Pietro Buffa: per le carceri scelte di qualità piuttosto che di quantità www.articolotre.com, 29 maggio 2012 Riceviamo e pubblichiamo integralmente una richiesta di rettifica da parte del dottor Pietro Buffa, direttore della Casa Circondariale di Torino. “Egr. Davide Pelanda, leggo su Ristretti Orizzonti il suo resoconto del mio intervento svolto al convegno tenutosi all’interno della Casa di reclusione di Padova il 18 u.s. Credo sia opportuno precisare che tale resoconto, in parte, non rispecchia esattamente il mio pensiero nel senso che non credo affatto che ogni presidente di Regione debba avere una responsabilità carceraria. Sono altresì convinto, e questo è quanto ho affermato in quella sede, che la gestione e la responsabilità della pena debba rimanere in capo alle funzioni statali e che le Regioni, attraverso gli assessorati che già oggi si occupano di lavoro, salute, formazione, cultura ecc. debbano farsi carico di tutta quelle iniziative interne che possono effettivamente dare alla pena un taglio di impegno e responsabilizzazione del condannato. In tal senso, quindi, non ho affatto affermato la necessità di un assessorato regionale penitenziario. In ultimo preciso di non aver altresì affermato che “di qui poi i nostri politici ci ricamano sopra e costruiscono le loro campagne elettorali” ma più semplicemente il senso delle mie parole, tra l’altro registrate e quindi ascoltabili su Radio Radicale, è che a fronte di una definizione “numerica” della questione carceraria, la politica adotta decisioni coerentemente tese allo sfollamento o alla costruzione di nuove carceri mentre, viceversa occorrerebbero scelte di responsabilizzazione e riconciliazione che facessero più riferimento alle qualità più che alle quantità. La prego pertanto di rettificare i virgolettati che non corrispondono alle mie parole. La ringrazio e le auguro buon lavoro”. Giustizia: l’asilo di Rignano, la macelleria alla Diaz, la “normalità” per niente normale di Valter Vecellio Notizie Radicali, 29 maggio 2012 Quello che colpisce - che dovrebbe colpire - della vicenda dei presunti abusi nell’asilo Olga Rovere di Rignano non è tanto la sentenza di assoluzione a fronte della pesante richiesta del Pubblico Ministero che aveva chiesto dodici anni di carcere per gli imputati. Quello che colpisce - che dovrebbe colpire - è che per giungere a “il fatto non sussiste”, i cinque imputati abbiano dovuto attendere sei anni, perché l’inchiesta è partita appunto nel 2006, e che per attendere un verdetto di primo grado se ne siano dovuti attendere due. Sei anni - e gli ultimi due in particolare - da presumere vissuti dagli imputati come un inferno, e in particolare in una comunità piccola come quella; giorni di amarezza e sofferenza che, che nessun risarcimento (se mai ci sarà) potrà mai ripagare; un alone di sospetto che nessuna sentenza fugherà mai. E non è certamente finita qui, perché abbiamo già sentito preannunciare che alla sentenza verrà opposto appello. Si obietterà che sono i tempi “normali” della giustizia italiana. Ed è appunto questo il nodo della questione: ritenere ormai “normale” che cittadini accusati di reati gravissimi e infamanti come quello di essere “orchi” che avrebbero seviziato e fatto violenza a una ventina di bambini, per essere assolti o condannati (in primo grado, si ripete) debbano attendere sei anni. Sempre ieri abbiamo potuto conoscere le motivazioni con le quali la Corte di Cassazione ritiene che nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro “non si è acquisita alcuna prova o indizio di un coinvolgimento decisionale di qualsiasi sorta nell’operazione Diaz”. L’operazione Diaz, come viene sobriamente definita, è la irruzione, degna della polizia di un paese sud americano negli anni delle dittature di Pinochet o di Videla, in una scuola dove dormivano dei ragazzi colpevoli di nulla, e massacrati senza motivo, dopo aver utilizzato come pretesto per “l’operazione” coltellate che i presunti poliziotti accoltellati si sono letteralmente inventati, e il falso ritrovamento di un paio di bottiglie molotov per legittimare a posteriori l’arresto in presunta flagranza dei 93 no-global della Diaz. Per inciso: dovendo custodire da qualche parte le due bottiglie molotov “trovate” la brillante idea fu quella di affidarle alla polizia stessa. Che fine abbiano fatto lo si può ben immaginare. De Gennaro in secondo grado era stato condannato per concorso in falsa testimonianza; i giudici della Cassazione, nell’annullare senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello, parlano di “deserto probatorio”. Non c’è motivo di dubitarne. Si possono riempire scaffali di librerie con vicende di “colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio”, che si rivelano protagonisti loro malgrado di storie fondate sul “deserto probatorio”. Per la Cassazione, la specifica condanna di De Gennaro è “piena di formule come non può sostenersi” e “non può non ritenersi”, quasi a voler rafforzare un impianto debole; si confondono le cause con gli effetti, “in palesi errori di diritto”. Ora, a parte “i palesi errori di diritto”, che dovrebbero inquietare, visto che si tratta di vera e propria condanna emessa dai magistrati della Cassazione nei confronti di loro colleghi della Corte d’Appello (nel linguaggio della sòra Cecioni: sono degli ignoranti), quello che colpisce - che dovrebbe colpire - è che tutta la vicenda si riferisce a fatti che si sono verificati la sera tra il 21 e il 22 luglio del 2001, “solo” undici anni fa. E anche qui si dirà che è “normale” per i tempi della giustizia italiana che una vicenda cominciata nel 2001 finisca nel 2012. Questa “normalità” è combattuta solo da Marco Pannella e da pochi altri come lui; e anche questo è considerato “normale”. Tutte le discussioni, i dibattiti, i confronti, meritano attenzione, considerazione, rispetto. Ma è di questo che si vorrebbe fosse finalmente avviato un vero confronto, un vero dibattito, una vera discussione. E invece… Giustizia: un’amnistia per i reati lievi sulle droghe di Franco Corleone Il Manifesto, 29 maggio 2012 Sono convinto che non possiamo più continuare ad accettare che, di fronte alla tragedia quotidiana che vive il carcere, si persegua una gestione rassegnata e contrassegnata dal tratto della normale amministrazione, quando la situazione è davvero insostenibile e richiede un cambio di passo visibile, una discontinuità profonda. In occasione della Festa della Polizia Penitenziaria il Presidente Napolitano è tornato sul tema del sovraffollamento e ha chiesto a Parlamento e governo di superare la paralisi attraverso “nuove e coraggiose soluzioni strutturali e gestionali”. Il Presidente del Senato Schifani annuncia un’altra sessione straordinaria sulle carceri. Quello della Camera Fini suggerisce la strada della depenalizzazione e la scelta di privilegiare l’adozione di misure alternative. Di fronte a queste intenzioni tocca a noi non lasciarle cadere e chiedere decisioni coerenti. Purtroppo la ministra Severino propone misure modeste come il disegno di legge sulle pene detentive non carcerarie e la messa alla prova e insiste con la scelta di un Piano carcere che prevede programmi di edilizia inutile e dannosa. Ho avuto modo di esprimere al Csm, al Presidente della Repubblica, al ministro Riccardi, ai vertici del Dap che la ragione della bulimia carceraria è determinata dalla legge sulla droga, quella del 1990 aggravata dalla modifica ideologica e ancor più punitiva realizzata con un vulnus costituzionale nel 2006. È questa la legge che provoca il maggiore afflusso in carcere. Il 33% degli ingressi in carcere è relativo alla violazione dell’art. 73 (detenzione e spaccio); nel 2011 ben 22.677 consumatori e piccoli spacciatori sono stati colpiti e una alta percentuale è ristretta per fatti di lieve entità, come previsto dal quinto comma, ma con pene da uno a sei anni di carcere. Occorre interrompere il flusso di entrata oltre che liberare dalle catene i tossicodipendenti, che rappresentano un’altra alta quota di vittime sull’altare della disumanità dell’ossessione securitaria. La proposta di legge dell’on. Cavallaro è lo strumento per affrontare efficacemente la questione. Al Senato lo stesso testo è stato presentato dai senatori Ferrante e Della Seta. Si prevede l’istituzione di un reato autonomo della detenzione di sostanze stupefacenti nella modalità della lieve entità, oggi configurata come semplice attenuante con una pena da sei mesi a tre anni che eviterebbe l’ingresso in carcere e la possibilità di misure alternative. L’iter potrebbe essere rapido se queste e le altre norme previste venissero inserite nel disegno di legge governativo già in discussione. Mi sento di proporre un provvedimento mirato, cioè una amnistia limitata ai fatti relativi al quinto comma dell’art. 73 del Dpr 309/90, che inciderebbe sulle presenze in carcere e sarebbe contestuale alla modifica della legge. Ho aderito all’appello per l’introduzione del reato di tortura nel Codice Penale, la cui approvazione richiederebbe poco tempo da parte del Parlamento ma avrebbe un grande valore simbolico. Questa campagna, lanciata da Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, si deve accompagnare alla ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura (Opcat). L’Italia ha firmato il Protocollo nel 2003 ma non lo ha mai ratificato, contrariamente alla quasi totalità dei Paesi dell’Unione Europea. L’Italia non ha quindi alcun rappresentante nell’organismo di Ginevra che prevede un potere ispettivo a livello globale. La firma del Protocollo obbligherebbe anche l’Italia a istituire la figura del garante nazionale dei diritti dei detenuti ed è una ragione in più per adempiere a un dovere colpevolmente disatteso. Mauro Palma ha scritto al ministro Terzi per sollecitare una decisione nel gennaio scorso, ma nulla si è mosso. Abbiamo chiesto al nuovo Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino di scegliere come priorità l’applicazione del Regolamento del 2000 non solo per migliorare la vivibilità quotidiana nelle carceri ma per indicare la strada maestra della riforma. Attendiamo con fiducia l’istituzione di un Tavolo di confronto e di iniziativa che inizi dall’abbandono della via del cemento. Che fare dunque? Che tipo di mobilitazione va inventata? Confesso di non avere una risposta certa. Per aiutarmi a pensare ho iniziato un digiuno, sperando che si formi una catena che veda impegnati