Marco Solimano, Michele Passione, dell’Osservatorio Carcere dell’unione delle camere penali italiane e Ettore Puppo, delle camere penali livornesi. All’iniziativa prenderà parte anche il regista Armando Punzo, direttore della compagnia teatrale della Fortezza di Volterra. Laureana di Borrello (Rc): un concerto presso la Casa di reclusione “Luigi Daga” www.strill.it, 3 maggio 2012 Significativo e carico di emozione il concerto musicale di archi che si è svolto, nei giorni scorsi, presso la casa di reclusione di Laureana di Borrello al fine di trasferire, anche attraverso la musica, i valori della vita e la necessità di costruire un mondo carico di sentimenti veri. “Note di Legalità”. Questo il titolo dato al concerto dal Kiwanis “Reghion2007” che ha organizzato l’evento in collaborazione con il Conservatorio di Musica “F. Cilea” di Reggio Calabria e con la direzione della Casa di Reclusione “Luigi Daga” di Laureana di Borrello. Alla presenza dei detenuti ospitati di questa struttura modello, per vivibilità ed attività di recupero, la Direttrice della casa di reclusione , Angela Marcello, ha dato il benvenuto ai presenti e nello specifico al Presidente del Conservatorio Lucio Dattola, al Direttore del Conservatorio, Francesco Barillà, al Presidente del Kiwanis Region2007, Vincenzo Malacrinò, a tutti i soci del Kiwanis, ai musicisti, alle guardie e a tutti i detenuti. La dott.ssa Marcello, nella sua introduzione, ha plaudito all’iniziativa del Reghion2007, sottolineando ai presenti che “questo è stato il primo significativo appuntamento con la musica classica, all’interno delle mura della Casa di Reclusione”. La dott.ssa è stata molto contenta di vedere che i giovani ospiti hanno davvero apprezzato l’iniziativa, tanto da auspicare di potere presto ripetere l’esperienza. Ha ringraziato tutti gli autori dell’evento ed in modo particolare il dott. Vincenzo Malacrinò per l’impegno profuso in tal senso. Il Dott. Lucio Dattola ha esortato i ragazzi reclusi, attraverso le parole di San Francesco, ad agire con la mente ed il cuore nell’azione di reinserimento nella società, al fine di diventare loro stessi, artisti, nelle attività di artigianato che svolgono quotidianamente e che potranno essere base per il rilancio sociale. Il Prof. Francesco Barilla ha spronato i presenti a seguire le note della musica come percorso di rilancio sociale poiché è possibile ripartire e riaprirsi spazi nella vita attraverso la lettura della propria interiorità che rappresenta la vera musica. Questa è stata la prima volta che il Conservatorio di Reggio Calabria, con le sue alte professionalità e competenze musicali, è entrato nella struttura e questo, come ha sottolineato il presidente del Kiwanis - Reghion2007 Vincenzo Malacrinò - è dovuto alla non comune capacità di recepire il valore delle iniziative formative da parte della dottoressa Marcello e alla straordinaria sensibilità del direttore del Conservatorio, Francesco Barillà nel rispondere positivamente alle attività culturali in realtà particolari come quella di Laureana. Al presidente del Conservatorio Dattola, a tutto il Direttivo del Kiwanis “Reghion”, a tutti i soci e agli ospiti di questa giornata, ha detto Malacrinò, la mia gratitudine per il calore che si respira con l’augurio che tutti possiamo contribuire alla costruzione di una società basata sui valori. Poi, rivolto ai ragazzi presenti in sala li ha invitati a ritracciare il loro percorso di vita sulla base dell’armonia considerando l’uomo come nota musicale nel vasto pentagramma rappresentato dalla vita. Successivamente è stato ricordato con grande emozione il Provveditore Regionale Paolo Quattrone a cui è stato dedicato il primo brano “Mission” di Ennio Morricone, ascoltato in piedi quale segno di affetto verso l’importante figura passata ad altra vita. I pezzi in programma si sono succeduti, intervallati da applausi e grande ed entusiasta partecipazione dei detenuti, interpretati con grande perizia artistica dai Professori del Conservatorio i quali hanno mostrato abilità e profondità di sentimento in ogni brano. Forte l’emozione che si è respirata dentro la struttura e no solo da parte dei ragazzi detenuti ma anche dei partecipanti. Alla fine del concerto, sono stati donati