Giustizia: il regime di 41-bis ha venti anni; ormai produce più suicidi che “pentiti” di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 27 maggio 2012 La “Relazione sullo stato di attuazione della legge recante “modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario” (Triennio 2009-2011)” presentata il 9 marzo 2012 alla Camera dei Deputati dal Ministro per i rapporti con il Parlamento (Giarda) non è stata presa in debita considerazione dalla stampa nazionale ma fornisce dei dati statistici sul 41 bis che ci permettono di fare, sia pur in modo sintetico, un bilancio generale. L’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, erede dell’abolito articolo 90 applicato ai detenuti per banda armata nei primi anni 80, viene approvato nel giugno 1992 in un cosiddetto “super decreto antimafia” Scotti-Martelli, come risposta alla strage che il 23 maggio di quel medesimo anno provocò la morte del giudice Giovanni Falcone e degli agenti della sua scorta. Il testo precisa che i provvedimenti “cessano di avere effetto trascorsi tre anni dalla entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”. In realtà, il 41 bis subisce continue proroghe. Fin dall’inizio, pur trattandosi di una misura che avrebbe dovuto essere limitata nel tempo, si manifestano molteplici dubbi sulla sua costituzionalità ma nel 2002, in piena cultura della “tolleranza zero” e della “guerra preventiva” propagandata dagli Usa di Bush junior, viene trasformato da articolo di una norma legislativa dell’emergenza in qualcosa di permanente (legge n. 279/2002) non solo per contrastare la “criminalità organizzata” ma anche il “terrorismo”. La legge n. 94/2009, infine, produce “un rafforzamento del regime speciale, sia dal punto di vista della stabilità della sua applicazione (aumento della durata del provvedimento a quattro anni per la prima applicazione e a due per la proroga, riduzione delle possibilità di impugnazione, esclusione dell’annullamento parziale, unificazione della competenza nel Tribunale di Sorveglianza di Roma), sia dal punto di vista dell’irrigidimento delle regole di gestione (restrizione della socialità con gruppi composti da non più di quattro soggetti, rafforzamento delle misure logistiche, tra le quali il divieto di comunicazione tra appartenenti a diversi gruppi di socialità).” (“Relazione sullo stato di attuazione della legge recante “modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario” - Triennio 2009-2011). Dopo le riforme dell’istituto effettuate prima dalla legge n. 279/2002 e poi dalla legge n. 94/2009 l’applicazione del regime detentivo speciale continua comunque a restare affidata alla discrezionalità amministrativa (del Ministero della Giustizia) e applicata non quando vi siano acclarate prove di pericolosità ma nella misura in cui “si presume” non vi sia un’interruzione dei rapporti fra la persona detenuta e le organizzazioni extralegali esterne al carcere. Discrezionalità amministrativa e presunzione di pericolosità sociale colpiscono così non solo persone già condannate, alcune delle quali si riveleranno innocenti - come è successo ad alcuni ergastolani condannati per errore dell’omicidio del giudice Borsellino (19 luglio 1992) e scarcerati nell’ottobre 2011 - ma anche persone semplicemente imputate e non ancora condannate in via definitiva. Nel frattempo il regime detentivo speciale si fa sempre più mastodontico e privo di quella pur minima, discutibile e temporanea necessità che avrebbe potuto esserci dopo le stragi mafiose del 1992-1993. I tempi cambiano, la vecchia mafia viene sconfitta dalla mafia finanziaria in giacca e cravatta ben radicata nei mercati mondiali e nessuno se ne accorge. Per venti anni si ragiona come se ci fosse una sorta di effettiva e necessaria Emergenza contro la mafia agro-pastorale che non sa né leggere né scrivere! Fra il 1992 e il 2011, mentre il totale complessivo dei “Nuovi decreti di applicazione emessi nel corso dell’anno” è uguale a 2.320, la media annuale dei detenuti in articolo 41 bis è pari a 560, cifra quest’ultima in realtà mai raggiunta prima del 1999 e di gran lunga superata in anni recenti come il 2010 (680) e il 2011 (673). I “collaboratori di giustizia” emersi dopo l’esperienza del carcere duro sono invece 200, in media 10 all’anno, cioè l’1,87% sul totale medio dei detenuti in 41 bis a fine di ogni anno del periodo considerato. Analizzando i dati disaggregati vediamo però che la media è superata nettamente solo nel 1993 (5,29%), nel 1996 (4,62%), nel 1995 (4,12%) e nel 1994 (3,15%). Nel 1993, in particolare, mentre il numero di persone detenute in 41 bis (473) è chiaramente al di sotto della media ventennale, viene prodotta la quota record di 25 “pentiti” fra gli ex 41 bis. Nel 2010, al contrario, quando si determina il maggior numero assoluto di persone sottoposte al 41 bis (680), i detenuti provenienti dal carcere duro e divenuti “collaboratori di giustizia” sono 8, quindi al di sotto della media. Dopo la sovrapproduzione di “pentiti” verificatasi fra il 1993 e il 1996, il 41bis si rivela perciò inutile anche sotto il profilo della (in sé discutibile) produzione di “collaboratori di giustizia”. Nel presente appare come un dinosauro del passato che, rimanendo in vita grazie alla formalizzazione giuridico-legislativa ordinaria di una parte della legislazione dell’emergenza antimafia, più cresce meno serve e meno serve più dimostra di essere un trattamento al di fuori di ogni rispetto della dignità individuale e della nostra intelligenza collettiva. Oggi esiste una sovrapproduzione di persone detenute in 41 bis e di suicidi fra di loro. Il 41 bis ormai produce più suicidi che “pentiti”. Nel circuito carcerario italiano è la principale fabbrica della morte sociale, affettiva, relazionale e anche fisica. Nessuno, a partire dagli “intellettuali” che citano a sproposito Cesare Beccaria, faccia finta di non saperlo. Giustizia: processi da chiudere in sei anni, poi scattano gli indennizzi della Legge Pinto di Antonio Ciccia e Cristina Bartelli Italia Oggi, 27 maggio 2012 Sei anni di tempo per finire i processi, compresa la cassazione. L’accelerazione alle cause è disposta dalla bozza di decreto sulla crescita (in dirittura nei prossimi giorni), che fissa le scadenze dei singoli gradi: tre anni per il primo, due per il secondo e uno per la cassazione. Il decreto legge introduce, dunque, il processo breve ai fini del riconoscimento dell’equo compenso da processi lumaca (indennizzi della cosiddetta legge Pinto). Ma per accelerare i processi il provvedimento prevede anche un filtro agli appelli civili. Solo se il giudice ritiene che ci siano chance di accoglimento il secondo grado può andare avanti. In caso contrario il processo di appello non entra nel merito, perché il giudice di appello si limiterà a pronunciare l’inammissibilità dell’impugnazione. Vediamo nel dettaglio le novità. L’obiettivo è di accelerare il entro il quale una sentenza civile diventa definitiva e anche di deflazionare gli uffici giudiziari. Lo strumento scelto dovrebbe disincentivare dal proporre impugnazioni pretestuose e portate avanti solo per perdere tempo. Tecnicamente si aggiunge una valutazione di ammissibilità dell’appello. Non solo il giudice di secondo grado deve vagliare se l’appello è ammissibile o procedibile (si pensi alla verifica se sia stato rispettato il termine per la proposizione dell’appello); dovrà anche fare una prognosi di accoglibilità dell’appello. Se la prognosi sarà favorevole il processo va avanti; se, invece, il giudice valuterà che l’appellante non abbia chance di vincere non si passerà a valutare il merito dell’impugnazione. Quindi, come dice il nuovo articolo 348-bis (ammissibilità all’appello) del codice di procedura civile, l’impugnazione è ammessa dal giudice competente soltanto quando ha una ragionevole probabilità di essere accolta. Non è previsto, però, alcun filtro in alcune ipotesi: quando l’appello riguarda le cause matrimoniali, di separazione dei coniugi e nelle cause riguardanti lo stato e le capacità delle persone (oltre che nei giudizi in cui è previsto l’intervento del pubblico ministero); nei processi sommari di cognizione. Tra l’altro la mancata ammissione è succintamente motivata ed è ricorribile in cassazione solo in alcuni limitati casi. Il decreto fissa il processo breve ai fini del riconoscimento dell’equo compenso da processi lumaca. Si fissa un limite di durata complessivo del giudizio e si fissano limiti interni. Il calendario è il seguente: tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità. Insomma il processo deve chiudersi in sei anni. Altrimenti scatta l’indennizzo. Termini specifici sono previsti per il processo di esecuzione (tre anni) e per i fallimenti (sei anni). Il decreto specifica che si considera, comunque, rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni. Attenzione, però, perché il decreto prevede alcune esclusioni dall’indennizzo a danno di chi abusa delle possibilità che le regole processuali danno di allungare i tempi o per chi ha perso la causa. Tra l’altro nel processo penale l’imputato deve depositare un apposito atto di sollecito, se non vuole perdere il diritto all’indennizzo. Il decreto interviene a fissare la misura dell’indennizzo: da 500 euro a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, eccedenti il termine ragionevole di durata del processo. C’è anche un massimale: l’indennizzo non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice. Infine quando la domanda per equa riparazione è dichiarata inammissibile o manifestamente infondata, l’interessato potrà essere condannato al pagamento di una somma di denaro non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad euro 10.000. Quanto al procedimento è previsto che il provvedimento finale sarà adottato dal presidente della corte d’appello, o un magistrato designato (e non dal collegio). Giustizia: quel vizietto liberticida della querela… di Peppino Caldarola Gli Altri, 27 maggio 2012 Roberto Saviano ha querelato il Corriere del Mezzogiorno nella persona del suo direttore Marco De Marco chiedendo un risarcimento di quasi cinque milioni di euro. De Marco aveva contestato la veridicità di una tesi avanzata da Saviano, che l’aveva tratta da una citazione di Ugo Pirro, secondo cui Benedetto Croce aveva offerto centomila lire di risarcimento ai soccorritori del terremoto di Casamicciola nel 1883. Qualche settimana prima Corrado Formigli, per aver criticato in un servizio andato in onda su Annozero alcuni modelli Fiat, era stato citato e condannato al pagamento di una cifra superiore al milione di euro. Il tribunale ha poi deciso di sospendere l’esecutività del pagamento di questa provvisionale. A fine gennaio è toccato a me essere condannato per aver criticato in un pezzo satirico il vignettista Vauro Senesi che aveva raffigurato la parlamentare del Pdl Fiamma Nirenstein con il naso adunco e con una croce di David cucita sul vestito