garanti ed esponenti del volontariato. I prossimi giorni devono vederci impegnati a trovare forme originali di denuncia e di proposta. Forse occorre più fantasia, più spregiudicatezza, ma non si può stare fermi e muti neppure un minuto di più. Giustizia: l’amore dietro le sbarre… l’art. 18 delle carceri di Maria Cariello www.altromolise.it, 29 maggio 2012 L’attuale condizione delle carceri fa sì che i nostri istituti somiglino più a discariche per lo smaltimento dei rifiuti sociali che non ad istituzioni orientate alle esigenze della rieducazione. Un po’ come nell’inferno dantesco, chiunque oltrepassi quel portone, sa bene che deve abbandonare ogni speranza, le sue abitudini, la sua privacy. La privacy… in carcere, fa sorridere no?: in fondo, entrando in prigione il detenuto deve accettare le regole dell’amministrazione penitenziaria, come pure i riti della subcultura carceraria e quel codice non scritto di regole fra detenuti. Dietro le sbarre, l’inaccettabile diventa quotidianità: convivere anche nella propria intimità, con persone di cui sempre si sospetta. Dalla notte dei tempi, la pena deve assolvere alla funzione retributiva, nella privazione delle più piccole libertà, nella separazione dalla propria vita e dalle proprie abitudini, dalla casa, dagli affetti. Ciò che si è voluto far sperimentare all’individuo in carcere è lo stato di mal-essere che avrebbe dovuto servire, da deterrente: un feticcio che dovrebbe spaventare chi è fuori dal carcere e chi ha l’occasione di entrarvi schivando il rischio di recidive (ma per molti non c’è un domani, fuori dal carcere, né recidive). Convivere in otto, in tre metri quadrati, orinare davanti ai compagni di cella, assuefarsi ad un’insolita promiscuità, allontanarsi dai propri affetti, determinano profondi cambiamenti nella persona, nell’identità, quasi sempre negativi. E così per le abitudini sessuali, che non derivano certo da una libera scelta. Nelle carceri penali il 70-80% dei reclusi pratica rapporti omosessuali, ricercati o imposti, con altri detenuti, altamente improbabile una scelta di continenza, così che le due opzioni - masturbazione ed omosessualità -, sono le uniche disponibili. Una dinamica contraria, ad un percorso di riabilitazione, a quell’art. 1, comma 1. Ord. Penit.: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Come tutte le cose negate, in carcere la sessualità diventa un’ossessione, ci si lascia tentare dalle occasioni, dal bisogno di denaro per la droga o per altri oggetti negati. Il legislatore dimentica e noi con lui, che chi entra in carcere, fino a quel momento ha avuto una vita familiare e sessuale normale, ha potuto scegliere il proprio partner in libertà. Se eterosessuale non ha mai pensato ad un partner dello stesso sesso, pratica verso la quale potrebbe aver provato ripugnanza. Ma dopo il primo periodo, diventa opprimente il bisogno di allentare le tensioni ….. In questo, la popolazione carceraria femminile è diversa: la tensione sessuale è orientata verso manifestazioni di affetto e sebbene vi siano rapporti lesbici, essi sono meno violenti tesi a formare relazioni pseudofamiliari, che non a creare disordine. Per gli uomini, il sollievo viene dall’autoerotismo, stimolato dalla fame di materiale pornografico, assai diffuso, ma insufficiente: si desidera toccare, lasciarsi accarezzare, sentire, sentire, sentire perché la sessualità, in fondo è un modo di comunicare, di farsi ascoltare e così, il gesto di ogni giorno si trasforma in vere e proprie relazioni intessute di tradimenti e di gelosie. Ovvia conseguenza dell’isolamento dalle proprie relazioni affettive, il cambiamento nell’identità di genere che provoca dissociazioni a livello psichico, incrinando precedenti fragilità, sino a perdere la stima di sé. Qualcuno dirà: ma dai, ci sono le visite! Si le visite, il colloquio: il bacio di Salvatore, Aldo, Francesca , Barbara, è fugace, le mani tendono verso la compagna/o di una vita, impietoso l’occhio delle telecamere, invadente lo sguardo degli agenti e quel gesto di tenerezza è frettoloso, accennato, come le confidenze sulla vita fuori dal carcere, sul mutuo, sulle malattie, sui figli ormai adulti. Una carezza più intima al detenuto è preclusa: è una questione di articolo 18, quello dell’ordinamento penitenziario però, che impone il controllo a vista dei detenuti, quando sono in compagnia di parenti ed amici. È una scelta di chiara matrice negazionista, retributiva quella del nostro sistema desumibile dal comma 2 dell’art. 18 L. 26.7.1975, n. 354, che esige “il controllo a vista del personale di custodia” sui colloqui, il massimo accettabile sufficiente però a rendere precari e difficili i rapporti familiari, disutili per “mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti o degli internati con le famiglie”. È un’inibizione indiretta, sufficiente ed efficace. Nell’istituto della “visita” (con consumazione del pasto allo stesso tavolo fra i familiari), previsto dall’art. 61, comma 2, lettera b), Reg. esecuzione Ordinamento Penitenziario, che sempre richiama, l’art. 18, comma 2, della legge, è confermata tale visione: i gesti affettuosi appena consentiti , possono creare tensioni fra detenuti e familiari da un lato, e personale di sorveglianza dall’altro, chiamato a valutazioni discrezionali nel controllo, secondo la mentalità di chi è chiamato a gestirle. Forse però per Salvatore, Aldo, Francesca, Barbara, si riaccende la speranza di stringere liberamente il compagno/a , di sentire le sensazioni di una vita fa. Alla domanda: è possibile sostenere, nel quadro costituzionale, la riduzione dei rapporti fra detenuto e familiari ai soli colloqui, quando si sacrifica, così facendo, la ricchezza del tema familiare e il detenuto è costretto, a rapporti inevitabilmente degradanti? una magistrata (non sarà un caso che sia donna), di sorveglianza ha dato risposta, sollevando d’ufficio (23.04.2012) eccezione di incostituzionalità dell’art. 18, comma 2, della L. 26.7.1975, n. 354, con l’adesione della Procura, di una disciplina che “impedisce al detenuto l’intimità dei rapporti affettivi con il coniuge o il convivente, imponendo l’astinenza sessuale, favorendo il ricorso a pratiche masturbatorie o omosessuali, violando i diritti garantiti dagli articoli 2,3,27, 29, 31,32 della Costituzione”, lesiva del principio di uguaglianza, contraria all’umanità della pena, al diritto alla famiglia, alla salute, ostacolo al mantenimento di relazioni affettive, all’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo nel “diritto di stabilire relazioni diverse con altre persone, comprese le relazioni sessuali “ e nel comportamento sessuale che è un aspetto intimo della vita privata “ , all’art. 12, nel diritto di creare una famiglia. Eppure il Consiglio dei Ministri europeo ha raccomandato agli Stati membri di permettere ai detenuti di incontrare il/la proprio/a partner senza sorveglianza visiva durante la visita (Raccomandazione R(98)7, regola n. 68), di mettere a disposizione dei luoghi per coltivare i propri affetti [Raccomandazione 1340/1997 relativa agli effetti della detenzione sui piani familiari e socialil], accessibili per tutti i tipi di visite, senza discriminazione. Ma si sa, l’Italia fa parte dell’Europa quando le pare; eppure, il diritto alla affettività (in carcere) è riconosciuto nella Spagna cattolica, in Germania dove sono predisposti appartamenti in cui i condannati a lunghe pene possono incontrare i propri cari, in Olanda, Norvegia e Danimarca dove sono previste camere matrimoniali con servizi e cucina. In Italia l’unico contatto tra detenuti e parenti è il colloquio, che si svolge in ambienti affollati da una umanità travolta in pochi minuti dal dolore e dalla gioia, dall’ansia di raccontarsi lo scorrere di una vita, a volte nella vergogna di incrociare lo sguardo di quel figlio che fatica a chiamarti “papà”. Sicché per un verso, la citazione costituzionale rivendica il rispetto di un diritto naturale, sul tema della promozione dell’uomo ( art. 2 e art. 3, commi 1 e 2), e per l’altro, tale posizione è rafforzata dal primato della funzione inclusiva della pena, riaffermata nell’Ordinamento Penitenziario e nella Costituzione. Non è una mera questione di rapporti sessuali: è prendere atto che non è possibile costituzionalmente inibire il diritto al rapporto con il partner in una relazione di coniugio o di convivenza stabile e che la forma con cui deve essere ammessa la fruizione di tale diritto è quella della affettività, che può elidere quelle conseguenze inumane e degradanti, e non del mero riconoscimento dell’ammissione a rapporti sessuali fra le parti. Se il carcere dev’essere luogo di rieducazione, gli atteggiamenti negazionisti e sessuofobici del legislatore - fuori dalle sbarre - non sembrano utili al re-inserimento sociale. È l’affettività che reclama la sua parte: è dando spazio ad una normalità possibile, senza il controllo visivo del personale sull’intimità di quell’affanno, di quella vergogna, di quelle carezze, che hanno tanti nomi, che si realizza il mantenimento, il miglioramento delle relazioni dei detenuti con le famiglie. Se ogni tanto il legislatore volesse guardare più in là dei suoi pregiudizi e non solo per i detenuti e per il loro diritto a continuare a vivere scontata la pena, ma per il futuro dei nostri figli, noi ed i nostri figli gliene saremmo grati. Giustizia: Severino; da nostro Decreto “salva carceri”risultati incoraggianti Agi, 29 maggio 2012 Sono “risultati incoraggianti” quelli che emergono dopo pochi mesi dall’approvazione del decreto “salva carceri” voluto dal Governo. Lo ha sottolineato il Guardasigilli, Paola Severino, intervenuta alla presentazione del libro “Detenuti” di Melania Rizzoli. “Nei primi tre mesi di quest’anno si sono registrati 3mila ingressi in meno in carcere rispetto allo stesso periodo del 2011. Sono usciti dal carcere per andare agli arresti domiciliari 2mila detenuti - ha spiegato il ministro Severino - e il numero dei posti negli istituti penitenziari è aumentato di quasi mille unità. Quindi, in totale abbiamo 6mila posti occupati in meno, quasi il 10 per cento in sei mesi, e le strade non si sono riempite di gente pronta a compiere reati”. Severino, inoltre, ha ribadito il suo impegno sul tema del lavoro per i detenuti. “Con i Comuni - ha detto - stiamo preparando iniziative per lavori di pubblica utilità, che sono uno degli sbocchi più importanti”. Il ministro ha anche sottolineato