Dopo il convegno di Padova. “Pena, fatica, biblioteca, perdono”… tutte le parole per dire carcere di Gabriella Imperadori Corriere Veneto, 28 maggio 2012 “Caro assassinatore, spero che tu finisca in carcere senza pane e senza acqua”. Comprensibili ma agghiaccianti, nella loro ingenua indignazione, queste parole di una scolaretta di Brindisi rivolte, in un compito, al killer di Melissa Bassi. Parole che in consciamente reclamano la pena più dura. Come l’idea del carcere gabbia di cui buttar via la chiave: un’espressione che si sente risuonare di continuo da chi vuol essere rassicurato sperando che la rassicurazione, spesso usata a lini elettorali, equivalga a sicurezza. In questi tempi bui do ve la legittima paura è governala in modo demagogico, il recente convegno padovano al carcere “Due Palazzi” ha consegnato pensieri da medi tare. Talvolta controcorrente, talvolta pessimistici, talaltra utopistici. Parole di magistrati, scrittori, giornalisti, opera tori carcerari. Di queste parole vorrei sceglierne alcune per riflettere su un’istituzione chiusa che fra tutte è la più emblematica. Un mondo a parte più che una parte del mondo. Architettura. Gli spazi, i lunghi corridoi, le infinite porte inchiavardate, le celle piccole (e sovraffollate) sembrano ispirati a un modello detentivo opprimente e senza speranza. Chi vi soggiorna perde i connotati di persona per assumere quelli eli chi “deve” solo soffrire, ma che per questo tende a percepirsi come vittima più che ad elaborare la colpa; a pensare che l’atto criminoso “è accaduto” anziché assumersene la responsabilità per arrivare al pentimento. Biblioteche. Ben fomite e guidate da volontari, sono in vece uno strumento che può indirizzare verso una riconciliazione col mondo esterno, uscendo dal proprio passato di criminali. Colloqui. Sono previsti, ma per molti avvengono di rado, e non sono contemplate le manifestazioni di affettività e sessualità che pure potrebbero distogliere da perversioni anche violente. Danimarca. In questo paese si cerca di rieducare il detenuto responsabilizzandolo, (gli viene assegnata una cifra settimanale che deve gestirsi da solo (per cibo e organizzazione della giornata), il che prepara meglio il momento il momento del rientro nella società libera. Fatica. Più che di pena si dovrebbe parlare di “fatica” del cambiamento: una fatica positiva, mentre raramente lo è la pena. Infantilizzazione. Il carcere, con le sue mille regole burocratiche, infantilizza, non fa recuperare il senso di responsabilità. Malavita. Il carcere è l’università del crimine, il dottorato della mala educazione, il creatore di mostri e malati di mente, il propagandista dei miti contemporanei, primo fra tutti quello della ricchezza. Noia. Scandisce la giornata tipo del detenuto che rifiuta studio e lavoro. Obbedienza. È sempre e necessariamente una virtù? Ha prodotto anche la Shoah. Perdono. Uguale per-dono. È appunto un dono, non un diritto, ma può essere una conquista. Pericolo. È ovvio che chi è pericoloso non deve essere lasciato in libertà. Racconto. Raccontarsi è un modo per purificarsi, e per reggere le situazioni più ardue. Suicidi. Sono tanti, troppi. Per scarsità di sostegno famigliare, per insufficienza di prospettive future, per degrado, per disperazione. Torture. Troncare te relazioni affettive, consentire il sovraffollamento e la convivenza fra le subculture, fra le di verse esperienze, prepotenze e fragilità che fan parte della società carceraria, non sono in qualche modo forme di tortura? Volontariato. È forte e utile, specie in insufficienza di operatori. Zambrano Maria (scrittrice): “Il riscatto è tornare a prendere contatto con le parti buone di sé che la vita ha fatto smarrire”. Giustizia: nelle carceri-lager una sedazione istituzionale di massa? di Valeria Centorame Notizie Radicali, 28 maggio 2012 Negli istituti penitenziari vengono somministrate benzodiazepine che permettono di controllare chimicamente l’umore dei detenuti e di “lenire” l’ansia della carcerazione, una vera e propria “sedazione istituzionale” a detta di molti. L’istituzione carceraria si serve così della psichiatria per stemperare il conflitto, e garantirsi una maggiore sopportazione, da parte dei detenuti, delle situazioni di degrado e sovraffollamento che sono costretti a subire, ad oggi arrivato oltre l’umano tollerabile, con mancanza di acqua, riscaldamento, cure mediche, cibo ed assistenza, sovraffollamento(il più alto dal dopoguerra) composto per quasi la metà da persone in attesa di giudizio, tossicodipendenti ed autori di piccoli reati, insomma gente che probabilmente in carcere neanche dovrebbe stare. Gocce di En, Tranquirit, Tavor, Lexotan, Librium, Minias, Rivotril, e tutta una miriade di “sostanze psicotrope legali” sono dunque somministrate massicciamente ai detenuti. Ma quanti sono i detenuti nelle carceri e gli “ospiti” dei Cie trattati con tali sostanze? E quali sono gli effetti indesiderati? “Desta preoccupazione” - viene segnalato nel rapporto Antigone-Prc - l’uso massiccio di psicofarmaci in carcere: ne farebbe uso il 50% dei detenuti (tra i più diffuso ci sono ansiolitici, antidepressivi, antipsicotici). Da una ricerca condotta invece dal Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud contro gli usi ed abusi della psichiatria, possiamo rilevare quanto segue: “Basta un anno di carcere a base di benzodiazepine per assicurarsi i seguenti effetti indesiderati che saranno per sempre: riduzione dell’attenzione (tale da rendere pericolosa la guida), confusione ed affaticamento, cefalea, vertigini e debolezza muscolare, visione doppia, disturbi gastrointestinali ed epatici, cambiamenti nella libido fino all’ impotenza sessuale, amnesia, irrequietezza, ottundimento delle emozioni, allucinazioni e addirittura tendenze suicide. Inoltre questi farmaci sviluppano una dipendenza fisica, e la sospensione della terapia può provocare fenomeni di rimbalzo e di astinenza.” Antonella Sini che ha lavorato per 21 anni nelle carceri di Sassari e di Alghero dichiara su dipendenze da psicofarmaci e altro. Sull’abuso di psicofarmaci nessuna incertezza, secondo il medico a volte è proprio in carcere che si creano nuove dipendenze. Così racconta la sua esperienza: “Erano soprattutto i detenuti che arrivavano da Cagliari che venivano riempiti di psicofarmaci, completamente sedati. È sempre una conseguenza degli organici carenti, perché così non rompono le scatole, è un modo per tenerti legato al letto senza lacci o corde”. Da un lato, spiega Sini, sono anche i reclusi che li chiedono: “Nelle strutture che ho conosciuto non ci sono tante attività e trascorrere una giornata dentro è davvero dura. Non tutti infatti hanno la vocazione da topo di biblioteca, da grandi lettori. E così è più facile anche per gli operatori somministrare psicofarmaci e far semplicemente dormire i reclusi”. Quindi mentre si finisce in carcere per reati legati alla droga, al consumo ed allo spaccio, con pene sempre più aspre e ci si spende contro la giusta legalizzazione delle droghe leggere... una volta reclusi si viene trattati tutti con sostanze che secondo The Icarus Project e Freedom Center (Edizione italiana a cura di “Progetto Contraria-Mente) creano addirittura più dipendenza dell’eroina. “Gli stimolanti per Adhd, i sonniferi, come anche i tranquillanti benzodiazepinici, creano dipendenza fisica come le droghe di strada, mentre le benzodiazepine creano più dipendenza dell’eroina. Il retaggio di un trattamento psichiatrico è di violenza e d’abuso. Oggi, grazie all’attivismo per i diritti dei pazienti e il movimento psichiatrico dei sopravvissuti alla psichiatria, le leggi spesso riconoscono il danno che può essere provocato dalla psicofarmacologgizzazione forzata ed esistono dei diritti che prescrivono di usare i trattamenti meno intrusivi e meno nocivi. Queste raccomandazioni, tuttavia, sono raramente seguite del tutto”. A questo proposito ricordo come sia contrario al V Principio delle Nazioni Unite di etica medica la somministrazione di farmaci sedanti che non sia motivata da criteri puramente medici. Vi è violazione dell’etica medica se dei membri del personale sanitario, ed in particolare dei medici, partecipano, in qualsivoglia maniera, alla contenzione di prigionieri e detenuti, fatto salvo il caso in cui ciò sia giudicato, sulla base di criteri puramente medici, necessario per la protezione della salute fisica e mentale o per la sicurezza del prigioniero o del detenuto medesimo, degli altri prigionieri o detenuti, o del personale di vigilanza e non presenti alcun pericolo per la sua salute fisica e mentale”. Principio 5 dei Principi di etica medica applicabili nello svolgimento delle funzioni del personale sanitario, ed in particolare dei medici, per la protezione dei prigionieri e dei detenuti contro la tortura e altre pene e trattamenti crudeli, inumani o degradanti adottati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1982 (risoluzione 37/194). “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione della libertà.” Comma 4, art.13 della Costituzione della Repubblica Italiana. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” Art. 32 della Costituzione della Repubblica Italiana. “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.” Art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e della libertà fondamentali. Dal 14 giugno 2008 sono trasferite al Servizio sanitario nazionale tutte le funzioni sanitarie svolte dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia. È quanto prevede il Dpcm 1 aprile 2008 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale 30 maggio 2008, n. 126) In ambito penitenziario, anche nel senso del perseguimento delle condizioni di “benessere” dei suoi iscritti, conformemente al concetto di salute enunciato dall’Oms, è proprio a partire dal potere del Ministro della salute di imporre la rimozione delle cause di malessere evitabile nei confronti dei cittadini detenuti. Che posizioni hanno preso i vari Ministri della Salute per rimuovere queste cause non di malessere quanto invece di morte? Dal mese di luglio 2011, data in cui il nostro Presidente della Repubblica dichiarava la “prepotente urgenza” ci sono state moltissime altre morti di carcere, sia tra i reclusi che tra il personale penitenziario, la situazione carceraria è andata peggiorando e come si possono definire queste morti se non “assassini di Stato”, di uno Stato consapevole della violazione delle sue stesse leggi nazionali e sovranazionali? Quando la politica capirà che è ormai una non rinviabile urgente questione di coscienza e non di consenso? Cosa ancora si aspetta ancora a proporre una soluzione di amnistia, legata ad una seria riforma della giustizia? Perché non si agisce prontamente contro quella che è definita urgenza e violazione dei diritti umani? Che la “sedazione istituzionale”, abbia intorpidito le coscienze di chi ha facoltà di intervento? Giustizia: Sappe; carceri sovraffollate… 21mila detenuti in più e 7mila agenti in meno Ansa, 28 maggio 2012 “Sovraffollamento delle carceri alle stelle; 7.000 poliziotti penitenziari in meno rispetto agli organici previsti ed il Governo che pensa addirittura di mandarne a casa 4 mila; mezzi che trasportano agenti e detenuti che cadono a pezzi e dirigenti a spasso con berline fuoriserie; risse, aggressioni, tentati suicidi e tante, tante parole al vento dai vertici dell’amministrazione penitenziaria e dal mondo della politica”. Così in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che in una nota spiega le ragioni per le quali l’organizzazione sindacale non parteciperà alla festa regionale del corpo in programma domani 29 maggio ad Ancona. “Nelle Marche - ricorda - il segretario regionale del Sappe Aldo Di Giacomo è da giorni in sciopero della fame per denunciare le criticità locali, con più di 1.170 detenuti presenti a fronte di 775 posti letto regolamentari ed oltre 200 poliziotti penitenziari in meno rispetto al previsto. Cosa c’è dunque festeggiare? Basta ipocrisia!”. Secondo Capece il calo dei detenuti dopo i recenti provvedimenti del Governo “è ad oggi impercettibile. Nelle 205 carceri italiane, il 31 gennaio scorso avevamo 66.973 persone che sono calate poche centinaia, arrivando a 66.310. Il dato reale - sottolinea - è che ci sono in carcere 21mila persone detenute oltre la capienza regolamentare, che più del 40% dei presenti (quasi 27 mila) sono in attesa di un giudizio definitivo e che sono 7mila i poliziotti che mancano dagli organici del Corpo”. “Nelle Marche - aggiunge - nel solo 2011 abbiamo registrato 160 atti di autolesionismo, 33 tentati suicidi sventati dai Baschi Azzurri, cinque decessi per cause naturali, 39 ferimenti e 140 colluttazioni: da tutti questi eventi critici emergono le criticità quotidiane con cui devono confrontarsi i poliziotti penitenziari. E come si fa, allora, a parlare di Festa?”. Giustizia: “Basta morire di carcere”… Alfonso Papa, deputato Pdl, in sciopero della fame Il Giornale, 28 maggio 2012 Se il suicidio di un detenuto non fa notizia, può farlo lo sciopero della fame di un parlamentare? Alfonso Papa, deputato Pdl, pensa di sì, o almeno lo spera. “Voglio che Parlamento e opinione pubblica siano sensibilizzati a un problema, quello delle condizioni indecenti delle nostre carceri, non più procrastinabile”, esordisce il politico, che ha vissuto sulla sua pelle la carcerazione preventiva per oltre cento giorni. “Ho aderito - spiega - allo sciopero della fame iniziato da Franco Corleone, garante dei detenuti di Firenze, per il suicidio di un 50enne nel carcere di Sollicciano”, passato sotto silenzio. “Il fatto che il suicidio di un detenuto non sia più una notizia - spiega Papa - è il segno tangibile della mancanza di sensibilità della società italiana e della classe politica rispetto alterna del sovraffollamento delle carceri, tra l’altro riportato da poco all’attenzione del parlamento da Napolitano. Si muore di carcere in un Paese che ha bandito la pena capitale. È assurdo. Serve un’azione forte, decisa, veemente”. Sollicciano, racconta il parlamentare, “ospita un numero di detenuti triplo rispetto alla capienza, ma il problema è ovunque, a Poggioreale, a Regina Coeli, a San Vittore”. Ma secondo Papa il “problema nel problema” è la carcerazione preventiva, perché “quasi la metà dei detenuti è in custodia cautelare, non sta scontando una pena definitiva”. “Quindi - spiega il deputato campano-in questa tortura che è il carcere italiano, dove parole come rieducazione e recupero suonano vuote, e in cui sconti la pena con modalità e termini che sono la negazione di quanto previsto in costituzione, abbiamo una tortura nella tortura”. La soluzione? Una proposta di legge, “della quale ho già parlato a Berlusconi e su cui chiederò la firma a tutti i parlamentari di ogni schieramento”, per “ridurre la carcerazione preventiva soltanto ai delitti di sangue e ai reati più gravi” Perché i mali del sistema carcerario italiano, conclude Papa, si risolvono “affrontandoli attraverso una riforma strutturale del sistema della giustizia” che ne elimini le distorsioni. E che, “purtroppo sembra non essere nell’agenda dell’attuale governo”. Giustizia: caso Cucchi; i giochi di prestigio del Pm Barba di Ilaria Cucchi Notizie Radicali, 28 maggio 2012 La prima volta che il Pubblico Ministero dott. Barba incontrò i nostri avvocati, si premurò di far sapere che era studioso ed esperto in materia di comunicazione. Ce ne ha fornito ampia prova oggi. Il giorno prima dell’inizio delle operazioni peritali disposte dalla Corte d’Assise di Roma, 22 maggio scorso avvisa tutti che ha depositato documenti afferenti ad alcuni accessi al pronto soccorso di Stefano, avvenuti negli anni 2003 e 2004. I famosi “documenti nuovi” che parlano di temi già trattati nel corso del processo dalle difese di alcuni degli imputati e poi abbandonati, tant’è vero che nessuno aveva chiesto la loro acquisizione. Documentazione che peraltro in buona parte era detenuta dal Pertini, i cui medici sono tra gli imputati del processo! Stefano era caduto dalle scale. Aveva pertanto subito un “politrauma” per il quale venne sottoposto ad accertamenti radiografici su tutto il corpo. L’attenzione del dott. Barba va subito al rx della colonna vertebrale. La lastra non ha referto. Strano. Ma il pronto soccorso lo riporta. “Dai primi accertamenti, e relativamente a quanto visibile a causa delle pessime condizioni tecniche, non si rilevano sicure immagini riferibili a lesioni osteo traumatiche di data recente.” Ciò che piace tantissimo è l’ultima parte “omissis... non si rilevano sicure immagini riferibili a lesioni di data recente”. Questa sola verrà offerta alla stampa o comunque da essa verrà riportata proprio il giorno dell’inizio delle operazioni peritali per