assieme ad un fascio littorio. Se la Corte d’appello confermerà l’esecutività della sentenza di primo grado dovrò pagare, assieme a Antonio Polito, venticinquemila euro al vignettista del manifesto. Tutto sommato mi è andata bene rispetto a Formigli e De Marco. Le tre citazioni in giudizio sono diverse sia per la natura del cosiddetto reato sia per la personalità degli offesi. Una grande azienda, un guru dell’antimafia, un uomo di satira e di sberleffi. Ciò che rende simili le tre vicende è il dato di fondo. In tutti e tre i casi siamo di fronte alla sanzione dell’esercizio della libertà di critica. Formigli ha criticato una merce, De Marco una tesi storica che molti, compresa la nipote di Croce ritengono infondata, io per aver reagito a una raffigurazione di Fiamma secondo schemi tratti dalla classica iconografia ostile agli ebrei che ha scandalizzato le comunità ebraiche di tutto il mondo fino a spingere quelle italiane a raccogliere la somma per il pagamento della provvisionale comminata dal giudice. La domanda a questo punto è questa: è possibile criticare una azienda leader, ancorché in declino, un famoso scrittore, un vignettista che usa la penna pesante contro le sue vittime? Ovvero l’azienda, lo scrittore, il vignettista hanno diritto di fare e dire mentre i loro critici devono essere zittiti? In un paese normale la questione aprirebbe una grande discussione sul tema dell’informazione e della libertà di critica. Se vi sono soggetti che vanno tenuti al riparo da una contestazione, blanda, satirica o severa, è del tutto evidente che il paese è meno libero secondo i dettami che le organizzazione dei giornalisti hanno sempre, ma in questi casi o in alcuni di questi casi, sostenuto. L’altro problema che appare davanti a noi riguarda le citazioni che riguardano De Marco e il sottoscritto. Lascio da parte la questione personale e mi dedico a quella di De Marco. Saviano si è sentito offeso dalle critiche del Corriere del Mezzogiorno. Saviano è un personaggio e un autore che io, a differenza di altri, stimo e la cui attività, letteraria e no, considero assai positiva. Ha a disposizione molti mezzi per rispondere a critiche che non gradisce. La partita fra lui e i suoi critici si può svolgere da pari a pari. Perché chiamare in campo lo Stato? Ormai là querela sta diventando non lo strumento di difesa della parte debole contro l’invadenza della parte forte e aggressiva ma il gesto intimidatorio per frenare le critiche. Non c’è dubbio che questa pratica indebolisce il diritto di critica del più forte là dove il più forte non è solo il potente di turno, politico o ras dell’economia, ma anche il guru dell’informazione o il vignettista di moda. Vien fuori un’idea di insindacabilità che fa tremare le coscienze e soprattutto trasforma il dibattito pubblico, che deve essere anche urticante, in una eterna querelle giudiziaria. Lasciatemelo dire poi in fondo: non c’è niente di più penoso di un giornalista che querela giornalisti. Affrontiamoci armi alla pari e l’opinione pubblica decida. Anche perché visibilmente Saviano è più forte del Corriere del Mezzogiorno in quanto ha più lettori e più telespettatori, così come Vauro è più forte del sottoscritto perché le sue comparsate da Santoro hanno più spettatori dei lettori del vecchio Riformista. Hanno viceversa scelto di rivalersi per ottenere il silenzio. Cioè quell’atteggiamento che considerano negativo nella vita civile. Giustizia: alta cucina in carcere, in oltre 60 penitenziari sanno farla Ansa, 27 maggio 2012 A Napoli i corsi per diventare pizzaioli, mentre a Torino, nella casa circondariale Lorusso e Cutugno, c’è una torrefazione rinomata che lavora chicchi di caffè presidio Slow Food e seleziona cacao per poi fornire miscele tostate e “sbarrette” di cioccolato ai negozi più in voga nel mondo gourmet. Crescono la produzione alimentare di provenienza carceraria, e l’attenzione del pubblico, ma anche della critica di settore, per il fenomeno che ormai trova esempi in oltre 60 penitenziari italiani. In alcuni casi con produzioni squisite, come la pasta di mandorla realizzata dai detenuti di Siracusa o la “cucina galeotta”, tema della gara di ieri tra detenuti della casa circondariale di Rebibbia, a Roma. Secondo una recente rielaborazione Gambero Rosso, su dati Aiab, in una sessantina di penitenziari sono circa 400 i reclusi impegnati nel food & wine, ai quali vanno aggiunti i circa 220 delle colonie agricole, dalla Sardegna all’isola di Gorgona, che rappresentano il 4,4% della popolazione carceraria che lavora. A questi numeri si devono aggiungere le aziende agricole, le Onlus, le cooperative che ospitano ex carcerati e detenuti in articolo 21, quelli che svolgono attività lavorative fuori dell’istituto. Numeri poco ‘ristretti’ dunque, che comprendono anche attività artigianali, di ristorazione e del catering. Nel pieno rispetto delle tipicità di territorio. A Sulmona per l’aglio rosso, a San Gimignano per lo zafferano, le uova di quaglia a Milano Opera, e ovviamente a Pozzuoli per il caffè “Lazzarelle”. Con nomi di fantasia che indicano tanta libertà almeno di pensiero, come i vini del carcere di Velletri: Fuggiasco, Le Sette Mandate, Recluso, Fresco di Galera. E il “Valelapena”, un corroborante vino rosso frutto della vigna di un ettaro nella casa circondariale G. Montalto ad Alba (Cuneo). A Rebibbia detenuti in gara di “cucina galeotta” Si cucina secondo le regole della cucina in cella, e quindi con coltelli e ferraglia al bando, ma è gara vera. Di sapori e di fantasia. I detenuti della casa circondariale di Rebibbia, alla periferia di Roma, italiani e stranieri, hanno cominciato presto, nel cortile del carcere, a improntare un pasto, con ingredienti dei rispettivi territori di provenienza, consegnati oggi per l’occasione, e utensili ricavati da barattoli e scatolame, che, per chi s’arrangia e sa vivere d’ingegno, possono diventare grattugie e scolapasta. Le pentole ci sono, ma nei formati mini consentiti. L’obiettivo è presentarsi a mezzodì davanti a una giuria di esperti - tra i giurati il magistrato di sorveglianza, la direzione del carcere e la giornalista Ansa che scrive - per vincere la gara di cucina galeotta. Ma soprattutto per vivere una giornata piena di sapori di casa, in una mattinata di scambio con la società oltre le sbarre. Per un convivio che ha anche il buon sapore dell’orgoglio e della condivisione. Sono otto le squadre i gara, tra le quali la “Rappresentanza dell’Africa unita”, il “Venezuela” e il “Magreb”, in questa iniziativa “Incontro tra i popoli” promossa da una dozzina di anni dall’associazione Vic-Volontari in Carcere. Hanno vinto la squadra della “Fraschetta”, per il gusto, il “Venezuela”, per l’estetica del piatto, e gli “Amici per sempre”, per l’originalità della pietanza. Latina: autopsia sul detenuto morto, decesso avvenuto per arresto cardiaco www.latinatoday.it, 27 maggio 2012 L’esame sulla salma del giovane deceduto giovedì mattina nel carcere di via Aspromonte ha evidenziato un infarto: si indaga sulle cause. Esclusa la morte violenta. Non ha completamente chiarito le cause che lo hanno portato alla morte, ma l’autopsia ha posto comunque degli elementi chiari: il decesso di Fabrizio Fabrizio Guadalaxara, di Formia ritrovato senza vita venerdì mattina nel carcere di via Aspromonte a Latina è avvenuto per arresto cardiocircolatorio. Un fatto insolito per un 28enne, ma che potrebbe esser legato ad altri fattori. Per questo motivo sono state disposte ulteriori indagini, come l’analisi tossicologica sul cadavere. L’autopsia ha comunque escluso una morte violenta. Questo, dunque, l’esito dell’esame autoptico richiesto dal sostituto procuratore Gregorio Capasso ed effettuato ieri pomeriggio presso l’obitorio del cimitero comunale di Latina dal medico legale Riccardo Buchicchio. La procedura è durata circa 3 ore ed è stata svolta in presenza del medico di parte nominato dalla famiglia del giovane deceduto. Il cadavere di Fabrizio è stato ispezionato per risalire alle cause del decesso, sopraggiunto poco ore dopo il suo arresto per un furto di 500 euro commesso ai danni di alcune addette alla pulizia presso il palazzo municipale di Formia. Il ragazzo, con precedenti penali e problemi di droga, era stato processato e condannato per direttissima mercoledì pomeriggio. Subito dopo era stato aggregato al carcere di Latina. Secondo una prima ricostruzione, il giovane dopo l’arresto aveva avuto una crisi nervosa ed era stato sedato, con metadone, presso il Sert dell’ospedale di Formia prima di essere trasferito in carcere. Poi l’improvvisa morte. Vicenza: paura per tubercolosi in carcere, un magrebino di 32 anni all’origine del caso Giornale di Vicenza, 27 maggio 2012 Esplode il timore per il contagio tra agenti di polizia penitenziaria. Da ieri le visite per i più a rischio. Tolio (Ulss): “Situazione sotto controllo”. Un caso di tubercolosi in carcere. Il malato, un uomo di colore, un nordafricano di 32 anni, pare un magrebino, non è più a Vicenza, è stato scarcerato un mese e mezzo fa ma la preoccupazione esplode fra gli agenti di polizia penitenziaria che lavorano all’interno della casa circondariale di San Pio X. Stefano Tolio, dirigente dell’unità operativa di sanità penitenziaria dell’Ulss, ha disposto da ieri le visite mediche per i 30 detenuti ritenuti più a rischio per essere venuti a contatto con l’extracomunitario. Sono i 16 compagni di cella che si sono alternati accanto a lui nei 6 mesi in cui è rimasto a Vicenza, ma anche altri 14 reclusi che lo hanno affiancato nelle lezioni della scuola interna. Lunedì inizieranno i prelievi. Gli eventuali positivi ai test verranno sottoposti alla radiografia del torace, l’esame definitivo per accertare la presenza della malattia. Quando, ieri mattina, il direttore del carcere Fabrizio Cacciabue, durante la conferenza dei servizi con i responsabili dei reparti, ha comunicato cosa era accaduto, il disorientamento è stato generale. “Del resto - spiega l’agente scelto Francesco Colacino, segretario nazionale del sindacato Cnpp, il Coordinamento della polizia penitenziaria - come si fa a restare tranquilli dinanzi a una notizia del genere? Ai controlli fatti fra i colleghi del carcere di Verona il 30 per cento del personale è risultato positivo al virus della tubercolosi. Qui c’è gente sposata, ci sono padri di famiglia. Ovvio che si pensa al contagio, al pericolo di infettare moglie e figli. Vogliamo capire quale sia il rischio, ma soprattutto chiediamo che lo screening si faccia subito. Invece, ci parlano di settembre”. Insomma, c’è allerta, ma Tolio, responsabile dell’assistenza dei detenuti da quando, tre anni fa, questa particolare competenza per legge è passata dal ministero della giustizia al ministero della salute, mette in guardia da allarmismi e paure eccessive. “Capisco il panico che la notizia può aver generato ma la situazione è sotto controllo. Noi sapevamo del problema, due giorni fa io e il collega