dei riconoscimenti a tutte le personalità presenti e degli omaggi floreali alle donne in sala. Negli occhi dei ragazzi e nelle parole espresse da uno di loro, in rappresentanza di tutti, è stata viva l’emozione per il momento di serenità loro offerto, in un “momento difficile”, queste le parole usate, assieme ad un ringraziamento particolare alla Direttrice della casa di reclusione, per l’egregia attività svolta finalizzata al reinserimento nella società. Medio Oriente: continua lo sciopero della fame di 2mila detenuti palestinesi di Amira Hass e Jack Khoury www.tg3.rai.it, 3 maggio 2012 Sono circa 2mila i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane in sciopero della fame dal 17 aprile. Protestano contro le condizioni nelle carceri e contro le politiche detentive israeliane. Il responsabile medico di una struttura sanitaria carceraria preoccupato per le condizioni di salute di quattro di loro. Si teme per la vita di quattro dei duemila palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane. Lo ha reso noto lunedì un medico del dipartimento penitenziario israeliano IPS. Qualche settimana fa proprio l’Israeli Prison Service aveva dato la notizia che 2000 detenuti palestinesi avevano iniziato lo sciopero della fame per protestare contro le condizioni nelle carceri e le politiche di amministrazione penitenziaria israeliana. Bilal Diyab, Tàir Halale e Omar Abu Shlal sono stati condannati al carcere in regime di “detenzione amministrativa” da un tribunale militare per ordine dello Shin Bet; chiedono di essere processati o rilasciati. Il quarto, Muhammad Siksak, originario della Striscia di Gaza, è in sciopero della fame perché ritenuto dalle autorità israeliane un “combattente illegale”. L’Ips non ha ancora esplicitamente confermato quanto detto dal medico penitenziario, che ritiene i prigionieri in pericolo di vita, ma ha fatto sapere ad Haaretz di “essere tenuto per legge a garantire la buona salute e la sicurezza delle persone che ha in custodia. L’incolumità di tutti i prigionieri in sciopero della fame è una priorità per il (nostro) dipartimento; molto viene già fatto dal punto di vista medico per assicurare l’assistenza sanitaria ai detenuti, tutti sotto stretto controllo medico. Quelli che hanno richiesto assistenza a tempo pieno sono stati ricoverati nella struttura sanitaria di Ramle. Qualora la situazione dovesse aggravarsi, i detenuti sarebbero trasferiti in un ospedale pubblico, come già successo in precedenza” afferma il servizio penitenziario. A causa dell’aggravarsi delle sue condizioni, Bilal Dyab, in sciopero da 67 giorni, si trova già da martedì 1/5 all’Assaf Harofeh Hospital. Lunedì un medico di Physicians for Human Rights Israele (Medici per i Diritti Umani Israele) ha fatto visita all’ospedale penitenziario; a suo parere i prigionieri dovrebbero essere rilasciati e ricoverati in una struttura sanitaria pubblica. Secondo Anat Litvin, l’attivista di Physicians for Human Rights, la struttura ospedaliera penitenziaria dell’IPS non ha gli apparecchi necessari al monitoraggio e alla cura di persone in sciopero della fame in gravi condizioni. Nell’intervista che ha rilasciato al giornale online di Adalah, il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele, Litvin ha descritto i danni e le conseguenze fisiche e psichiche dello sciopero della fame prolungato nei prigionieri. Secondo l’attivista, inoltre, i medici dell’Ips si troverebbero a dover rispettare tanto il dovere nei confronti dei detenuti che dell’istituzione per la quale lavorano, aspetto questo che potrebbe influenzare le loro decisioni. Nella struttura gestita dall’IPS ci sono altri quattro detenuti, tra i quali Ahmad Sàadat, il segretario generale del Fplp, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ricoverato dopo il considerevole peggioramento del suo stato di salute. Lunedì l’avvocato Jawad Boulus, che rappresenta i prigionieri in sciopero della fame per la Palestinian Prisoner Society, ha detto ai giornalisti di Ramallah che, per quanto ne sa e a differenza di quanto successo nel caso di Khader Adnan, le autorità israeliane non avrebbero avviato trattative con i detenuti. Boulus si è detto molto colpito da quanto sta succedendo, perché i casi di Adnan e Hana