Rieducazione: parola usurata ma necessaria di Luciana Scarcia www.innocentievasioni.net, 23 maggio 2012 Va riconosciuto alla redazione di Ristretti il merito di individuare per i suoi annuali convegni di maggio dei temi importanti. Quest’anno la scelta è andata a quello della rieducazione. Questa parola, a lungo oscurata, negli ultimi mesi ricorre frequentemente, risvegliando una punta di amarezza per l’evidente paradosso di tornare attuale proprio in un periodo in cui non solo il degrado delle nostre carceri mette allo scoperto, più di prima, la generale inosservanza del principio costituzionale, ma cresce anche la domanda di sicurezza e di più intervento penale, in un quadro culturale di perdita di intenzionalità educativa. La storia di questa parola è indicativa del faticoso sviluppo della cultura democratica nel nostro Paese. Ripercorrendone la storia dal 1948 a oggi risulta evidente quanto accidentato sia stato il percorso di recepimento del 3° comma dell’art. 27 nell’Ordinamento Penitenziario: ci son voluti quasi 3 decenni di disegni di legge, commissioni, sperimentazioni per riuscire a voltar pagina rispetto alla normativa fascista e arrivare a una Legge di Riforma dell’Ordinamento: la 375/1975, la cui attuazione però fu pure incerta e parziale, oltre che lenta; portata a compimento, e completata, solo nel 1986 con la legge 663 (c.d. Gozzini), dovrà attendere il 2000 per avere il nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario. Insomma vita difficile e tempi lunghi ha avuto l’affermazione del principio (umano prima che giuridico) che cambiare si può. Una volta affermata nella normativa la teoria del “trattamento” - questa sì parola brutta, da cambiare, in essa si sono riverberate le tendenze culturali che si diffondevano in particolare in ambito formativo: da un’ispirazione neopositivista e deterministica, che pretendeva di dare fondamento scientifico agli interventi sul reo, si è passati all’approccio globale multidisciplinare dell’andragogia, basato sulla centralità del soggetto e sulla negoziazione del percorso formativo. L’impressione però è di una acquisizione di tendenze senza rielaborazione né approfondimento (come del resto è accaduto in altri ambiti, vedi la scuola). In ogni caso, i cambiamenti nel modo di concepire la rieducazione si sono sovrapposti a una struttura che segue una logica diversa, quella della sicurezza, che richiede disciplina, obbedienza e conformità al regolamento e che viene solo scalfita dai nuovi orientamenti pedagogici. Mentre questi si traducono in condotte professionali che, al di là dell’impegno di alcuni operatori, tendono a banalizzare le richieste della normativa, ciò che invece resta solido e immutabile è la funzione afflittiva del carcere. D’altra parte, in questi decenni la parola rieducazione è stata guardata con sospetto o rifiutata anche dalla parte più politicizzata del mondo del volontariato, perché sinonimo di omologazione, o in virtù di un’istanza libertaria, o per rifiuto della pretesa ideologica di fare “l’uomo nuovo”. Il risultato è stato un avvicendarsi di sinonimi ingeneranti a loro volta altra confusione: socializzazione, riabilitazione, reinserimento… Il convegno di Padova riporta l’attenzione sulla questione; se non ora quando, mi verrebbe da dire. Da quando mi occupo di carcere (come insegnante prima e volontaria poi) ho sempre pensato che verso questa parola ci fossero troppo poca attenzione e troppa diffidenza, del resto nella società la parola Pedagogia non ha goduto di grande fortuna. Io penso che nella parola ci sia solo un prefisso di troppo: quel “ri” premesso a “educazione” rimanda a una visione “correttiva” dello sviluppo di una persona, mentre (come le teorie del long life learning hanno affermato) di formazione c’è bisogno lungo l’arco della vita, per riuscire a interpretare e governare i rapidi cambiamenti del mondo d’oggi; a maggior ragione questo vale per chi come il detenuto sta vivendo il fallimento di una traiettoria di vita, quella criminale. Quindi preferirei parlare di educazione tout court, ma la necessità di fare riferimento al lessico della Costituzione mi pare argomento sufficiente per non perdere tempo in disquisizioni terminologiche. Invece è più utile entrare nel merito e porsi la domanda: educare a cosa? Alla Responsabilità - si è detto nel convegno, ma responsabilità rispetto a cosa? Giacché non si è responsabili solo delle proprie azioni, ma anche per gli altri con cui si convive, e pure verso l’umanità prima e dopo di noi e, ancora, della Terra. Giustamente il titolo del convegno di Ristretti: “Il senso della rieducazione in un Paese poco educato” evidenziava il nesso carcere - società, giacché il fine rieducativo della pena può essere perseguito con efficacia se parallelamente la società riconosce come valore la coesione sociale, che oggi è minacciata non solo dalla crisi economica, ma anche dalla mancanza di una direzione ideale o, meglio, di un confronto tra orientamenti ideali diversi, tra diverse idee di mondo. Per contrastare il naturale andamento delle cose, che, lasciato alle urgenze del nostro sistema economico, va inevitabilmente verso una società sempre più discriminante e diseguale, serve un’intenzionalità educativa, che risulta perciò sovversiva. Quanto più sottile è oggi il confine tra legalità e devianza, e quanto più l’illegalità è non già un fenomeno ma un costume diffuso, tanto più la rieducazione deve uscire dai confini del carcere. Per questo il passo successivo cui deve portare la riflessione del convegno è: attorno a quali valori si intende costruire il percorso di integrazione nella società. Ecco, io vorrei che si tornasse a parlare dei valori fondanti presenti nella Costituzione: Solidarietà e Libertà; che si trovassero le parole per ridefinirli oggi, in questo contesto sociale deteriorato; che non si dessero per scontati i principi della democrazia e qualunque tipo di intervento volto al superamento della funzione meramente afflittiva della pena fosse accompagnato da motivazioni esplicitate. E chissà, potrebbe anche accadere che in questo periodo così difficile il carcere da luogo del Fallimento (di chi ci vive e delle istituzioni dello Stato) diventi il luogo dal quale la società più ha da imparare. Rieducare alla cultura della legalità… quando lo Stato è così “poco educato” di Paola Montagner (docente di lettere del Liceo Scientifico Galilei di Selvazzano Dentro) Ristretti Orizzonti, 23 maggio 2012 Avevo preparato una riflessione da condividere nella Giornata Nazionale di Studi del 18 maggio, ma gli interventi sono stati tanti e intensi. Ve la mando, se può essere utile: raccoglie, credo, anche i pensieri degli studenti e un po’ delle sollecitazioni che gli ultimi giorni, prima di quella data, ci hanno regalato. Grazie ancora per la grande opportunità accordataci nel partecipare a quest’evento. “La Giornata di oggi ha un titolo provocatorio, che anche all’osservatore meno attento evoca sentimenti contrastanti e una domanda: perché mai dovremmo educarci o rieducare alla cultura della legalità se lo Stato, di cui dovremmo sentirci parte viva, cittadini, è così “poco educato”, come le cronache quotidianamente ci confermano, neppure più allarmate nella loro denuncia, in un’atmosfera di disillusa assuefazione, dietro alla quale, tuttavia, cova la rabbia onesta di quei cittadini semplici o più impegnati, che si sentono offesi al cuore dal discredito gettato da scandali, ruberie, mala politica sul “sentimento dello Stato”, che dovrebbe appartenere a chiunque? Alla ricostruzione di questo sentimento credo servano molto giornate come questa e tutta la faticosa operazione di trasparenza e di discussione critica messe in atto da donne e uomini di buona volontà per farci interiorizzare che quello che non vogliamo, in questo nostro Stato, come ebbe a dire Norberto Bobbio, è che le carceri siano simili a ospedali dove ci si faccia ricoverare non per guarire, ma per ammalarci di più, forse fino a morire; che non è accettabile che questioni annose come il sovrappopolamento degli istituti carcerari, che riguarda decine di migliaia di persone, sia un fatto che non coinvolga anche tutti noi, che fuori dal carcere viviamo e, in libertà, esercitiamo diritti e doveri; che non è ammissibile pensare al carcere come ad una discarica sociale e che, se le cronache ci raccontano di suicidi (sempre più frequenti) ed omicidi, in cui sia dimostrato il coinvolgimento del personale carcerario, operatori o personale medico, noi non ci dobbiamo indignare e non dobbiamo chiedere conto alle autorità preposte di tutto ciò che violi il patto di fiducia stabilito, in origine, tra il cittadino e lo Stato, esecutore giusto della somministrazione delle pene e garante della dignità di ogni persona. Sono molte le domande che nascono nei nostri studenti, dopo che sono entrati in questi luoghi, ne hanno percorso i corridoi lunghi, delimitati da sbarre. I racconti di vita che veniamo ad ascoltare qui, in piena gratuità, ma difficili per che sta compiendo il proprio percorso di “redenzione”, per uscire dalla violenza, sforzandosi di cambiare, ci confermano che, di fronte a basilari diritti umani violati, alle lungaggini di processi che sembrano non concludersi mai (almeno non per tutti), risulta davvero difficile sostenere che, da parte delle istituzioni, vii sia sempre il rispetto del principio dell’eguaglianza e della dignità umana. Ciò nonostante, donne e uomini di buona volontà ci dimostrano che la strada c’è e che uno Stato è migliore a partire dai suoi cittadini, dal loro basilare rispetto delle regole della convivenza e dalla loro conseguente esigenza di vedere le medesime regole applicate proprio dallo Stato; ci testimoniano la speranza fattiva di chi crede: crede, come ha scritto pochi giorni fa, in relazione agli inquietanti fatti di Genova, Agnese Moro, che il prezioso lavoro di educarci ad uscire dalla violenza, a qualsiasi livello la possiamo esercitare, ci rende davvero portatori di un nuovo concetto di Cittadinanza. Nell’Italia della crisi, dove le tensioni sociali sono il terreno fertile in cui il seme della violenza può facilmente allignare, Agnese Moro scrive così: “L’Italia è un Paese meraviglioso, che in ogni angolo propone umanità, impegno, dedizione. Ma è anche un Paese al quale la violenza - subita e agita - non è purtroppo estranea. Ce lo dicono i tanti omicidi di donne, gli scontri negli stadi, il difendersi da soli con le armi, la presenza invasiva di cosche mafiose, il nostro tollerare, come nel caso delle carceri, situazioni che non possono che lasciare spazio a comportamenti violenti, l’aderire all’idea che i conflitti internazionali si risolvono con le armi e non con la diplomazia. Dobbiamo ancora lavorare per espellere la violenza dal nostro modo di essere e di pensare, nell’unica maniera possibile, ovvero non considerandola mai una risposta efficace ai problemi di ognuno di noi, del nostro Paese e del mondo”. Giustizia: la proposta di Piero Buffa (direttore carcere Torino): “regionalizzare le carceri” di Davide Pelanda www.articolotre.com, 23 maggio 2012 È la proposta del direttore della casa circondariale Lorusso/Cutugno Piero Buffa in quanto “sarebbe solo un atto di responsabilità verso la Società”. “La pena detentiva - ha detto il direttore del carcere torinese Lorusso/Cutugno Piero Buffa intervenendo al recente convegno di Padova sulla rieducazione del detenuto in carcere - è un fatto sociale e quindi deve essere la Società a farsene carico”. Di qui la proposta originale di Buffa: “Se il carcere sorge in su di una determinata area territoriale, allora dovrebbero farsene carico le Regioni, così come già avviene ad esempio per la salute dove la Sanità è regionalizzata. Questa presa in carico del carcere da parte delle Regioni sarebbe solo un atto di responsabilità verso la Società, così come lo è lo Stato che si fa carico dell’intero sistema carcerario”. Una ipotesi suggestiva, originale, sarebbe certo una vera rivoluzione quella proposta da Buffa: se abbiamo capito bene ogni presidente di Regione avrebbe una responsabilità concreta anche sulle carceri, pensando ovviamente ad un assessorato preposto alla gestione carceraria. “Quando ci incontriamo tra direttori di case circondariali - ha continuato il direttore del carcere torinese - ci chiediamo preoccupati “tu quanti detenuti hai?”