infettivologo Vinicio Manfrin avevamo riferito al direttore del carcere, e si era già deciso cosa fare. Dovevamo dare delle priorità e abbiamo scelto subito coloro che rischiano di più, anche perché a giugno, in base a un protocollo regionale, faremo uno screening sistematico a tutta la popolazione carceraria. Stiamo solo aspettando che arrivi l’apparecchio radiologico portatile che l’Ulss ha acquistato”. Ma come è stato scoperto questo caso di tbc? “Il sospetto che questo extracomunitario fosse malato - dice Tolio - ce l’avevamo da tempo. Così gli abbiamo fatto un controllo all’interno del carcere che, però, è risultato negativo. Fuori del San Pio X l’uomo è stato visitato in ospedale, e a questo punto il test ha dato esito positivo. Il primario di malattie infettive del S. Bortolo Giampietro Pellizzer lo ha ricoverato”. È il primo caso di tbc che viene scoperto al San Pio X: “Ogni tanto - spiega Tolio - ci arriva qualche segnalazione da altre case di custodia. L’ultimo riguardava un detenuto che a Regina Coeli era venuto a contatto con un malato. Abbiano effettuato subito i controlli ma l’uomo non aveva nulla. La guardia è e deve restare molto alta. La tbc in carcere non è un evento eccezionale. La probabilità di contrarre la tbc è 30-40 volte superiore rispetto alla media nazionale. La causa? Il sovraffollamento. Per questo ora puntiamo a un’assistenza garante dei diritti dei detenuti. È una sfida”. I dipendenti in subbuglio “Un atto gravissimo, il direttore ci doveva avvisare”. I 156 addetti alla sicurezza della polizia penitenziaria, oltre ai 25 dipendenti ministeriali sono in subbuglio per la notizia della presenza di detenuti affetti di tubercolosi. L’attacco arriva da Leonardo Angiulli, segretario del triveneto Uil polizia penitenziaria. “Le verifiche mediche all’interno del San Pio X - spiega Angiulli - sono iniziate dai detenuti e non dal personale, Lo consideriamo un gesto inaccettabile. Il rischio contagio è elevato, i detenuti hanno un rapporto con l’esterno continuo. Con avvocati, volontari e assistenti sociali”. Tutto era iniziato alle 8 di ieri mattina quando il direttore Fabrizio Cacciabue ha comunicato sulla bacheca che ci sarebbero state informazioni sulla situazione igienico-sanitaria. “Non comunicando però al personale che l’Ulss aveva riscontrato che un detenuto giunto in ospedale aveva incubato la tubercolosi in carcere”. A questo punto è allarme e lo scontro sembra solo agli inizi. Lecce: carcere al “collasso”, i detenuti sono più del doppio rispetto ai posti disponibili di Stefano Lopetrone La Gazzetta del Mezzogiorno, 27 maggio 2012 Sembra sempre più vicino alla tollerabilità, il supercarcere di Lecce. Alla voce sovraffollamento spunta fuori una percentuale risibile, rispetto al can can messo in piedi periodicamente da attivisti, parenti dei detenuti e stampa: 14,9 per cento. Sembrerebbe tutto sommato un dato sopportabile. Ma come insegnano i docenti di ragioneria e diritto, nelle scritte piccole c’è il senso vero dei documenti. È solo spostando l’occhio alla nota che si comprende la reale portata del fenomeno: quel numero a due cifre si intende rispetto alla cosiddetta capienza tollerabile. Peccato che un carcere si costruisca pensando alla capienza ordinaria: un detenuto, una cella da 9 metri quadrati. Rispetto a questo parametro la percentuale di sovraffollamento è a tre cifre: 101,4 per cento. Da togliere il respiro. A Borgo San Nicola vive il doppio delle persone che la struttura carceraria potrebbe ospitare. Il dato è allarmante. Emerge dall’ultimo monitoraggio effettuato dal Comando di Polizia penitenziaria lo scorso 16 maggio, poco prima della visita di sabato 19 maggio di alcuni parlamentari (la senatrice Adriana Poli Bortone e la deputata radicale Elisabetta Zamparutti) e del segretario nazionale di “Nessuno tocchi Caino”, Sergio D’Elia. In quell’occasione si volevano capire le ragioni che indussero un detenuto rumeno di 38 anni, Virgil Cristria Pop, ad un ostinato sciopero della fame che ne provocò la morte per denutrizione 50 giorni dopo (il 13 maggio). La delegazione all’uscita dal penitenziario snocciolava numeri che in realtà si aspettava più catastrofici. In effetti in altri periodi, per esempio l’estate di fuoco del 2010, la popolazione detenuta sfiorò le 1.500 presenze, mentre sabato scorso era ferma a quota 1.325. La questione però è molto più pericolosa. Anche perché il comando di polizia penitenziaria è sempre sotto numero: il 10 per cento in meno rispetto all’obsoleta pianta organica disegnata nel 2001. Dal monitoraggio emergono dati molto interessanti sulla popolazione detenuta. Sono ospitati 1.244 uomini e 81 donne. Gli stranieri sono complessivamente 334 (321 maschi e 46 femmine); i tossicodipendenti 70. Nel blocco dell’alta sicurezza vivono 275 persone, tra essi anche un collaboratore di giustizia. Impressionante il numero di esponenti della criminalità organizzata: 172. Molti appartengono alle maggiori organizzazioni criminali di stampo mafioso: 32 provenienti dalla mafia siciliana, 14 dalla ‘ndrangheta, 51 dalla camorra, 23 dalla Sacra corona unita. Provengono da altre realtà territoriali italiane le 52 unità restanti. Al termine della visita dello scorso 19 maggio, la delegazione censurò un numero: il 40 per cento dei detenuti di Borgo San Nicola è in attesa di giudizio. In effetti a Lecce sono ospitate 547 persone in assenza di una sentenza in giudicato, il 41,4 per cento dell’intera popolazione. Per mancanza di fondi e di personale si fa poco, molto poco, riguardo le attività tratta mentali: probabilmente l’aspetto più importante della detenzione, quello che dovrebbe davvero qualificarla e “allinearla” al principio costituzionale del reinserimento in società. Restano escluse da quanto programmato nel carcere centinaia di prigionieri: complessivamente 270 persone sono impegnate in corsi scolastici (4 corsi di scuola elementare, 5 di scuola media inferiore, pluriclassi di biennio in ragioneria e un corso completo di istituto tecnico commerciale) e 233 in attività lavorativa domestica (più 5 impiegati nel laboratorio di pasticceria “Buoni dentro”). Nessuno dei lavoratori è però stato ammesso al lavoro esterno, come previsto dall’ordinamento penitenziario: solo 38 detenuti hanno beneficiato di permessi premio. A completare l’universo delle attività tratta mentali anche diversi corsi di teatro, un laboratorio editoriale, uno di pittura e vari progetti nel braccio femminile (da Officina Creativa, con i suoi prodotti Made in Carcere pronti a sbarcare negli States, ai progetti terapeutici e psicologici). I numeri di una situazione critica Nel linguaggio tecnico, si chiamano “eventi critici”. La polizia penitenziaria deve gestirne decine al giorno. Tra suicidi, molti tentati e purtroppo qualcuno riuscito, aggressioni, atti di autolesionismo ed altre criticità, gli agenti (come anche i medici, gli infermieri e tutto il personale del carcere) hanno dovuto affrontarne 337 solo nei primi quattro mesi dell’anno. Impressionante il numero dei tentati suicidi e degli atti di autolesionismo: 26 i primi, 65 i secondi. Nell’ultimo triennio si contano 4 suicidi riusciti (2 nel 2010, 1 nel 2009 e nel 2011), 5 morti per cause naturali, 142 tentati suicidi, 710 gli atti di autolesionismo. Meno gravi del previsto i dati sullo sciopero della fame. Negli ultimi 16 mesi il picco più alto si è avuto a marzo del 2011: 193 giorni complessivi di sciopero per una media di 6,2 detenuti al giorno impegnati nella forma di protesta. Quest’anno sono già 5 i casi di aggressione subiti dalle guardie. E sulla condizione degli agenti penitenziari è giusto aprire un capitolo a parte. La pianta organica prevede l’impiego di 766 unità, suddivise tra personale direttivo (3), ispettori (80), sovrintendenti (76) agenti e assistenti (607). In realtà l’organico amministrato rispetta solo i parametri relativi al personale direttivo. Tutte le altre voci sono deficitarie: 50 ispettori (il 37,5 per cento in meno), 59 ispettori (22,5 in meno), 585 agenti e assistenti (4 in meno), per un totale di 697 unità in meno, pari ad una carenza d’organico del 9 per cento. Difficile dire che cosa succederebbe se questi lavoratori già stressati in questa situazione, dovessero badare anche ad un nuovo padiglione senza ulteriori assunzioni. Sarà pronto entro un anno un padiglione da 300 posti Entro un anno la popolazione detenuta di Borgo San Nicola potrà trarre giovamento dalla costruzione di un nuovo reparto. Una vera e propria manna dal cielo, visti tutti i problemi di sovraffollamento che angosciano la struttura (e di cui trattiamo a parte). Lo ha annunciato il direttore generale del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Puglia, Giuseppe Martone a margine del convegno su “Carcere, tra malesseri fisici e legislativi”, organizzato venerdì a Taranto dalla Camera penale. La soluzione, che alleggerirà il carico sulle celle già esistenti, arriva dal piano carceri del governo Berlusconi: 11 nuovi istituti penitenziari e 20 padiglioni in strutture al collasso (per un totale di 9mila 150 posti in più). Lecce rientra nel novero delle strutture da implementare. Il nuovo padiglione ospiterà 200 ristretti. Il che significa che la capienza ordinaria salirà a breve a quota 856, mentre quella tollerabile sfiorerà le 1.600 unità. Letta a caldo questa risposta al problema del sovraffollamento farebbe crollare tutti i dati odierni sul sovraffollamento. Ad esempio i dati esposti nelle tabelle e negli articoli pubblicati in questo servizio scenderebbero in maniera vistosa: la nuova struttura consentirebbe infatti di azzerare il sovraffollamento sulla capienza tollerabile (oggi al 14 per cento) e dimezzare quella calcolata sulla capienza ordinaria (oggi superiore al 100 per cento). A ben vedere però, senza un adeguato piano di assunzioni, la nuova costruzione rischierebbe di essere controproducente. Il precedente governo aveva programmato 1.800 nuovi posti di lavoro: a Lecce ne servirebbero almeno 70, tra agenti penitenziari e staff (psicologi, medici, personale di servizio). Il guaio è che tre anni fa non si faceva i conti con la crisi di liquidità dello Stato. Purtroppo la fase storica e la congiuntura economica sono radicalmente cambiate. Oggi a parlare di assunzioni nel settore pubblico si rischia il linciaggio. Tutto ciò nonostante l’atavica carenza di personale. Certo, sarebbe davvero un peccato se si procedesse alla costruzione e poi il nuovo braccio restasse chiuso per assenza di unità lavorative. Senza un adeguato piano di assunzioni, l’intero programma rischia di diventare insostenibile. D’altro canto, la rinnovata sensibilità intorno alle condizioni disumane in cui sono costretti a vivere i detenuti sta producendo effetti anche dal punto di vista giurisprudenziale: lo scorso anno il Tribunale di Sorveglianza riconobbe il risarcimento del danno ad un detenuto di Lecce, difeso dall’avvocato Alessandro Stomeo, per trattamento