le quali tutti ci trovavamo a Milano. L’entusiasmo del Pm è grande: se il referto parla solo di lesioni di data recente, allora vuol dire però che vi sono lesioni vecchie! Allora aveva ragione la Procura! Ossigeno per i suoi consulenti in palese difficoltà. Partono i lanci delle agenzie! Ai giornalisti viene discretamente segnalato che nei documenti sanitari “nuovi” c’è pure il numero di cellulare della madre di Stefano. Come dire che pure la famiglia lo sapeva ed ha taciuto. Ma il povero Pm non si accorge che quella frase che tanto gli piace non vuol dire ciò che gli piacerebbe dicesse, ma l’esatto contrario! Non si accorge che quella frase, pure incompleta, è la medesima usata in tutta la diagnostica radiografica di quelli ed altri ricoveri per tutte le altre ossa del “povero” scheletro di Stefano. Uguale per cranio, uguale per bacino, uguale per polsi, uguale per torace ecc. ecc. Ma non si accorge nemmeno che quella medesima frase da referto negativo è abbondantemente riportata uguale anche in tutta la documentazione sanitaria già prodotta in giudizio e sulla quale nessuno dei consulenti, in questi anni, mai aveva avuto la fantasia di interpretare in quel modo. Che dire allora? Che il processo Cucchi è anche questo. Lettere: alcuni “uomini ombra” hanno scritto agli studenti di Foligno e di Assisi… di Agnese Moro La Stampa, 28 maggio 2012 Vi propongo la lettera che alcuni “uomini ombra”, ergastolani “ostativi”, che non possono accedere a nessun beneficio o sconto di pena, hanno scritto agli studenti di Foligno e di Assisi che sono andati a incontrarli nel carcere di Spoleto. Fa riflettere su cose che diamo per scontate. “Cari ragazzi, ringraziamo voi e i vostri insegnanti per la visita che ci avete fatto. Molti di noi non vedevano dei bei visi così giovani e così tanti ragazzi da dieci, venti e, in alcuni casi, da trent’anni. I vostri sorrisi hanno illuminato un po’ i nostri cuori alla vita e alla speranza che forse un giorno grazie anche a voi il mondo sarà un po’ migliore di adesso. Non vi nascondiamo che quando ci hanno detto della vostra visita molti di noi avevano paura di incontrarvi. Eravamo convinti che con tutte le cose brutte che leggete nei giornali e che sentite di noi alla televisione ci avreste guardato come dei mostri, perché nel mondo dei liberi ci vedono come ci vogliono vedere: colpevoli e cattivi per sempre. Invece è stato bellissimo avere i vostri occhi addosso perché ci avete guardato come esseri umani e per molti di noi questo non succedeva da tanto tempo. Cari ragazzi, raccontate questo incontro con noi “cattivi” ai vostri amici e amiche e dite che la pena, qualsiasi pena, deve servire a migliorare e non a distruggere chi la subisce. E poi domandate loro come fa una pena che non finisce mai a migliorare una persona? Dite ai vostri genitori che quando la società perdona un “cattivo” questo si sente veramente sconfitto. Al contrario, quando lo odiano, lo trattano male come una belva chiusa in una gabbia e non gli dicono quando finirà la sua pena, questo si sentirà più forte, invincibile e migliore degli altri che lo tengono murato vivo per tutta la vita. Cari ragazzi, dite alle persone che incontrate che i “cattivi” cambiano e migliorano di più quando sono perdonati e amati dalla società che non quando sono abbandonati a se stessi, perché il male non porta mai al bene, anche quando è commesso in nome della giustizia. Cari ragazzi, venite presto a trovarci di nuovo o invitate ufficialmente qualcuno di noi a venire a parlare nelle vostre scuole. E cercate di realizzare i vostri sogni, anche quelli che non abbiamo potuto realizzare noi alla vostra età. Gli ergastolani in lotta per la vita di Spoleto v’inviano fra le sbarre il loro migliore sorriso”. Lettere: Dario Stefano Dell’Aquila lascia carica presidente di Antigone Campania Ristretti Orizzonti, 28 maggio 2012 Questa settimana, dopo così tanti anni che non voglio nemmeno contarli, pongo termine al mio ruolo di presidente di Antigone in Campania. Avverto l’esigenza di ampliare il mio campo di intervento, di avere più tempo da dedicare alla ricerca e alla scrittura e penso, inoltre, che sia necessario valorizzare nuove energie per rilanciare le attività locali. Mi rassicura molto che a continuare l’impresa ed assumersi l’onere della presidenza sia Mario Barone, compagno che, per etica, impegno e capacità professionali, è, insieme, garanzia di continuità e portatore di novità. Per quanto mi riguarda, non viene meno l’ impegno sulle tematiche del carcere e della libertà, ma cercherò di dargli una nuova forma e modi differenti. In questi anni, abbiamo fatto davvero molte cose, impossibile ricordale tutte. Più di ogni altra cosa abbiamo cercato, con onestà, di mantenere viva l’attenzione su un tema delicato e difficile, specie in una terra come questa, tenendo assieme l’analisi e l’intervento diretto sul campo. Su tutto, mi piace ricordare la grazia per Vito De Rosa, ottenuta dopo 40 anni di manicomio, e la battaglia per la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, nella quale penso ci si possa riconoscere un ruolo decisivo anche sul piano nazionale. Abbiamo fatto tanto, ma per ciò che mi riguarda quello che più conta è il legame indissolubile di affetto che mi lega a chi ha fatto parte di questa storia. Ho molti debiti e non posso certo ripagarli. Sono debitore a Salvatore Verde che mi ha insegnato che una prigione comincia ben prima delle sue porte, a Cristiana Bianco che è stata la migliore compagna di viaggio che potessi incontrare, a Francesco Maranta che ha messo a disposizione, tra le tante cose, il suo mandato istituzionale per visite effettuate ad ogni ora del giorno e della notte, a Samuele Ciambriello che mai si è tirato indietro ogni qualvolta si è reso necessario il suo aiuto, a Roberta Moscarelli con la quale abbiamo cominciato a camminare in direzione Genova e non ci siamo ancora fermati, a Mauro Palma che con affetto mi ha saputo consigliare anche a distanza. Sono grato a Patrizio Gonnella e Stefano Anastasia che, anche nei momenti più dialettici, hanno sempre rispettato la mia autonomia. Un pensiero particolare va a Sergio Piro e Enzo Albano che non sono più qui a camminare con noi. Sono tante le persone che dovrei ringraziare, ognuna per un motivo speciale (elenco in modo parziale e in ordine sparso Francesco Caruso, Beppe Battaglia, Sissi Contessa, Francesco Laviano, Enzina Riccio, Mara Malavenda, Paola Lucignano, Grazia Amato, Anna Sgueglia, Luciana Parisi, Valerio Cataldi, Ezio Rossi, Alfonso De Vito, Antonio Esposito, Michelina Cassese, Simona Belluccio, Luca De Rosa, Nicola Quatrano, Laura Astarita, Simona Filippi, Roberta Bortolozzi, Donatella Panzieri, Chiara Ioele, Romina Raffo, Alessandra Naldi, Andrea Molteni, Lia Esposito, Antonio Mancini, Teresa Capacchione, Francesco Nicodemo, Giovanni Carbone, Luigi Vertaglio) che è impossibile farlo come si deve, specie per uno allergico ai sentimenti e alle emozioni come me. Senza la pazienza e i sorrisi di chi mi è ogni giorno accanto e mi vuol bene, con libertà e leggerezza, non avrei mai potuto percorrere tanta strada. A tutte e a tutti quelli attenti non a noi, ma ai diritti che difendiamo, lascio un forte abbraccio. Dario Stefano Dell’Aquila Liguria: Sappe; Festa della Polizia penitenziaria senza poliziotti “Non c’è nulla da festeggiare” Ristretti Orizzonti, 28 maggio 2012 Martedì 29 maggio 2012 si terrà a Genova la Festa della Polizia Penitenziaria, peccato però che molti poliziotti non parteciperanno visto che, come loro stessi dichiarano “Non c’è nulla da festeggiare”. “Se, a livello nazionale, la situazione penitenziaria fa registrare una pressoché impercettibile flessione nelle presenze degli Istituti di pena, è in netta contro-tendenza la realtà della Liguria. - spiega Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria - Sono infatti oggi più di mille e 870 i detenuti presenti nelle celle dei 7 penitenziari regionali, celle costruite peraltro per ospitare non più di mille persone, ben più di quelli presenti un anno fa, nel pieno dell’emergenza carceri, che erano infatti 1.750. Si tenga anche conto che, sempre in Liguria, più di 800 persone scontano una pena in area penale esterna, ammessi cioè a misure alternative alla detenzione, a misure di sicurezza, a sanzioni sostitutive del carcere. Il sovraffollamento è dunque alle stelle e ciò alimenta