la tragedia dei suicidi in carcere: “le celle vuote di coloro che si sono tolti la vita - ha osservato - sono quelle che, visitandole, pesano di più. Chi si suicida in carcere dà un segnale dell’incapacità che le istituzioni hanno dimostrato, del fallimento della giustizia che deve, oltre che punire, reinserire le persone nella società”. Giustizia: Bernardini; detenuto malato grave tenta suicidio, dopo rinvio decisione su domiciliari Agenzia Radicale, 29 maggio 2012 “Quello alla salute è diritto inviolabile”. Sulla vicenda del detenuto, gravemente malato, la deputata radicale aveva già presentato un’interrogazione parlamentare. Sul caso del detenuto Luigi Lainà, che oggi ha tentato il suicidio in carcere dopo aver appreso del rinvio della decisione del Tribunale di sorveglianza sulla sua richiesta di detenzione domiciliare, la deputata radicale in commissione Giustizia Rita Bernardini proprio ieri aveva investito direttamente il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. “Se è vero, come sembra confermare anche il direttore, che Luigi Lainà sia stato messo in isolamento dopo aver tentato di togliersi la vita, ricordo al Dap e allo stesso direttore di Regina Coeli Mauro Mariani, che il rapporto dell’Oms sulla prevenzione del suicidio nelle carceri raccomanda espressamente di non mettere in isolamento i detenuti che abbiano tentato il suicidio”, dichiara la deputata radicale, che già diverse settimane fa ha presentato un’interrogazione ai Ministri della Giustizia e della Salute, nella quale, oltre a descrivere il gravissimo quadro clinico di Luigi Lainà - che “in sei mesi ha perso più di un quarto del suo peso corporeo, passando da 50 a 36 chili” - pone l’accento sul diritto alla salute sancito dall’articolo 32 della Costituzione: “un diritto inviolabile della persona umana, insuscettibile di limitazione alcuna ed idoneo a costituire un parametro di legittimità della stessa esecuzione della pena, che non può in alcuna misura svolgersi secondo modalità idonee a pregiudicare di diritto del detenuto alla salute ed alla salvaguardia della propria incolumità psico-fisica”. E ricorda inoltre la recente sentenza con cui la Corte Costituzionale ha evidenziato come “il diritto alla salute va tutelato anche al di sopra delle esigenze di sicurezza sicché, in presenza di gravi patologie, si impone la sottoposizione al regime degli arresti domiciliari o comunque il ricovero in idonee strutture”. Alla luce del drammatico gesto compiuto oggi da Luigi Lainà appare quindi ancora più urgente l’intervento sollecitato da Rita Bernardini “affinché siano adottati i provvedimenti più opportuni, per garantire che l’espiazione della pena non si traduca di fatto in una violazione dei diritti umani fondamentali”. Giustizia: Scuola Diaz, una sentenza da copione di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci Il Manifesto, 29 maggio 2012 Tutto come da copione. I vertici della polizia non pagheranno mai per le violenze della scuola Diaz. Sono intoccabili: la copertura politica è stata ermetica e bipartisan fin dal 2001, ora le sentenze dei tribunali cadono sotto i colpi della Cassazione, come atteso, diciamo pure auspicato dal potere politico già all’indomani dei giudizi di secondo grado. Le motivazioni dell’assoluzione in Cassazione di Gianni De Gennaro, attuale sottosegretario e plenipotenziario degli apparati di sicurezza, andrà letta in ogni sua parte per coglierne appieno il senso giuridico. Le anticipazioni finora conosciute lasciano sconcertati. Perché i giudici scrivono che “non si è acquisita alcuna prova o indizio di un coinvolgimento decisionale di qualsiasi sorta nell’operazione Diaz”? E perché scrivono che la vicenda riguardante il portavoce Roberto Sgalla “si presenta destituita di ogni profilo di seria pertinenza con i fatti reato integranti la regiudicanda del processo Diaz, costituiti da condotte di calunnia, lesioni volontarie, falsità ideologiche ed altri reati”? Il dottor De Gennaro non era imputato nel processo Diaz, ma per l’accusa di induzione alla falsa testimonianza dell’ex questore Colucci, che nel 2007, testimoniando in tribunale, aveva cambiato versione su chi avesse indicato di chiamare sulla scena della perquisizione il dottor Sgalla. Il Colucci del 2001 e degli anni seguenti aveva indicato come responsabile proprio De Gennaro; il Colucci ascoltato al processo ha sostenuto di avere preso personalmente l’iniziativa. È un fatto che De Gennaro e Colucci si sono incontrati a Roma alla vigilia della deposizione di quest’ultimo e che il primo ha giustificato un incontro quanto meno inopportuno, dicendo che si trattava di un’azione tesa a trovare “la consonanza per la ricerca della verità”. Un concetto quanto meno singolare e che il pm Enrico Zucca ha definito “un atto di arroganza e onnipotenza”. Colucci è attualmente sotto processo per falsa testimonianza. Leggeremo le carte e forse capiremo meglio la logica seguita dalla Corte, ma la sensazione è che un primo elemento di valutazione riguardi proprio il ruolo e i limiti d’intervento della Cassazione, che si è spinta anche in valutazioni sulle “inqualificabili violenze” compiute dalla polizia alla Diaz. Le violenze furono senz’altro “inqualificabili”, ma riguardano, come è noto, un altro processo, finito in secondo grado con 25 condanne e del quale la Cassazione si occuperà dall’11 giugno con una serie di udienze che calamiteranno l’attenzione del potere politico, poiché gli imputati compongono il gotha della polizia italiana. Date queste premesse è forte la tentazione di usare un’espressione abusata, ma assai ricorrente nella storia giudiziaria italiana, a proposito di “sentenze già scritte”. In ogni caso non dobbiamo dimenticare che la questione giudiziaria è solo una parte della complessiva vicenda Diaz (e Genova G8) e che le sentenze non cambiano il quadro storico dei fatti. Nel 2001 vi fu una sospensione dello stato di diritto e fu scritta una delle pagine più nere delle forze dell’ordine italiane. Chi le guidava allora è oggi sottosegretario e al vertice degli apparati; i dirigenti coinvolti nella perquisizione-mattanza alla Diaz, pur imputati e condannati in appello, sono sempre ai posti di comando, con ruoli ancora più importanti rispetto al 2001. Questa è la sostanza del discorso. Se la sicurezza, affidata al sottosegretario De Gennaro, che tutelerà i cittadini italiani nel prossimo futuro è quella che abbiamo sperimentato la notte del 21 luglio a Genova c’è da preoccuparsi. E non poco. Assolto De Gennaro, il capo a sua insaputa, di Alessandra Fava Gianni De Gennaro, neo sottosegretario alla presidenza del consiglio del governo Monti (11 maggio scorso), già direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania, capo di gabinetto del ministero dell’interno, nonché capo della polizia ai tempi del G8 genovese, non ha niente a che fare con le violenze alla Dia tra il 21 e il 22 luglio 2001. Lo ha deciso in via definitiva la Cassazione dopo l’udienza del 22 novembre scorso, dove è stato prosciolto dall’accusa di induzione in falsa testimonianza dell’allora questore di Genova Francesco Colucci nel cosiddetto allegato Diaz. Con De Gennaro viene prosciolto anche l’allora capo della Digos genovese Spartaco Mortola, condannato in secondo grado a un anno e due mesi per concorso in falsa testimonianza. Ieri la Corte ha depositato le motivazioni della sentenza: “Non si è acquisita alcuna prova o indizio di un ‘coinvolgimentò decisionale di qualsiasi sorta da parte di De Gennaro nell’operazione Diaz”. Anzi, secondo la Cassazione l’allora capo della polizia avrebbe anche raccomandato “cautela”, ma senza dare alcuna indicazione operativa. Eppure che De Gennaro fosse dietro l’operazione Diaz, la procura lo ha sospettato dall’inizio delle indagini. Ipotizzare che decine di poliziotti entrino in una scuola affidata al Genoa social forum e picchino come degli invasati senza un ordine “dall’alto” per un magistrato appariva impensabile. E man mano che si ricostruivano gli eventi, emergevano - già in fase di inchiesta - certi particolari, come gli arresti fatti la giornata del sabato precedente alla mattanza, quando a Genova era arrivato il prefetto La Barbera. Mandato da chi se non da De Gennaro? I magistrati però non trovavano riscontri. Il massacro però c’è stato. La Cassazione in effetti ammette che quella notte del luglio del 2011 ci fu “inusitata violenza, pur in assenza di reali gesti di resistenza, nei confronti delle persone, molte straniere, presenti per trascorrervi la notte”. E rimarca che “è ben presto emerso che nessuna bottiglia incendiaria è mai stata reperita e realmente sequestrata nei locali della scuola Pertini in possesso dei manifestanti ivi tratti in arresto”. Quelle due bottiglie di Colli Piacentini e Merlot mostrate subito ai giornalisti in questura, erano dunque le bottiglie trovate in corso Italia dal vicequestore aggiunto Pasquale Guaglione, messe in un Magnum a disposizione del capo dei reparti mobili Valerio Donnini e poi portate alla Diaz dal vicequestore Pasquale Troiani. Tutti fatti svelati da un filmato in cui si vedono i massimi gradi della polizia italiana trafficare dentro un sacchetto blu. L’inchiesta bis nasce proprio da quelle bottiglie. A gennaio del 2007 la procura genovese dovrebbe mostrare le bottiglie in udienza e invece scopre che dopo aver soggiornato prima negli uffici del nucleo artificieri della questura e poi nel laboratorio della polizia scientifica, sarebbero state distrutte “per sbaglio” nel settembre 2006 e decide di intercettare alcuni poliziotti. Proprio Colucci parlando con un poliziotto coinvolto nella sparizione delle molotov e mai identificato, dice di “essere pronto a rispondere come dice il capo” in vista di un’udienza del 3 maggio 2006. Così Colucci rivede le versioni al processo: prima dice che fu De Gennaro a “dirmi di chiamare alla Diaz Sgalla” (all’epoca era il capo ufficio stampa della polizia), poi dice che fu una sua iniziativa. Ma secondo la Cassazione il capo della polizia “ben più agevolmente e con l’autorevolezza del suo ruolo avrebbe potuto mettersi in contatto con Sgalla senza l’intermediazione del questore”. Così scompare per l’attuale sottosegretario la condanna in secondo grado a 16 mesi di reclusione del 17 giugno 2010. Su questo punto la Cassazione ha bocciato senza rinvio tutte le tesi accusatorie, rimarcando “l’illogicità dell’assunto del pm nel malcelato tentativo di riportare