disumano. In linea teorica la stragrande maggioranza dei ristretti potrebbe intavolare una causa di questo tipo: e per lo Stato sarebbe comunque un salasso. Guardando l’entrata principale del carcere, il nuovo padiglione dovrebbe essere costruito a destra, in una delle tante, ampie aree verdi ora inutilizzate. I 200 nuovi posti, che con tutta probabilità diventeranno 400 in base al poco condivisibile parametro della capienza tollerabile, saranno spalmati su due livelli: piano terra e primo piano. La gara è stata già bandita dal Ministero di Giustizia. Il nuovo plesso dovrebbe sorgere entro un anno, fatte salve le grane burocratiche sempre dietro l’angolo in questi casi. Ancona: Sappe; una decina di detenuti trasferiti, sindacalista continua sciopero fame Ansa, 27 maggio 2012 Una decina di detenuti sono stati trasferiti dal carcere di Montacuto di Ancona ad altri istituti di pena. Lo rende noto il Segretario regionale del Sappe, Sindacato della polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, in sciopero dalla fame da giorni per protestare contro la situazione drammatica di sovraffollamento del carcere anconetano, dopo un suicidio e un atto autolesionistico. “Il trasferimento - spiega - non cambia nulla, perché si limita a spostare il problema da Ancona a qualche altra parte”. Intanto con lo sciopero della fame - “tre cappuccini al giorno, ho perso un chilo e mezzo, ma il dottore mi dice di non contare né i chili né i giorni, altrimenti tutto è più difficile” - secondo Di Giacomo, “a parte tanti attestati di solidarietà, poco o nulla si è mosso”. Anzi, “è successa una cosa assurda, è stato designato un direttore generale per il carcere di Barcaglione (sempre nel capoluogo marchigiano, ndr), 80 celle dove ora si trovano una ventina di detenuti, con l’incarico di portarlo a pieno regime. Lì - spiega l’esponente del Sappe - al massimo potranno trovare posto un centinaio di detenuti e c’è già una norma nazionale che dispone la chiusura entro l’anno delle strutture carcerarie con meno di 100 reclusi”. Insomma, “l’amministrazione si muove in modo confuso”. Di Giacomo intende continuare la sua protesta a oltranza” o almeno finché “il mondo politico continuerà a disinteressarsi del problema carceri e di Montacuto, afflitto da sovraffollamento, carenza di guardie carcerarie e di altro personale, in primis gli educatori”. Ci sono anche problemi di ordine sanitario, “dato che uno dei detenuti è risultato affetto da Tbc ed è ricoverato da 8 giorni”. Per tutti questi motivi, il Sappe - annuncia - diserterà la festa regionale della polizia penitenziaria, che si terrà ad Ancona il 29 maggio. Catania: nessuno vuole assumere ex detenuti, nemmeno a costo zero di Giovanna Quasimodo La Sicilia, 27 maggio 2012 Il volontariato trova fondi per almeno otto borse di lavoro, ma gli sforzi rischiano di naufragare. L’appello di don Giammello “Solidarietà verso chi ha sbagliato”. Sono già otto, ma presto se ne potrebbero aggiungere altre, le borse di lavoro a beneficio di altrettanti ex detenuti - selezionati ovviamente tra coloro che hanno manifestato volontà di riscattarsi - che i volontari del progetto “Art. 25, terzo comma” sono riusciti a finanziare grazie a una serie di iniziative di solidarietà. Si tratta di aspiranti lavoratori già formati, ma nessuno (fino a questo momento) vuol dargli un posto a causa di una serie di pregiudizi che francamente non sono comprensibili. Il progetto oltretutto tutto è a “costo zero” per i datori di lavori in quanto finanzia, non solo il salario di questi potenziali lavoratori, ma ovviamente anche tutte le coperture previdenziali e le polizze infortuni e responsabilità civile per conto terzi. Si tratta di borse di lavoro che prevedono l’assunzione di una persona per sei mesi, con l’unico impegno, da parte del datore di lavoro, di accogliere il borsista e trasmettergli null’altro che competenze. Il progetto è stato lanciato nel novembre scorso dalla Cooperativa Orizzonte lavoro e vi hanno aderito diversi partner, espressioni del privato sociale, delle istituzioni locali e della società civile. La scommessa era, ed è, quella della creazione di un laboratorio permanente sul reinserimento sociale degli ex detenuti, nel pieno spirito del dettato costituzionale secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, un problema che, vuoi o non vuoi, si riflette sulla società in cui viviamo. Ma se la Carta costituzionale ci insegna che lo Stato deve fare di tutto per instradare gli ex carcerati al reinserimento sociale, non si spiega perché mai debba essere la Società invece a respingerli. “Il lavoro - osserva don Enzo Giammello, presidente della Coop Orizzonte lavoro - sta al primo posto in fatto di reinserimento e noi abbiamo il dovere di dare a tutti una chance, anche a chi ha sbagliato, perché se non ci mostriamo solidali, il problema degli ex detenuti si ritorcerà contro noi stessi. L’uomo non è il suo errore, le due cose spesso non coincidono, se uno sbaglia non significa che dovrà continuare a sbagliare per sempre”. “Le persone che accedono al nostro Centro - spiega ancora don Enzo - sono ex detenuti, o in regime di semilibertà o persone sottoposte alle misure preventive alternative al carcere, che hanno voglia di reinserirsi legalmente nel sociale. Essi arrivano da noi, che organizziamo appositamente per loro alcuni corsi di formazione in cui essi apprendono la cultura del lavoro; inoltre gli insegniamo come potersi barcamenare in futuro nella ricerca di un lavoro legale valorizzando le esperienze acquisite. Si tratta di persone d’età che varia tra i 17 e i 35 anni. Inoltre, i nostri ex detenuti, verranno assistiti, anche nel loro percorsi di borsisti da un nostro tutor”. “Rivolgiamo dunque un appello alle aziende e alle associazioni datoriali, soprattutto a quelle imprese che si dicono “socialmente responsabili. Qualsiasi impresa va bene, un po’ meno quelle del settore commerciale, l’importante è che il lavoro da offrire sia di carattere manuale”. Don Enzo ha scolpite nella mente le parole di Don Bosco e le rammenta: “In ogni persona esistono tanti punti accessibili al bene, a noi tocca scoprire questi punti e fare leva su questi”. Catania resterà sorda a questo appello? L’associazione degli industriali e datoriali in genere, l’Ance, le singole imprese private continueranno a girar la testa dall’altro lato? (L’indirizzo del Centro Orizzonte, referente del progetto, è via Galatola 16, il telefono 095/320054) Bologna: interrogazione Lega in Consiglio comunale su annullamento nomina Garante Dire, 27 maggio 2012 Nessun danno erariale al Comune per la nomina della garante ai detenuti, Elisabetta Laganà, cancellata dal Tar dell’Emilia per incompatibilità. Lo ha assicurato venerdì al question time la vicesindaco Silvia Giannini. Ma la Lega nord attacca: “Abbiamo perso tempo e sprecato risorse”. Infatti per arrivare alla nomina di Laganà sono stati necessari un bando pubblico e una lunga serie di riunioni in commissione e in Consiglio, dove tra l’altro l’ipotesi di incompatibilità per l’ex esperta del Tribunale di sorveglianza era stata presa in considerazione. “Chiederemo un’istruttoria su tutta questa triste partita, perché vedere il Tar che annulla ciò che abbiamo fatto in Consiglio comunale a me non fa piacere”, attacca il capogruppo del Carroccio Manes Bernardini. “Chiederemo una commissione ad hoc - annuncia - per verificare tutte le dichiarazioni fatte in commissione e in Consiglio, i verbali, la sentenza del Tar e verificare le responsabilità”. Giannini in aula ha spiegato che la dirigenza aveva valutato la presenza dei requisiti di ogni candidato, “fermo restando l’esclusiva competenza del Consiglio comunale in ordine alla scelta fiduciaria della persona da nominare”. Alla fine, “non si è ritenuto di escludere dall’esame della competente commissione consiliare il curriculum della candidata Elisabetta Laganà, in possesso della qualifica di esperto del Tribunale di sorveglianza, in quanto si è valutato che, in assenza, nell’ordinamento generale, di espresse norme di legge che ne sancissero l’equiparazione e la qualificazione di esperto non potesse essere assimilata, sul piano esegetico, a quella di magistrato addetto al tribunale, unica categoria, quest’ultima, prevista per legge come causa di ineleggibilità alla carica”. Question time La vicesindaco Silvia Giannini ha letto in aula, in sede di Question time, la risposta dell’assessore alla Legalità Nadia Monti, alla domanda d’attualità del consigliere Manes Bernardini (Lega nord) sull’ineleggibilità del Garante per i diritti delle persone private della libertà personale. La domanda d’attualità del consigliere Manes Bernardini (Lega nord) “La stampa riporta l’esito della sentenza del Tar Bologna riguardante l’ineleggibilità della dott.ssa Laganà a garante per i diritti delle persone private della libertà personale, perché, al momento della nomina, era componente del Tribunale di Sorveglianza, e, quindi, aveva una carica incompatibile, per legge, con la nomina. A questo proposito chiedo al signor Sindaco quali provvedimenti intenda adottare in relazione al fatto che la deliberazione PG 245817/2011 Odg 103/2011, votata dal Consiglio comunale, riportava il parere favorevole in ordine alla regolarità tecnica della medesima da parte del dirigente che ci garantiva la correttezza di quello che veniva votato e al fatto che, oggi, in virtù della L 35/2012, le sentenze sfavorevoli all’Amministrazione sono trasmesse, direttamente, alla Corte dei Conti che apre un fascicolo per rilevare l’esistenza di un danno erariale (forse, in questo caso, le spese di giudizio)”. La risposta dell’assessore alla Legalità Nadia Monti “Ai sensi dell’art. 49 Tuel le deliberazioni degli enti territoriali locali contengono due pareri: Il parere di regolarità tecnica del responsabile del servizio interessato e l’eventuale parere di regolarità contabile da parte del responsabile di ragioneria. Il primo è richiesto per atti deliberativi il cui contenuto non abbia ad oggetto meri indirizzi, il secondo quando dalla deliberazione discendano effetti finanziari come impegni di spesa o diminuzione di entrata non previsti nella programmazione generale dell’ente. Nel caso della nomina del Garante delle persone private della libertà personale, il parere di regolarità tecnica del dirigente attesta la regolarità della procedura di nomina del Garante, fermo restando l’esclusiva competenza del Consiglio comunale in ordine alla scelta fiduciaria della persona da nominare e alla previa valutazione sull’idoneità del soggetto ad esercitare la carica da ricoprire. Nel corso della procedura, le domande ed i curricula pervenuti, prima di essere trasmessi alla competente Commissione consiliare per la oro valutazione, sono stati esaminati dal dirigente dello staff del Consiglio comunale, responsabile del procedimento, per accertare la regolarità formale della documentazione presentata da coloro che