“ sottolineando il fatto come ci sia “una forte ambiguità nel nostro lavoro sul tema della rieducazione in carcere. Debbo dire che c’è una carenza di idee in merito. Un tempo si parlava di rieducazione, si è poi passati al termine risocializzazione, poi alla parola reinserimento. Tutti termini che oggi paiono superati per il nostro operare: è meglio parlare di responsabilizzazione del detenuto in carcere”. E poi la Società odierna certo non aiuta, soprattutto perché influenzata enormemente dai mass media che non aiutano a far capire la vera realtà di questa struttura e di chi - ci lavora. “Oggi il carcere è rappresentato da giornali e tv solo come sovraffollamento, elevato numero di suicidi, mancanza di fondi per costruire nuovi edifici di detenzione - sottolinea sconsolato il direttore Buffa. Di qui poi i nostri politici ci ricamano sopra e costruiscono le loro campagne elettorali dicendo: costruiamo nuove carceri, facciamo l’indulto ecc. Oggi invece manca proprio un vero progetto per la responsabilizzazione dei detenuti. Fa pensare, ad esempio, che nella struttura carceraria che dirigo ci siano ben 576 persone malate di mente entrate nei primi mesi di quest’anno”. Queste persone malate che hanno commesso dei reati, ci chiediamo noi, non dovrebbero essere curate altrove? La nostra domanda però cade nel vuoto. In conclusione del suo discorso sulla rieducazione dei detenuti Buffa ha aggiunto: “Il carcere deve diventare un’area di riconciliazione con la Società tutta”. Giustizia: rapporti affettivi e sessuali dei detenuti; bene Tribunale sorveglianza di Firenze di Adriano Sofri Il Foglio, 23 maggio 2012 Antonietta Fiorillo, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, decidendo sul reclamo di un detenuto - italiano, sessantenne - ha sollevato alcune eccezioni di incostituzionalità alle norme e alla prassi che oggi inibiscono ai detenuti e alle loro famiglie di avere rapporti affettivi e sessuali. Si tratta di un’iniziativa insieme la più normale e la più inedita. Il problema è antico e scandaloso - nel senso opposto a quello di chi veda come uno scandalo che i detenuti, che “già hanno la televisione”, intrattengano rapporti affettuosi e non spiati coi figli e addirittura abbiano incontri intimi e riservati con le persone che amano e che li amano. Quasi quindici anni fa si arrivò ad annunciare una “sperimentazione” in alcune prigioni: non se ne fece niente. L’iniziativa di oggi viene da una giudice nota per esperienza ed equilibrio e tutt’altro che votata a “provocazioni” o sortite pubblicitarie, e riporta appunto la questione alla sua normalità, cioè alla anormalità feroce quanto inavvertita della mutilazione affettiva e sessuale dei detenuti, quale che sia l’occasione che li ha portati in carcere, e dei loro cari, che in carcere vengono da liberi. Qualcuno potrà stupirsi che nella condizione estrema in cui versano i detenuti, oggi si sollevi un problema come questo: stupore che sarebbe già il segno di una considerazione deformata degli affetti e della vita sessuale, come qualcosa di superfluo e di lussuoso. Al contrario è proprio l’orribile tormento (“tortura” è la parola disinvoltamente impiegata da molte fra le massime autorità del diritto italiano, compresi tanti che per professione la infliggono) inflitto oggi ai detenuti a rendere più urgente questa attenzione. La lunga motivazione dell’eccezione di incostituzionalità della signora Fiorillo muove infatti dalla conoscenza delle condizioni mortificanti e vessatorie in cui si svolgono i “colloqui” e le “visite” (dove sono concesse) fra detenuti e famigliari. Ed elenca la lunga serie di paesi, europei e non, nei quali la concessione di incontri più ampi e riservati alle famiglie sono già una pratica corrente, e raccomandata dalle convenzioni sui diritti umani e tassativamente dal Consiglio d’Europa e dal Parlamento Europeo. In cui si specifica come non debba trattarsi solo di fugaci incontri sessuali fra partner, che si tradurrebbero in una reciproca umiliazione. “L’opzione della disciplina europea è evidente”. Il testo riassume il problema del sesso nella realtà carceraria: sesso immaginato e negato, con l’unico ricorso di una masturbazione ossessiva; o un’omosessualità non scelta, imposta con la violenza o accettata con rassegnazione. Esiti tutti opposti al proclamato intento di riabilitazione. I permessi fuori dal carcere sono la migliore risposta, ma molte categorie di detenuti ne sono esclusi per legge, dagli imputati - oggi il 42 per cento del totale, quelli ufficialmente non colpevoli in attesa di giudizio - a una vasta percentuale di condannati definitivi, crescente oltretutto per effetto di nuove leggi insensate (aggettivo mio) come quella sulla recidiva. Il testo riconosce che la limitazione dell’eccezione ai soli gruppi famigliari (ufficiali e di fatto; e, si deve aggiungere, alle sole relazioni eterosessuali) potrebbe essa stessa essere ritenuta incostituzionale, perché il diritto alle relazioni affettive e sessuali - a un trattamento non contrario al senso di umanità - vale per tutti i detenuti. Ma si attiene a un’idea complessiva dell’affettività famigliare entro la quale è compreso il rapporto sessuale con la o il partner. L’ostacolo è l’art.18 (sic!) della legge penitenziaria, che esige “il controllo a vista” da parte del personale di custodia sui colloqui. Esso è criticabile da due punti di vista: “Quello della inibizione del diritto, e quello della insostenibilità del divieto”. Non è possibile costituzionalmente inibire il diritto al rapporto sessuale con il partner in una relazione legale di coniugio o di convivenza stabile; la forma con cui deve essere ammessa la fruizione di tale diritto è quella dell’affettività, che evita l’effetto umiliante (e per questo inumano e degradante) del riconoscimento puro e semplice dell’ammissione ai rapporti sessuali fra le parti. In sostanza, quindi, è l’affettività che reclama la sua parte fra gli stessi familiari e il detenuto; è nell’ambito del rapporto già riconosciuto con la famiglia, che dando spazio alla normalità maggiore possibile del rapporto stesso, attraverso relazioni prolungate e senza controllo visivo del personale, si realizza l’attuazione di un rapporto famigliare, normale nella misura del possibile, fra i vari membri della famiglia (…) L’astinenza sessuale coatta colpisce il corpo in una delle sue funzioni fondamentali”. “E arriviamo alla domanda finale: è possibile sostenere, nel quadro costituzionale ora indicato, la riduzione dei rapporti fra detenuto e famigliari ai soli colloqui, quando si sacrifica, così facendo, la ricchezza del tema famigliare e il detenuto è costretto a rapporti inevitabilmente degradanti? Non è insostenibile il divieto? La risposta non può che essere affermativa”. Giustizia: ricorso alla Consulta per diritto affettività detenuti; i commenti dei politici Ansa, 23 maggio 2012 Allestire nei penitenziari un’area in cui i detenuti possano esercitare con ‘privacy’ il proprio diritto all’affettività verso i familiari, fino anche a potersi intrattenere in rapporti sessuali con coniugi e conviventi: mira a questo un ricorso che il presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze, Maria Antonietta Fiorillo, ha fatto alla Corte Costituzionale e di cui scrivono in questi giorni varie testate. Il ricorso vuol contrastare la norma che impone che i colloqui si svolgano in apposti spazi sottoposti alla sorveglianza visiva (benché non uditiva) della polizia penitenziaria ed è nato dalla richiesta di un detenuto del carcere di Sollicciano (Firenze) di poter incontrare la moglie senza essere visto dagli agenti di custodia. L’iniziativa ha avuto varie adesioni. Per l’Associazione radicale Certi diritti “la decisione del tribunale di sorveglianza di Firenze di fare ricorso è un atto di grande coraggio e civiltà. In quasi tutta Europa - prosegue un comunicato - è consentito ai detenuti di incontrare intimamente, in appositi spazi, i familiari e i partner, così come lo stesso Consiglio d’Europa e il Parlamento Europeo hanno chiesto ripetutamente ai paesi membri con diverse risoluzioni”. Sostegno anche dal deputato e coordinatore nazionale delle donne di Fli, Chiara Moroni: “Il riconoscimento del diritto all’affettività nelle carceri sarebbe un passo in avanti verso la civiltà e il riconoscimento di diritti inviolabili, che riguardano la sfera degli affetti del detenuto. Non c’è scandalo se al detenuto viene concesso di trascorrere del tempo con la propria compagna o compagno senza doversi sentire osservato”. Per il Garante dei detenuti di Firenze, Franco Corleone, “è auspicabile predisporre nei penitenziari un luogo dove i detenuti possano esprimere la loro affettività e la loro sessualità. In quasi tutta Europa questa è una prassi esistente. Nel 2000 un regolamento aprì sperimentazioni in Italia ma il Consiglio di Stato lo bocciò ritenendo che per introdurre questa innovazione fosse necessaria una legge, poi mai fatta. Forse ora a Firenze si è trovata una via intelligente per portare avanti il discorso”. Moroni (Fli): diritto all’affettività a detenuti è segno civiltà “Ha fatto bene il presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze Antonietta Fiorillo a ricorrere alla Corte Costituzionale perché venga riconosciuto anche nelle carceri italiane il diritto all’affettività. L’Italia è ancora indietro rispetto agli altri Paesi e il riconoscimento del diritto all’affettività nelle carceri sarebbe un passo in avanti verso la civiltà e il riconoscimento di alcuni diritti che ritengo inviolabili, che riguardano la sfera degli affetti del detenuto che resta pur sempre un uomo”. Lo dichiara il deputato e coordinatore nazionale delle donne di Fli, Chiara Moroni, che aggiunge: “Non c’è scandalo se al detenuto viene concesso di trascorrere del tempo con la propria compagna o compagno senza doversi sentire osservato. D’altronde la pena, così come previsto dal nostro ordinamento, ha una funzione riabilitativa che tende alla reintegrazione del reo e non certamente punitiva, come troppo spesso accade”. D’Ippolito Vitale (Udc): confronto in parlamento su diritto al sesso “Credo che nel giusto equilibrio del rapporto tra sanzione e la condizione dell’uomo in quanto persona si possa aprire una riflessione sulla necessità di allargare un po’ la maglia rimanendo all’interno di una visione che è quella di un’affettività limitata perché si tratta comunque di detenuti in carcere”. Così all’Agenparl Ida D’Ippolito Vitale dell’Udc parlando del ricorso del tribunale di sorveglianza di Firenze alla Corte Costituzionale sulla possibilità di consentire ai detenuti il diritto ad avere relazioni intime con il partner. “Occorre valutare la natura del reato - aggiunge l’esponente dell’Udc - perché i detenuti sono tali per varie ragioni: ci sono anche crimini sessuali, però noi parliamo di una detenzione che appartiene a soggetti che si sono resi responsabili di reati. E lo Stato ha anche la responsabilità di recuperare. In europa l’orientamento è ampiamente diffuso. Anche negli Usa dove c’è più rigore in fatto di pena, basti pensare che in alcuni Paesi è prevista la pena di morte”. “La magistrata Fiorillo - conclude D’Ippolito Vitale - apre ad un punto di confronto su cui il Parlamento è chiamato a riflettere facendo una valutazione equilibrata”. Certi Diritti: impedire relazioni è punizione aggiuntiva “La decisione del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, con il sostegno della Procura della Repubblica di Firenze, di ricorrere al Corte Costituzionale contro il secondo comma dell’articolo 18 della Legge 345 del 1975 che non consente ai detenuti di avere rapporti intimi con i familiari e il/la partner, è un atto di grande coraggio e civiltà”. Lo scrive in una nota l’associazione radicale Certi Diritti. “Quella norma, infatti, impone che i colloqui si svolgano in appositi spazi sotto la diretta sorveglianza del personale penitenziario, impedendo di fatto ogni tipo di rapporto intimo. Il ricorso è nato da un detenuto del carcere di Sollicciano che chiedeva di incontrare la moglie al di fuori dalla vista della polizia penitenziaria. In quasi tutta Europa è consentito ai detenuti di incontrare intimamente, in appositi spazi, i familiari e/o partner così come lo stesso Consiglio d’Europa e il Parlamento Europeo hanno chiesto ripetutamente ai paesi membri con diverse risoluzioni”. I Radicali