inevitabilmente una tensione fatta di risse, aggressioni, suicidi e tentativi suicidi, rivolte ed evasioni che genera quotidiane condizioni di lavoro dure, difficili e stressanti per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, sotto organico in Liguria di quasi 400 unità. La politica è distratta su questi gravi problemi e tra pochi giorni avremo un ulteriore elemento che determinerà tensione, il caldo estivo. Cosa dobbiamo festeggiare?” Roberto Martinelli annuncia infatti che il Sappe non parteciperà alla cerimonia di celebrazione della Festa della Polizia Penitenziaria della Liguria che si terrà domani 29 maggio 2012 a Genova, a Palazzo San Giorgio. Il Sappe ha elaborato una serie di dati per far comprendere le criticità penitenziarie nazionali e liguri. “La situazione penitenziaria regionale è allarmante e tutto va a discapito del duro - spiega ancora Martinelli - delicato e difficile lavoro che i poliziotti penitenziari in servizio in Liguria svolgono encomiabilmente ogni giorno, 24 ore su 24” prosegue. “Non ci sembra che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria abbia le soluzioni idonee per superare questa costante emergenza, visto che pensa a stipulare patti di responsabilità con i detenuti piuttosto che favorire soluzioni concrete, come ad esempio il lavoro obbligatorio in carcere. Da anni, come primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe propone di impiegare sull’intero territorio nazionale i detenuti in progetti per il recupero del patrimonio ambientale, occupandosi non solo della cura dei Parchi delle città liguri, ma anche della pulizia dei greti dei torrenti e delle spiagge. La realtà è che c’è profonda ipocrisia su questo argomento, detenuti al lavoro. Tutti, politici in testa, sostengono che i detenuti dovrebbero lavorare: ma poi, di fatto, a lavorare nelle carceri oggi è una percentuale davvero irrisoria di detenuti. E chi sta chiuso in cella venti ore al giorno non può che incattivirsi, altro che rieducarlo! L’auspicio del Sappe, dunque, è che la classe politica ed istituzionale del Paese faccia proprie le importanti e pesanti parole dette dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulle nostre carceri “terribilmente sovraffollate” e ci si dia dunque da fare - concretamente e urgentemente - per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ripensi organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria, che preveda circuiti penitenziari differenziati a seconda del tipo di reato commesso ed un maggiore ricorso alle misure alternative per quei reati di minor allarme sociale con contestuale impiego in lavori di pubblica utilità. Oltre alla non più rinviabile espulsione dei detenuti stranieri condannati per fare scontare loro la pena nelle prigioni del Paese di provenienza”. Calabria: Idv; più pene alternative, come rimedio al crescente sovraffollamento delle carceri Gazzetta del Sud, 28 maggio 2012 “Carceri sovraffollate determinano condizioni invivibili per la popolazione dei detenuti. È il momento di riconsiderare l’istituzione penitenziaria nel suo complesso”. L’invito arriva da Enzo Tromba, commissario regionale di Italia dei Valori che in una nota affronta anche l’aspetto economico della vicenda che pesa, e non poco, su una società che deve reggere il peso di una crisi economia disgregante. “L’illegalità - sostiene Tromba - ha un costo economico e sociale che la nostra comunità non si può più permettere. L’elevato tasso di suicidi e di atti di autolesionismo ci deve indurre ad aprire un dibattito per ripensare pene e procedure riparative. Le parole di Benedetto XVI in Caritas in veritate, il messaggio per il Giubileo nella carcere di Giovanni Paolo II nel 2000, i discorsi del presidente Napolitano, portano a una riflessione sul senso della pena e all’apertura di nuove frontiere per la società”. La prevenzione dei reati, secondo Tromba, non dipende solo dalla repressione ma dalla capacità dell’ordinamento di mantenere alti i livelli di consenso rispetto alle norme: “Serve - suggerisce - un impegno al recupero sociale dei condannati. La gran parte dei detenuti è portatrice di grave disagio sociale, condannati per reati comuni non particolarmente gravi, tossicodipendenti e stranieri affollano le carceri facendole scoppiare. La risposta all’attuale situazione penitenziaria non può essere ricercata nell’aumento dei posti carcere va invece perseguito un cambiamento delle norme sanzionatorie e una diversificazione dei percorsi processuali penali che oggi finiscono solo con una pena detentiva”. Tromba sollecita l’apertura di un dibattito sull’introduzione di pene non detentive: pecuniarie, affidamento ai servizi sociali, messa in prova, prescrizioni comportamentali, prestazioni di pubblica utilità, strumenti per la definizione anticipata di procedimenti penali, procedure riparative. “Attuiamo anche nel nostro paese - aggiunge - la prassi dei percorsi di giustizia riconciliativa e mediazione penale, coinvolgendo le vittime dei reati, oggi emarginate nel procedimento penale. Così facendo si potrà ridurre in maniera strutturale la popolazione carceraria. Si trarranno anche benefici economici rispetto a un sistema sanzionatorio incentrato sulla pena detentiva, liberando risorse per gli uffici dell’esecuzione penale esterna e per la formazione del personale penitenziario. Arrivando, così, a una vita penitenziaria più dignitosa, per chi dovrà continuare a espiare pene detentive, con strumenti orientati al progressivo reinserimento sociale”. La sperimentazione sui percorsi di risocializzazione con misure alternative, ricorda Tromba, ha assicurato una notevole riduzione della recidiva rispetto alle pene espiate in carcere: “In ogni condizione - conclude citando Hirschman - c’è una riforma possibile, quindi aiutiamo questa parte della società a ricostruire relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole indispensabili ad ogni convivenza civile”. Lazio: progetto “Ragazzi fuori”, la Regione stanzia 10 borse lavoro per minori e giovani adulti Ansa, 28 maggio 2012 È arrivato il via libera dalla giunta Polverini per il protocollo d’intesa che sarà firmato tra la Regione Lazio e il Ministero della Giustizia - Dipartimento Giustizia minorile - Centro per la giustizia minorile per il Lazio per l’attuazione del Il programma mira a sostenere l’inserimento di ragazzi minorenni e giovani che hanno commesso reati in attività di formazione-lavoro. Il progetto riguarderà 10-15 ragazzi e ragazze di età compresa tra i 14 e i 21 anni, sia italiani che stranieri, che sono sottoposti a procedimenti penali. A loro saranno attribuite dieci borse lavoro trimestrali, grazie alle quali potranno guadagnare 350 euro al mese. “Questo accordo è un’ulteriore conferma dell’attenzione dell’amministrazione regionale per i detenuti, in particolare per i minori - ha spiegato l’assessore regionale alla Sicurezza, Giuseppe Cangemi - Con la collaborazione del Dipartimento della Giustizia minorile attueremo questo progetto attraverso cui vogliamo ridurre il rischio di recidiva, favorire il reinserimento socio-lavorativo dei minori, con interventi di carattere educativo”. “Puntiamo molto sull’esperienza delle borse lavoro - ha sottolineato Cangemi - che rappresentano uno strumento importante per promuovere tra i giovani detenuti l’autonomia, la cultura dell’accessibilità al lavoro, favorire attraverso l’inserimento nel mondo del lavoro la riabilitazione sociale della persona”. Sassari: la sorella di Marco Erittu, ucciso in carcere nel 2007, chiede “verità e giustizia” La Nuova Sardegna, 28 maggio 2012 Quando l’hanno saputo che non poteva essersi ucciso, in fondo non è stata una gran sorpresa. “No, non abbiamo mai creduto che Marco si volesse togliere la vita. In quei giorni aveva paura. Ma desiderava vivere”. Marco Erittu, 40 anni, la morte l’ha trovata in una cella di Stato, a San Sebastiano, dove stava scontando un anno per droga - lo avevano beccato con due dosi in bocca, una nemmeno sua. Qualche mese dopo, il pomeriggio del 18 novembre 2007, il suo corpo è stato trovato con un lembo di coperta attorno al collo, come se si fosse impiccato. Ma i segni sulla pelle dicevano altro. Forse ucciso - dice il reo confesso e testimone Giuseppe Bigella - perché voleva parlare e mettere nei guai Pino Vandi, curriculum criminale ricco, nome che faceva paura nel penitenziario e soprattutto