nella vicenda Diaz un quadro di parallela responsabilità metagiuridica del capo della polizia, nei cui confronti non si è acquisita alcuna prova” oltre alla “farraginosa tesi della decisività dei dati relativi all’invio di Sgalla alla Diaz”. Fra le prime reazioni, Ermete Realacci del Pd dice “quanto accadde alla scuola Diaz nei giorni del G8 di Genova rimane una delle pagine più buie della nostra storia” e il segretario Prc Paolo Ferrero “come nelle stragi di stato, anche per la mattanza Genova non c’è nessun responsabile in alto”. Ora si attende l’udienza dell’11 giugno in Cassazione, che dovrà pronunciarsi sulla condanna in appello a quasi un secolo di carcere dei 25 poliziotti alla Diaz. Tra di loro, Giovanni Luperi oggi capo del dipartimento analisi all’Aisi (4 anni), Francesco Gratteri, ex direttore dello Sco oggi capo dell’antiterrorismo (4 anni), 5 anni a Vincenzo Canterini allora capo del VII nucleo e 4 anni ai capisquadra per lesioni. Umbria: il Forum Salute incontra i detenuti e gli operatori della casa di reclusione di Spoleto Ristretti Orizzonti, 29 maggio 2012 Si è svolto ieri mattina, 28 maggio, l’incontro fra il Forum per il diritto alla salute in carcere dell’Umbria, i detenuti del carcere di Maiano, gli operatori, le associazioni e i volontari per discutere il decreto del 2008 con cui le competenze del servizio sanitario nelle carceri sono state trasferite dallo Stato alle regioni, creando inevitabili differenze tra i vari territori. Il detenuto Giovanni Spada ha aperto i lavori facendo la presentazione del dvd intitolato “Fine pena mai”, realizzato dai reclusi dell’alta sicurezza, sono poi intervenuti il Direttore del carcere di Spoleto dott. Pantaleone Giacobbe, il Senatore Roberto Di Giovan Paolo presidente Forum Nazionale per la tutela della salute in carcere, la dott.ssa Paola Giannelli, psicologa, il dott. Fabio Gianfilippi, giudice di sorveglianza di Spoleto, il dott. Stefano Anastasia, presidente dell’associazione Antigone a Perugia. Alla discussione sulla tutela della salute nella difficile realtà carceraria, è intervenuta la dott.ssa Simona Antinarelli, dirigente sanitaria, che ha descritto le notevoli criticità che è costretta ad affrontare quotidianamente: dalla crisi economica e le poche risorse disponibili, alla complessità di casi singoli da risolvere, dalla scarsezza delle camere detentive negli ospedali alla insoddisfazione di chi si prodiga con coscienza per realizzare nel miglior modo possibile il proprio ruolo. Inevitabilmente sono stati toccati anche argomenti non strettamente sanitari come la condanna all’ergastolo definito “ostativo” che, ha spiegato dott. Gianfilippi, non lascia alcuna speranza per un possibile futuro a meno che il detenuto non collabori con le autorità giudiziarie fornendo informazioni utili alle indagini degli inquirenti. Il senatore Di Giovan Paolo ha chiaramente espresso la sua volontà di portare avanti una legge che abolisca tale pena che contraddice l’art, 27 della nostra Costituzione che prevede la rieducazione di chi ha commesso gravi reati lasciando ad ogni essere umano la possibilità di rifarsi una vita pur dopo una lunga espiazione per i propri delitti. Molise: il giudice Di Giacomo ed il braccialetto elettronico del detenuto indiano di Claudio de Luca www.primapaginamolise.com, 29 maggio 2012 Il problema della vigilanza dei “reclusi” è ridiventato di attualità pure nella ventesima regione da quando un giovane, di nazionalità indiana, si è visto “affibbiare” dal giudice Di Giacomo un braccialetto elettronico allacciato alla caviglia, così da essere controllato, attraverso la linea telefonica, mentre sconta la pena a casa sua, nel comune di Baranello, anziché nelle carceri di via Cavour. L’argomento concernente il sovraffollamento delle carceri tocca, in forte misura, pure il Molise, al punto da costituire una sorta di “tormentone” che, periodicamente, affligge la Stampa locale. Nell’ultimo decennio, al fine di sfoltire la “popolazione a scacchi”, i Ministeri della Giustizia e dell’Interno hanno stipulato due convenzione con la “Telecom” per avere adottato i famosi braccialetti elettronici; però, dopo i primi dieci anni, risulta che siano stati appena 14 i soggetti che vengono controllati telematicamente. Tutto questo accade mentre, secondo l’associazione “Antigone” (che in materia ha redatto un dossier intitolato “Carceri nella illegalità, la torrida estate 2011”), le cifre danno 67.174 detenuti a fronte dei 45.511 previsti. Bene spesso, la situazione desta preoccupazione anche in Molise perché, una volta sì e l’altra pure, i detenuti sfiorano il numero di 500 a fronte di una capacità di 350. Per esempio, ad Isernia gli ospiti di sovente arrivano ad 80 (sui 50 ospitabili) mentre Larino risulta essere tra i casi-limite in Italia con oltre 300 detenuti sui 184 ospitabili. Solo per Campobasso la situazione appare più tranquilla. Secondo il parere del SAPPE (il Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria), quel che accade nella Casa di reclusione frentana dà vita a fenomeni spesso insostenibili, anche per il ridotto organico degli agenti di custodia. Ciò nonostante, ogni tanto se ne riparla, almeno sinché la questione passa di moda; ma poi il problema rimane sempre in piedi. Questa volta, però. è ridiventato di attualità pure nella ventesima regione perché un giovane, di nazionalità indiana, porta un braccialetto elettronico allacciato alla caviglia, così da essere controllato, attraverso la linea telefonica, mentre sta scontando la pena a casa sua, nel comune di Baranello. Della vicenda ha parlato Massimo Giletti nel corso di una puntata del suo appuntamento televisivo domenicale “L’arena” in cui ha avuto quale ospite il Giudice Vincenzo Di Giacomo. Naturalmente il problema del sovraffollamento non è solo italiano ma riguarda pure gli altri Paesi, comunitari e non. Altrove però si è di gran lunga alleviato proprio grazie all’uso del braccialetto elettronico che è stato adottato pure in Italia ma non senza patire enormi difficoltà. Nel 2001, la “Telecom” ne fornì 400 per 110 milioni, fino al 2011. Però al massimo ne funzionarono una diecina, e solo a titolo sperimentale; e così lo Stato finì con il pagare oltre un milione di euro per ciascuno di essi per ogni anno che trascorreva; ed oggi, forse, non funzionano manco quelli. Tutti i paesi civili usano il braccialetto. La Gran Bretagna lo ha adottato su 50mila adulti, condannati o imputati, spendendo in tal modo 1/5 rispetto alla detenzione tradizionale e coprendo pure la sorveglianza - 24 ore su 24 - sui minorenni, sui tifosi e sugli automobilisti a rischio. Ma perché altrove questo sistema ha attecchito mentre nella Penisola si è registrato un flop? Forse perché nell’isola di Albione la sorveglianza elettronica è stata affidata ai privati. I contractor, dopo che hanno vinto l’appalto, garantiscono il servizio. Invece la “Telecom” fornì al Ministero della Giustizia i dispositivi sulla base di requisiti operativi descritti da qualcuno che, giocando con la play station, presumeva di conoscere le hi-tech. Cosicché, ottenuti gli apparati, permase la nebbia delle procedure. Chi poi credé di potere rimediare con corsi di formazione recò ulteriori gravami ai costi complessivi, senza garanzia che il personale potesse essere compatibile coi requisiti del sistema, tanto a pagare era Pantalone. Perciò occorrerebbe privatizzare questo servizio anche in Italia. Oggi persino il Brasile surclassa l’Italia nella sorveglianza elettronica e, lentamente, le carceri di quello Stato vanno svuotandosi. Partiamo da un concetto elementare: se i nostri apparati burocratici fossero vocati alle hi-tech, non saremmo dove siamo. Ancora più banale è osservare che i rari casi d’alta specializzazione nelle Polizie non sono peculiari al personale di custodia delle carceri, tanto meno a tutte le ramificazioni delle innumerevoli Polizie italiane, con le loro diecine di migliaia di addetti. Chi tarantola all’idea che una polizia privata metta un braccialetto allo Stato, ricordi che 60mila agenti privati sono da tempo nella nostra (in)sicurezza e già operano nelle situazioni più calde. Si può lasciare la scelta in molti casi al detenuto: cella o braccialetto? Se sceglie il braccialetto, sarà sottoposto a sorveglianza 24 ore su 24 da una consolle che copre territori di più regioni, con comunicazioni “punto a punto” sino alle Polizie. In caso di violazione o di fuga, lo si rimette in cella e si butta la chiave fino alla fine della pena. Questa macchina non è gestibile autonomamente dalle Forze dell’ordine e ne pone in evidenza carenze e ridondanze. E questo è forse l’ostacolo insormontabile; ma solo in Italia, non in Gran Bretagna e manco in Brasile. Il giovane indiano di Baranello, a cui recentemente è stato allacciato il braccialetto alla caviglia per la prima volta nel Molise viene controllato attraverso una linea telefonica, in ogni momento della giornata, mentre sconta la pena detentiva in casa. Quell’affarino finto-ornamentale costa allo Stato 700 mila euro. E, mentre in Francia ed in Inghilterra è molto diffuso costituisce una rarità in Italia: ed in Molise è stato utilizzato soltanto grazie al Giudice Vincenzo Di Giacomo del Tribunale di Campobasso che ha voluto applicare la legge, provando a testare l’efficacia dello strumento. Ne “L’arena” di Giletti il magistrato molisano ha sostenuto che l’uso sarebbe sicuramente più esteso ove l’informazione fosse maggiore e tale da far comprendere che questo sistema di controllo sostitutivo delle carceri riuscirebbe a far risparmiare una montagna di soldi per il mantenimento dei detenuti. Ma il giudice molisano ha voluto fornire in tv un ulteriore suggerimento: “Il costo del braccialetto potrebbe ridimensionarsi utilizzando il sistema gsm o gps (che è quello del navigatore satellitare di un’automobile). In effetti un tom-tom, costa appena sui cento euro, cifra che si ritrova ad essere assai distante dal braccialetto fornito dalla Telecom”. Firenze: Rizzo (Idv); suicidio a Sollicciano, il Ministro incontri Sindacati Polizia penitenziaria Agi, 29 maggio 2012 “Quello che è accaduto è la drammatica conseguenza del degrado della struttura, che accomuna in condizioni impossibili sia la popolazione carceraria che i lavoratori”. “L’ennesimo suicidio nel carcere di Sollicciano, a Firenze, è la drammatica conseguenza del degrado della struttura, che accomuna in condizioni impossibili sia