in questa Legislatura hanno depositato la Proposta di Legge n. 1310, prima firmataria Rita Bernardini: “Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni in materia di relazioni affettive e familiari dei detenuti”, che prevede spazi e tempi per relazioni affettive, indipendentemente dall’orientamento sessuale dei partner. Secondo l’associazione, “impedire ai detenuti il diritto all’affettività non può che configurarsi come una punizione aggiuntiva particolarmente afflittiva che degrada ancora di più la loro condizione. Ci auguriamo che il Parlamento voglia concretamente far rispettare quanto previsto dagli articoli 2,3, 27, 29, 31 e 32 della Costituzione, dal diritto europeo in materia di non discriminazione, in particolare per quanto indicato dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Concia (Pd): diritto al sesso? sono favorevole “Non penso nulla di negativo. La possibilità di avere delle relazioni intime con il proprio partner in carcere sono molto diffuse in tutta Europa”. Lo ha detto all’Agenparl Paola Concia del Pd parlando del ricorso del tribunale di sorveglianza di Firenze alla Corte Costituzionale sulla possibilità di consentire ai detenuti il diritto ad avere relazioni intime con il partner. “Capisco il richiamo della magistrata Fiorillo agli articoli della Costituzione - aggiunge, ma io sono favorevole. Ovviamente vanno scelti i soggetti che ne possono usufruire”. “Credo che magistrati debbano decidere la discrezionalità rispetto a questa cosa”, spiega l’esponente democratica e nutre qualche dubbio sulla concreta realizzazione in Italia di situazioni del genere per questioni logistiche”. Rispetto a quanto riportato dalla stampa, la deputata del Pd critica il riferimento “all’omosessualità forzata”. “Nessuno è costretto all’omosessualità, neanche in carcere - spiega. Un conto è la violenza, ma sono due cose diverse”. Papa (Pdl): sì a spazi ad hoc per affettività in carcere “Bene ha fatto il presidente del Tribunale di sorveglianza fiorentino Antonietta Fiorillo a ricorrere alla Corte Costituzionale affinché venga riconosciuto e garantito anche in Italia il diritto all’affettività, di cui la sessualità è componente irrinunciabile”, è quanto afferma il deputato del Pdl Alfonso Papa. “Come già avviene in molti Paesi europei, pure le carceri italiane dovrebbero dotarsi di spazi ad hoc per incontri riservati con familiari e coniugi, lontano dagli occhi indiscreti degli agenti o delle telecamere” continua l’onorevole Papa “La riabilitazione del condannato non può passare per la sua degradazione. Una sessualità repressa è inevitabilmente sinonimo di abbrutimento”. Conclude Papa: “L’esigenza di tali spazi è tanto più forte se pensiamo che oltre il 40% dei detenuti non sconta neppure una pena effettiva, trattandosi di presunti innocenti in stato di custodia cautelare”. Giustizia: Rao (Udc); ancora 57 bambini in cella con mamme detenute, governo intervenga 9Colonne, 23 maggio 2012 A quasi un anno di distanza dalla promulgazione della legge che avrebbe dovuto comportare la scarcerazione di tutti i bambini costretti a crescere in una cella accanto alle mamme detenute, il provvedimento è ancora lettera morta. A denunciarlo è il parlamentare dell’Udc Roberto Rao in una interrogazione al Ministro della Giustizia. “Secondo quanto riportato da Avvenire il 3 aprile 2012 - scrive Rao nell’interrogazione - sono ancora 57, infatti, i bambini fino a tre anni che si trovano all’interno delle carceri italiane; inoltre, la mancanza del decreto attuativo rende estremamente ambigua la norma, con il risultato che nelle carceri è possibile ora trovare anche bambini di età superiore ai tre anni; l’allarme è stato sollevato non solo dalle associazioni, ma dagli stessi operatori della giustizia che non nascondono le loro perplessità”. Il parlamentare centrista solleva inoltre un altro problema: “L’urgenza di regolamentare le caratteristiche delle case famiglia protette, una novità introdotta dalla legge sopra citata: si tratta di strutture d’accoglienza equivalenti alla privata dimora dove le mamme prive di domicilio (prevalentemente straniere) possono scontare la propria pena stando accanto ai figli sino ai 10 anni di età”. Le case famiglia, sottolinea Rao, “permetterebbero di offrire ai bambini un ambiente migliore, senza per questo recare pregiudizio alla sicurezza”. Il Parlamentare chiede dunque al Ministro della Giustizia “quali rapidi e opportuni provvedimenti intenda adottare, al fine di rendere pienamente efficace questa riforma”. Giustizia: ministro Severino; il Governo Monti vuole migliorare le condizioni delle carceri Adnkronos, 23 maggio 2012 Ministro della Giustizia Severino ha dichiarato che il Governo monti ha come priorità “il miglioramento della situazione carceraria” e che la detenzione cautelare deve essere l’estrema ratio. Lo ha ribadito oggi pomeriggio a Palermo il ministro della Giustizia Paola Severino, intervenendo ad un convegno al palazzo di Giustizia in ricordo del giudice Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta, nel ventesimo anniversario della strage di Capaci. “Le preoccupazioni mie personali e dell’intero esecutivo - ha spiegato - sono sul punto note e, sin dall’insediamento dell’esecutivo forte è stata l’attenzione sullo studio delle soluzioni migliori per farvi fronte”. Per il Guardasigilli “l’espiazione della pena e la custodia cautelare in carcere devono essere l’extrema ratio, ma la detenzione deve essere effettiva, efficace e sufficientemente punitiva. Rappresentano il simbolo e lo strumento attraverso il quale deve riaffermarsi l’autorità dello Stato e il principio di legalità a difesa dei suoi valori fondativi. Il miglior modo - ha concluso - per dimostrare anche ai criminali della massima pericolosità la supremazia della legge e delle istituzioni”. Giustizia: Sappe; braccialetti elettronici e processi videoconferenza, per migliorare carceri www.poliziapenitenziaria.it 23 maggio 2012 Braccialetto elettronico, video conferenza, più lavoro in carcere e più tecnologia negli istituti penitenziari. Sono queste le soluzioni peri il Sappe il sindacato della Polizia Penitenziaria. “La sicurezza non è riempire le carceri ma è impegnare i detenuti in lavori socialmente utili cosicché quando usciranno non saranno più incazzati di quando sono entrati ma pronti a reinserirsi nella società”. Il segretario nazionale del Sappe (Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria), Donato Capece, in visita presso il carcere di Bellizzi Irpino preme per la rivoluzione del sistema carcerario. Impensabile che un detenuto, qualunque sia la pena che debba scontare, trascorra 20 ore su 24 all’interno di una cella, spesso con uno o due “colleghi”. Impensabile che non venga gradualmente inserito nella società con progetti di recupero. Impensabile che gravi sulle casse dello stato (150 euro al giorno) mentre potrebbero essere adottate misure più economiche (braccialetti elettronici: 13 euro al giorno per detenuto) e vantaggiose per la psiche del detenuto (corsi di formazione e lavori). Tutto questo, secondo Capece, non giova alle carceri italiane che diventano semplici contenitori saturi di detenuti e carenti di personale penitenziario. È il caso di tutti gli istituti italiani ed anche di Bellizzi dove, ad esempio, mancano all’appello 70 poliziotti penitenziari. Per tentare di risolvere i problemi e migliorare il sistema, le carceri si devono affidare alla tecnologia. Il carcere di Trento, con un progetto pilota da 110 milioni di euro, lo ha fatto grazie ad un servizio di videosorveglianza all’avanguardia. Ed anche il penitenziario di Bellizzi Irpino si sta mettendo al passo con i tempi grazie al nuovo padiglione di 4 piani che il segretario Capece ha visitato questa mattina. “È questa la vera sfida - ha sottolineato il segretario - tecnologia e Polizia Penitenziaria possono viaggiare di pari passo e giovare anche alla salute del detenuto che non sarà costretto a trascorrere gran parte del tempo in cella ma potrà sentirsi più “libero” e soprattutto lavorare per il proprio recupero”. In questo progetto, infatti, i detenuti (153 quelli che può contenere il padiglione, tutti con pena inferiore a 3 anni per reati minori) saranno monitorati da telecamere e saranno lasciati liberi di seguire corsi di formazione in carcere per conseguire diplomi e certificati utili al reinserimento una volta liberi. “È una prova di fiducia che non deve essere tradita - ribadisce Capece - ma è anche una scelta intelligente per svuotare le carceri. È una umanizzazione della pena utile a rivedere il sistema carcerario”. Crede molto nel progetto il segretario del Sappe che non può non spendere parole di elogio verso il personale penitenziario che lavora più di quanto dovrebbe. “È importante sottolineare lo spirito di abnegazione della Polizia Penitenziaria. Qui, nonostante manchino all’appello 70 unità si riesce a sopperire grazie al sacrificio. Il progetto di video sorveglianza serve anche a sgravare di lavoro il personale”. Quella di Capece è una battaglia contro gli sprechi e contro lo sperpero di denaro. Due sono i temi su cui il segretario del Sappe si vuole soffermare: i braccialetti elettronici ed i processi in video conferenza. Entrambi sono strumenti che se utilizzati in maniera adeguata farebbero risparmiare allo stato centinaia di migliaia di euro. Braccialetti elettronici - “I primi 400 in dotazione ricordano il governo Prodi con Mastella Ministro - spiega Capece - la spesa si aggirò attorno ai 110 milioni di euro. Ne sono stati usati tre. Non contento, lo Stato, ha rinnovato il contratto, rilanciando il progetto braccialetto. Ora ce ne sono in dotazione 6000 con altri milioni di euro buttati. In uso ce ne sono 9. Un detenuto con braccialetto allo stato costa 13 euro al giorno, senza 150. Mi chiedo perché non vengono usati a dovere visto che milioni e milioni di euro sono stati spesi. Anche in questo modo i giovamenti sarebbero sia per i detenuti che per il personale penitenziario”. Processi in video conferenza - “Spesso i detenuti, per sostenere un processo - conclude il Segretario - vengono trasferiti dal carcere dove alloggiano al tribunale di competenza. Spesso i viaggi sono lunghi e, tra andata, processo e rientro, si perdono due o tre giorni. Se il giorno del processo, per un problema burocratico, l’udienza viene rinviata, ovviamente si torna indietro. Questi sono tutti soldi gettati al vento che potrebbero essere risparmiati con un servizio di video conferenza. Il detenuto assiste al processo dal carcere e prende parte all’udienza. Il sistema carcere deve cambiare proprio come sta avvenendo in Spagna, Germania e Olanda”. Giustizia: ricorso del Codacons al Tar per sospensione acquisto bracciali per detenuti Ansa, 23 maggio 2012 Domani il Tar del Lazio deciderà se sospendere o meno la delibera ministeriale relativa alla fornitura di braccialetti elettronici per i detenuti. Arriverà davanti alla I Sezione ter del Tribunale Amministrativo il ricorso promosso dal Codacons contro i ministeri dell’Interno e dell’Economia per chiedere lo stop alla proroga della convenzione stipulata con Telecom Italia nel 2001 relativa alla fornitura dei braccialetti per il controllo a distanza dei detenuti sottoposti agli arresti domiciliari. Provvedimento che - sostiene l’associazione - “comporta una nuova spesa a carico dello Stato pari a 100 milioni di euro”. Per il Codacons, ‘l’acquisto di ulteriori 2.000 braccialetti elettronici che i giudici di tutta Italia hanno dimostrato di non voler utilizzare - si legge in un documento - rappresenta un immane spreco di soldi pubblici, in un periodo di crisi che al contrario dovrebbe vedere lo Stato impegnato in prima linea sul fronte dell’economicità e del risparmio. Tanto più se si considera che per l’aggiudicazione dell’appalto non è stata svolta alcuna gara pubblica, nonostante l’elevato costo della fornitura”. L’associazione, nel suo documento, cita anche - è stato riferito dal Codacons - “il contenuto della memoria difensiva depositata al Tar dal ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri (attraverso l’Avvocatura di Stato) per l’udienza di domani”. “Il ministro - continua il Codacons - difende a spada tratta la nuova fornitura, e arriva a difendere il provvedimento nonostante riconosca che a fronte del limitato uso che viene fatto di tale strumento