fuori. Nunziata Erittu, 50 anni, è una delle sorelle del detenuto al centro del giallo del carcere. Attende che a partire dal 19 giugno - giorno dell’udienza preliminare a quattro imputati per omicidio, tra i quali Vandi - “venga fatta giustizia”. Non punta il dito, non ne ha la forza. Ma pretende “la verità”, almeno quella giudiziaria. Perché sulla famiglia del detenuto il caso è piombato come un palazzo che crolla. “A noi Marco non aveva mai detto nulla, chi poteva pensare che ci fossero così tanti personaggi coinvolti”, spiega oggi Nunziata. L’altra sorella, Maria, ha gli occhi bagnati ancor prima di aprire bocca. Non sono rossi, gli occhi, quasi come se le lacrime scendessero senza sforzo, d’abitudine, l’abitudine del dolore. “Non vogliamo soldi. Vogliamo solo sapere perché mio fratello è finito così”, spera la donna che sarà parte civile con i legali Nicola Satta, Marco Costa e Lorenzo Galisai. Non hanno idea delle ipotesi investigative, dei retroscena su presunte informazioni che il loro Marco (ex tossicodipendente) potesse avere su Vandi. Non sanno dei segreti indicibili, addirittura su due sequestrati mai tornati a casa (Paolo Ruiu e Giuseppe Sechi, metà anni Novanta), che forse Erittu avrebbe voluto rivelare: è questo il presunto movente dell’omicidio, a leggere le carte dell’inchiesta. Ne hanno solo letto sui giornali, quasi non sembrano avere nulla a che fare con la loro di storia, e con quella di Marco. “A noi non diceva niente, tantomeno ci ha mai scritto di quelle cose nelle lettere che inviava dal carcere”, ripetono entrambe, in momenti diversi. Tutte e due però ricordano bene l’ultima telefonata fatta a casa, dall’istituto di via Roma. “Ho paura di essere impiccato”, sussurrava Erittu mentre piangeva, facendo capire quanto fosse inutile rivolgersi agli agenti. Un brutto presagio era arrivato 3 giorni prima che Marco morisse, ricorda Nunziata Erittu: “Tre giorni prima, l’altro nostro fratello, anche lui detenuto a San Sebastiano, fu trasferito a Mamone. Non si dà pace perché se fosse rimasto lì forse avrebbe saputo qualcosa”. In realtà nessuno, forse, avrebbe potuto fare granché. Se è vero - come sostiene la Dda di Cagliari - che quell’omicidio fu coperto da connivenze interne. Tanto che il pm Giovanni Porcheddu dovette chiedere l’archiviazione del fascicolo, a un anno dal ritrovamento del corpo nella cella 3 del braccio “promiscui”. Gli ultimi giorni prima della fine Erittu li aveva trascorsi nel terrore, rivelato negli scritti affidati ad alcune agende, delle quali la famiglia non ha saputo nulla fino a oggi. Poi due anni fa, prima di Pasqua, i carabinieri sono andati a casa per convocarle in Procura. Ancora non avevano capito che l’inchiesta fosse stata riaperta e in qualche modo all’idea del suicidio avevano dovuto arrendersi. Ma non ne erano convinte. Ecco perché quando hanno capito che la storia di Marco era tutt’altro che archiviata, l’hanno vissuta quasi come una conferma. “Mai creduto che si volesse togliere la vita”, insiste Nunziata. “Pochi anni prima era stato operato al cuore, dopo un ictus. E aveva lottato per restare in vita”. Era di buon umore persino appena entrato in carcere. “Poi era diventato taciturno, non parlava più”. Pensare che quando era stato arrestato e portato dentro, la madre aveva sospirato: “Almeno non morirà per strada”. Vicenza: detenuto accusa “ho preso la tubercolosi in carcere, sputavo sangue e non mi curavano” di Franco Pepe Giornale di Vicenza, 28 maggio 2012 Parla il 32enne marocchino trovato positivo alle analisi e attualmente ricoverato al San Bortolo. E mette sotto accusa il San Pio X: “Condizioni pessime”. È finito dentro per storie di droga. “Ma prima di entrare in cella stavo bene, mai avuto problemi. Mi sono ammalato là dentro”. “Sono io il detenuto con la Tbc”. Ha 32 anni ma sembra più giovane della sua età. È marocchino. Di Casablanca. Pelle chiara. Occhi vivaci. L’italiano è ancora biascicato. Gesticola molto. Non si direbbe malato. Ma la camera in cui si trova è al primo piano del reparto degli infettivi in ospedale. Per entrare occorre passare da uno stanzino-filtro e mettere la mascherina. Il primo viaggio della speranza verso l’Italia lo fece nel 1998, quando era più che un ragazzo. Poi in quello che sognava fosse il paese della felicità ci tornò nel 2004. “No, non ero un clandestino. Avevo un permesso regolare. Ho fatto tanti lavori. A Vicenza, Verona, Monteforte d’Alpone. Ho lavorato in una fabbrica di jeans. Ho fatto il muratore. Prima che mi arrestassero installavo condizionatori all’ospedale di Santorso”. È finito dentro per una storia di droga. I carabinieri andarono a prenderlo il 19 settembre dello scorso anno nell’appartamento di contrada San Rocco in cui vive con la moglie di 22 anni e la figlia di 2 anni e mezzo, e lo portarono al San Pio X. “Prima di entrare stavo bene. Non avevo nulla”. In carcere c’era già stato una volta nel 2008. Un anno e mezzo di reclusione a Verona. Di mezzo sempre la droga, la cocaina. Ora avrà il processo il 26 giugno. Il suo avvocato è Chiara Bellini. Lui si scagiona: “Sono stato gli amici a incastrarmi. Non ho fatto nulla. Mi ero sposato e avevo deciso di mettere la testa a posto”. La moglie, una ragazza del sud vestita di nero, le scarpe da ginnastica, piccolina, occhi e capelli scuri delle donne del Mediterraneo, conferma: “Se avesse fatto quello di cui lo accusano dovremmo essere ricchi. Invece se non ci aiutassero mio padre e sua madre non so come faremmo ad andare avanti. Dicevano che era vestito troppo bene. Ma le scarpe e gli abiti glieli mandano dal Marocco”. La camera d’ospedale è molto più grande della cella in cui ha coabitato per 8 mesi con altri due detenuti. L’uomo si muove come volesse misurare il pavimento. “Sì, la cella è la metà di questa stanza. Sui muri c’è la muffa. Un odore da nausea. Le condizioni igieniche sono pessime. C’è sporcizia. Cambiano le lenzuola una volta la settimana. E poi, tranne la domenica, si mangia poco e male. La Tbc l’ho presa lì”. Le parole spesso non sono quelle giuste del vocabolario. Si aiuta con le mani, con lo sguardo. Dove non riesce a trovarle è la moglie che ne traduce il pensiero. Ma il racconto è una raffica. “Era più di un mese che mi sentivo debole. Ho chiesto di essere visitato. Ho fatto la domanda scritta. Ma lì le visite si fanno due volte la settimana. Mi hanno fatto aspettare giorni. Dicevano che non avevo niente. Mi davano solo una pastiglia al giorno. Io invece avevo sputato sangue. L’ultimo giorno di carcere mi hanno portato in ospedale per un esame allo stomaco. Il 19 aprile mi hanno mandato a casa agli arresti domiciliari. Tre giorni dopo mi sono sentito ancora più male. Respiravo a fatica. A un certo punto ho vomitato sangue. Mia moglie si è spaventata, ha chiamato il 118, la polizia. Sono arrivato in ospedale in ambulanza e ci sono rimasto una giornata intera. Mi hanno fatto tanti esami, e poi sono tornato a casa. Due giorni dopo ha telefonato un medico dell’ospedale. Dovevano ricoverarmi subito. Ero risultato positivo. Avevano scoperto che ho la tubercolosi. Ora dovrò stare qui due settimane sempre che guarisca, altrimenti saranno mesi. E sono preoccupato per mia figlia. L’hanno visitata, le hanno trovato una macchia ai polmoni. Martedì la ricoverano”. Radicali: fare indagine su caso detenuto con tbc a Vicenza L’on. Rita Bernardini, componente della commissione Giustizia, su sollecitazione di Maria Grazia Lucchiari del Comitato nazionale Radicali Italiani, ha presentato un’interrogazione ai Ministri della Giustizia e della Salute in cui sollecita ‘una indagine diagnostica celere ed immediata sul personale di polizia penitenziaria e i detenuti al fine di scongiurare il rischio di diffusione della tubercolosi al carcere Vicenza. L’interrogazione segue la vicenda di un nordafricano di 32 anni, fino a un mese e mezzo fa ristretto nel carcere di Vicenza, e poi scarcerato, che sarebbe risultato affetto da tubercolosi. La vicenda, a detta dell’interrogante, ha suscitato la preoccupazione del contagio fra gli agenti di polizia penitenziaria che lavorano all’interno della casa circondariale berica. Il timore del contagio è per la trentina di reclusi che si sono alternati accanto al detenuto infetto nei mesi in cui si trovava al carcere di Vicenza. Ma è forte la preoccupazione e la richiesta di attivare uno screening urgente anche per