Shalabi hanno portato all’attenzione internazionale la pratica israeliana della detenzione amministrativa. Secondo l’Ips, attualmente sono 300 i prigionieri in regime di “detenzione amministrativa” nelle carceri israeliane. La procedura, introdotta con la legge speciale di emergenza ai tempi del Mandato Britannico, permette di trattenere in arresto cittadini palestinesi sospetti, per periodi di durata variabile e reiterabili, senza accuse specifiche o processo. I detenuti attualmente in sciopero della fame protestano principalmente contro il regime di isolamento, contro la detenzione amministrativa e il perdurare delle disposizioni imposte prima del rilascio del soldato israeliano rapito Gilad Shalit. La detenzione amministrativa è una procedura che permette alle autorità israeliane di mandare in galera, in seguito a informazioni di intelligence note solo a un giudice militare, sospetti terroristi senza processo per periodi, prorogabili, di sei mesi. In seguito alle sanzioni che furono imposte per fare pressione su Hamas ai tempi del rapimento di Gilad Shalit, oggi si tende ad impedire le visite dei familiari residenti a Gaza dei prigionieri; ciò rende la situazione particolarmente difficile per le famiglie della Cisgiordania con parenti nelle carceri israeliane, che devono ogni volta sottostare alla perquisizione fisica. Sono stati inoltre cancellati i corsi e introdotte altre forme di quelle che i detenuti giudicano punizioni collettive. Lo sciopero vuole anche mettere in evidenza ciò che i prigionieri definiscono “provvedimenti umilianti”, quali la perquisizione notturna della cella. Secondo l’avvocato Boulus Israele starebbe valutando quale potrebbe essere il potenziale danno dell’eventuale morte di uno dei detenuti in sciopero della fame. A suo dire non sarebbero in corso trattative per evitare il peggio, perché per i funzionari israeliani le conseguenze non sarebbero eccessive. L’Israeli Prison Service non ha ancora ribattuto a questa valutazione dell’avvocato. Iran: situazione drammatica per la libera informazione, 27 i reporter in carcere Adnkronos, 3 maggio 2012 L’informazione indipendente in Iran vive una “situazione drammatica”. È quanto si legge in una nota di Iran Human Rights (Ihr) Italia, in occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa. La onlus ricorda che dalle contestate elezioni presidenziali del giugno 2009, l’Iran ha occupato stabilmente uno dei primi posti nella speciale classifica di “più grande prigione al mondo per giornalisti”: 27 sono in carcere in questo momento, ai quali vanno aggiunti 19 blogger, secondo il più recente dato di Reporters Sans Frontières. Secondo Ihr, inoltre, “molti altri reporter si trovano in libertà solo provvisoria e la minaccia incombente di pesanti condanne da scontare li costringe al silenzio e, di fatto, a dimenticare la professione o ad abbandonare il paese per scegliere l’esilio. Centinaia di testate sono state chiuse dalla macchina della censura del regime dal 2000 a oggi - prosegue la nota - mentre continua la lotta del governo al libero uso di Internet nel paese, sia con i frequenti rallentamenti del traffico web, sia con il piano di creare una rete nazionale chiusa al mondo esterno”. Ihr, sottolinea il comunicato, chiede ai media italiani di “rompere il muro di silenzio che circonda da anni le condizioni dei giornalisti iraniani, ricordando almeno alcuni tra coloro che sono attualmente in prigione solo per avere svolto in modo indipendente la loro professione. Il giornalista economico Bahman Ahmadi Amouee, detenuto nel carcere di Evin (Teheran) e condannato a 5 anni per avere criticato la politica economica dell’amministrazione Ahmadinejad. Ahmad Zeidabadi, analista politico, esperto in affari medio-orientali, che sconta una pena di 6 anni nel carcere di Rajai Shahr (Karaj), così come Keyvan Samimi e Isa Saharkhiz, entrambi membri dell’Associazione per la difesa della libertà di stampa”. Svezia: mobili Ikea costruiti anche dai detenuti di Cuba di Barbara Ciolli www.lettera43.it, 3 maggio 2012 Non solo commesse per il lavori forzati nella Ddr, ma a Cuba. Secondo un’inchiesta del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, negli anni 80 il colosso Ikea avrebbe commissionato la costruzione