hanno espresso la propria candidatura e la conformità della medesima documentazione ai requisiti richiesti nell’avviso pubblico sottosritto dalla Presidenza del Consiglio. In tale ambito, sono state esaminate le dichiarazioni rese dai candidati in merito al possesso dei requisiti di eleggibilità ed incompatibilità, richiesti dalla normativa vigente ed espressamente richiamati nell’avviso pubblico. Non si è ritenuto di escludere dall’esame della competente Commissione consiliare il curriculum della candidata Elisabetta Laganà, in possesso della qualifica di esperto del tribunale di sorveglianza, in quanto si è valutato che, in assenza, nell’ordinamento generale, di espresse norme di legge che ne sancissero l’equiparazione e, tenuto conto del generale divieto di applicazione analogica od estensiva delle cause di ineleggibilità ed incompatibilità, la qualificazione di “esperto” non potesse essere assimilata, sul piano esegetico, a quella di “magistrato addetto al tribunale”, unica categoria, quest’ultima, prevista per legge come causa di ineleggibilità alla carica. La questione è emersa nel corso dell’istruttoria avanti la competente Commissione consiliare e, sentito il parere favorevole del Segretario, in virtù del ragionamento sopra espresso, per il quale l’incertezza sulla sussunzione della qualifica di “esperto del tribunale di sorveglianza” nella fattispecie di cui all’art. 60, comma 1, lett. 6 era tale da pregiudicare in senso negativo alla legittima aspettativa della candidata di partecipare alla selezione per la nomina del Garante, la candidatura è stata ammessa dalla Commissione consiliare, la quale a sua volta ha ritenuto, nell’esercizio della propria discrezionalità, di inserire il nominativo nella terna di candidati maggiormente idonei a ricoprire la carica, da sottoporre al Consiglio comunale per l’elezione. In merito al profilo di danno erariale, è opportuno precisare e portare all’attenzione del consigliere Bernardini che lo stesso collegio del TAR Emilia Romagna, compensate le spese di giudizio, ha riconosciuto la novità dalla questione (non esistono pronunce, precedenti giurisprudenziali, nel merito, anzi l’unica sentenza della Cassazione citata incidenter tantum dal consigliere estensore si riferisce ad una carica diversa da quella dell’esperto di sorveglianza) ed il carattere interpretativo della controversia, tanto nella fase di pronuncia dell’ordinanza cautelare di rigetto della sospensiva quanto nella fase di pronuncia della sentenza di merito. Il Comune non deve quindi rifondere, a tale titolo, alcuna spesa. Per quanto riguarda la fattispecie della nomina annullata con sentenza, non vi è dubbio che essa non può avere ulteriori effetti per il futuro. Laganà deve altresì come utiliter data considerato l’affidamento (buona fede) della medesima nella legittimità della procedura adottata. Né può dirsi che l’annullamento della nomina possa costituire un danno economico dell’ente in quanto tutti i soggetti che hanno partecipato alla selezione avevano un interesse legittimo alla correttezza della procedura e una mera chance di essere nominati considerata la discrezionalità di una nomina fiduciaria da eseguirsi con votazione a scrutinio segreto da parte del Consiglio comunale”. Roma: protocollo d’intesa tra l’Ordine degli Avvocati di Roma e il Garante dei detenuti www.civitanews.it, 27 maggio 2012 Il Sindaco Gianni Alemanno firmerà il giorno martedì 29.05.2012 alle ore 13.30 presso la Sala delle Bandiere in Campidoglio il Protocollo d’intesa tra Roma Capitale, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Avv. Filippo Pegorari e il Presidente dell’ordine degli Avvocati di Roma Avv. Mauro Vaglio. Si tratta del primo esempio in Italia. Con la firma di questo Protocollo d’Intesa avrà inizio una nuova attività di tutoraggio a favore dei detenuti iscritti alla facoltà di giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma. Prestigiosi Avvocati si alterneranno in una serie di lezioni che avranno ad oggetto le materie d’esame dell’intero corso di studi. Il Consiglio darà vita ad uno “sportello permanente di consultazioni” a favore dei detenuti, al quale questi ultimi potranno rivolgersi per chiarimenti e consigli su problematiche di loro interesse, ivi incluse quelle riguardanti il diritto di famiglia, successioni, adozioni, locazioni ed altro; in altre parole, problemi che spesso assillano i detenuti perché coinvolgono gli interessi delle loro famiglie. Anche quest’opera, come quella di tutoraggio, sarà svolta gratuitamente e, conformemente con le norme deontologiche, senza assumere alcun mandato professionale. Un impegno, questo del Consiglio dell’Ordine, che viene assunto nel segno della tradizione degli Avvocati romani che li ha visti sempre in prima fila a sostegno delle aree disagiate e bisognose della popolazione romana. Come ha più volte ricordato il Sindaco Alemanno, anche i detenuti sono parte integrante e sostanziale del popolo di Roma e meritano particolare attenzione proprio in conseguenza della loro condizione di persone private della libertà personale; quella attenzione che oggi si manifesta nel campo dello studio, così come è già avvenuto in altri campi: mi piace ricordare che, in occasione dell’esposizione “Evasioni Romane”, il Sindaco ebbe a dichiarare Roma Capitale partner commerciale delle attività produttive dei detenuti organizzati in cooperative sociali. Siracusa: detenuto tenta il suicidio in cella, salvato in extremis da un agente Live Sicilia, 27 maggio 2012 Un agente della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di contrada Cavadonna, a Siracusa, ha sventato la notte scorsa il suicidio di un giovane detenuto marocchino. È accaduto intorno alle 2.30 in una sezione protetta della struttura carceraria. Lo ha reso noto il vice segretario nazionale dell’Osapp Mimmo Nicotra. Il detenuto ha tentato di soffocarsi con la cintura dell’accappatoio dopo averla legata alla finestra della sua cella. Dopo l’intervento dell’agente l’extracomunitario è stato rianimato dal personale medico in servizio nel carcere. Il detenuto, ora sorvegliato a vista, è ora in buone condizioni di salute. “Ancora una volta - ha commentato Nicotra - la professionalità della polizia penitenziaria ha evitato il peggio. Il mese scorso a Siracusa i detenuti della sezione alta sicurezza hanno protestato anche per il freddo, perché i termosifoni erano spenti a causa assenza di risorse”. “Nonostante la grave carenza di personale di polizia penitenziaria - ha concluso - continuiamo a fornire sicurezza ai cittadini. Al dipartimento perdono ancora tempo e ritardano l’assegnazione delle unità di polizia penitenziaria che spettano alla Sicilia dall’ultimo concorso”. Reggio Emilia: Sappe; segnalati tre episodi di colluttazioni tra detenuti magrebini Adnkronos, 27 maggio 2012 “Sono stati segnalati tre episodi di colluttazioni tra detenuti magrebini nel carcere di Reggio Emilia: l’ultimo episodio si è verificato ieri. Grazie al lavoro della polizia penitenziaria gli episodi sono stati contenuti e non sono sfociati in rissa”. Ne dà notizia il Sappe, sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria. “Ci sono agenti -rileva Giovanni Battista Durante, Segretario generale aggiunto del Sappe- che da tempo attendono risposte a richieste riguardanti problemi personali anche gravi, ma sembra che nessun dirigente assuma determinazioni, anche a seguito dei solleciti che arrivano dal sindacato e dagli uffici competenti. Riteniamo sia giunto il momento di individuare un Provveditore in Emilia Romagna, considerato che da tempo sono stati nominati tre dirigenti generali che sono in attesa di essere assegnati nelle rispettive sedi”. “Ma, in Emilia Romagna - conclude - forse è anche giunto il momento di svecchiare gli uffici del provveditorato regionale, assegnando dirigenti giovani e motivati. Chiediamo al ministro della Giustizia Paola Severino e al capo del Dipartimento Giovanni Tamburino di porre la dovuta attenzione su questa regione, a cominciare dall’immediata nomina di un provveditore regionale”. Como: maxi rissa tra detenuti in carcere, in 39 a processo Corriere di Como, 27 maggio 2012 In 39 a processo per una maxi rissa scoppiata nel carcere del Bassone tra due bande di albanesi e di nord africani. La prima udienza è andata in scena venerdì mattina in tribunale . L’episodio risale al 24 gennaio 2009 nel corso dell’ora d’aria concessa ai detenuti. Ben 39, come detto, sono state le persone identificate dagli agenti della polizia penitenziaria. Imputati ora chiamati a rispondere a vario titolo di rissa e anche di lesioni. Sul selciato dell’area passeggi della quarta sezione, infatti, rimasero pure due feriti che necessitarono delle cure del pronto soccorso: un primo con lesioni guaribili in sei giorni, il secondo con un braccio rotto e una prognosi ben più lunga, 25 giorni. Tutto nacque la sera prima - sembra per motivi futili - da un diverbio con protagonisti un cittadino albanese e un nord africano. Rancori e conti in sospeso regolati nell’ora d’aria della mattina successiva, e poi ancora in una seconda fase nel pomeriggio, con le fila dei due schieramenti che via via sono aumentate di numero. Nuoro: i “galeghiotti” della colonia penale di Mamone invadono piazza Satta La Nuova Sardegna, 27 maggio 2012 Vetrina tra i graniti di piazza Satta ieri per i prodotti dell’allevamento della colonia penale di Mamone. Nei grandi tavoli imbanditi formaggi, carne di agnello, miele e olio. Li hanno presentati nove detenuti, in rappresentanza del gruppo che da tre anni lavora nei progetti Colonia e Colonia Plus. I risultati sono già buoni, anche a sentire l’apprezzamento dei tanti nuoresi che si sono avvicendati ai tavoli; l’altra conferma è commerciale considerato che i prodotti vengono venduti da qualche tempo a un villaggio vacanze di Budoni, con il marchio Galeghiotto, che contrassegna anche formaggi, olio e carne delle colonie penali di Is Arenas e Isili. Per la prima uscita a Nuoro non è stato lasciato nulla d’intentato; gli organizzatori hanno chiamato a raccolta gli amministratori municipali, il prefetto, il questore, insieme a tanti altri responsabili istituzionali; con loro Giampaolo Cassita, dirigente del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, che da Cagliari ha dato l’input per promuovere la rassegna. A guidare i detenuti nella trasferta nel capoluogo, Michele Gallarato, capo dell’Area trattamentale di Mamone, che spiega: “Lo scopo è di presentare i progetti rieducativi della nostra colonia penale, che vedono impegnati 130 detenuti”. Per la maggior parte si tratta di stranieri, con nutrita rappresentanza di africani. Le due iniziative sono state finanziate dalla Cassa delle ammende, che a livello nazionale raccoglie e ridistribuisce (anche ad associazioni esterne al mondo penitenziario) i fondi delle pene pecuniarie che spesso si aggiungono, nelle sentenze, a quelle detentive. I carcerati della colonia