la popolazione carceraria sia i lavoratori dell’istituto”. Lo dichiara, in una nota, Roberto Rizzo, Responsabile del Dipartimento Lavoro-Welfare Idv Toscana. “Questo gesto è l’estrema denuncia dello stato di degrado in cui versa il pianeta carcere a Firenze e in Toscana”, spiega Rizzo. “A Sollicciano sono presenti quattro educatori: come possono operare efficacemente? Inoltre, operano nella struttura soltanto trecento agenti, distribuiti su turni, davvero pochi in rapporto ai mille e tre detenuti presenti, a fronte di una capienza prevista di quattrocentocinquanta persone, già rivista dall’Amministrazione Penitenziaria che considera sostenibile una presenza intorno alla settecentocinquanta unità”. “Numeri che parlano da soli delle condizioni insostenibili sia dei detenuti sia del personale”, aggiunge Rizzo. “Il disagio, le difficoltà e la sofferenza che accomunano reclusi e personale della Polizia Penitenziaria sono stati da tempo oggetto di numerosi interventi a livello parlamentare e regionale da parte di Italia dei Valori, senza che mai sia arrivata una risposta concreta a queste gravi problematiche: l’Amministrazione Penitenziaria, istituzionalmente responsabile della situazione, sia a livello regionale sia nazionale, tace e non agisce”. “Questo ennesimo suicidio testimonia una volta di più la drammaticità quotidiana che si vive nello nostre carceri, nelle quali gli agenti di polizia penitenziaria sono spesso lasciati da soli a gestire le mille criticità e problematiche degli istituti di detenzione”, conclude Rizzo. “Il nostro auspicio e il nostro appello è rivolto al Ministro della Giustizia Paola Severino affinché incontri presto il sindacato degli agenti per trovare soluzioni concrete ai problemi carcerari e del Corpo di Polizia Penitenziaria”. Bologna: alla Dozza mancano 150 agenti, il governo promette rinforzi La Repubblica, 29 maggio 2012 La popolazione carceraria resta sopra quota mille: situazione drammatica nel reparto maschile, dove i detenuti sono più del doppio della capienza regolare. Dovrebbero essere poco meno di 570, invece al carcere della Dozza di Bologna mancano 150 agenti, uno su quattro. È l’altra faccia dell’emergenza carceraria, quella che si somma al dramma del sovraffollamento delle celle. A rendicontarla è il sottosegretario alla Giustizia Salvatore Mazzamuto, che ha preso oggi la parola a Montecitorio, rispondendo a un’interrogazione della deputata dei Radicali Rita Bernardini. Numeri drammatici in senso opposto: altissimo quello dei detenuti a Bologna (1001 al 16 maggio), basso quello degli agenti di polizia penitenziaria. Il governo promette però qualche rinforzo: dei 1546 agenti che saranno assegnati in tutta Italia fra l’estate e l’autunno qualcuno dovrebbe arrivare anche a Bologna, sommandosi ai 23, ricorda l’agenzia Dire, giunti a novembre. Restano sopra quota 1000 i detenuti: 52 donne e 951 gli uomini, quando per il reparto maschile la capienza regolamentare è di 435 e la soglia di tolleranza di 800. Per alleggerire la situazione, spiega Mazzamuto, tra il 2011 e il 2012 sono stati effettuati alcuni “sfollamenti”: sono 75 i detenuti che sono stati spostati in altre carceri. Per quanto riguarda la struttura del carcere di via del Gomito, il sottosegretario spiega che sono stati “stanziati i fondi necessari alla ristrutturazione dei locali docce del primo piano giudiziario” e promette che “a breve saranno avviati i lavori necessari”. Cagliari: Sdr; detenuto assolto resta a Buoncammino… in attesa deposito sentenza Ansa, 29 maggio 2012 Un giovane detenuto cagliaritano, assolto dall’accusa di rapina, resta in carcere in attesa del deposito della sentenza. N.P. 32 anni, difeso dall’avv. Patrizio Rovelli, ritiene di essere vittima di un’ingiustizia e ha lamentato, nel corso di un colloquio con i volontari dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, il fatto che l’arresto gli ha abbia fatto perdere i benefici di legge concessigli per una precedente condanna finita peraltro di scontare il 24 maggio scorso. “Una vicenda paradossale - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr - provocata dal sovrapporsi di provvedimenti giudiziari che, seppure leciti, vanificano gli sforzi di rieducazione del detenuto. Si rende ora necessario un intervento d’urgenza con la concessione degli arresti domiciliari per consentire a N.P. di poter riprendere, con il supporto dei Servizi Sociali di cui godeva al momento del nuovo arresto, il lavoro di macellaio”. L’odissea del giovane detenuto, come lui stesso ha raccontato all’Associazione, è iniziata il 17 ottobre 2011 quando viene arrestato con la convivente per la rapina in un supermercato. Mentre la convivente è prosciolta nella prima fase dell’inchiesta giudiziaria, lui invece solo l’11 aprile scorso viene processato e assolto. Rimane tuttavia in carcere in attesa dei 90 giorni previsti per il deposito delle motivazioni della sentenza. Nel frattempo però gli è stato revocato il provvedimento con cui aveva ottenuto l’affidamento ai servizi sociali e non ha riottenuto neppure la libertà avendo terminato di scontare la precedente condanna per una rapina compiuta il 18 agosto 2008. “Proprio nei giorni del nuovo arresto grazie all’assistente sociale ero riuscito - ha raccontato - ad ottenere un colloquio di lavoro per un impiego in una importante catena di supermercati. Un’opportunità sfumata per un’accusa infondata e senza alcuna prova concreta di colpevolezza. La vicenda mi ha profondamente demoralizzato perché la revoca purtroppo ha riguardato l’intero periodo di affidamento e non solo la parte residuale. Sono tuttavia fiducioso che l’errore commesso possa essere rimediato e con la nuova sentenza venga cancellata questa pessima pagina di ingiustizia nei miei confronti”. “L’auspicio è che la rapida concessione degli arresti domiciliari consenta a N.P. di riacquistare fiducia nella giustizia ma resta l’amarezza nel constatare - conclude Caligaris - come talvolta la presunzione d’innocenza non venga tenuta nella giusta considerazione e si proceda con troppa sollecitudine nella revoca di provvedimenti concessi dopo un lungo e approfondito iter burocratico. Paradossale infine che per ripristinare un diritto ingiustamente annullato per un’accusa risultata del tutto infondata non sia sufficiente la sentenza di innocenza ma si debba procedere con un nuovo provvedimento di concessione dei domiciliari. Le vie della burocrazia giudiziaria sono davvero complicate”. Messina: nasce Comitato Stop Opg Sicilia; chiudere Opg Barcellona Pozzo di Gotto Redattore Sociale, 29 maggio 2012 Costituito il comitato Stop Opg Sicilia: 11 organizzazioni chiedono l’attivazione di misure terapeutiche individuali per i 275 internati che provengono dalle regioni Sicilia, Calabria, Puglia e Basilicata. Un comitato siciliano di 11 associazioni chiede la chiusura dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. Il cartello - che comprende Cgil Sicilia, Arci, Casa di Solidarietà e accoglienza, Auser, Caritas, Cittadinanzattiva, Crasm, Fp Cgil, Fp medici, Legacoop Sociale e Forum regionale del terzo settore - si è costituito proprio in vista della chiusura degli Opg, disposta per il prossimo 31 marzo 2013 dalla legge 9 del 2012. Stamattina, nel corso di un incontro nella Sala Rossa dell’assemblea regionale siciliana, il comitato siciliano Stop-Opgha illustrato lo stato dell’ospedale psichiatrico giudiziario e ha chiesto alle istituzioni locali di attivarsi al più presto per il “percorso certo e trasparente a tutela dei soggetti coinvolti”. Attualmente, i detenuti nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto con misura di sicurezza provvisoria o definitiva delle regioni Sicilia, Puglia, Calabria e Basilicata sono 275 distinti in 51 detenuti, 140 ricoverati di cui 87 prosciolti con misure di sicurezza e 53 in stato di casa di cura e custodia. 123 sono gli internati di origine siciliana di cui 79 definitivi dove ci sono 41 persone con proroga di misura di sicurezza che non possono uscire perché non hanno un progetto riabilitativo individualizzato. In questo momento ci sono anche dei migranti. Per loro all’interno dell’Opg c’è lo sportello stranieri “Outside”, un progetto gestito dal circolo Arci Città Futura, rivolto agli internati e detenuti di origine straniera. Gli stranieri presenti ad oggi all’interno dell’istituto sono in totale 21 (il numero però varia con molta rapidità perché molti vengono trasferiti presso gli istituti di competenza territoriale - secondo l’ultima residenza in Italia - e altri fanno ritorno nei penitenziari da cui provenivano per osservazione psichiatrica o per motivi di lavoro). “La Sicilia è in ritardo di quattro anni nel recepimento del decreto del presidente del Consiglio del 2004 che prevede il passaggio della gestione dell’Opg dal ministero della Giustizia alla Sanità - sottolinea Elvira Morana della segreteria generale della Cgil -. Il comitato spinge per la chiusura immediata dell’Opg siciliano affinché per tutte le persone detenute ci sia un’azione terapeutica immediata che rispetti i loro bisogni”. “Oggi ufficializziamo la campagna nazionale anche in Sicilia per la chiusura dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto - dice Giuseppe Greco di Cittadinanzattiva -. Il superamento degli Opg rappresenta una necessità forte e la Sicilia è in forte ritardo rispetto al resto d’Italia. Pertanto chiediamo in tempi brevi di aprire un tavolo di confronto con l’assessorato alla Sanità per affrontare il tema in maniera mirata. Il nostro impegno deve essere quello di favorire delle misure alternative per la tutela sociale e sanitaria di queste persone nel tentativo di superare lo stato di forte emarginazione e alienazione sociale che in questo momento stanno vivendo”. “Chiediamo di attivare subito la migliore strategia per avviare a livello regionale - aggiunge Angela Maria Peruca di Legacoopsociali e portavoce del Forum del Terzo settore - tutte le procedure che favoriscano la presa in carico di queste persone nel quadro di progetti terapeutici socio-sanitari finalizzati ad un loro inserimento sociale”. “Siamo presenti dentro l’Opg da almeno 15 anni - afferma Anna Bucca dell’Arci. L’idea principale è quella di costruire percorsi di autonomia e d’uscita. Non è possibile che in un paese civile ci siano ancora persone che pagano in modo drammatico per colpe non commesse. Si pensi anche ai 21 migranti di almeno 10 paesi diversi che in questo momento sono pure internati nell’Opg in una sorta di limbo senza diritti e tutele. Per loro in particolare abbiamo aperto uno sportello stranieri perché non dovrebbero trovarsi in quel luogo. Tra gli stranieri c’è pure un giovane che vuole tornare a casa ma se non gli viene tolto lo stato di pericolosità sociale non può avere il rimpatrio”. “Da sempre gridiamo a gran voce che è possibile che queste persone possano stare fuori senza creare problemi. Siamo convinti che la strada per la soluzione dell’abolizione dell’Opg è quella della modifica del codice penale in materia di imputabilità e non imputabilità; dice padre Pippo Insana, presidente dell’associazione di volontariato Casa di solidarietà e accoglienza; è quella dei dipartimenti di salute mentale che abbiano organico di personale al completo che permetta l’attuazione di tutti i servizi previsti dalla normativa nei confronti delle persone inferme di mente, delle loro famiglie e del territorio”. Treviso: al minorile detenuti diventano addestratori cinofili Redattore Sociale, 29 maggio 2012 Al via a Treviso il progetto “Altro che bastardi 2!”