da parte dell’Autorità giudiziaria, l’acquisto possa rivelarsi antieconomico o comunque eccessivamente costoso rispetto ai benefici che la collettività ne può trarre”. Giustizia: Tamburino (Dap); 41-bis efficace, ma affollamento può ostacolare applicazione Ansa, 23 maggio 2012 “Il 41 bis, ossia il regime del carcere duro, introdotto per i mafiosi dopo le stragi del 1992, si è dimostrato uno strumento efficace nella lotta al crimine organizzato e potrebbe essere migliorato e rivisto, anche nella direzione del suo superamento, qualora ci sia un drastico ridimensionamento o la totale sconfitta di questa piaga. Un’ipotesi che, al momento, appare lontana nonostante tutti i successi delle azioni di contrasto della magistratura e delle forze dell’ordine”. Lo sottolinea il capo dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, aggiungendo, tuttavia, che l’affollamento delle carceri si fa sentire anche sulla corretta esecuzione di questa misura detentiva. In proposito Tamburino - che ha partecipato a Palermo alla commemorazione delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ha spiegato che ‘il fenomeno del sovraffollamento ha delle negative conseguenze generali sull’intero sistema penitenziario e siamo piuttosto preoccupati, nonostante il grande impegno di tutta l’amministrazione e delle forze della polizia penitenziaria nel garantire sicurezza e legalità”. Ad esempio, spiega Tamburino, “la distribuzione più corretta dei detenuti, secondo il tipo di reato commesso e il livello di pericolosità è ostacolata o addirittura impossibile”. Finora, tuttavia, “il 41 bis è stato correttamente attuato”. Giustizia: trattativa Stato - mafia… la grande fuga dal 41bis di Nicola Biondo L’Unità, 23 maggio 2012 Diciassette pagine di nomi e date, un elenco fitto che racconta chi nel 1993 uscì dal 41bis. È il registro del carcere duro dal quale vennero “espulsi” centinaia di mafiosi su richiesta dell’allora ministro Giovanni Conso con l’avallo dei vertici delle carceri italiane. Dati forniti nel 2011 dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria diretto da Franco Ionta ai magistrati di Palermo che indagano sulla trattativa Stato - mafia. E a scorrere l’elenco le sorprese non mancano. A partire proprio da uno dei principali protagonisti di quel dialogo tra pezzi dello Stato e la Cupola, Vito Ciancimino. Il primo ad uscire dai circuiti speciali fu proprio don Vito, il portavoce di Bernardo Provenzano. Per lui il 41bis, firmato dall’allora ministro Claudio Martelli, durò “solo” 58 giorni. Questo “diario di bordo” sul carcere duro è entrato nel gigantesco file di migliaia di pagine che compone l’inchiesta palermitana sulla trattativa. Inchiesta di cui si aspetta l’imminente chiusura e sui cui vige ancora il riserbo più totale circa l’esito: archiviazione, richiesta di rinvio o proroga delle indagini. “Che ci fu una trattativa è certo - sostiene il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia - bisogna capire se fu gestita a fini eversivi da un sistema criminale a cui partecipavano anche le mafie italiane e quali erano gli scopi finali”. Tra gli indagati ci sono i vertici della Cupola, Provenzano e Riina, gli ufficiali dei Carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno, Massimo Ciancimino, il senatore Pdl Marcello Dell’Utri e l’ex - ministro democristiano Calogero Mannino. Il documento acquisito agli atti dell’inchiesta chiarisce chi beneficiò della decisione del ministro Conso: secondo le indagini quella la scelta - tutta politica - di togliere il 41bis a centinaia di uomini d’onore sarebbe stata una delle cambiali che lo Stato pagò ai boss in cambio della fine delle stragi. Una tranche di trattativa che insieme ad altre furono messe in campo in quei mesi tra le bombe di mafia, il deflagrare di Tangentopoli e una crisi economica simile a quella odierna. I boss fuori dal 41bis L’anno più importante è il 1993: il carcere duro viene revocato a maggio per 127 detenuti. Solo tre di questi però successivamente rientreranno nei circuiti speciali: per tutti gli altri le indagini dimostreranno la loro estraneità alle organizzazioni mafiose o una bassa “pericolosità”. Furono 334 invece le mancate proroghe per altrettanti detenuti al 41bis decise da Conso nel 1993. Tra questi alcuni pezzi da novanta di Cosa nostra, Camorra e ‘Ndrangheta. Boss del calibro di Giuseppe Farinella e Giovanni Prestifilippo, rispettivamente capo mandamento e membro della Cupola palermitana, Vito Vitale capo mafia a Partinico e il giovane Francesco Spadaro “figlio d’arte” del narcotrafficante Masino. E ancora alcuni futuri boss casalesi come Antonio Letizia e Domenico Belforte e i vertici dei clan baresi Capriati e Diomede. E infine Robert Venetucci, il killer dell’avvocato Ambrosoli ucciso su mandato del finanziere mafioso Michele Sindona. Tra coloro che uscirono dai circuiti speciali ben 52 ci sono ritornati e 18 di questi sono ancora detenuti al 41bis. Chi predispose gli elenchi sui quali poi Conso fece la sua scelta, oggi sotto la luce dei riflettori delle inchieste? Mistero. Di certo quella decisione fu un segnale chiarissimo al popolo di Cosa nostra e ai boss che trattavano con pezzi delle istituzioni. La missione di Ciancimino E anche in questo contesto fa capolino uno degli ambasciatori principali di Cosa nostra nel biennio delle bombe: Vito Ciancimino. È lui il primo politico accusato di mafia a finire al 41bis, ma è anche il primo detenuto ad uscirne. Per 58 giorni, dal 7 gennaio al 9 marzo ‘93, don Vito si trova in isolamento e dalla sua cella al 41bis racconta ai vertici della Procura palermitana dei suoi incontri con i carabinieri, Mori e De Donno, e gli emissari della Cupola. Sostiene che avvennero dopo le strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992. Una bugia - come ormai è accertato dalle indagini. Ma anche se la “collaborazione” di Ciancimino zoppica vistosamente, gli consente di uscire dal carcere duro. La sua “missione” di ambasciatore continua, questa volta dentro le carceri. A raccontarlo molti anni dopo sarà il pentito Salvatore Cancemi. “Provenzano mi disse che sui detenuti ci stavamo muovendo e che Ciancimino era in missione”. Missione che coincide temporalmente con la sua detenzione. “In ciascuna di queste fasi - rilevano gli investigatori nisseni - è costante la presenza dell’allora colonnello Mori”: nei colloqui con Ciancimino del ‘92, nelle parziali ammissioni ai magistrati dell’ex - sindaco di Palermo a cui lo stesso ufficiale partecipa, nella gestione del pentito Cancemi, nei fitti colloqui intessuti con il vertice dell’amministrazione penitenziaria che si preparava alla grande fuga dal 41bis. Una trama a cui però - secondo gli inquirenti - mancano ancora gli attori principali, “i pupari” di quella trattativa. A partire da chi guidò la decisione del ministro Conso di smantellare il 41bis nel silenzio, ad un anno appena dalle stragi Falcone e Borsellino. La fuga dal 41bis In pochi mesi, all’indomani della stragi di Capaci e Via D’Amelio finirono al 41bis 1041 mafiosi, affiliati a Cosa nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita. Ma già l’anno dopo il numero si era ridotto di oltre il 50%, erano 482 per scendere ancora nel 1994 a 445. Dall’anno dopo non si verificherà più un tale esodo; saranno infatti solo 9 i 41bis non rinnovati alla scadenza e 2 nel 1995. Altri diciannove 41bis vengono annullati dal Tribunale di sorveglianza e solo per due persone verrà successivamente riapplicato il carcere duro, come nel caso di Giovanni Farina condannato per il sequestro Soffiantini. Dati che dimostrano il carattere unico e straordinario della decisione di Conso che dimezzerà il numero dei detenuti sottoposti al 41bis. “Ho preso quella decisione in totale autonomia - ha detto l’ex - ministro l’11 novembre 2010 alla Commissione Antimafia - per fermare la minaccia di altre stragi e non ci fu nessuna trattativa”. Di segno opposto le risultanze delle indagini compiute dalla Procura di Caltanissetta. “Il cedimento venne attuato e sostenuto proprio da quella parte dello Stato che più diceva di voler combattere “Cosa Nostra”: il volto migliore dello Stato, quello di una persona perbene e di un grande studioso, quale indubbiamente è il Ministro Conso…non si fecero i conti con un fatto che, comunque, poteva essere ben previsto anche allora: Cosa Nostra, di fronte ai cedimenti dello Stato, avrebbe chiaramente pensato che la linea delle stragi era “pagante”. Giustizia: chiusura Opg e assistenza psichiatrica; Unasam contro testo approvato Camera Redattore Sociale, 23 maggio 2012 Dopo l’approvazione in Commissione Affari sociali del testo sull’assistenza psichiatrica, la presidente Trincas scrive a parlamentari e al premier Monti: “Questa vergognosa proposta di legge venga definitivamente archiviata” L’Unasam (Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale) contesta l’approvazione in sede di Commissione Affari sociali della Camera (il 17 maggio scorso) della proposta di legge “Disposizioni in materia di assistenza psichiatrica”. Lo fa con una lettera della presidente, Gisella Trincas, al presidente della Commissione, Palumbo, al presidente della Commissione d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Ssn, Marino, al ministro della Salute Balduzzi, al premier Mario Monti, al presidente della Camera Fini, nonché ai capigruppo di Camera e Senato. Nella lettera si evidenzia che l’approvazione della proposta di legge “è un atto di gravità inaudita che non fa onore ai parlamentari che l’hanno approvata e che rischia di riportare il nostro Paese indietro di 35 anni, riproponendo metodi e luoghi di internamento indegni di un Paese che ha scelto la civiltà e il progresso sancendo il definitivo superamento dei manicomi e di tutto ciò che essi rappresentavano”. Secondo la presidente dell’Unasam, “le norme nazionali ed europee, attualmente in vigore, indicano con netta chiarezza quali devono essere i percorsi organizzativi e metodologici per garantire servizi territoriali capaci di tutelare la salute mentale di tutti i cittadini, la presa in cura, i percorsi terapeutici riabilitativi orientati alla recovery. Le buone pratiche esistenti in tante parti del territorio italiano confermano la validità del modello dipartimentale e la necessità di adeguate risorse umane e finanziarie per garantire ovunque prestazioni tempestive ed efficaci. Viceversa, le pratiche coercitive, lesive della libertà e della dignità delle persone che vivono l’esperienza della sofferenza mentale, dimostrano tutto il loro fallimento con il peggioramento delle condizioni di vita e di salute di chi le subisce”. “La proposta di legge quindi - continua la Trincas, contestata con cognizione di causa dalla stragrande maggioranza delle organizzazioni che hanno partecipato alle audizioni in Commissione Affari Sociali e dalla maggioranza delle associazioni dei familiari e degli utenti dei servizi di salute mentale, ripropone sistemi di internamento attraverso l’istituzione del “trattamento sanitario obbligatorio prolungato senza consenso” della durata di sei mesi rinnovabile. Tale trattamento può essere effettuato anche in strutture diverse da quelle previste per i pazienti che versano in fase di acuzie, quindi anche in strutture private accreditate. L’altro punto scandaloso e paradossale riguarda gli Ospedali psichiatrici giudiziari, per i quali è previsto, dalla Legge 9/2012, il definitivo superamento entro il 31 marzo 2013. La proposta di legge in oggetto, invece, ne chiede il mantenimento per tutta la fase iniziale di realizzazione della rete dell’assistenza ai sensi dell’articolo 6 (assistenza psichiatrica ai detenuti) da parte del servizio sanitario regionale nelle case circondariali”. “È stupefacente - sottolinea ancora - la non conoscenza da parte dei parlamentari firmatari di tale proposta di legge della situazione reale presente nel nostro Paese, delle ragioni vere del malcontento di tanti familiari che denunciano l’assenza di adeguati percorsi di cura per i loro cari. I familiari non chiedono luoghi di internamento ma possibilità concrete di percorsi terapeutici - riabilitativi nel rispetto dei diritti costituzionali. Chiedono uguali opportunità in qualunque parte del Paese si viva. È stupefacente - si ribadisce - che questi parlamentari non sappiano che nessun percorso di cura è possibile senza la costruzione di un