di Onanì si occupano di allevamento di ovini e della coltivazione dell’olivo; c’è poi il settore della trasformazione del prodotto. Gli ultimi nati - tra le attività trattamentali - sono i corsi di apicoltura e di piante officinali, che vengono portati avanti insieme alla Casa di carità Arti e Mestieri; ieri sono stati presentati i risultati della prima parte delle lezioni, per la cura delle arnie e la smielatura, nel primo; e nell’altro, per dare rudimenti di coltivazione delle piante officinali, a iniziare dalle tecniche di raccolta, per passare a essicazione, estrazione degli oli e produzione di tisane. “I due progetti Colonia - aggiunge Gallarato - dovrebbero essere rifinanziati, così da continuare l’attività”. L’obiettivo è nei desideri del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria e dei responsabili di Mamone, per rendere concreto il principio della rieducazione della pena. È così i detenuti - per la maggior parte con condanne non lunghe - sperano di ritagliarsi un pezzo di futuro. Televisione: "Fratelli e Sorelle" propone "Storie di carcere", regia di Barbara Cupisti Il Velino, 27 maggio 2012 "Fratelli e Sorelle" propone "Storie di carcere", con la regia di Barbara Cupist,i in onda domani e il 4 giugno alle 23.00 su Rai3. Il documentario, in due parti di 50 minuti ciascuna, affronta il tema della vita nelle carceri italiane attraverso le voci dei protagonisti, siano essi detenuti o agenti della polizia o funzionari dell’amministrazione penitenziaria. Prima parte, lunedì 28 maggio ore 23.00 Rai 3 La prima parte si concentra sulle criticità, sui problemi più macroscopici di carceri sovraffollate, in cui la mancanza di spazio ingenera tensioni e malesseri sia per i detenuti che per gli agenti, che con loro condividono buona parte della giornata o il problema dei tossicodipendenti, costretti a transitare per il carcere prima di essere ricoverati in una comunità che li curi. Il problema delle carceri in Italia è stato definito dal Presidente della Repubblica “questione di prepotente urgenza civile e costituzionale” per la lentezza dei processi, infatti il 43% circa dei detenuti è in attesa di giudizio e di questi solo il 50% viene condannato, per il sovraffollamento delle celle, su circa 67.000 detenuti presenti la capienza regolamentare è di solo 47.000 circa, l’attuale organico di polizia penitenziaria è carente di circa 7.000 unità. Queste alcune delle cifre che quantificano l’emergenza carceri. Inoltre la forte percentuale della presenza di stranieri, di giovani e di tossicodipendenti è la cartina di tornasole dell’utilizzazione delle carceri come discarica del disagio sociale. Enrico Sbriglia, direttore del carcere di Trieste, ci spiega come per dei reati “bagatellari”, il furto ripetuto di una cioccolata o di un pezzo di parmigiano, si possono assommare periodi di detenzione che costano allo stato cifre completamente sproporzionate; infatti un mese di carcere per un detenuto costa al contribuente circa seimila euro e magari per un pezzo di parmigiano che non costa neanche 10 euro vengono comminati 6 mesi di detenzione con un costo di 36.000 euro. Il carcere è rappresentato nell’immaginario collettivo come una fortezza invalicabile, con grandi mura di cinta, torri di avvistamento, enormi e pesanti cancelli, quasi non fossero passati circa duecento anni dalle memorie di Silvio Pellico e dal suo Spielberg. È un luogo separato, in cui non si può entrare né uscire. Tutti sono convinti di non dovervi mai entrare, di non potere mai delinquere ed è molto rassicurante che chi delinque stia ben chiuso lì dentro e non possa uscirne. Ma non è così. Se si varca questa soglia ci si accorge invece di come sia diversa la situazione e di quanto fragile sia il confine tra chi sta dentro e chi sta fuori, di come sia facile scivolare nell’illegalità. Siamo entrati nelle carceri di Torino, di Milano, di Padova, di Trieste, di Trento, di Roma-Rebibbia, di Napoli-Poggioreale, di Secondigliano, di Pozzuoli, di Terni e ci siamo messi ad ascoltare le storie di tanti. Lo spirito di questo progetto è proprio quello di uscire dalla logica dei numeri, che pur forniamo per dare le dimensioni del problema , e di volgere l’attenzione alle intelligenze, alle capacità, all’umanità che nel carcere alberga. E nel dramma corale che vivono queste persone giganteggia la tragedia dei bambini al di sotto dei tre anni che vivono in carcere con le madri, reclusi innocenti su cui aleggia, allo scadere del terzo anno, il lutto insanabile della separazione dalla madre. Seconda parte, lunedì 4 giugno C’è una sorta di pudore nel parlare del carcere, confessa il direttore del carcere di Torino Pietro Buffa “perché si amministra la sofferenza”. È il pudore che coglie chi ascolta i racconti di emozioni, speranze, delusioni e paure. Siamo entrati nelle celle, abbiamo bevuto insieme il caffè e abbiamo ascoltato, ascoltato col cuore. La seconda parte di Fratelli e sorelle, perché come tali ci siamo sentiti di rappresentare le persone che abbiamo incontrato, è dedicata al racconto di quelle esperienze che cercano di porre in pratica il dettato della Costituzione (articolo 27 comma 3) “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il carcere non può e non deve essere solo un luogo di reclusione e di pena ma deve tendere alla rieducazione del detenuto e creare le condizioni di un suo possibile reinserimento sociale. A questo puntano tutta una serie di attività che abbiamo incontrato nel nostro viaggio all’interno delle carceri italiane. Sono progetti in cui sono coinvolti detenuti, educatori, agenti penitenziari e, nella cronica penuria di risorse economiche, è la creatività e il consenso che pilotano le iniziative. Il percorso rieducativo passa attraverso il lavoro, lo studio e la presa di coscienza del proprio ruolo sociale, ma nella totalità delle carceri è impossibile creare un’attività lavorativa per tutti i detenuti e anche studiare diventa molto difficile in una cella sovraffollata, come ci confessa un detenuto di Padova, che in quel carcere ha invece trovato condizioni favorevoli e è ora prossimo alla laurea; ma una volta uscito cosa succederà, potrà trovare un lavoro, un potrà reinserirsi nella società? Spesso succede che, scontata la pena, si ritorni in carcere per gli stessi problemi di disagio sociale. Il racconto dei protagonisti della vita carceraria è un potente strumento di penetrazione nella loro realtà: con loro nelle celle, nei corridoi dei bracci, nei cortili dell’aria, nei laboratori dove svolgono attività artigianali, si rimane colpiti da tante capacità e da tanta creatività. Ma accanto a tutto questo tanta sofferenza, il sacrificio della libertà, la lontananza dalle famiglie, dai figli. Cinema: al Festival di Cannes il trionfo di un ergastolano, Aniello Arena www.quotidianamente.net, 27 maggio 2012 Il protagonista di “Reality”, unico film italiano in concorso a Cannes, è detenuto nel carcere di Volterra per omicidio: ha già scontato vent’anni per la strage di Barra del 1991. Il regista Matteo Garrone lo ha visto recitare nella compagnia teatrale del penitenziario. “Mi voleva anche per “Gomorra”, ma il magistrato non me lo ha permesso, visto il tema del film”, ha dichiarato. In questa commedia, in uscita a settembre, interpreta un pescivendolo che partecipa alle selezioni del “Grande Fratello”: “Io non ci sarei mai andato: qui in carcere siamo controllati 24 ore su 24, ma almeno non ci vede nessuno” Non ha camminato sul Red Carpet della Croisette perché è detenuto nel carcere di Volterra. Ma è lui, Aniello Arena, il protagonista di Reality, unico film italiano in concorso al Festival del cinema di Cannes. È in carcere da vent’anni, da quando ne aveva 24, perché accusato di omicidio per la strage di Barra, un quartiere di Napoli. Era l’8 gennaio del 1991 quando Aniello prese parte con altri cinque, in una operazione di regolazione dei conti per il comando del territorio. Furono uccise tre persone, un paio di proiettili colpirono anche un bambino di otto anni che passava da una piazza vicina; una donna fu stroncata da un infarto per avere assistito alla scena dal terrazzo di casa. La vigilia di Natale del 1991 Arena fu arrestato e condannato all’ergastolo. Sembra un film, ma è vita vera. regista Matteo Garrone lo ha voluto dopo averlo visto a teatro in varie rappresentazioni a cui ha preso parte, da Marat Sade di Weiss a pescecani, tratto da Bertold Brecht, messe in scena dalla Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra, diretta da Armando Punzo. “Mi avrebbe voluto già per Gomorra. Ma, allora, il magistrato non me lo permise, n tema di quel film non era il più adatto, vista la mia storia”, ha dichiarato in una intervista. D film Reality, invece, sta all’antitesi di Gomorra. Ugualmente ambientato a Napoli, è un film divertente, una commedia alla Eduardo De Filippo, però con un risvolto tipico della società di oggi: il desiderio di apparire in tv. Ed ecco che Luciano, il pescivendolo, interpretato da Arena, venendo a conoscenza che in un outlet ci sono le selezioni per il Grande Fratello, incoraggiato dalla famiglia partecipa ai casting. Passa la prima selezione e viene chiamato per una seconda a Roma, ma, prima ancora che gli venga ufficializzata la partecipazione al programma, comincia a credersi già una star sospetta che ogni persona che gli si avvicina sia una spia del programma che vuole vedere se ne è degno, regala mobili agli amici, crede che il grillo trovato in casa sia quello di Pinocchio. “Io al Grande Fratello non ci sarei ma andato”, ha dichiarato Aniello. “Qui in carcere siamo controllati 24 su 24 ma, almeno, non ci vede nessuno”. Ora Aniello è ritornato in carcere, ma del periodo in cui ha girato il film, che uscirà in Italia il 28 settembre, racconta: “Sul set tutti mi hanno accolto con calore. Poi, la sera, tornavo a dormire nel carcere”. Cinema: anteprima del documentario “I giorni scontati” al festival Poiesis di Fabriano di Davide Turrini Il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2012 Il regista Germano Maccioni: “Dentro al carcere di Lodi per capire non tanto il che fare per risolvere il problema delle galere italiane, ma cosa siamo disposti a fare per migliorare una spazio integrante della nostra società”. Dopo aver diretto tra il 2007 e il 2008 “Lo stato d’eccezione - Processo per Monte Sole 62 anni dopo”, il documentario sul processo per la strage di Monte Sole, e dopo la regia nel 2009 di un altro documentario come “My main man. Appunti per un film sul jazz a Bologna”, Germano Maccioni, bolognese, classe 78, torna dietro la macchina da presa per affrontare un tema di cogente attualità come la condizione dei detenuti nelle carceri italiane. E lo fa partendo dall’istituto penitenziario di Lodi, sorta di carcere “modello”, la cui direttrice ha voluto fortemente la realizzazione del progetto per raccontare come un luogo di detenzione possa anche non essere quell’inferno quotidiano, spesso