. I promotori: “Grazie alla relazione con il cane possibile acquisire responsabilità, tolleranza e pazienza”. Un corso di formazione per diventare addestratori di cani destinato a un gruppo di detenuti dell’istituto penale minorile di Treviso. Torna il progetto “Altro che bastardi 2!”, già sperimentato con esiti positivi nel 2009 nel carcere trevigiano. L’iniziativa è promossa dall’associazione Uisp, dal ministero della Giustizia, dal servizio veterinario del Dipartimento di prevenzione dell’Ulss 9, dall’associazione trevigiana per la difesa del cane, dall’associazione cinofila “All the dreams” e dall’Enpa di Treviso. “Il rapporto con il cane può rappresentare un momento importante per un ragazzo - spiegano i promotori -, soprattutto se detenuto, non solo per lo sviluppo positivo del senso di autostima, ma anche per facilitare un equilibrio all’interno del contesto istituzionale. Attraverso questa particolare relazione, è possibile acquisire un maggiore senso di responsabilità, tolleranza e pazienza che incidono positivamente per un futuro inserimento sociale”. Le sessioni di formazione vengono condotte da un istruttore con la partecipazione, a turno, di 4-5 ragazzi, a ciascuno dei quali viene affidato uno dei cani gestiti per il periodo di progetto. I cani verranno tenuti dal canile sanitario dell’Ulss9 che provvederà anche ai trasferimenti. Il corso inizia il 4 giugno con due sessioni settimanali per chiudersi il 21 luglio con la manifestazione “Social Day” alla quale parteciperanno gli enti, i gruppi e le persone coinvolte nel progetto. Nell’occasione ci sarà un’esibizione con i neo-addestratori minorenni in un mese e mezzo di lavoro. Foggia: l’Itg “E. Masi” consegna diplomi agli studenti detenuti Redattore Sociale, 29 maggio 2012 “Il penitenziario può rappresentare un “non-luogo” per la società civile, ma al contempo può essere, con pari dignità, un luogo di cultura, di costruttive relazioni educative e di elaborazione dei personali progetti di vita. L’impegno costante e il traguardo raggiunto dai neo diplomati, a cui vanno sinceri auguri, confermano tali convinzioni”. Con queste parole l’assessore all’Istruzione Maria Aida Episcopo, ha commentato la cerimonia di consegna dei diplomi per l’anno scolastico 2011/2012 agli alunni detenuti del carcere di Foggia iscritti all’Itg Masi svoltasi lo scorso 22 maggio. Alla manifestazione - insieme all’assessore Episcopo - hanno partecipato il Dirigente scolastico dell’I.T.S.S.T. “E. Masi” di Foggia, Pasquale Palmisano, la Direttrice dell’Istituto di pena, Maria Affatato e i rappresentanti degli studenti e il Presidente del Consiglio d’Istituto del “Masi”. Nell’occasione è stata organizzata dalla professoressa Maria Rita Caserta una rappresentazione teatrale, dal titolo particolarmente esplicativo “Noi non siamo cattivi ci dipingono gli altri così”, inscenata dai detenuti del biennio, attualmente frequentanti il corso per geometra. Il dirigente scolastico Pasquale Palmisano ha sottolineato l’importanza dell’evento per “i suoi evidenti risvolti culturali, per aver formato delle persone in situazione di detenzione e conferito un titolo spendibile nella società civile e aver coniugato cultura e spettacolo per riscoprire la varia umanità ivi presente”. Roma: firmata intesa tra ordine avvocati e garante detenuti Filippo Pegorari Adnkronos, 29 maggio 2012 Il sindaco di Roma Gianni Alemanno, il Garante dei detenuti Filippo Pegorari e il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma Mauro Vaglio hanno firmato oggi, nella Sala delle Bandiere in Campidoglio, il Protocollo d’Intesa tra l’Ordine degli Avvocati di Roma e il Garante dei detenuti. Con il Protocollo inizierà un’attività di tutoraggio a favore dei detenuti iscritti alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma. Il Consiglio attiverà inoltre uno sportello permanente di consultazioni a cui i detenuti potranno rivolgersi per chiarimenti o consigli su problematiche di loro interesse. “Io sono per la certezza della pena - ha detto Alemanno - per la difesa della sicurezza e per la legalità. Proprio per questo ritengo che bisogna fare uno sforzo serio per garantire l’integrazione e il recupero dei detenuti. Non dobbiamo abbandonarli, dobbiamo essere tanto rigorosi nella certezza della pena, quanto solidali per quanto riguarda il recupero di queste persone. Il Protocollo firmato oggi è molto importante perché nessuno più degli avvocati conosce il mondo dei detenuti e ci può aiutare a creare autentici percorsi di integrazione”. “A sostegno della mia azione di Garante - ha dichiarato l’avvocato Filippo Pegorari - da oggi posso annoverare un nuovo compagno di viaggio: il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma. Come ha più volte dichiarato il sindaco Alemanno, anche i detenuti sono parte integrante e sostanziale del popolo di Roma, e meritano particolare attenzione proprio in conseguenza della loro condizione di persone private della libertà personale; quella attenzione che oggi si manifesta nel campo dello studio, così come è già avvenuto in altri campi”. “Questo Protocollo d’Intesa - ha commentato il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma Mauro Vaglio - non sarebbe stato possibile senza l’ammirevole tenacia con la quale l’avvocato Pegorari ha portato avanti gli interessi dei detenuti e senza la sensibilità umana, oltre che istituzionale, del sindaco Alemanno che ben interpretando i sentimenti del generoso popolo romano, ha spesso ricordato come sia doveroso offrire occasioni di inclusione sociale e attenzione a chi ha sbagliato e ha promesso l’aiuto di Roma Capitale per sostenere le attività produttive dei detenuti”. Eboli (Sa): meeting internazionale “European Training Partnership for an Inclusive Society” Ristretti Orizzonti, 29 maggio 2012 È iniziato ieri il meeting internazionale promosso e organizzato in Italia dal Gruppo di Studio e Ricerca Nazionale ed Internazionale che fa capo alla Casa di Reclusione Icatt di Eboli al quale partecipano 36 esperti appartenenti alle amministrazioni penitenziarie di diversi paesi europei rientra nell’attività progettuale “European Training Partnership for an Inclusive Society” e nella fase di sviluppo e disseminazione dell’azione progettuale internazionale “LLP Grundtvig - E-learning education for prisioners and prisioner’s professionals “. Il cammino allo sviluppo e sostenibilità proposto da “European Training Partnership for an Inclusive Society” cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo (FSE) nell’ambito del Programma Operativo Settoriale sullo Sviluppo delle Risorse Umane, ha come obiettivo quello di sviluppare e rendere stabile la rete internazionale avvalendosi dell’esperienza dei partners di cinque Stati europei (Romania, Francia, Spagna, Ungheria e Italia). L’iniziativa internazionale è di grande rilevanza e unicità per la condivisione di una cultura innovativa e di buone pratiche per il sistema penitenziario europeo è stata realizzata grazie dalla dott.ssa Rita Romano Direttrice della Casa di Reclusione Icatt di Eboli, dott. Gianluca Guida Direttore dell’ Istituto Penale per Minori (Ipm) di Nisida e dott. Giovanni Suriano che ha curato l’aspetto scientifico-organizzativo. L’azione, inoltre, mira a condividere, promuovere e a diffondere nell’ambito del sistema penitenziario europeo esperienze di eccellenza, su attività che riguardano in particolare il programma rieducativo-trattamentale, la formazione e l’inclusione sociale delle persone prive della libertà (adulti e minori). Televisione: “Fratelli e Sorelle”… storie di carcere attraverso le voci di detenuti e agenti di Chiara Sirianni Tempi, 29 maggio 2012 Un documentario affronta il tema della vita nelle disastrose carceri italiane attraverso le voci dei protagonisti: detenuti, agenti di polizia e funzionari dell’amministrazione penitenziaria. Napoli, Poggioreale. “Tornando indietro non lo rifarei, ovvio. Perché sono consapevole. Ma a 18 anni non capivo niente della vita. Andava di moda fare il delinquente, era quasi uno sfizio. E poi lo sfizio diventa dolore, perché scontare una condanna lunga non è facile. Dobbiamo scordarci la vita fuori. E tentare di sopravvivere, all’interno del penitenziario”. È una delle interviste raccolte in “Fratelli e Sorelle, Storie di carcere”, un documentario andato in onda su Rai 3 il 28 maggio (il 4 giugno verrà trasmessa la seconda parte, dedicata ai percorsi educativi di reinserimento). Una produzione Clippermedia, con la collaborazione di Raicinema e Raiteche, per la regia di Barbara Cupisti, che affronta il tema della vita nelle carceri italiane attraverso le voci dei protagonisti: detenuti, agenti di polizia, funzionari dell’amministrazione penitenziaria. Le riprese sono state effettuate nei penitenziari di Torino, Milano, Padova, Trieste, Trento, Rebibbia, Poggioreale, Secondigliano, Pozzuoli e Terni. Un progetto nato con lo scopo di penetrare nella realtà carceraria, nelle celle, nei corridoi dei bracci, nei cortili dell’aria, nei laboratori dove si svolgono attività artigianali, con capacità e creatività. Ma anche con tanta sofferenza per la lontananza dalle famiglie e dai figli. Nel dramma corale spicca la tragedia dei bambini al di sotto dei tre anni, che vivono in carcere con le madri. Reclusi innocenti su cui aleggia, allo