rapporto di fiducia tra chi cura e chi deve ricevere cure e rispetto umano. E questo rapporto non si costruisce con la coercizione e la privazione della libertà, ma con servizi territoriali ricchi di risorse e umanità e con un sistema sociale capace di accogliere e comprendere, rispondendo ai reali bisogni che le persone in difficoltà esprimono”. Conclude la presidente dell’Unasam: “La cura delle persone con sofferenza mentale passa quindi per la restituzione dei diritti di cittadinanza e non con la privazione della libertà e la violazione della dignità umana. Chiediamo quindi che questa vergognosa proposta di legge venga definitivamente archiviata e si riprenda la strada già indicata dai Progetti Obiettivo Nazionali Salute Mentale, dalle Linee guida nazionali approvate dalla Conferenza delle Regioni, dal Patto Europeo per la salute e il benessere mentale. Sollecitiamo inoltre l’attivazione dell’incontro già richiesto da tempo al Ministro della Salute”. Giustizia: caso Cucchi; secondo certificato medico lesione a vertebra risale almeno al 2003 Tm News, 23 maggio 2012 Un documento che in parte riscrive la storia clinica di Stefano Cucchi, il giovane deceduto ad una settimana dal suo arresto il 22 ottobre del 2009, nella struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini. Negli ultimi giorni gli inquirenti della Procura di Roma hanno acquisito, tramite la polizia giudiziaria, un certificato medico dello stesso nosocomio e risalente al 25 agosto del 2003. L’incartamento nel suo complesso è stato depositato all’attenzione dei giudici della III corte d’assise e messo a disposizione delle parti, compresi i componenti del collegio peritale che proprio oggi hanno avviato a Milano i lavori per individuare le cause del decesso, così come disposto dai giudici nelle scorse settimane. Quel 25 agosto i medici del Dea, esaminata la radiografia della schiena, affermano che “dai primi accertamenti, a quanto visibile, non si rilevano lesioni osteo traumatiche di data recente”. L’accertamento, a questo punto, fa ritenere che la lesione alla vertebra lombare L3 sia addirittura precedente al 2003. Questa assistenza avvenuta, per ammissione dello stesso Cucchi al personale sanitario, in seguito ad una caduta accidentale per l’assunzione di alcolici e una crisi epilettica, rischia di mettere in dubbio la tesi della parte civile secondo cui la stessa lesione sarebbe avvenuta a causa del pestaggio da parte degli agenti della polizia penitenziaria il 16 ottobre 2009 e avrebbe insieme ad altri elementi portato alla morte del giovane geometra. Per quel che ha subito Cucchi e per come è finito sono sotto processo 9 tra medici e infermieri del Pertini, e 3 agenti della penitenziaria. I primi rispondono dello stato d’abbandono che portò alla morte, gli altri delle botte. Questo accertamento di cui oggi si ha notizia - secondo quanto si sottolinea a piazzale Clodio - conferma l’impostazione dei pubblici ministeri Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy i “secondini” devono rispondere di lesioni e non di omicidio preterintenzionale. Inoltre i consulenti dei pm, che avevano studiato le lesioni a livello macro e istologico all’indomani della morte di Cucchi, il trauma alla L3 è assolutamente sovrapponibile a quello osservato nel 2003. Ilaria: verità si fa a Milano, non a Roma; il Pm Barba è evidentemente agitato “Mi trovo in questo momento di fronte ai periti che hanno appena sballato i documenti e reperti del corpo di mio fratello e sono stati visionati. Esprimo viva soddisfazione per quanto si è svolto oggi a Milano. Il pm Barba è a Roma ed evidentemente è agitato. Le lastre e i documenti a cui fa riferimento erano ben note da mesi. E non dicono nulla, ma proprio nulla di diverso e di nuovo”. Così, in una nota, Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il 31enne geometra romano fermato per droga a Roma il 15 ottobre 2009 e morto il 22 ottobre successivo nel padiglione penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini. “Non esiste nessun referto medico di frattura di L3 ulteriore e diverso fatto da sanitari diversi da quelli del Fatebenefratelli - aggiunge. Nessuno ha mai in precedenza diagnosticato una frattura, che gli è stata procurata dagli agenti di Polizia penitenziaria che la Procura vuole evidentemente difendere. Se non si trattasse delle morte di Stefano troverei comico il fatto che si sbandieri come nuovo e dirompente un dato che non esiste, non è mai esistito ed è frutto esclusivo ancora una volta delle elucubrazioni dei consulenti del pm, così convincenti da costringere i giudici della Corte di Roma a mandarci oggi a Milano dai professori Grandi e Cattaneo. La verità su mio fratello - conclude Ilaria - si fa qui a Milano e non a Roma”. Stefano Cucchi: comunicato stampa Sappe “È sicuramente importante e significativo il documento acquisito dalla Procura di Roma e del quale oggi si è avuto notizia dal quale si accerta che Stefano Cucchi presentava delle lesioni alla schiena che si era procurato nel 2003 a seguito di una caduta accidentale per l’assunzione di alcoolici e per una crisi epilettica. Episodio del quale probabilmente neppure i familiari erano a conoscenza, visto che non ci sembra ne abbiano mai pubblicamente parlato. Certamente aiuta a fare più chiarezza sulle cause della morte del povero ragazzo. Attendiamo dunque con serenità gli accertamenti della magistratura. Ricordo a me stesso che la rigorosa inchiesta amministrativa disposta dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Franco Ionta sul decesso di Stefano Cucchi escluse responsabilità da parte del Personale di Polizia penitenziaria, in particolare di quello che opera nelle celle detentive del Palazzo di Giustizia a Roma. La nostra convinzione è che a Piazzale Clodio la Polizia Penitenziaria ha lavorato come sempre nel pieno rispetto delle leggi, con professionalità e senso del dovere. Ci auguriamo che anche gli approfondimenti giudiziari confermino questa nostra convinzione. Di sicuro rigettiamo ogni tesi manichea che ha associato e associa più o meno velatamente al nostro lavoro i sinonimi inaccettabili di violenza, indifferenza e cinismo.” Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria. “Noi confidiamo che la Magistratura accerti - come sempre con serenità, equilibrio e pieno rispetto dei valori costituzionali - gli elementi di cui è in possesso” aggiunge Capece. “Ribadisco una volta di più che il Sappe ha il massimo rispetto umano e cristiano per il dolore dei familiari di Stefano Cucchi come lo abbiamo per tutti coloro che hanno perso un proprio caro in stato di detenzione. Ma non possiamo accettare una certa (tendenziosa e falsa) rappresentazione del carcere come luogo in cui quotidianamente e sistematicamente avvengono violenze in danno dei detenuti come talune corrispondenze giornalistiche hanno detto e scritto nei giorni immediatamente successivi la morte del ragazzo. Non accettiamo che le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria che lavorano, ogni giorno, nelle strutture detentive del Paese con professionalità, zelo e abnegazione vengano rappresentate da certe corrispondenze di stampa che, più o meno velatamente, associano al nostro lavoro i sinonimi inaccettabili di violenza, indifferenza e cinismo. Questo accertamento di cui oggi si ha notizia, e del quale probabilmente neppure i parenti avevano notizia perché altrimenti siamo certi che lo avrebbero riferito per tempo agli inquirenti, aiuta ulteriormente a fare maggiore chiarezza sulla morte di Cucchi”. Giustizia: Dap smentisce il tentato suicidio di Bernardo Provenzano nel carcere di Parma Agi, 23 maggio 2012 Il boss Bernardo Provenzano non ha mai tentato il suicidio, ma ha cercato di infilare la testa in un sacchetto mentre parlava con gli agenti di custodia del supercarcere di Parma: ben difficilmente, dunque, il capomafia corleonese sarebbe potuto riuscire nell’intento di togliersi la vita. Lo sostiene, in una relazione, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che ha archiviato il caso come una simulazione o come la manifestazione di un evidente stato di disorientamento mentale dell’anziano detenuto. L’episodio risale alla notte tra il 9 e il 10 maggio e fu scoperto da un ispettore e da un agente, che avevano appena preso il posto di altri due colleghi, per il turno di notte. Mentre parlava con loro, Provenzano aveva cominciato ad armeggiare con qualcosa e i due sorveglianti gli avevano chiesto cosa stesse facendo. Subito dopo avevano invitato il boss a consegnare il sacchetto e lui lo aveva passato attraverso la grata della porta. Non fu così necessario entrare nella cella e perquisirla. Da due settimane Provenzano è sottoposto ad altissima sorveglianza (prima era “alta”) e ogni cinque minuti viene osservato attraverso lo spioncino e con l’apertura del “blindo”, la porta corazzata che “copre” il cancello della cella. Inoltre sono state anche piazzate delle telecamere che lo riprendono 24 ore su 24, all’interno della sua stanza blindata, e gli è stato tolto tutto il materiale, come sacchetti e cinture, che potrebbe utilizzare per un eventuale tentativo di suicidio. Della possibile demenza di “Binu” parlano da tempo i difensori e i familiari, ma due perizie, una medica e una psichiatrica, lo hanno ritenuto capace di rimanere detenuto e di partecipare coscientemente ai processi. Sardegna: ministro Severino; ho a cuore rapido completamento carceri in costruzione Ansa, 23 maggio 2012 Al ministro della Giustizia Paola Severino “sta molto a cuore” il completamento degli istituti penitenziari in Sardegna, tant’è che dopo esseri recata nella regione per ‘per verificare di persona il motivo per il quale tre carceri che avrebbero dovuto essere pronte da tempo ancora non lo sonò, ha incontrato il ministro delle Infrastrutture Corrado Passera per intraprendere insieme un cammino che porti alla soluzione di annosi problemi che si trascinano dal 2006 per le nuove carceri di Sassari, Uta - Cagliari e Massama - Oristano. Lo fa sapere lo stesso Guardasigilli che, rientrata a Roma, dopo il personale sopralluogo nel corso del quale ha constatato come “il carcere di Cagliari abbia accumulato maggiori ritardi malgrado la sua costruzione sia stata avviata prima di quella dell’istituto di Sassari”, ha compiuto verifiche su tre fronti. Nella struttura di Sassari, spiega il ministro, “i lavori sono pressoché ultimati e mancano solo alcuni allacciamenti. Nel corso dell’incontro di martedì con il ministro Passera, si è trovata la soluzione giuridica a un problema che si protraeva da troppo tempo, visto che la consegna dell’istituto sarebbe dovuta avvenire per contratto da ben otto mesi. Questa soluzione dovrebbe consentire di arrivare, entro il prossimo autunno, all’ultimazione dei lavori”. Quanto invece al carcere di Uta - Cagliari, il sopralluogo compiuto, ha consentito “di verificare che lo stato dei lavori era molto più arretrato di quanto ritenessi - aggiunge Severino. In questo caso, infatti, oltre al problema degli allacci , per i quali verrà indetta con la massima sollecitudine una gara, vi è anche quello del completamento delle strutture, molte delle quali ancora non terminate”. Quanto infine, alla questione del carcere di Oristano, “a seguito di un fax ricevuto dai competenti uffici dell’Amministrazione penitenziaria, venerdì 18 maggio, in cui si segnalava che le opere in questione sono praticamente ultimate e dunque si ritiene che nei locali di tali edifici possano essere collocati le apparecchiature e gli arredi previsti dalla normativa penitenziaria, ho invitato il provveditore regionale a recarsi sul luogo - riferisce il ministro. E così il dottor De Gesu ha fatto, salvo poi constatare che il cantiere risultava chiuso, inaccessibile e incustodito dall’impresa costruttrice. Dell’esistenza di una inchiesta giudiziaria ho appreso solo dai giornali locali. Ribadisco fermamente il massimo impegno del governo - conclude Severino - a risolvere tutti i problemi che si sono accumulati negli anni passati e che oggi, purtroppo, continuano a produrre ostacoli di ogni tipo alla realizzazione delle opere”. Trento: Antonella Forgione lascia la direzione del carcere, per incarico a Padova Ansa, 23 maggio 2012 Il direttore del nuovo carcere di Trento, Antonella Forgione, lascia l’incarico per assumerne uno superiore al Provveditorato di Padova. Da