dimenticato, che si racconta ad ogni rapporto di sovraffollamento e di condizioni inumane, o da qualche lancio d’agenzia su un suicidio dietro le sbarre. “Fui contattato direttamente dalla direttrice dell’istituto Stefania Mussio” racconta il regista bolognese che con il suo I giorni scontati avrà un’anteprima nazionale al festival Poiesis di Fabriano, sabato 25 maggio, “aveva visto il mio Lo stato di eccezione durante una lezione universitaria. Stavo per iniziare un progetto di finzione, Cose naturali, e di primo acchito ero perplesso. Poi sono andato a Lodi, sono entrato nel carcere e ne sono uscito con un senso enorme di oppressione e ho capito che c’era materia su cui lavorare”. Una produzione ridotta all’osso, soltanto Maccioni e il direttore della fotografia tra i corridoi e le celle, e l’idea che per l’ennesima volta lo sguardo documentaristico avrebbe potuto cogliere un particolare, un dettaglio che avrebbe potuto ribaltare i confini dell’etica e della morale dello spettatore: “Volevo stare dentro le celle, vivere quello spazio e quel tempo, scontare le ore e i giorni insieme, volevo creare qualcosa di “intimo” con i detenuti che vivono dentro. Allo stesso tempo ho cercato di fare emergere la condizioni degli agenti della polizia penitenziaria: a parte le mee marce, un esercito di persone che in fondo sono i veri punti di riferimento dei detenuti, tra loro ci sono alcuni che fanno questo mestiere da 30 anni e vivono dentro le carcere per intere giornate”. Quale lo scopo di questo nuovo lavoro documentario? “Volevo partire da una realtà piccola, che apparentemente funziona meglio, come quella di Lodi, per poi fare un discorso generale sulla realtà nazionale. Intanto emerge la realtà descritta a Lodi, diretta mirabilmente da Stefania Mussio, che funziona meglio ma che rimane un inferno. Ci sono celle di 4 metri per 3 con sei persone. La quotidianità è già un inferno: non hai più intimità, un momento per stare solo, i corpi si compenetrano, per andare al terzo piano del letto, bisogna mettere un piede sul corpo dell’altro. Sicuramente il sovraffollamento è il dato che ti colpisce di più”. Tra gli intervistati nel film c’è anche Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, che hai definito il tuo Virgilio… “Volevo qualcuno che avesse cognizione di causa e Maisto fa questo lavoro in tutta Italia da 40 anni. Il film però si alterna tra dentro il carcere di Lodi e l’ufficio di Maisto: diciamo che è stato un Virgilio esterno che mi ha aiutato a porre l’attenzione su questioni che potrebbero cambiare e che cambiando attenuerebbero tantissimo il peso della situazione carceraria”. Un esempio? “La domanda da porsi non è “che fare”, ma “cosa siamo disposti a fare”. Diamo per scontata l’esistenza delle prigioni, ma non vogliamo affrontare le realtà che producono e le condizioni di coloro che le vivono. Siccome sarebbe troppo penoso accettare l’eventualità che capitasse a noi stessi, tendiamo a considerare il carcere come qualcosa di avulso dalla nostra vita, una sorte riservata ad altri, un luogo ideologico per generici individui indesiderabili. Il che ci solleva dalla responsabilità di riflettere sulle problematiche concrete che affliggono i funzionamenti su queste strutture. Ma il carcere è parte integrante della nostra società. Tre secoli fa Voltaire disse: “Non mostratemi i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da essi che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Oltre al sovraffollamento, quale altra certezza hai acquisito visitando un carcere? “Se metti in galera un tossicodipendente non lo guarisci e i tossicodipendenti sono il 30% della popolazione carceraria. Se hai quei problemi non puoi scontare la pena in un carcere. Perché se oggi finisci “dentro” la maggiore parte degli istituiti di pena italiani in fondo generano nuovo crimine: cosa fai tutto il giorno se non del parlare di perché sei finito dentro o di come potrai non finirci una volta uscito fuori? Il carcere di Lodi è un eccezione, un esempio positivo fatto apposta. Facile sparare sulla croce rossa. A San Vittore o Poggio Reale sarebbe stato difficile girare un documentario così”. O anche alla Dozza di Bologna, una delle carceri più problematiche del paese… “Certo, non l’avrei fatto come l’ho fatto lì. Dopo la terza, quarta visita l’angoscia si allevia e ho iniziato a conoscere le persone e seguirle. Sono diventato parte integrante dello spazio carcerario, ho instaurato rapporto con le persone. In un carcere ancor più sovraffollato, forse ce l’avrei fatta lo stesso, ma avrei avuto difficoltà a creare vicinanza con i protagonisti. A Lodi la direttrice ha seguito la storia di ogni detenuto, tutti sapevano che giravo documentario. Alla Dozza sarebbe stata più dura. Se avessi ricevuto un invito da lì, ancora meglio, è nella mia città. Ma l’inferno di un carcere qui sarebbe stato molto più amplificato”. I fratelli Taviani con un film girato dentro un carcere romano hanno vinto l’orso d’oro a Berlino; cosa ne pensi del loro film? “Abbiamo girato nello stesso periodo. L’ho letto sul giornale. Il loro sarà un gran film, però mi sono imposto di non vederlo fino a che il mio lavoro non è stato chiuso, anche se il mio lavoro è totalmente diverso. Lo vedrò sabato al festival di Fabriano dove sono ospite”. Ti ostini ad usare il cinema documentario per raccontare il reale. Come mai ti fidi di questo mezzo espressivo che con il web e i reportage online sembra subire frenate d’arresto? “Il documentario è il cinema del reale. Ed è proprio lo strumento con cui un cineasta si può confrontare e mettere in gioco. Non smetterò mai fare documentario, anche se ho provato a lavorare con il cinema di finzione. Lavorare con le immagini è eccezionale: quando lavori su soggetti forti ti accorgi che le persone diventano personaggi, e di fronte a loro mi pongo sempre in un’ottica cinematografica. Anche nel documentario io racconto una storia e non mi approccio mai al modello dell’inchiesta o del reportage. Significa avere pazienza, osservare e ascoltare. Il cinema per questo è un mezzo privilegiato”. Mondo: Amnesty International; libertà di espressione negata il almeno 91 Paesi Notizie Radicali, 27 maggio 2012 In almeno 91 paesi nel mondo non c’è libertà di espressione e si rischia di essere arrestati, in 101 paesi vengono ancora praticati maltrattamenti e torture in particolare contro persone che manifestano contro il governo, in 21 paesi sono state eseguite condanne a morte e in 63 sono state emesse condanne a morte e almeno 18.750 sono i prigionieri nei bracci della morte delle carceri nel mondo. E ancora, almeno il 60% delle violazioni dei diritti umani è legato all’uso di armi di piccolo calibro, almeno 55 tra gruppi armati e forze governative arruolano bambini come soldati e ogni anno muoiano 500mila persone per atti di violenza armata. Sono i dati contenuti nel 50 rapporto annuale di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani in 155 paesi e territori, presentato oggi a Roma in contemporanea con Londra. Il rapporto, un tomo di oltre 700 pagine edito dalla Fandango Libri, sottolinea l’endemico fallimento della leadership a livello locale e globale nella difesa dei diritti umani e mostra come la risposta della comunità internazionale alle crisi dei diritti umani sia stata contrassegnata dalla paura, dall’opportunismo e dall’ipocrisia. Amnesty sottolinea come in nessun’altra parte del mondo tutto questo è stato palese come in Medio Oriente e in Africa del Nord, dove la repressione delle proteste da parte dei governi è stata accolta da reazioni diverse. Nel 2011 milioni di persone sono scese in piazza per pretendere libertà, giustizia e dignità e le rivolte vittoriose in Tunisia ed Egitto hanno infiammato la protesta prima nella regione e poi nel mondo intero, da Mosca, Londra e Atene fino a Dakar e Kampala e a Phnom Penh e Tokio. Secondo l’organizzazione internazionale il fallimento della leadership è stato evidente anche nello sfruttare, da parte dei governi, sincere preoccupazioni per la sicurezza o per gli elevati tassi di criminalità allo scopo di giustificare o ignorare violazioni dei diritti umani da parte delle forze di sicurezza, così come nel non aver chiamato le imprese a rendere conto del loro impatto sui diritti umani. Amnesty International è preoccupata per i diritti delle donne nei paesi in cui è cambiato il governo. Le donne sono state al centro delle manifestazioni e dell’attivismo delle piazze. n vista delle elezioni parlamentari in Tunisia ed Egitto, abbiamo chiesto a tutti i partiti di dichiarare il proprio impegno a difendere i diritti delle donne: Ennahda e i Fratelli musulmani, che quelle elezioni le hanno vinte, non ci hanno neanche risposto. Già da prima delle elezioni in Egitto, le donne erano state sistematicamente escluse da ogni processo decisionale 18 di loro sono state arrestate nella piazza Tahrir e poi sottoposte a quella pratica vergognosa dei ‘test obbligatori di verginità, altre sono state picchiate e umiliate in piazza. In Tunisia, sono a rischio alcune conquiste del codice di famiglia e si sono levate voci contro le madri single, cui lo stato non dovrebbe dare assistenza”. Le proteste di massa si sono registrate anche in Russia, in Cina ed anche in Europa a seguito della grave crisi economica: in Grecia e Spagna: “Di fronte a tutto questo, la risposta della comunità internazionale all’anno delle proteste globali ha evidenziato un profondo fallimento della leadership globale. Governi dei paesi in cui si svolgevano le proteste - ha continuato Weise - hanno risposto con brutalità o indifferenza. Quelli non direttamente coinvolti hanno agito in modo che alleanze opportunistiche e interessi finanziari avessero il sopravvento sui diritti umani, mentre le potenze globali si spintonavano per esercitare influenza politica ed economica in Medio Oriente e in Africa del Nord, trascurando completamente la dimensione dei diritti umani”. Ricordando quanto accaduto in Libia e in Siria, Amnesty International ha definito “sconcertante constatare come gli stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti d’America) abbiano un potere assoluto di veto e contemporaneamente siano tra i più grandi venditori di armi del mondo. E queste vendite hanno prodotto un numero incalcolabile di vittime”. “Il fallimento della leadership globale è emerso chiaramente anche nella mancata regolazione e moderazione degli interessi e delle attività delle multinazionali, come la Shell in Nigeria e la Vedanta in India. Profitti prima dei diritti, anche in questo caso, purtroppo. Per uscire dal proprio fallimento, i governi devono dimostrare di possedere una leadership legittima e combattere l’ingiustizia, proteggendo chi è senza potere e limitando l’azione di coloro che il potere ce l’hanno”. Amnesty entra nel suo sesto decennio di attività e “continuerà a raccontare e rappresentare non solo la sofferenza di coloro che vivono