scadere del terzo anno, il lutto insanabile della separazione dalla madre. “Abbiamo provato a mandarlo fuori a Natale, con una famiglia di volontari” racconta una ragazza bosniaca, detenuta a Trento. Suo figlio è nato in carcere. “Ma non riesce a staccarsi da me”. Nonostante l’età, i bambini capiscono e chiedono: “Perché ci chiudono qui, mamma?” “Ogni volta gli raccontiamo una bugia. Ma è una doppia galera, uno stress sia per il bambino che per la madre. Io sono adulta, ce la metto tutta. Ma lui? Non è umano”. E alle madri che hanno un figlio fuori dalle mura del carcere? Spetta una telefonata a settimana, di dieci minuti. Il problema delle carceri in Italia è stato definito dal presidente della Repubblica “questione di prepotente urgenza civile e costituzionale”. Sia per la lentezza dei processi, il 43% circa dei detenuti è in attesa di giudizio e di questi solo il 50% viene condannato, sia per il sovraffollamento delle celle, sono 67.000 i detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 47.000 posti, che per l’attuale organico di polizia penitenziaria che è carente di circa 7.000 unità. Queste sono solo alcune delle cifre che quantificano l’emergenza carceri. Inoltre, la forte percentuale della presenza di stranieri, di giovani e di tossicodipendenti è la cartina di tornasole dell’utilizzo delle carceri come discarica del disagio sociale. Milano, San Vittore: i detenuti mostrano le celle, sovraffollate. Uno, ex tossicodipendente, ripercorre la sua storia: “Seguivo il denaro. Crea assuefazione. Torni a infrangere la legge non tanto per i soldi, ma per rivivere quella sensazione. Io le chiamo gioie brevi”. Il commissario Manuela Federico parla del sesto raggio, in cui ci sono 160 detenuti, e un solo agente a vigilare. Qualcuno cerca la telecamera: “Sono due settimane che faccio domanda per i vestiti. Manca il sapone. Il bagno non ha la porta”. Un ragazzo egiziano spiega di essere in carcere per aver rubato 400 grammi di carne: “Purtroppo ho sbagliato e devo pagare. Ma non così. Sono qui da tre mesi, e non mi hanno ancora fissato l’udienza”. Un altro, ex muratore, racconta di come ha perso bruscamente il lavoro: “Vivere a Milano costa, l’affitto non sapevo come pagarlo. La situazione era tesa, ho deciso di andare a rubare per comprare il biglietto per tornare in Brasile. Ho pensato anche di togliermi la vita. Mi hanno salvato gli agenti. Sto cercando di studiare un pò, qui dentro, per andare avanti”. Per Enrico Sbriglia, direttore della casa circondariale di Trieste, il documentario rappresenta “una delle testimonianze più aggiornate e sincere del sistema penitenziario italiano”. Sincera perché “non ci sono finzioni nelle scene che si vedono, se non l’utilizzo delle necessarie cautele finalizzate a preservare la riservatezza delle persone detenute che hanno accolto, spontaneamente, la richiesta di raccontare il loro pezzo di vita carceraria. Anche gli operatori penitenziari hanno raccontato il loro difficile lavoro, in un mondo che in pochi della “società libera” conoscono. Ma di cui in tanti parlano, con preoccupante superficialità. Il nostro Paese stenta a guardarsi controluce sul tema e sul senso della pena”. E il sistema è decisamente sofferente. Basti pensare che il furto di una barretta di cioccolata o di un pezzo di parmigiano viene punito con sei mesi di detenzione. Se l’accusato è recidivo, si arriva anche a due anni. E un mese di detenzione, spiega Sbriglia, costa allo Stato (quindi al contribuente) circa seimila euro. Che fare? “Un atto di ragionevolezza. Pensate quanti ragazzini si sono trovati una vita distrutta, perché nell’età del rischio hanno commesso reati. Perché il rito processuale non distingue un pezzo di cioccolato dal furto del caveau di una banca”. Un sistema che spende tanto per un reato modesto può reggere? “L’amnistia avrebbe il pregio di trasformare in risorse sonanti quello che oggi utilizziamo come costo dei detenuti. Preferirei usare quelle risorse per ristabilire un percorso con il detenuto. Mi rendo conto che può sembrare un discorso strano per chi vive fuori dalla realtà carceraria. Perché si tende a dare risposta di sofferenza ad ogni malvagità. Ma due torti non fanno una ragione”. Lei: una importante pagina di servizio pubblico “Ieri sera la Rai ha scritto una importante pagina di servizio pubblico occupandosi di una realtà difficile e problematica come quella delle carceri italiane”. Così il Direttore Generale della Rai, Lorenza Lei, ha commentato l’apprezzabile risultato di ascolto di “Fratelli e sorelle - Storie di carcere” la cui prima parte è andata in onda su Rai3 in seconda serata, mentre l’altra sarà proposta lunedì 4 giugno. “Il successo di questo primo documentario, che ha registrato picchi di oltre un milione di telespettatori e contatti per circa tre milioni, conferma l’interesse del Paese reale alle tematiche sociali più urgenti. Abbiamo voluto misurarci su un terreno nuovo, complesso, per alcuni aspetti inesplorato. Ma siamo orgogliosi di averlo fatto, raccontando le storie, il dolore, la vita delle donne e degli uomini che popolano i nostri istituti penitenziari. La Rai intende proseguire con attenzione e puntualità su questo terreno, certa che tra i compiti del servizio pubblico ci sia da una parte quella di evidenziare problematiche e dall’altra quella di suggerire soluzioni e interventi rispettosi della dignità delle persone. Fuori e dentro il carcere”. Cinema: io, da ergastolano a attore, col cinema sono nato due volte di Conchita Sannino La Repubblica, 29 maggio 2012 Aniello Arena, rivelazione di “Reality”. Ai ragazzi che rischiano di rovinarsi la vita dico: andate a scuola, avvicinatevi all’arte In qualunque forma. “Sono nato due volte. Il teatro, e ora il cinema, mi hanno partorito di nuovo. Per questo, mi sento di dire ai ragazzi che rischiano di rovinarsi la vita, o di svuotarla: andate a scuola, avvicinatevi all’arte. In qualunque forma”. Aniello Arena, 44 anni, napoletano, è una persona schiva, che sa portare i segni della vita. Ed è ormai l’attore rivelazione di Reality, il film di Matteo Garrone, Grand Prix a Cannes. Anche il ministro Ornaghi ha telefonato al regista per complimentarsi. Arena sta scontando l’ergastolo nel carcere di Volterra. In base all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, Aniello è un detenuto che può recitare o lavorare all’associazione culturale Carte Blanche, rientrando di sera in carcere. Fu condannato con l’accusa di strage (agguato di piazza Crocelle, gennaio ‘91, tre morti). Ora sta preparandosi sul testo Mercuzio non vuole morire. Arena, fosse stato a Cannes, chi avrebbe ringraziato d’istinto? “I miei maestri. Punzo per il teatro, Garrone per il cinema. Con la Compagnia della Fortezza di Volterra io sono diventato, piano piano, una persona diversa, e questo prima di diventare attore”. Cosa le hanno trasmesso queste esperienze? “Adesso, sono un uomo che ascolta, prima di parlare. Lo devo alla lettura, agli autori, da Shakespeare a Genet. Avevo la quinta elementare. In carcere ho preso la licenza media. Avevo i paraocchi come i cavalli. Adesso, di fronte al gesto più scorretto, mi chiedo che cosa ha mosso l’altro. Cerco una ragione dietro le cose”. Nel film di Garrone lei è Luciano che perde la testa per l’ossessione del Grande Fratello. Storia vera, tra l’altro. Il fatto di avere incontrato il vero Luciano come ha influito? “Mah, per sensibilità ho sempre evitato di fargli domande. Poi, il metodo di Garrone è di lavorare in sequenza: tu giri sul set seguendo l’evoluzione cronologica, quindi ho fatto crescere il personaggio con me. A un certo punto, ho provato una grande malinconia: non mi piaceva l’idea che Luciano buttasse tutto a gambe all’aria. Per la televisione, poi”. La scena più difficile. “L’abbiamo rifatta tante volte. È quella in cui mio cugino mi porta in chiesa, dal prete. All’inizio non la sentivo, non frequento le liturgie. Sono credente, ma penso di poter pregare Dio in ogni luogo”. Il sindaco di Napoli annuncia una “grande festa” per Reality. Chiederà un permesso per tornare nella sua città? “Non lo so. Io resto, con orgoglio, napoletano. Anche se adesso Volterra è la mia casa. Napoli la amo, ma è come se non la conoscessi più”. Il film è girato anche a Barra, la “sua” periferia, dove vivono sua sorella, suo figlio. E dove tanti continuano a essere preda del degrado o del crimine. Se la sua testimonianza potesse cambiare qualcosa, cosa direbbe? “Direi: andate a scuola. Avvicinatevi all’arte. Aprire la mente vi salva la vita. Io l’ho scoperto, ma dopo è tardi. Non solo i ragazzi di Napoli ma quelli del sud sono a rischio”. Qual è il suo sogno, dopo la libertà? “Oltre alla libertà materiale? Un teatro Stabile nel carcere di Volterra. Punzo lo coltiva da 25 anni. Io da meno. Sarebbe il frutto di tanto, onesto impegno”. Stati Uniti: il business delle prigioni private fa lievitare il tasso di carcerizzazione www.giornalettismo.com, 29 maggio 2012 In Louisiana un adulto su 86 è in carcere, il doppio della media nazionale Usa. Se il tasso di carcerizzazione della Louisiana è più del doppio di quello americano, quasi tre volte quello russo, cinque volte quello iraniano, e dodici volte quello cinese, quello statunitense è comunque il più alto al mondo. Merito anche di un meccanismo che si autoalimenta. Milioni di carcerati in balia dell’esigenza delle imprese impegnate nel business della carcerazione: il profitto. Da quando Ronald Reagan assunse la presidenza degli Stati Uniti, l’applicazione di una repressione draconiana del crimine, combinata alla privatizzazione del sistema detentivo, ha dato vita a un sistema penale senza paragoni al mondo per tasso e numero degli incarcerati, tanto che gli Stati Uniti sono primi al mondo e sfiorano il primato nella storia, secondo Wikipedia. Primato - “Storicamente l’attuale tasso di carcerazione americano è leggermente più basso del livello record registrato in Unione Sovietica prima della Seconda Guerra Mondiale, quando la popolazione dell’Urss raggiunse i 168 milioni e tra 1.2 e 1.5 milioni di russi erano nel sistema di campi e colonie dei Gulag (circa 800 persone ogni 100.000 residenti). Un primato storico certificato dai dati mai contestati di Arcipelago Gulag del dissidente e premio Nobel russo Aleksandr Solženicyn. Un dato confermato anche dall’autorevole The New Yorker e mai smentito da nessuno dei paladini a stelle e strisce in servizio permanente