un anno e mezzo nella nuova struttura, che riunisce detenuti e personale di quella vecchia di Trento e di quella di Rovereto, ne ha informato oggi il personale con una lettera aperta. Spiega che la sua richiesta di trasferimento, “con motivi personali e familiari, è stata accolta”, quindi sarà operativa a Padova dalla prossima settimana. “Soddisfazione” intanto viene espressa in vista della fine della direzione di Forgione da un sindacalista del Sinappe di Trento, Andrea Mazzarese. “Lo chiediamo da un anno e mezzo” ha affermato. Sinappe: soddisfazione dopo battaglie sindacali Il direttore del nuovo carcere di Trento, Antonella Forgione, lascia l’incarico per assumerne uno superiore al Provveditorato di Padova. Da un anno e mezzo nella nuova struttura, che riunisce detenuti e personale di quella vecchia di Trento e di quella di Rovereto, ne ha informato oggi il personale con una lettera aperta. Spiega che la sua richiesta di trasferimento, con motivi personali e familiari, è stata accolta, quindi sarà operativa a Padova dalla prossima settimana. A Trento invece riferisce che nell’immediato ci sarà un direttore in missione, quindi con incarico temporaneo. “Quando ho assunto la direzione della nuova struttura penitenziaria di Trento - dice - sapevo che ci sarebbero stati notevoli impegni e credo di averli portati avanti, credendo e contando sull’appoggio dei collaboratori, non sempre avuto. Riconosco il merito a chi ha lavorato per il bene e l’interesse comune. D’altra parte, rispetto alle recenti polemiche - aggiunge sullo stato di agitazione proclamato dal Sinappe per la sua gestione - se il mio cambiamento servirà anche ad allentare il clima creato dai sindacati, ben venga. Non credo comunque tutti i miei collaboratori siano rappresentati da questi organismi”. “Soddisfazione” intanto viene espressa in vista della fine della direzione di Forgione da un sindacalista del Sinappe di Trento, Andrea Mazzarese. “Lo chiediamo da un anno e mezzo - ha affermato - e tutti i sindacati, lo hanno chiesto insieme al Sinappe nell’ispezione del Provveditorato avvenuta la scorsa settimana”. Sulmona (Aq): detenuto scarcerato perché affetto da favismo, trasferito direttore carcere Ansa, 23 maggio 2012 Il direttore del carcere di Sulmona, Sergio Romice, è stato trasferito d’urgenza “temporaneamente” in appoggio nella sede del Provveditorato di Pescara. Il provvedimento preso dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria diretto da Ionta, sarebbe legato, secondo quanto sostiene l’agenzia Ansa, alla vicenda della scarcerazione di Michele Aiello, il mafioso rinchiuso nel carcere di Sulmona dal 5 febbraio del 2011 e liberato (ai domiciliari) qualche mese fa perché affetto da favismo. La decisione, presa dal magistrato di sorveglianza dell’Aquila, aveva portato ad una ispezione ministeriale e suscitato indignazione nell’opinione pubblica ed era stata oggetto anche di trasmissioni televisive in cui era intervenuto anche il ministro della giustizia Paola Severino. Trasmissioni dove erano state chieste delle risposte al provvedimento visto che Aiello, pare spendesse da 80 a 100 euro la settimana per farsi arrivare in carcere cibi di vario genere, dalla cioccolata al prosciutto ai gamberetti, dalle lenticchie al pesce insieme a sigari, e quattro o cinque pacchetti di sigarette. La risposta è arrivata con il trasferimento del direttore del carcere Romice che da domani sarà a Pescara, mentre a Sulmona prenderà il suo posto il direttore del carcere di Lanciano, Massimo Di Renzo. Michele Aiello, considerato il prestanome di Provenzano (meglio noto come il re Mida della sanità) è stato condannato a 15 anni e 6 mesi di reclusione. Detenuto a Sulmona, sono stati disposti gli arresti domiciliari perché intollerante al menù del penitenziario. Il favismo di cui è affetto è un problema facilmente aggirabile, secondo molti, dal momento che si poteva prevedere un menù diverso o il suo trasferimento in una struttura più idonea. La decisione dei togati contrasta anche l’articolo 9 dell’ordinamento penitenziario che prevede per i detenuti “un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima”. Roma: l’Assessore regionale Cangemi a celebrazione annuale Polizia penitenziaria Il Velino, 23 maggio 2012 “Oggi celebriamo l’Annuale del Corpo di polizia penitenziaria. Che sia una festa. Ma una festa all’insegna dell’austerità e della dignità, peculiarità che da sempre hanno caratterizzato le celebrazioni del Corpo”. Lo ha detto l’assessore agli Enti locali e Politiche per la sicurezza della Regione Lazio, Giuseppe Cangemi, partecipando, oggi, all’istituto penale minorenni di Casal del Marmo, alla celebrazione dell’annuale del Corpo di polizia Penitenziaria, dipartimento per la giustizia minorile. Presenti il direttore generale della direzione risorse materiali, beni e servizi del dipartimento per la giustizia minorile, Emanuele Caldarera, il direttore del centro giustizia minorile del Lazio, Donatella Caponnetti, Cangemi ha ricordato la difficile condizione delle carceri in Italia e ha aggiunto che a tale “condizione le Istituzioni devono porre rimedio. Anche se non è per nulla facile - prosegue Cangemi - con l’assessorato che mi pregio di rappresentare sto cercando di mettere in campo il massimo delle risorse a disposizione per rendere meno gravosa la permanenza nelle carceri della nostra regione: e questo sia per i detenuti, che in conseguenza di qualche errore commesso devono scontare una pena, sia per gli operatori di polizia penitenziaria che, quella pena, hanno il compito di farla scontare secondo criteri di disciplina e sicurezza, mai disgiunti dal più grande rispetto della dignità umana”. Proprio a proposito dell’impegno della Regione Lazio, la dirigente Donatella Caponnetti ha ringraziato la presidente Renata Polverini e l’assessore Cangemi per il clima di collaborazione instauratosi negli ultimi anni, con la ricezione delle istanze progettuali di Casal del Marmo, fatto che ha contribuito, pur in un quadro di tagli nazionali alle risorse, alla creazione in Italia di un modello Lazio per la giustizia minorile. “Questo modello Lazio - ha aggiunto Cangemi - nasce da un impegno regionale continuo che, ad oggi, ci ha portato a finanziare moltissimi progetti di diverso impatto strategico. Per esempio: un impianto fotovoltaico per la produzione di energia elettrica; il rifacimento del campo di basket con relativa recinzione; il rifacimento del viale d’ingresso e dei viali adiacenti; l’adeguamento degli arredi interni; un progetto di Arteterapia; un progetto per la “Tutela della salute psico-fisica dei minori”; l’acquisto di un ecografo portatile; un progetto di mediazione linguistico - culturale; un programma di riabilitazione culturale e rieducazione; il progetto “Ragazzi fuori: l’accompagnamento educativo ed il supporto all’inserimento in attività di formazione - lavoro; e ancora la serie di concerti organizzati per gli ospiti dell’istituto in occasione della manifestazione È Natale per tutti. Oggi ricade - ha concluso l’assessore regionale - un’importantissima ricorrenza, il ventennale della strage di Capaci. Il 23 maggio del 1992, il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo anch’ella magistrato, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, i tre uomini della scorta, vennero barbaramente trucidati dalla Mafia. Proprio questa ricorrenza, se da un lato ci indurrebbe a non festeggiare alcunché, dall’altro ci deve offrire lo spunto per celebrare, con tutto il dovuto rispetto per l’evento, le donne e gli uomini della polizia penitenziaria che entrano in azione proprio al compimento del lavoro di magistrati come Giovanni Falcone. Sono lieto, infine di esprimere il mio personale sentimento di gratitudine a tutte le donne e agli uomini della polizia penitenziaria che, ogni giorno, a sprezzo del pericolo, in assoluto silenzio, compiono il proprio dovere, prendendosi cura dei detenuti e della loro rieducazione. A tutti Voi e alle vostre famiglie giungano i miei più sentiti voti augurali”. Salerno: tavola rotonda sulla questione giustizia e la proposta radicale di amnistia Notizie Radicali, 23 maggio 2012 All’Interno del pride park-villaggio dei diritti, ieri sera si è conclusa la seconda sessione “Giustizia e carceri” con la favola rotonda sulla questione giustizia e l’amnistia quale proposta di riforma strutturale. il convegno organizzato dai militanti Radicali del partito nonviolento, transnazionale e transpartito dal titolo: “Dalle condanne della Corte di Giustizia Europea all’amnistia quale molla per lo sviluppo economico”. La tavola rotonda con Rita Bernardini, deputata Radicale componente della Commissione Giustizia della Camera, introdotta da Donato Salzano segretario dei Radicali Salerno “Maurizio Provenza” e moderata dal direttore di Telecolore Franco Esposito , ha avuto come ospiti d’eccezione l’On. Gennaro Mucciolo, Consigliere regionale del Partito Socialista, e Franco Picarone, Assessore all’annona del Comune di Salerno. Sono intervenuti anche l’avv. Pierluigi Spadafora, l’avv. Gianluigi Cassandra presidente dell’Asi di Salerno, la dott.sa Rita Romano, direttrice del carcere di Eboli I.C.A.A.T.; i prof. Massimo Adinolfi docente di Filosofia della Comunicazione dell’Università degli Sudi di Cassino e Francesco Schiaffo docente associato di diritto penale presso l’Università degli Studi di Salerno, e la presidente dell’Associazione Indiani d’Occidente Santa Rossi. Donato Salzano segretario dei Radicali di Salerno nella sua introduzione a tracciato le linee del dibattito sul caso Italia, i suoi 10 milioni di processi pendenti e la violazione della convenzione europea dei diritti dell’uomo: “la questione Giustizia e la sua appendice carceraria, la chiusura degli Opg. Ma più in generale l’amnistia quale molla per lo sviluppo economico, tale da azzerare il penale per trasferire risorse e uomini sul civile, così d’agganciare investimenti in territori dalla spiccata vocazione alla crescita e flussi di capitali, per evitare che il tessuto economico sia prigioniero e sottomesso in regime di monopolio alle lavanderie delle varie “drine” che si spartiscono il territorio per sfere d’influenze. Senza poi dimenticare i costi della malagiustizia rispetto al Pil, insomma l’amnistia quale intervento di riforma strutturale prima dell’economia e poi della giustizia, perché il mercato è libero se regolato da una efficace e veloce giurisdizione. Abbiamo messo su una discussione aperta con la cittadinanza in un confronto a tutto campo”. L’On Gennaro Mucciolo si è soffermato nel ricordare la comune militanza sulla giustizia giusta tra Socialisti e Radicali: “io, come Loris Fortuna per il divorzio, e poi ancora insieme ai militanti Radicali lottammo allora per la vittoria del referendum Tortora sulla responsabilità civile dei magistrati. Da allora nulla è cambiato, continuiamo a lottare insieme per la riforma della giustizia”. L’Assessore Franco Picarone si è soffermato sulla proposta radicale di amnistia quale riforma non solo del processo penale ma anche in particolare del processo civile: “I costi della bancarotta della giustizia sono un macigno sulle imprese e sullo sviluppo economico, perché non solo gravano sul Pil ma anche sulle possibilità di investimenti di capitali stranieri nel nostro paese.” A concludere, l’On. Rita Bernardini si è soffermata non solo sulle sentenze della Corte di Giustizia Europea, ma anche sui costi della giustizia che gravano su ogni famiglia italiana: “a fronte delle 2121 condanne al Governo Italiano della Corte di Giustizia Europea, di cui 1139 per la lunghezza dei processi, per la violazione della convenzione dei Diritti dell’Uomo, il 2,2% delle famiglie italiane sono interessate dal calvario della lunghezza del processo. In Campania l’1,1% delle famiglie è coinvolta in un processo: la regione detiene la maglia nera, non solo in Italia, m anche in Europa per la lunghezza dei dibattimenti.” Brescia: concorso letterario “Palla al Piede”… la speranza di noi detenuti in un racconto Corriere della Sera, 23 maggio 2012 Circa 2 mesi fa L’Associazione Carcere e Territorio ha organizzato un concorso letterario intitolato “Palla al Piede” dove potevano partecipare studenti detenuti ed esterni della zona di Brescia. Mi è stata così data la possibilità di partecipare ed ho colto l’occasione con entusiasmo. Ho trovato