all’ombra delle violazioni dei diritti umani ma anche l’ispirazione di coloro che decidono di agire, spesso a grande rischio personale, per assicurare diritti umani e dignità a tutte le persone. Continueremo ad agire nello spirito del nostro fondatore Peter Benenson che fece suo un proverbio cinese: ‘Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità”. India: i marò italiani sono stati trasferiti, altre due settimane di carcere di Chiara Pane Ansa, 27 maggio 2012 I due marò italiani detenuti in India con l’accusa di omicidio sono stati trasferiti nella Borstal School di Kochi, un ex riformatorio che ospita oggi uffici della polizia indiana. La struttura è gestita dalle stesse autorità del carcere di Trivandrum, dove i due militari erano detenuti. La prigionia per Salvatore Girone e Massimiliano Latorre non è dunque ancora finita. Il trasferimento dal carcere alla Borstal School di Kochi migliora le condizioni della detenzione, ma la vicenda è tutt’altro che risolta. Fra l’altro è slittata a lunedì prossimo l’udienza per una nuova richiesta di libertà su cauzione avanzata dalle autorità italiane e già respinta lo scorso 19 maggio. Ieri, per la prima volta, i due ufficiali della marina militare si sono presentati di fronte al giudice istruttore di Kollam, AK Gokupar che, dopo aver visionato il dossier contenente le pesanti accuse contro i due militari, li ha voluti incontrare di persona. A seguito del colloquio, il giudice ha disposto formalmente altre due settimane di carcerazione giudiziaria. La situazione, già assai critica, sembra volgere verso un peggioramento, poiché una volta terminata la fase istruttoria potrebbe iniziare il processo vero e proprio. Ricordiamo che le accuse ufficializzate dal tribunale di Kollam vertono su quattro capi di imputazione: omicidio, tentato omicidio, azioni che hanno comportato danni e associazione per delinquere. Naturalmente i legali dei due marò e le autorità italiane si stanno battendo affinché venga riconosciuta la competenza della giurisdizione italiana, ma a questo punto bisogna essere pronti a tutto. I due fucilieri della marina italiana restano, dunque, con il fiato sospeso. Il sottosegretario agli Esteri, Staffan de Mistura, ha commentato ai microfoni dei giornalisti italiani il trasferimento, definendolo “uno sviluppo positivo”, ma giudicandolo anche “tardivo” e “insufficiente”, soprattutto considerando “la loro dignità di ufficiali della Repubblica italiana”. Qualche giorno fa, invece, il ministro degli Esteri Giulio Terzi si era rivolto al Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, definendo la situazione “inaccettabile” e priva di senso. Il ministro Terzi ha, inoltre, voluto ribadire la pericolosità che un tale precedente può avere sulle operazioni internazionali contro la pirateria. “Avverto, la grande preoccupazione che questo incidente possa avere delle conseguenze di freno molto forti sulle operazioni antipirateria ma anche su tutto l’impianto delle operazioni di pace della comunità internazionale” ha dichiarato Terzi. I cittadini italiani sono tutti schierati dalla parte dei propri connazionali e seguono la vicenda con vera apprensione. Su Facebook è stata creata una pagina che funge da vera e propria petizione per la loro liberazione. Cliccando su “mi piace” la petizione viene firmata. Fuori dai municipi delle città ci sono striscioni con le foto dei due militari. I giornali e i telegiornali riportano quotidianamente notizie, anche solo sulla loro salute. La vicenda occupa l’agenda italiana e quella internazionale da mesi, ma nonostante tutto un senso di impotenza ci pervade. Stati Uniti: rivolta con un morto a Natchez; sotto accusa gruppo Cca e le carceri “private” Il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2012 Alla base dell’incidente ci sarebbero le condizioni “inumane”, in cui versano i detenuti, quasi tutti immigrati a basso livello di pericolosità. Il gruppo Correction Corporation of America, uno dei principali del paese, è accusato dalle associazioni dei diritti umani di tagliare i costi, dal cibo al riscaldamento, per aumentare i profitti. È polemica negli Stati Uniti su Corrections Corporation of America (Cca), uno dei maggiori gruppi privati di gestione delle carceri. La società è finita ancora una volta sulle prime pagine dopo la rivolta in una delle sue prigioni, l’Adams County Correctional Center di Natchez, Mississippi. Gli incidenti - che hanno provocato un morto, una guardia carceraria, e almeno 20 feriti - sono scoppiati il 20 maggio, ma dopo quasi una settimana non è ancora chiara dinamica e motivi della rivolta. Il sospetto è che a far esplodere la furia dei detenuti sia stata la gestione inumana della struttura da parte di Cca. Ciò che, a giudizio di alcuni politici e gruppi per i diritti civili, rende necessario un ripensamento della gestione privata delle carceri americane. Secondo la ricostruzione della polizia della contea di Adams, la rivolta sarebbe iniziata nel pomeriggio di domenica scorsa. “Non è chiaro se la violenza sia scoppiata all’interno di una gang o per una disputa tra opposte fazioni - ha spiegato Chuck Mayfield, sceriffo della contea. Ma si è diffusa alla velocità di un incendio”. La prigione ospita 2500 detenuti “a basso livello di sicurezza”. Si tratta per lo più di immigrati illegali, rientrati negli Stati Uniti dopo essere stati espulsi. Circa 300 tra questi si sono diretti con materassi e legno strappato alla struttura delle celle verso uno dei cortili del carcere e hanno acceso un fuoco. Alcuni recavano bastoni e coltelli fabbricati artigianalmente. Le guardie carcerarie hanno reagito con gas lacrimogeni e salve di proiettili di gomma. Negli incidenti una delle guardie, Catlin Carithers, è stata uccisa. Altre 17 sono state sequestrate e picchiate. In un comunicato ufficiale, Cca ha affermato che le condizioni di vita all’interno del carcere non hanno nulla a che fare con gli incidenti e ha spiegato che “questa è soltanto la seconda volta nella nostra storia trentennale che un nostro dipendente perde la vita… Si tratta di un fatto tragico che ci ricorda le sfide insite nel nostro vitale pubblico servizio”. In realtà, a quasi una settimana dagli incidenti, l’Adams County Correctional Center resta sottoposto a un regime di massima sicurezza - ciò che sembrerebbe contraddire l’ipotesi di una semplice sfida tra opposte gang - e ci sono fatti mai presi in considerazione nell’inchiesta ordinata dalla polizia. Tra questi, la telefonata di un detenuto del carcere a una Tv locale, poco dopo lo scoppio della rivolta. L’uomo, rimasto anonimo, ha detto: “Ci continuano a pestare. Li abbiamo ripagati per quello che ci fanno. Chiediamo cibo decente, assistenza medica, vestiti, un minimo di rispetto”. Da tempo questo carcere del Mississippi è al centro di accuse e sospetti. Patricia Ice, che dirige la “Mississippi Immigrants Rights Alliance”, ha affermato di aver ricevuto alcuni giorni fa la denuncia del parente di un detenuto. “L’uomo ha un cancro ai polmoni, ma non viene minimamente curato”, ha detto la Ice. Abusi e maltrattamenti sono del resto difficilmente perseguibili, perché gran parte dei detenuti sono stranieri, facilmente ricattabili, poco inclini a rivolgersi alla giustizia per denunciare condizioni di vita inumane. Quanto succede in questi giorni a Natchez ha comunque più di un’analogia con una lunga serie di incidenti e denunce in altre carceri gestite da Cca, in Mississippi ma anche in Idaho, Tennessee, Vermont. Nell’ottobre 2010 l’American Civil Liberties Union rivelò che numerosi immigrati illegali erano morti in circostanze sospette nelle carceri di Cca in Arizona. “Il problema è che Cca cerca di tagliare il più possibile i costi per aumentare i profitti”, spiega oggi Frank Smith, che si occupa di monitorare la situazione nelle carceri private Usa. La società, che gestisce 60 strutture in tutti gli Stati Uniti, per un totale di 75 mila detenuti, cercherebbe di risparmiare sul numero degli agenti e sul loro addestramento, sullo staff medico per assistere i detenuti, sullo spazio delle celle, sul cibo e persino sul riscaldamento. Una miscela che renderebbe particolarmente brutale la detenzione nelle strutture di Cca, soprattutto la detenzione degli immigrati illegali (tra il 2003 e il 2010, ci sono stati almeno 103 stranieri morti in circostanze sospette nelle carceri Usa). Sul caso del carcere di Natchez, e di altre strutture gestite da privati in Mississippi, l’American Civil Liberties ha annunciato un’inchiesta. Siria: scambiato per spia, storico belga passa settimana nell’inferno delle carceri Agi, 27 maggio 2012 Aveva una posizione vagamente favorevole a Bashar Assad. Gli è bastata una settimana nelle carceri del regime siriano per cambiare idea. Pierre Piccinin è un intellettuale di quelli che vogliono vedere di persona nelle cose, toccare con mano, e come Jonathan Littel ha viaggiato nell’inferno siriano ricavandone, al pari dell’autore delle Benevole, un diario di viaggio impressionante per la descrizione della repressione. Belga, docente di Storia alla scuola europea di Bruxelles, Piccinin riesce a ottenere un visto grazie al quale entra nel Paese dal Libano il 15 maggio scorso. A Damasco noleggia un’auto, a bordo della quale viaggia a Homs, roccaforte dei ribelli e dunque anche obiettivo prediletto della macchina militare del regime. Da lì arriva a Talbisseh, sotto il controllo della dissidenza armata. “Sono ben organizzati”, ha raccontato al quotidiano La Libre belgique, “molto più di quanto immaginassi”. Il punto di non ritorno morale, Piccinin lo incontra a Tall Kalakh, il 17 maggio, alla frontiera con il Libano: “Volevo entrare in città in modo legale, ho chiesto l’autorizzazione a un posto di blocco, mi hanno lasciato passare. Dopo due ore di girovagare per la città mi hanno raggiunto alcuni uomini della sicurezza: potevo girare solo con la loro auto, mi hanno detto. Una volta a bordo, mi hanno ammanettato e portato in un edificio”. Piccinin è stato scambiato per un agente dei servizi segreti francesi. L’intellettuale belga trova l’inferno: sequestrati gli effetti personali, viene trasferito a Homs: interrogato, vede sfilare davanti a sé prigionieri ormai cadaveri. Nell’ufficio in cui lo torchiano nota “aghi, sangue, unghie dappertutto”. Gli agenti lo picchiano. Poi, lo portano a Damasco, nel giorno in cui un attentato fa 55 morti. Nelle celle del quartier generale della sicurezza, a Qazzaz, “la gente urlava tutta la notte”. Il giorno dopo, nella prigione di Bab al Musalla, grazie alla solidarietà “formidabile” dei detenuti raccoglie i soldi per corrompere una guardia e utilizzare un telefonino cellulare. È la salvezza. Piccinin chiama un amico, che a sua volte allerta la diplomazia belga. Il 22 maggio lo storico esce dal carcere. Appassionato del mondo arabo, il suo giudizio sulla Siria oggi è questo: “Non cambierà nulla lì, se non si interviene. Governa un regime del terrore”.