effettivo. Prigioni private - Oggi gli Stati Uniti sono a cavallo di quel record secondo le stesse statistiche americane e in alcuni stati americani il record sovietico è stato addirittura polverizzato. Merito di leggi più severe, ma merito anche di un meccanismo che si autoalimenta e divora le vite degli americani in nome di pregiudizi ideologici e false credenze. Al naturale aumento della domanda conseguente all’aumento delle pene e allo scatenarsi di politiche come la War on Drugs o la zero Tolerance, gli Stati Uniti reagirono privatizzando la gestione delle prigioni, fidando nella velocità dei privati di rispondere alla domanda. Business - Domanda pubblica di un servizio pubblico, perché la reclusione dei detenuti è sempre a carico dello stato ed sempre il sistema giudiziario a determinare le pene, ma alla quale presto si è aggiunta una domanda d’origine privata, con effetti catastrofici su tutto il sistema, che continua ad ospitare i detenuti in condizioni di sovraffollamento, ma in numero molto superiore.La retorica contro la burocrazia e gli sprechi di denaro è stato l’usuale cavallo di Troia per introdurre il nuovo regime, ma oggi si può ben dire che il danno provocato dalla degenerazione del sistema agli Stati Uniti ha superato qualsiasi potenziale spreco e lasciato le vite di milioni di carcerati in balia dell’esigenza primaria delle imprese impegnate nel business della carcerazione: il profitto. “I clienti” - Il sistema così com’è non offre alcun incentivo ai gestori delle prigioni per farsi attori positivi del sistema penale, semmai li spinge a cercare di riempire al massimo le strutture e di trattenervi quanto più a lungo possibile i clienti. Il che, in un sistema che in caso d’infrazione dei severissimi regolamenti carcerari permette di allungare la pena del detenuto quasi a discrezione dei carcerieri, costituisce un enorme incentivo agli abusi di questo tipo, come per la possibilità di punire senza alcuna supervisione giudiziaria i detenuti, sia con misure come l’isolamento che con l’eliminazione di benefici dovuti come l’ora d’aria o l’accesso alle attività ricreative. Lo stesso tipo di pressioni possono poi essere usate per spingere i detenuti ad impiegarsi presso attività produttive gestite dalle stesse aziende, così si sono visti i carcerati che per 23 centesimi all’ora costruiscono componenti elettronici per i missili Patriot. Ma anche call center, centri per il riciclaggio dei rifiuti e ogni genere di attività a discreta intensità di manodopera è stata delocalizzata nell’universo carcerario privatizzato. Produttivi - Così convenienti e così legali che i gestori non esitano a pubblicizzare questa incredibile occasione, così convenienti che alcuni stabilimenti produttivi e le produzioni sono state spostate all’interno di stabilimenti dove lavorano i carcerati. Un sistema che produce sfruttamento del lavoro forzato e disoccupazione ha sicuramente dei costi occulti che eccedono il costo nominale riconosciuto per la diaria dei prigionieri. Un sistema che si rivela estremamente classista e razzista, perché ad incorrere nei rigori della legge sono prima di tutto i neri, seguiti a ruota dai meno abbienti in generale, per lo più vittime di un Arcipelago Gulag a stelle e strisce che si estende per tutto il paese, ma in particolare negli stati del Sud, culla del liberismo neoconservatore e della destra razzista, padri e madri del sistema. Buco nero - Un’inchiesta in otto parti del The Times-Picayune di New Orleans ha rivelato la profondità del vero e proprio buco nero del sistema, rappresentato dalla Louisiana, lo stato del Sud che già da qualche anno umilia il record dell’Urss e si propone come il campione del mondo di reclusione dei propri cittadini in tutte le epoche, stracciando qualsiasi dittatura e gli stessi record statunitensi. Un record figlio della stessa decisione dello stato d’incentivare la costruzione di prigioni private invece di alleggerire le sentenze o rilasciare parte dei prigionieri per fronteggiare la crisi degli anni 90, che però nel caso della Louisiana ha visto la maggioranza degli imprenditori che hanno raccolto l’appello concentrarsi tra gli sceriffi delle zone rurali, senza che nessuno ci trovasse niente di strano. Si è replicato così un meccanismo perverso, fatto di una retorica politica vincente che predica la severità verso i condannati e il taglio delle spese per il loro mantenimento, alimentato da conflitto d’interessi che vede i tutori dell’ordine incentivati a riempire le carceri dalle quali traggono la gran parte del loro reddito. Più carcerati per tutti - Reddito fatto di contributi pubblici e d’affitto di manodopera a buon mercato, per lo più in agricoltura. Un’opportunità benvenuta dagli agricoltori locali colpiti dal calo del prezzo del grano, ma che presto ha coagulato una serie d’interessi convergenti a favorire l’aumento della popolazione carceraria. Niente di strano o di esclusivo per la Louisiana, già in altri stati sono stati rivelati vere e proprie redi e organizzazioni di cointeressati dedite ad aumentare il numero d’imprigionati. Un fenomeno che non ha risparmiato neppure i giovani, con gli scandali che hanno visto giudici pagati dalle aziende che gestiscono le strutture per minori, al fine di procurare il maggior numero di prigionieri, di fatto condannando centinaia di minori innocenti abusando di pretesti. Incidentalmente gli Stati Uniti detengono saldamente anche il primato dei minori imprigionati. Il doppio - In Louisiana un adulto su 86 è in carcere, il doppio della media nazionale, più del 50% dei detenuti dello stato sono in prigioni locali, il doppio della media nazionale, che è del 5%. Segue la Louisiana il Kentucky, distante con il 33%. Lo stato ha il maggior numero di condannati all’ergastolo senza possibilità di uscire un giorno sulla parola. L’attuale governatore ha rallentato al massimo la concessione di grazie e perdoni. Circa i due terzi dei detenuti sono stati incriminati per crimini senza violenza, la percentuale nazionale è di meno della metà. La Louisiana spende meno di tutti gli altri stati per ogni detenuto. Sistema sovietico - Una serie di risultati eccezionali che segnala una peculiarità non statisticamente rappresentativa degli Stati Uniti, ma per niente aliena all’ideologica di un sistema che, anche depurato del peso dello stato dei pessimi record, rimane sovrapponibile a quello sovietico per durezza e riduzione della libertà di un numero enorme di cittadini. La Land of Free, la terra dei liberi sembra oggi la terra dei galeotti, un paese nel quale puoi essere arrestato per aver messo un piede giù dal marciapiede durante una manifestazione o addirittura “preventivamente”. Un paese nel quale nonostante i tassi di criminalità siano regrediti ai livelli degli anni ‘60, dai picchi della fine degli anni ‘80, il numero di persone in carcere è esploso insieme agli utili di pochi e selezionati soggetti, senza alcun benficio per la società. Gli svantaggi - Al risparmio nominale e spesso neppure palpabile sul costo pro-capite, gli stati devono contrapporre tassi di recidiva nettamente più alti che in altri paesi, una maggiore incidenza delle malattie sulla popolazione carceraria e il costo sociale di privare un numero enorme di famiglie dei maschi (oltre il 90% dei detenuti americani) mediamente giovani e abili al lavoro. Per dirla con le parole della testata di New Orleans: “ Un sistema carcerario che affitta i suoi condannati come lavoratori nelle piantagioni del 1800 ha chiuso il cerchio ed è tornato ad essere una rete di convenienze”. Un sistema che guadagna dall’aumento delle persone in carcere e che finanzia politici che fanno leggi per mandare più gente in prigione, cavalcando e promuovendo gli istinti peggiori e le culture più retrive tra l’elettorato. La terra dei liberi - Se il tasso di carcerazione della Louisiana è più del doppio di quello americano, quasi tre volte quello russo, cinque volte quello iraniano, e dodici volte quello cinese, quello statunitense è comunque il più alto al mondo, e le differenze con gli altri paesi si dimezzano appena, ma restano in tutta la loro evidenza. Solo la Georgia l’El Salvador e la Russia di Putin superano, tra tutti i paesi del mondo, la metà della percentuale dei carcerati americani, non male per la “terra dei liberi”. Non potrebbe essere diversamente ad osservare l’intreccio d’interessi tra politica e business e la copertura ideologica offerta dallo zoccolo duro dell’America profonda, quella convinta che i rei siano da punire e non da accompagnare al reinserimento in società, quella che ai detenuti rilasciati consegna 10 dollari, un biglietto dell’autobus e la certezza per la metà di loro di un rientro in carcere entro tre anni, senza trovarci niente di strano. Come non trova niente di strano che giudici, sceriffi e aziende che investono nelle prigioni, lavorino per incarcerare innocenti, sulla pelle dei quali fanno legittimi e rispettabili profitti. Vietnam: manca barbiturico per iniezioni, stop a pena di morte Agi, 29 maggio 2012 La carenza del barbiturico utilizzato per le iniezioni letali sta dando un’inattesa tregua ai detenuti condannati alla pena di morte in Vietnam. Dallo scorso luglio, in Vietnam il plotone di esecuzione è stato sostituito con l’iniezione letale, considerata meno cruenta; ma da allora non è stata più eseguita alcuna condanna a morte. Il perché lo ha spiegato un ufficiale di polizia, Van Dang Hieu a un quotidiano locale, il Tuoi Tre: manca il farmaco utilizzato nel cocktail farmaceutico per l’iniezione letale. “Nell’ultimo anno l’esecuzione di oltre 400 detenuti non è stata possibile, nonostante per oltre 100 di loro fossero esaurite le pratiche burocratiche”, ha spiegato, aggiungendo che le importazioni del potente anestetico hanno incontrato difficoltà. Il tiopentale sodico, meglio noto come pentotal, il farmaco utilizzato come anestetico sui condannati a morte prima che ricevano l’iniezione letale, scarseggia da mesi in tutto il mondo. La vicenda ha visto per protagonista anche l’Italia. Nel 2011, infatti, la casa farmaceutica produttrice, la Hospira, ha annunciato di non produrlo più se non nell’impianto italiano di Liscate, ma grazie all’impegno del Parlamento italiano contro la pena di morte alla fine la casa farmaceutica ha dovuto bloccarne la produzione. Nei giorni scorsi, lo Stato americano dell’Oklahoma ha annunciato di avere solo un’ultima dose di farmaco rimanente.