Francesco Colacino, segretario nazionale del sindacato Cnpp, il Coordinamento della polizia penitenziaria, che cita i dati del carcere di Verona, nel quale il 30% degli agenti del personale sarebbe risultato positivo al virus della tubercolosi. Lucca: sei mesi fa uccise figlio disabile, 74enne agli arresti domiciliari si impicca www.ilreporter.it, 28 maggio 2012 Si è impiccato nella sua abitazione, dove da sei mesi, da quando aveva ucciso il figlio disabile, era gli arresti domiciliari. L’autore del gesto è un 74enne residente in provincia di Lucca. Il rimorso, il dolore, l’ansia di doversi sottoporre a una perizia psichiatrica. Forse c’è tutto questo alla base del suicidio dell’uomo, 74 anni, che stanotte ha deciso di finita infilandosi un cappio intorno al collo. L’uomo era agli arresti domiciliari, dopo aver ucciso nell’ottobre scorso il figlio di 40 anni cerebroleso dalla nascita. L’omicidio accadde di notte: dopo essersi svegliato per una crisi del figlio, preso come da un raptus e temendo forse di non farcela oltre ad accudirlo, il padre lo aveva ucciso, chiamando poi lui stesso i carabinieri. Attualmente era in corso una perizia psichiatrica sull’anziano per accertare se fosse o meno infermo di mente al momento del delitto. Bari: l’Associazione “Il Carcere Possibile Onlus” presenta Guida ai diritti e ai doveri dei detenuti Ristretti Orizzonti, 28 maggio 2012 Dopo Napoli e Palermo, anche la Camera Penale di Bari, con “Il Carcere Possibile Onlus” , ha pubblicato la Guida che sarà distribuita negli Istituti Penitenziari della Puglia. All’iniziativa “Fate presto” tenuta giovedì 24 maggio nel Palazzo di Giustizia di Bari, tutti d’accordo: è ora che la “politica” intervenga immediatamente. Domani 28 maggio, alle ore 11.00 presso il Tribunale di Bari, nella Sala Consiliare dell’Ordine degli Avvocati, sarà presentata alla stampa la “Guida ai diritti e ai doveri dei detenuti”, frutto del lavoro della Delegazione di Bari “Giuseppe Castellaneta” de “Il Carcere Possibile Onlus” e la collaborazione delle Camere Penali di Bari e di Napoli, con il patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Bari, dell’Università della terza età, del Laboratorio teatrale Puglia Europa-Bari, della Regione Campania-Assessorato alle Attività Produttive, del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania e della Regione Puglia, con l’adesione dell’Associazione Nazionale Magistrati. La Guida, già pubblicata in Campania e tradotta in albanese, arabo, francese, inglese e rumeno, dal Centro Lifelong Learning dell’Università L’Orientale di Napoli, vuole fornire a coloro che sono ristretti e ai loro familiari uno strumento per orientarsi in carcere, al fine di affrontare una detenzione consapevole dei diritti riconosciuti e delle regole da rispettare. Il libricino, con il contributo dell’Amministrazione Penitenziaria, sarà distribuita a tutti i detenuti degli Istituti di Pena della Puglia e ai loro familiari. La breve e significativa prefazione della scrittrice Valeria Parrella, fa comprendere l’importanza dell’iniziativa: “Una guida si chiama così perché è una cosa che guida, cioè che fa strada. Qui è la strada difficile della detenzione italiana, ma comunque una strada è qualcosa da percorrere e anche in questo si può trovare senso. La speranza di chi sta “fuori” è quella che i detenuti e le loro famiglie non si sentano isolati, che sappiano che la strada verso una detenzione dignitosa la percorriamo insieme e la guida è uno di quegli strumenti pensati per questo, per dare a noi la possibilità di accompagnare “sotto braccio” chi ha bisogno di aiuto, informazion i, chiarimenti. Perché non esiste altra possibilità per quell’individuo che voglia vivere con dignità, che il garantire o il lottare affinché questa dignità sia bene condiviso” Saranno presenti alla Conferenza Stampa: Avv. Egidio Sarno - Presidente Camera Penale di Bari Avv. Riccardo Polidoro - Presidente “Il Carcere Possibile Onlus” Avv. Virginia Ambruosi Castellaneta - responsabile Delegazione di Bari “Il Carcere Possibile Onlus” Dott.ssa Maria Giuseppina D’Addetta - Presidente Tribunale di Sorveglianza di Bari Dott. Giuseppe Martone - Provveditore Amministrazione Penitenziaria Puglia Dott. Salvatore Casciaro - Presidente A.N.M. Distretto di Bari Avv. Emmanuele Virgintino - Presidente Consiglio Ordine Avvocati di Bari Avv. Luigi Pansini - Segretario Sindacato Avvocati di Bari Avv. Luca Colaiacono - Associazione Antigone Bari Dott.ssa Lidya De Leonardis - Direttore Casa Circondariale di Bari Dott.ssa Caterina Acquafredda - Direttrice casa Circondariale Altamura Dott.ssa Valeria Pirè - Dirigente Penitenziario Dott. Pietro Rossi - Garante dei diritti dei Detenuti regione Puglia Avv. Franco Minervini - Laboratorio teatrale Puglia-Europa. Livorno: “Operazione Spiagge pulite” all’Isola d’Elba, con i detenuti di Porto Azzurro La Nazione, 28 maggio 2012 Una magnifica giornata per ripulire un magnifico posto: è questa la sintesi di “Operazione Spiagge pulite” ai Mangani, una spiaggia sulla costa nord-orientale dell’Isola d’Elba raggiungibile a piedi solo da Nisportino (Comune di Rio nell’Elba). Alla giornata hanno partecipato anche 8 detenuti del carcere di Porto Azzurro che sono stati i veri protagonisti di una minuziosa pulizia di questa splendida spiaggia del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, diversi volontari, il direttore di Legambiente Toscana Franco Di Martino, la direttrice del Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano Franca Zanichelli e il consigliere del gruppo consigliare di opposizione di Portoferraio Riccardo Nurra. “Ringraziamo di cuore i detenuti del carcere di Porto Azzurro che in maniera rapida ed efficiente hanno ripulito insieme a noi una delle spiagge più belle e meno conosciute dell’Elba e la direzione del carcere per averci permesso di fare questa esperienza umana ed ambientale davvero molto bella - ha detto Umberto Mazzantini, responsabile nazionale Isole Minori di Legambiente - credevamo di trovare molti meno rifiuti, ma il fosso dei Mangani che sfocia sulla spiaggia si è rivelato una vera e propria miniera di soazzatura, compreso un televisore ed un sacco a pelo. La tipologia di rifiuti più ritrovata è stata purtroppo il polistirolo, soprattutto frammenti di “casse” per il pesce, che si infiltra sotto i sassi e nelle fessure degli scogli, un vero e proprio macro e micro-inquinamento per la spiaggia e il mare”. I sacchi di rifiuti e l’altro materiale, messi al riparo dietro a grandi tronchi che il mare ha portato sulla spiaggia, saranno ritirati nei prossimi giorni con un’imbarcazione. Comunque quello che più ha impressionato i volontari è stata la magnificenza dell’ambiente dei Mangani e la limpidezza cristallina del suo mare. “Speriamo che questa sia la prima di una serie di iniziative con il carcere di Porto Azzurro - ha detto Di Martino - Dopo questa più che positiva esperienza, nei prossimi giorni avanzeremo delle proposte alla Direzione che ha dimostrato tanta sensibilità aderendo a Spiagge Pulite”. Padova: sulla strada, oltre le sbarre… detenuti partecipano a pellegrinaggio di Marco Pozza Avvenire, 28 maggio 2012 Come gufi nella notte, per una volta artefici di riconciliazione piuttosto che uomini di malaugurio. La notte per anni è stata loro alleata nello sfidare la legge, deturpare l’umano, complicare la speranza. Stavolta la notte diverrà loro alleata perché, in fin dei conti, è di notte che l’alba s’appresta al risveglio. Un gruppo di detenuti del carcere di massima sicurezza di Padova stanotte vestirà i panni del pellegrino: nudi di fronte al mondo e avvolti in un anonimato che li mette alla pari con tutti gli altri. Il termine peregrinus significa straniero, foresto, colui che non sta a casa propria. È esattamente la loro identità: durante la permanenza dietro le sbarre la città è diventata per loro foresta e loro foresti per la città. L’hanno tradita e lei li ha dimenticati relegandoli in periferia, segregati fuori dalle sue mura come ben s’addice ai malfattori. A Padova però abita il Santo “senza nome”, quell’Antonio che passando anonimo tra la gente conobbe il fascino dell’effimero e s’impegnò per la pace e la riconciliazione tra le genti. Loro stanotte chiederanno aiuto ad Antonio: ripercorreranno assieme a una folla di pellegrini l’ultimo tratto di strada solcato dal frate in punto di morte: il bandito