l’argomento molto interessante, mi ha fatto riflettere parecchio sull’ambiente in cui sono detenuto temporaneamente dove le risposte non mi vengono spontaneamente dal cuore. Con il mio scritto sono riuscito a esprimere il nostro stato d’animo e i miei sentimenti e a descrivere alcuni particolari della vita quotidiana in carcere, per me è stata un’opportunità importante. Partecipare e mandare un messaggio positivo alle persone esterne, oltre allo sfogo, ha rappresentato la possibilità di confrontarsi con gli altri. Il tentativo di fare capire ai giovani che i valori della vita sono istruzione, cultura, affetti, amicizia e solidarietà. Purtroppo non ho potuto presenziare alla premiazione perché non mi è stata data la possibilità di uscire. La notizia della vincita l’ho avuta il giorno dopo e mi ha riempito di felicità: mi ha regalato un momento di serenità, spensieratezza e ho provato emozioni finalmente positive. Questo concorso è importante per tutti noi detenuti perché ci permette di far conoscere alcuni aspetti della nostra detenzione, delle condizioni in cui siamo costretti a vivere. Questo concorso permette di entrare in rapporto con persone esterne, che solo in questo modo possono rendersi conto ella terribile situazione in cui noi detenuti ci troviamo a vivere. Mi ha colpito molto la solidarietà delle persone ci sostengono e ci ascoltano, l’aiuto di Carcere e territorio è importante. Le persone che fanno volontariato sono colombe che non hanno bandiera, sono conosciuti in tutto il mondo per la loro nobiltà d’animo ed il loro aiuto è prezioso. Aiutano noi detenuti a reintegrarci nella società e a rendere le nostre vite degne di essere vissute. Svolgono un’attività finalizzata all’educazione e al recupero dei detenuti, ci fanno riflettere sui nostri errori e ci fanno capire il nostro sbaglio. Nonostante tutto fanno questo lavoro gratuitamente. Credo che sia necessario sostenere le associazioni come A.C.T. perché aiutano le persone in difficoltà, il loro progetto è utile per la società, per l’educazione dei giovani, per fare conoscere questa realtà in modo che i giovani siano consapevoli dell’importanza della legalità e sappiano fare scelte di vita positive e responsabili. Il progetto promosso da A.C.T. mi ha aiutato molto a capire varie cose positive e sono rimasto obiettivamente colpito dalle persone che mi hanno sostenuto, senza discriminazione di cultura o religione. Tutto ciò mi ha permesso di capire che i comportamenti positivi e costruttivi alla fine vengono sempre premiati. Infine un ringraziamento a tutti coloro che mi hanno votato, alla giuria,a tutti coloro che lavorano con A.C.T. e a quelli che sostengono questa associazione impegnandosi ogni giorno per aiutare le persone che si trovano in difficoltà. Un ringraziamento particolare alla maestra Marilena della Scuola Franchi che mi ha aiutato per questo concorso con entusiasmo ed alla prof. Giordano del Tartaglia. Grazie. Redouane Milano: presentazione del libro “Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri” di Jessica Carbonaro (Studentessa Liceo Berchet) www.innocentievasioni.net, 23 maggio 2012 Luigi Manconi e Valentina Calderone ci hanno presentato la situazione detentiva delle carceri italiane in un’analisi spietata quanto puntigliosa; quello che accade all’interno di certe strutture istituzionali lascia annichiliti; la lettura di questa cronistoria trascina il lettore in un vortice di dati crudi e dettagliati da cui non si può rimanere indifferenti. Gli stessi dettagli che in molti frangenti mi hanno costretta a chiudere il libro per riprendere fiato, nessuno forse in precedenza aveva dato voce a queste situazioni, soprattutto non in questa chiave. Nessun giudizio di sorta, solo la nuda verità. Una cronaca agghiacciante scritta con la risolutezza di chi vuole portare a conoscenza di tutti un universo sconosciuto, abitato da esseri senza volto, senza nome, senza voce, buoni solo a far parte di una percentuale di residenti delle patrie galere. Un numero appunto, una pratica da evadere, un esercito di figli di un dio minore che nessuno prende in considerazione perché “se è dentro qualcosa avrà pur fatto”, ma i fatti parlano chiaro, non è sempre così. In carcere ci sono un mucchio di persone che hanno compiuto reati punibili per legge e che meritano ampiamente di pagare il loro conto, ma poi c’è una zona d’ombra una sorta di limbo istituzionale che può essere considerato una vera e propria rete dentro la quale è abbastanza facile entrare, ma estremamente complicato uscire. Un labirinto pieno di trappole dove la scarsa conoscenza delle regole è un handicap insormontabile e l’impossibilità di comunicare con l’esterno fa il resto; ma non è tutto, gli autori, subito dopo la prefazione presentano il libro in poche frasi che voglio riportare qui di seguito: “In questo libro parliamo di alcune vicende di privazione di libertà e di violenza. Non tutte rimandano alla detenzione carceraria, ma tutte richiamano una qualche forma e un qualche istituto di controllo e di repressione a opera dello Stato e dei suoi apparati. Parliamo, pertanto, di persone decedute, oltre che in una cella, per strada o in un ospedale psichiatrico giudiziario o in trattamento sanitario obbligatorio, e proprio perché - come intendiamo argomentare - le procedure di sorveglianza e della coercizione tendono per un verso, ad ampliarsi e, per l’altro, a integrarsi tra esse. Qui raccontiamo storie, faticosamente costruite perché - e si tratta di un altro dato su cui riflettere - le informazioni di fonte istituzionale sono in genere parziali, spesso alterate, talvolta manipolate. Qui solleviamo dubbi, sottolineiamo perplessità, evidenziamo contraddizioni, augurandoci che questo lavoro possa servire a ricordare l’iniquità di tante morti e ad approssimare alla verità dei fatti”. Il linguaggio diretto e refrattario a qualsiasi possibilità di fraintendimento la dice lunga su quello che c’è scritto dopo; una catena inflessibile di fatti meticolosamente raccontati e clinicamente sezionati, fatti che finalmente danno un nome un volto ed una voce a coloro che fra le mura di una struttura istituzionale sono morti in circostanze spesso ferocemente inumane; ma soprattutto senza un perché e spesso senza un colpevole. Altra componente fondamentale di questo libro sono state le donne, le portatrici di vita non tacciono nel dolore, non si fermano, non dimenticano; con fermezza vogliono la verità per capire, per accettare, per riuscire a convivere con la disperazione, perché quando muore una persona cara si fanno i conti con un mucchio di sentimenti strazianti, e c’è la necessità di farsene una ragione. La verità non serve solo ai morti ma soprattutto ai vivi; quelli che hanno una coscienza con cui fare i conti e che non soccombono alla vigliaccheria che un pò tutti abbiamo di nascondere la testa sotto la sabbia per non soffrire. Grazie alla volontà di queste donne vi sono processi aperti con vari gradi di giudizio, la battaglia adesso si sposta sull’opinione pubblica, parlare di carceri non è un argomento gradito ai più, la natura umana ci porta a mettere in secondo piano lo schifo delle condizioni delle strutture istituzionali in oggetto. Va detto che i penitenziari in Italia svolgono molteplici funzioni per cui non sono minimamente predisposti senza contare il sovraffollamento (70.000 detenuti quando le strutture sono predisposte per 45.000); pochi sanno che vengono rinchiusi in cella malati di mente, persone dedite all’uso di droghe che per forza maggiore nelle crisi di astinenza diventano violente, il tutto senza il supporto di un apparato medico sufficiente. Ricordiamo che un sostegno psicologico/psichiatrico è contemplato, ma in maniera così centellinata da non poter essere sufficiente, e non va dimenticato che chi lavora in queste strutture molto spesso non è adeguatamente preparato a gestire una serie di problematiche così ampia e variegata, parliamo di persone normalissime che dovrebbero limitarsi ad effettuare semplice sorveglianza, ma che di fatto hanno a che fare con persone malate bisognose di cure mediche e non di una cella in un carcere circondariale. Prima o poi non si dovrà solo “parlare” di etica e di morale, bisognerà anche affrontare certe situazioni, per tutelare tutti, chi nelle istituzioni ci lavora e chi nelle stesse istituzioni per malattia, colpevolezza o per piccoli reati o per errore ci entra vivo e ci esce morto. Asti: Uil Penitenziari; agente aggredito a calci e pugni da un detenuto Adnkronos, 23 maggio 2012 Un detenuto ha aggredito e ferito con calci e pugni, oggi, un agente in servizio nella sezione che ospita i detenuti comuni nel carcere di Asti. A darne notizia, in una nota, è il segretario generale della Uilpa Penitenziari, Eugenio Sarno. L’agente, trasportato al pronto soccorso, ha riportato ecchimosi varie. Proprio ieri ero ad Asti - scrive Sarno - e nel corso di una affollata assemblea con i colleghi dei baschi blu l’aspetto della sicurezza è stato predominante e costante in tutti gli interventi. Innanzitutto, però, desidero far giungere al nostro collega i vivi sentimenti della nostra solidarietà e vicinanza per l’aggressione subita, auspicando una pronta ripresa. Comunque quella delle aggressioni in danno dei baschi blu - conclude Sarno - è una delle questioni più urgenti e cogenti sul tappeto”. Rieti: Sesta Opera e Comunità Sant’Egidio; in carcere patto di amicizia e di responsabilità www.frontierarieti.com, 23 maggio 2012 Un incontro bello e significativo si è svolto tra i detenuti e gli assistenti volontari della Sesta Opera San Fedele Rieti e della Comunità di Sant’Egidio. L’incontro è avvenuto nel teatro della Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso. I responsabili delle due associazioni di volontariato penitenziario hanno incontrato l’intera comunità dei detenuti per invitarli a stringere con loro, e con la comunità esterna da loro rappresentata, un patto di responsabilità e di amicizia, la riconciliazione tra persone detenute e persone libere, la nascita di un rapporto umano che liberi i cittadini dalla paura di chi ha commesso reati, che liberi i detenuti dal nascondere i reati commessi, per la riconciliazione con responsabilità ed amicizia, con la consapevolezza di essere una sola comunità per l’aiuto reciproco. Nazzareno Figorilli, presidente della Sesta Opera San Fedele Rieti, ha illustrato il dono del Vestire come riconoscimento della dignità della persona, intima ed esteriore, quella dell’ essere puliti e vestiti per sentirsi ed essere persona umana, il dono della Parola come offerta per conoscere Dio e con lui scoprire la sacralità della propria vita e di quella degli altri. Stefania Tallei, responsabile degli assistenti volontari della Comunità di Sant’ Egidio, ha illustrato il dono dell’amore con il concetto di Giovanni Paolo II: “non è una cosa che si può insegnare, ma è la cosa più importante da imparare”, con atti concreti, donando se stessi, ed ha concluso “noi vi vogliamo bene”. L’incontro per il patto di responsabilità e per il patto di amicizia, si è concluso con atti concreti per la riconciliazione tra liberi e detenuti, la Comunità di Sant’ Egidio ha donato a tutti i detenuti il Vestire, un pigiama, un paio di crocs, un paio di pantaloni, una t-shirt; la Sesta Opera San Fedele Rieti ha donato a tutti i detenuti il libro del Vangelo o il libro del Corano. Nella Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso è in divenire un nuovo modello educativo per il reinserimento sociale dei detenuti, il volontariato penitenziario ha un compito ed una missione essenziali al risultato indicato dalla Costituzione Italiana. Napoli: i detenuti dell’Opg registrano disco “Ponte dei suoni” Ansa, 23 maggio 2012 Quanta dose di follia ci vuole per registrare un disco in un Ospedale psichiatrico giudiziario? Forse giusto un pizzico. Ma quello che certamente ci vuole è la voglia di riscatto e la voglia di fare. Ed è così che un vecchio scantinato dell’Opg di Napoli diventa un vero e proprio studio di registrazione e, soprattutto, dieci detenuti diventano a tutti gli effetti dei cantanti. “La musica è un mezzo di elezione - spiega la curatrice del progetto, Tiziana Salvati. È un modo per combattere il terribile marchio della follia”. Il progetto è nato come un semplice laboratorio musicale di sei mesi. Poi, a mano a mano che