di mobili anche a detenuti nelle carceri di Fidel Castro. Gli accordi tra il Lider Maximo e l’azienda svedese sarebbero stati raggiunti nel settembre 1987 da una delegazione delle società Arte e commercio antiquario (Kua) e Delta export import della Repubblica democratica tedesca Lo scandalo sui presunti legami commerciali tra la multinazionale fondata da Ingvar Kamprad e i centri di detenzione con lavoratori forzati - dei quali i vertici attuali hanno finora dichiarato di non essere a conoscenza, dunque, si allarga Oltreoceano. Le informazioni delle quali è entrata in possesso la Faz sono molto dettagliate. Secondo la ricostruzione del giornale, il 17 settembre 1987 un gruppo di esperti della Ddr sarebbe arrivato all’Avana, per discutere, il giorno seguente, dell’affare Ikea con il ministro dell’Interno cubano. Da alcuni atti sul commercio estero della Repubblica democratica tedesca, risulterebbe inoltre che, tra gli interlocutori della delegazione all’Avana, c’era il tenente colonnello Enrique Sanchez, a capo dell’azienda Emiat. La società cubana si occupava di arredamento e gestione delle residenze per le ferie e per gli ospiti dei leader comunisti dell’isola. E le sue fabbriche, sempre secondo i vecchi archivi della Ddr, si sarebbero trovate all’interno delle carceri del ministero dell’Interno. Un mese dopo la visita all’Avana, a Berlino est sarebbe stato sottoscritto un contratto tra il governo cubano e Ikea Trading Berlin, la succursale dell’azienda nella Germania dell’Est che, allora, aveva sede nel Centro internazionale del commercio della Berliner Friedrichstraße. In aggiunta a una fornitura di 3-4 mila mobili Falkenberg, la commessa cubana avrebbe incluso 10 mila tavoli per bambini e 35 mila tavoli da pranzo. La prima spedizione, tuttavia, sarebbe stata rispedita indietro, perché non conforme alle norme di qualità svedesi. In passato l’86enne Kamprad, patron dell’Ikea, era stato criticato per le sue simpatie filo-naziste, definite poi da lui stesso “un peccato di gioventù”. In Svezia, la notizia dei contratti di fornitura con i campi di lavoro della Ddr è stata divulgata questo aprile, durante il programma di inchiesta Uppdrag Granskning, della televisione svedese Svt. Per informarsi, i reporter hanno raccontato di aver consultato gli archivi della Stasi. Ai quali, tra l’altro, in Germania avevano già attinto altri giornalisti, per documentare i rapporti compromettenti tra la multinazionale del mobile e la Repubblica democratica tedesca. Nel 2011, in particolare, l’emittente tedesca Wdr diffuse un documentario sull’argomento. Allora una portavoce dell’azienda svedese preferì non commentare le rivelazioni, limitandosi a sottolineare come le pratiche commerciali fossero cambiate negli ultimi 25 anni. Con il nuovo polverone, l’attuale dirigenza ha comunicato di aver chiesto l’acquisizione di materiale dagli ex archivi della Ddr, per approfondire la vicenda. Stati Uniti: a Washington detenuti accudiscono gatti per imparare il lavoro di squadra Ansa, 3 maggio 2012 Come recuperare i detenuti? Affidando loro un gattino da accudire. È questa l’ultima sfida lanciata da un penitenziario a bassa sicurezza dello Stato di Washington. Il progetto sperimentale prevede che i ristretti aderenti all’iniziativa in maniera volontaria abbiano il compito di curare un piccolo micetto insieme ad un compagno. La proposta, inizialmente apparsa bizzarra, ha poi raccolto numerosi consensi. Sono già 100 i detenuti che hanno presentato le domande di partecipazione. Si tratta di un progetto che mira alla socializzazione e non solo. Un modo per riabituare gli arrestati alla cura degli altri. A seguire i detenuti sarà una psicologa del carcere di Yacolt, Monique Contreras. È stata lei a spiegare come la cura del micetto servirà a far “apprendere il lavoro di squadra e la condivisione di responsabilità”. Le prime testimonianza che arrivano dal penitenziario sono incoraggianti sui risultati. Al momento due coppie di ristretti hanno preso in cura le gattine Clementina e Principessa Natalie e, a quanto pare, si tratta di felini non proprio socievoli tanto da indurre i precedenti proprietari alla scelta dell’abbattimento. Per fortuna a salvarle ci hanno pensato i detenuti di Washington.