di vecchia data che abbandona la cella non per evadere dalla sua storia ma per trovare una rigenerazione spirituale a una vita costellata di ferite inferte e subite. Loro hanno rubato la speranza e la galera ha rubato loro le parole, inasprito i sentimenti, scolorito l’alfabeto: per questo il loro pellegrinaggio sarà una lunga preghiera fatta semplicemente col corpo, il corpo come veicolo dell’anima per scendere dentro se stessi e accendere lattice. Per anni hanno arredato la cella col grosso rischio di scambiarla per il mondo: troppi ci riescono ogni giorno. Poi Qualcuno ha aperto loro la finestra: da quell’incontro col Risorto non hanno più accettato di barattare la luce dell’abat-jour con quella del sole. E qualcuno s’è rimesso in piedi. Il camminare racconta la meraviglia e lo spavento, l’ignoto e il conosciuto, la forza e la spossatezza. Camminare a piedi è avvertire la coscienza della propria fragilità, un invito alla prudenza e alla disponibilità verso gli altri. È riscoprire la nostalgia e la lentezza in un mondo dominato dalla fretta. Per loro stavolta camminare avrà il sapore di un ritorno in città dopo anni di esilio, un riaffacciarsi alla vita, compenetrarsi nella natura e ritrovare il contatto con l’universo. In compagnia di Antonio da Padova, il pellegrino di Dio che dopo aver solcato le terre dal Portogallo al Marocco, dalla Sicilia alla Romagna, dalla Francia Meridionale al Veneto passando per la Lombardia è diventato un figlio del quale Padova è divenuta gelosa custode nel mondo. Nell’animo del pellegrino spesso s’annidano le grandi rivoluzioni: Francesco d’Assisi, Domenico di Guzman, Antonio da Padova sono semplicemente i volti noti di un’umanità e di una Chiesa rivoluzionaria. Perché sono gli uomini che si guardano dentro, non fuori, a scombussolare il mondo: uomini che hanno capito che ogni passo in avanti dev’essere preceduto da un passo all’interno, per non trasformarsi in un passo all’indietro come insegna la mistica. Un gruppo sparuto di detenuti che cammina, a nome di tutti i detenuti, fianco a fianco con la gente comune sulle orme di Antonio. C’è sempre un gruppo in rappresentanza di tutti: all’uscita dall’Egitto come all’ingresso della Terra Promessa, sul Golgota come sul Tabor, a Genesaret come nel cenacolo. Qualcuno c’è sempre a nome di tutti per poi cantare ovunque “quella luce e quell’Amor che move il sole e le altre stelle”. E che riorganizza la speranza. Immigrazione: Desi Bruno; bisogna chiudere i Cie, non basta uno sportello legale di Silvia Bonacini Il Manifesto, 28 maggio 2012 A Bologna nella commissione consiliare si fa sempre più largo il fronte di chi pensa che l’unica soluzione per i Cie sia chiuderli, e avviare una serie fase di riforma normativa. Badanti, richiedenti asilo, vittime di tratta o del lavoro nero, rom a cui non verrà mai concessa una identificazione perché, fuggiti da guerra che ha cancellato l’origine legale di un’esistenza inclusa fra precise frontiere, ora giacciono in un vuoto legislativo incolmabile. Come l’ultimo caso denunciato dalla Garante regionale dei detenuti, l’avvocata Desi Bruno “una donna rom di 30 anni, in Italia con 5 figli, oggi trattenuta in attesa di un’identificazione che non avverrà mai perché la donna è nata in Bosnia quando ancora c’era la Jugoslavia: il suo nome non è registrato da nessuna parte, in quello che per la legge italiana dovrebbe essere il suo Paese, non sanno niente di lei. E così rimarrà 18 mesi nel Cie, poi uscirà e rischierà di ripetere la stessa esperienza. Nel Cie se ne incontrano parecchie di persone così, persone che entrano ed escono: c’è un vuoto legislativo” ha spiegato. Ma soprattutto sono detenzioni per illeciti amministrativi: privazioni della libertà personale, derivate da una legge nazionale che costruisce clandestinità inserendosi nel percorso migratorio di chi non ha il pds perché ha perso il lavoro o perché quel lavoro regolare non lo ha mai trovato. In un paese dove dilaga la crisi economica se sei straniero vieni sfruttato: dagli stati per ridurre i costi e i diritti dei propri cittadini; da un caporale o al nero da chi non intende inquadrarti perché costeresti troppo; da chi che ti usa violenza, ti butta in strada, ti pensa merce. E poi ci sono le vittime della presunta disorganizzazione ministeriale, del mutismo di consolati e ambasciate che non rispondono sulle identità da accertare. Privazione di vite e attesa. Incertezze dei tempi di reclusione che provocano esasperazione, abuso di farmaci e psicofarmaci, suicidi, rivolte, autolesionismo. Per cosa? Per stare in una struttura gravemente carente dal punto di vista del rispetto dei diritti umani e delle convenzioni internazionali firmate dall’Italia. Una struttura costosa: oltre 204 milioni di euro è la stima dichiarata per difetto dal tavolo sui costi dei centri d’identificazione ed espulsione all’atto del convegno Bolognese “Quali alternative ai Cie? Prospettive e proposte” inserito nell’ambito di Transeuropa Festival. Una macchina inefficace dal punto di vista sicuritario, che a Bologna ha effettuato solo la metà dei rimpatri previsti lo scorso anno: su 665 trattenuti ne sono stati espulsi 334. Gli altri hanno richiesto protezione umanitaria (30 su 192 richieste), permesso per protezione sociale (107) fra cui donne vittime di tratta (12) che hanno ottenuto il pds entrando in percorsi d’accoglienza protetta ai sensi dell’art 18 del Testo unico per l’immigrazione volto a proteggere le vittime dello sfruttamento. Così, a questi si aggiungono anche gli ex detenuti che vedono prolungarsi la pena di altri 18 mesi perché quell’identificazione da scrivere sul foglio di rimpatrio non arriva. “La promiscuità è uno dei principali problemi: dopo il prolungamento a 18 mesi il clima è peggiorato, a questo cambiamento il Cie non è pronto sia dal punto di vista delle attività interne sia da quello strutturale - spiega la direttrice Lombardo- Il Cie è un collettore di disagio psichico e sociale - ammette- oltre alla clandestinità amministrative vi sono persone poco integrabili senza fissa dimora, con disturbi psichiatrici, ex minori non accompagnati che non hanno fatto richiesta per il permesso di soggiorno o che l’hanno perso commettendo piccoli reati, a cui si aggiungono gli ex detenuti che fomentano tensioni e rivolte coinvolgendo i più deboli, minacciando operatori e forze dell’ordine”. E proprio mercoledì 23 maggio, mentre si discuteva l’udienza conoscitiva sui Cie in commissione consiliare, Silp, Siulp, Sap, Consap, Ugl Polizia di Stato, Coisp, Uilps Sindacato Polizia modenesi hanno inviato una nota in cui se ne chiede in maniera netta la chiusura. Stessa richiesta da parte di Pd, Sel, Cgil, movimenti, Tpo e rete Primo marzo. “Occorre aprire - suggeriscono - un nuovo spazio di discussione e proposta, anche normativa, per il recepimento delle norme europee più avanzate a tutela dei diritti e per una complessiva revisione della legislazione sull’immigrazione. L’esperimento Cie è da considerarsi concluso sotto ogni punto di vista: sociale, politico, giudiziario”. Cécile Kyenge, portavoce nazionale della rete Primo marzo, intervenendo in commissione ha rilanciato una posizione oramai largamente condivisa “Si parla di sportelli legali e osservatori, ma è ora di chiudere questi centri in Italia e anche all’estero perché il rischio sta nella delocalizzazione della detenzione in Libia, Tunisia o Egitto. L’Italia deve rivedere il proprio razzismo istituzionale rispettando gli accordi internazionali sui diritti umani, ampliando quelli esistenti anche per le vittime dello sfruttamento lavorativo ed applicando nuove politiche di accoglienza e circolazione in Europa - ha detto - Parlando di promiscuità stiamo ammettendo ciò che noi denunciamo da tempo: i Cie sono carceri in cui non vige nemmeno la tutela dei diritti data negli istituti carcerari. Per noi l’unica risposta è la chiusura”. Ma sui Cie regionali incombe un cambio di gestione denunciato sia dall’attuale direttrice Lombardo, che non vede come con 28 euro si possano garantire l’attuale rete di servizi e l’inquadramento del personale che al momento non si sa se verrà ricollocato sotto il Consorzio Oasi di Siracusa, sia dal Pd. Lo stesso Carlo Giovanardi si è fatto portavoce di un’interrogazione al Ministero dell’Interno al proposito che chiede di fare chiarezza sulla costituzione del Consorzio poiché uno dei tre soci era già fra quelli di Alma Mater: una cooperativa che gestiva il centro di Cassibile, su cui il pm di Siracusa aveva anche chiesto il giudizio per truffa ai danni dello Stato respinto poi dal Gup. A tal proposito Sergio Lo Giudice (Pd) chiede che la Prefettura preveda delle verifiche periodiche per capire se da parte della nuova gestione verranno effettivamente garantiti i servizi attuali “C’è inoltre la necessità di un’intensificazione dei controlli per evitare - afferma- possibili infiltrazioni mafiose che possono inserirsi in questi circuiti”. India: caso marò, rinviata a mercoledì l’udienza per la libertà su cauzione Ansa, 28 maggio 2012 L’Alta Corte del Kerala ha aggiornato a mercoledì l’udienza relativa alla richiesta della libertà dietro cauzione per i marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone detenuti nel sud dell’India per omicidio di due pescatori. Secondo quanto ha appreso l’ANSA da fonti che seguono la vicenda giudiziaria, il giudice N.K. Balakrishnan ha nuovamente chiesto un parere al governo centrale di New Delhi sulla scarcerazione dietro cauzione dei due fucilieri del San Marco. Ha quindi rinviato di due giorni l’esame della richiesta di “bail” (libertà dietro cauzione). Erano presenti gli avvocati indiani dei due marò e la delegazione italiana che sta seguendo la vicenda da oltre tre mesi. Latorre e Girone si trovano da venerdì in un ex riformatorio ristrutturato nella città portuale di Kochi dove ha sede anche l’Alta Corte del Kerala. La richiesta di libertà provvisoria era stata respinta per due volte dal tribunale di grado inferiore di Kollam (dove si svolgerà il processo a carico dei due militari italiani) per ragioni tecniche. Gli italiani si sono quindi rivolti all’Alta Corte del Kerala, organo giudiziario superiore. Ma la settimana scorsa, il giudice N.K. Balakrishnan aveva chiesto al governo centrale di manifestare in tribunale la sua opinione sulla richiesta italiana. Egitto: malversazioni e abuso di potere; sette anni di carcere per ex capo gabinetto di Mubarak Ansa, 28 maggio 2012 Condanna pesante per uno dei massimi protagonisti dell’era Mubarak mentre cresce l’attesa per i risultati elettorali e fioccano i ricorsi e le denunce per irregolarità alle prime elezioni presidenziali in Egitto dopo la caduta dell’ex rais. La prospettiva di una polarizzazione con la scelta fra ancien regime e stato islamista ha anche fatto crollare la Borsa, che ha registrato il secondo peggior risultato del 2012. Un tribunale penale del Cairo ha condannato a sette anni di reclusione e ad una multa di oltre quattro milioni di euro l’ex capo di gabinetto di Mubarak Zakaria Azmi, accusato di malversazioni e di abuso di potere. Azmi, dal 1989 fra i più stretti collaboratori dell’ex rais, il quale si diceva, non si faceva vedere in pubblico senza averlo al suo fianco, era anche un esponente di punta del disciolto Partito nazionale democratico, al potere per trent’anni. La condanna di oggi si aggiunge ad una serie di sentenze nei confronti di vari esponenti dell’ancien regime. L’ex ministro dell’interno Habib el Adly è stato condannato a cinque anni di carcere per gli stessi reati, l’ex ministro delle Finanza Youssef Botros Ghali a dieci nell’ambito dello stesso processo. L’allora ministro del Turismo Zoher Garana ha ricevuto una condanna di 5 anni di reclusione per la vendita sottocosto di terreni a due imprenditori per l’edificazione di centri turistici a Hurghada, località balneare sul Mar Rosso. Condanne a quindici anni per Rashid Mohamed Rashid, ex ministro del commercio, riparato a Londra come Boutros Ghali, e a dieci anni per Ahmed Ezz, uomo d’affari del cerchia ristretta di Mubarak nonché segretario generale del Pnd. Ma LA sentenza della corte di oggi arriva in una clima particolare, di grande attesa per il risultato del voto delle prime presidenziali del post Mubarak, sul cui esito sono fioccati oggi i ricorsi per irregolarità dei quattro principali candidati nella corsa. Al nasseriano Hamdin Sabbahi, che secondo i dati ufficiosi è il primo degli esclusi dal ballottaggio, si sono uniti l’altro escluso, il filo islamico moderato Abdel Moneim Abul Fotouh, e anche quelli che vengono dati come i vincitori, il fratello musulmano Mohamed Morsi e l’ultimo premier sotto Mubarak Ahmad Shafik. E fra una settimana è atteso il verdetto a Mubarak per l’uccisione dei manifestanti durante la rivoluzione di gennaio. Imputato con lui anche Habib el Adly. L’ex rais è accusato con i figli Gamal e Alla anche di malversazione di fondi pubblici. Per il primo reato la procura ha chiesto la condanna a morte. Il verdetto, previsto per sabato, cade in un momento delicato fra il primo e il secondo turno delle presidenziali, e per questo si infittiscono le voci di un suo possibile rinvio. Corea del Nord: gli orrori descritti dai sopravvissuti ai campi di lavoro politici di Antonella Grasso www.corriereinformazione.it, 28 maggio 2012 Esecuzioni pubbliche, fame, torture brutali, tradimenti, percosse. Questa la realtà invariata dei campi di lavoro politici della Corea del Nord di Kim Jong Un subentrato al suo defunto padre nel dicembre del 2011. Veri e propri lager in cui vengono imprigionati attivisti e oppositori politici, gente che ha tentato la fuga in altri paesi o è sospettata di essere entrata in contatto con sudcoreani, oppositori ideologici, costretti a massacrarsi di lavoro pesante per 16 o 18 ore al giorno, a volte senza cibo e con divise logore e inadatte al clima e destinati per lo più a morire di stenti o per le punizioni inflitte. I detenuti rappresentano una risorsa per la disastrosa e anacronistica gestione dell’economia nord- coreana garantendo manodopera a costo zero per lo Stato. Solo l’anno scorso, Amnesty International ha dato notizia che, secondo i rilevamenti dei satelliti, questi campi della Corea del Nord sono in espansione, anche se il governo di Pyongyang nega la loro esistenza. Per la prima volta, il governo della Corea del Sud sta cercando di documentare ufficialmente le atrocità dei campi di prigionia attraverso la raccolta di resoconti esclusivi di coloro che sono riusciti a fuggire o hanno ottenuto l’amnistia. Le 381 pagine del rapporto della Commissione Nazionale per i Diritti Umani della Corea del Sud si basa sulla testimonianza di 278 disertori ed è stato recentemente pubblicato rendendo noti i nomi delle guardie carcerarie che hanno effettuato torture o esecuzioni. Amnesty International ritiene che, ad oggi, ci siano circa 200.000 prigionieri detenuti in condizioni terribili in sei campi di prigionia. Nella sua relazione annuale sui Diritti Umani pubblicato la scorsa settimana, si legge “La combinazione di lavoro forzato, contatto con sostanze pericolose, cibo inadeguato, pestaggi, cure mediche e le condizioni di vita igieniche inesistenti, ha provocato numerosi casi di malattia fra i detenuti che inevitabilmente muoiono in prigione o subito dopo il rilascio. Una delle testimonianze del resoconto racconta di Kim che fu inviato in un campo di lavoro per un anno e mezzo dopo essere stato catturato mentre tentava la fuga in Cina. “Ricevevamo 120 grammi di grano marcio per il cibo quotidiano. Così tante persone detenute con me in quell’anno e mezzo non sono sopravvissute”. Kim descrive di aver visto morire molti dei suoi compagni detenuti e di essere stato costretto a seppellirne i corpi su una collina vicina, una collina dove i fiori crescevano bene a causa del gran numero di corpi in decomposizione sotto terra. “Quando sono andato a seppellire un mio amico, ho trovato il buco era troppo piccolo - ha raccontato Kim - ho chiesto il motivo, un ragazzo mi disse che non c’era più spazio per fare un buco più grande, quindi ho scavato il terreno con la mia pala ed ho visto circa quattro strati di corpi e di ossa umane”. Kang Chol-Hwan è diventato un autorevole giornalista in Corea del Sud, un mondo lontano dalla sua vita precedente, in cui ha trascorso dieci lunghi anni in un campo di prigionia. Kang ricorda di essere quasi morto per tre volte di malnutrizione ed esaurimento e di essere stato costretto a mangiare topi, insetti ed erba per sopravvivere. “Era come stare nei campi di concentramento di Hitler, ad Auschwitz, l’unica differenza è nel modo in cui vengono uccise persone. Hitler le uccideva con il gas, Kim Jong Un gli toglie la vita con la fame e lavoro forzato”.