l’entusiasmo cresceva, le ambizioni dei ragazzi dell’Opg e degli esperti che li seguivano lo hanno trasformato in qualcosa di più ambizioso. Alla fine, nel disco dal titolo “Ponte dei suoni”, stampato in cento copie con tanto di bollino Siae, sono state incise ben sei tracce con cover di Vasco Rossi, Pino Daniele ed Eros Ramazzotti. “Ognuno ha scelto la propria parte da cantare - spiega la Salvati. E ognuno ha dato un significato preciso alle parole che interpretava. Parliamo di persone che si sono macchiate di delitti tremendi, spesso omicidi plurimi commessi anche tra le mura domestiche, che con la musica hanno trovato un modo per entrare in relazione con gli altri e per comunicare”. Verona: si consegnano ai carcerati i libri raccolti dal Banco editoriale L’Arena, 23 maggio 2012 Domani, giovedì 24 maggio, alle 10.30 alla Casa Circondariale di Montorio, si terrà la cerimonia di consegna dei 700 libri raccolti dal Banco Editoriale di Verona a favore dei detenuti. Saranno presenti il direttore del carcere, Mariagrazia Bregoli e la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Verona, Margherita Forestan. Seguirà la presentazione del Premio “Emilio Salgari” 2012, concorso di letteratura avventurosa che vedrà la partecipazione delle persone detenute sia in veste di giurati che di lettori. Parteciperanno all’incontro Giorgio Zamboni, presidente del Consorzio Pro loco Valpolicella; Sonia Salgari, rappresentante della famiglia di origine dello scrittore veronese; Claudio Gallo, esperto salgariano e gli studenti dell’Istituto di Istruzione Superiore “Giacomo Perlasca” di Idro (Bs). Il Premio letterario, per la parte seguita dalle persone detenute, sarà coordinato dal gruppo di lavoro “Microcosmo”. Cinema: “Art. 27”, un docu-film sul carcere finanziato dai cittadini Vita, 23 maggio 2012 Tre giovani filmaker, una telecamera, quattro carceri. Nasce così “Art. 27”, un documentario indipendente della fotografa e regista Laura Fazzini che racconta le realtà di quattro penitenziari che hanno puntato (in modo e in forme diverse) sul lavoro in carcere: la casa di reclusione di Milano - Bollate, la casa di reclusione femminile Venezia - Giudecca, le case circondariali di Roma Rebibbia e l’Ucciardone di Palermo. Cinquanta le interviste realizzate in questi quattro istituti così diversi tra loro. Le voci di detenuti, agenti di polizia penitenziaria, direttori e volontari. Ma anche le riflessioni di chi osserva, da anni, il carcere da un osservatorio privilegiato, l’associazione Antigone. Il film, ideato e realizzato da Laura Fazzini, 29 anni, fotografa milanese e realizzato in collaborazione con Elia Agosti e Luca Gaddini, 24 anni e montatore il primo, 28 anni e videomaker il secondo, ha ora bisogno dei finanziamenti per essere stampato e distribuito. L’idea è quella di una “produzione diffusa”, attraverso il meccanismo del crowdfunding, chiedendo un contributo minimo a quanti ritengano che il progetto sia meritevole di sostegno. Basta un clic per donare attraverso paypal ed entrare in “squadra”. “Il progetto”, racconta Laura Fazzini, “totalmente indipendente e con un finanziamento utile ai soli spostamenti per l’Italia, è stato creato insieme a Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale, Paola Comucci, docente in pensione di diritto penitenziario in Bicocca e Luigi Pagano, all’epoca dell’intervista capo Prap di Milano e ora Vice capo D.A.P. a Roma”. Il presupposto da cui parte il film è che la pena “deve tendere alla rieducazione del condannato”. È quanto prevede il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione. In concreto, significa che ai detenuti devono essere offerte una serie di possibilità (attraverso lo studio, la formazione e soprattutto l’avviamento al lavoro) per arrivare al “fine pena” con la concreta possibilità di non tornare più dietro le sbarre. Ma il carcere è veramente in grado di offrire una seconda possibilità? Come può un’istituzione che investe meno di 20 centesimi di euro al giorno per la rieducazione del condannato ottenere risultati? Dal 2001 al 2010 la gestione delle carceri è costata circa 29 miliardi di euro. Con una spesa media di 113 euro al giorno per detenuto, di cui meno di 20 centesimi di euro spesi per le attività trattamentali (corsi di formazione, inserimento lavorativo, supporto psicologico). Ma non sono solo i soldi a scarseggiare. Mancano gli spazi, il tempo, le energie di operatori e volontari costretti a fare i conti con strutture fatiscenti e un sovraffollamento legato a piccoli reati, puniti con pochi giorni di detenzione, che incidono sulla possibilità di attività trattamentali. “Art 27” racconta gli sforzi quotidiani di chi, malgrado tutto, crede sia possibile applicare veramente il dettato costituzionale. E i sogni di chi, dopo aver scontato una pena, sa di avere in mano una possibilità concreta per cambiare la propria vita. Cinema: media internazionali pazzi per Aniello Arena, il detenuto-attore in lizza a Cannes La Nazione, 23 maggio 2012 Aniello Arena, il singolare attore detenuto del carcere di Volterra, dato per favorito come migliore attore al festival di Cannes e, Reality, ha attirato l’attenzione dei media nazionali e internazionali. Sulla singolare candidatura di Aniello Arena a Cannes per il premio come miglior attore hanno scritto e parlato anche i maggiori media del mondo, dal The Guardian a Vanity Fair. Certo è una notizia che fa scalpore, quella di un detenuto di un carcere di massima sicurezza come Volterra che da dietro le sbarre viene nominato tra i possibili vincitori di un premio internazionale tanto ambito. Ma se gli sarà dato il premio o meno si saprà solo il 27 maggio, giorno conclusivo del festival del cinema della cittadina francese. Per ora i principali interrogativi hanno riguardato chi al posto suo andrà a ritirare il probabile premio e per quale motivo Arena si trovi in carcere. A entrambe le domande è stata trovata risposta. Certo è che grande merito, oltre all’attore stesso, e a Matteo Garrone che l’ha scelto come protagonista nel suo Reality, unico film italiano in concorso a Cannes, va ad Armando Punzo, fondatore e direttore della Compagnia della Fortezza. Infatti, è grazie a lui che Aniello Arena ha scoperto il teatro e la recitazione. Il laboratorio teatrale del Carcere di Volterra dall’agosto del 1988 dà la possibilità ai detenuti del carcere di realizzare uno spettacolo teatrale all’anno e dal 1993 di portarlo anche fuori dal Carcere in teatri e festival di teatro, ricevendo spesso importanti riconoscimenti. È in una di queste occasioni che Garrone ha scoperto Aniello Arena. Immigrazione: nei Cie troppe persone impossibili da identificare Redattore Sociale, 23 maggio 2012 È il caso di molte persone nate in ex Jugoslavia, ma non riconosciute dalle nazioni attuali. Per loro la prospettiva è una permanenza di 18 mesi, per poi uscire e rischiare di rientrare. L’ultimo caso è quello di una donna rom di 30 anni, in Italia con 5 figli. Oggi si trova nel Cie di Bologna, sta aspettando di essere identificata, ma questo non avverrà mai. Perché la donna è nata in Bosnia quando ancora c’era la Jugoslavia: il suo nome non è registrato da nessuna parte, in quello che per la legge italiana dovrebbe essere il suo Paese, non sanno niente di lei. E così rimarrà 18 mesi nel Cie, in attesa di un’identificazione impossibile, poi uscirà e rischierà di ripetere la stessa esperienza. “Nel Cie se ne incontrano parecchie di persone così, persone che entrano ed escono: c’è un vuoto legislativo”, spiega la garante dei detenuti dell’Emilia - Romagna, l’avvocato Desi Bruno, che oggi ha posto la questione alla commissione consiliare delle elette del Comune di Bologna. Quante sono le persone che in realtà non dovrebbero trovarsi nei centri di identificazione ed espulsione? Difficile capirlo con certezza, ma di certo in quello di Bologna “la metà delle persone trattenute viene espulsa, ormai questo è un dato costante”. Nel 2011 le espulsioni sono state 334, a fronte di 665 persone transitate dal centro di via Mattei. E gli altri? In 192 hanno fatto richiesta di protezione internazionale, ma solo 30 l’hanno ottenuta. “Ma fra i 53 cittadini tunisini che sono stati nel Cie nessuno ha fatto richiesta”, spiega la direttrice Annamaria Lombardo, “il loro obiettivo era raggiungere la Francia, e con la protezione internazionale non avrebbero potuto farlo”. Altri 107 sono usciti con un permesso per protezione sociale o per motivi di salute. Fra questi anche 12 donne vittime di tratta, che hanno ottenuto il permesso di soggiorno grazie all’articolo 18 del Testo unico per l’immigrazione del 1998. Ad assisterle l’associazione Sos Donna, che ha aiutato altre 7 persone nella richiesta di asilo politico. “Nell’ultimo anno abbiamo preso in carico 60 - 70 persone”, spiega Carla Martini, in rappresentanza dell’associazione, che segnala il caso di una ragazza minorenne, riconosciuta come tale solo dopo che Sos Donna l’ha aiutata a rintracciare i documenti scolastici che provavano la minore età. I percorsi di protezione sociale vengono gestiti anche insieme alla Casa delle donne, che nel 2011 ha seguito 7 casi nel Cie (e già 4 dall’inizio del 2012, in totale una ventina di persone dal 2009). “Di queste sette, sei sono uscite dal centro e si sono inserite nel mondo del lavoro, tanto che il loro permesso di soggiorno è stato convertito da motivi di protezione sociale a motivi di lavoro”, spiega Silvia Ottaviano della Casa delle donne: “Una donna però è stata rimpatriata nonostante la nostra lettera di presa in carico”. Non è l’unica stortura che le associazioni hanno registrato all’interno del Cie. “Purtroppo di violazioni ce ne sono”, spiega Simone Ferraioli dell’associazione Eureka, che gestisce uno sportello legale nel Cie: “provvedimenti non tradotti, indicazioni per il ricorso non segnalate... Spesso è proprio l’informazione che manca, molti chiedono a noi il motivo per cui si trovano nel Cie”. Immigrazione: Desi Bruno; nel Cie di Bologna meno “trattenuti”, ma cresce tensione Redattore Sociale, 23 maggio 2012 La buona notizia è che nel Cie di Bologna non c’è sovraffollamento. La cattiva è che la tensione fra le persone trattenute è sempre più alta, e le rivolte e i tentativi di fuga sono all’ordine del giorno. “Al momento le persone presenti sono 60 su una capienza di 95 posti”, spiega la garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna Desi Bruno, intervenendo nella commissione delle elette del Comune di Bologna riunita oggi proprio per discutere del centro bolognese. Il problema è che molti arrivano direttamente dal carcere della Dozza, dove hanno già scontato la loro pena. “Non si spiegano il motivo di un’ennesima detenzione. Questo esaspera molto gli animi, la tensione ormai è altissima”, dice Annamaria Lombardo, direttrice della Confraternita della Misericordia, che gestisce la struttura di Bologna. E così “ogni volta che c’è una visita dall’esterno scoppia una rivolta”, aggiunge la garante. Ma accanto agli ex detenuti, il profilo di chi si trova all’interno dei Cie è incredibilmente complesso. La relazione della direttrice Lombardo sembra una descrizione dei gironi danteschi, perché nel Cie c’è di tutto: ex detenuti, vittime di tratta, altri che hanno semplicemente perso il posto di lavoro, badanti che lavorano in nero, persone che vivevano in strada, spesso con disturbi psichiatrici, ex minori non accompagnati che non hanno fatto richiesta per il permesso di soggiorno o che hanno commesso piccoli reati. La promiscuità è uno dei problemi più gravi, e l’allungamento della permanenza da 6 a 18 mesi ha peggiorato le cose. “La tipologia dei trattenuti è molto cambiata nel corso degli anni”, spiega Lombardo, “la maggioranza degli ospiti attuali si caratterizza per un elevato grado di comportamenti violenti. Così il lavoro degli operatori è diventato difficile. La struttura non è pronta a gestirli, e non è in grado di gestire trattenimenti di 18 o anche 6 mesi. Può andar bene per due mesi, com’era una volta”. Su tutto questo incombe la drastica riduzione dei fondi e il cambio di gestione, che da luglio passerà dalla Misericordia al consorzio Oasi. A luglio da un costo giornaliero per ospite di 70 euro si passerà a 28. “Le attività di sostegno andrebbero ampliate con più risorse economiche e più personale”, spiega Lombardo, “la riduzione dei fondi va in senso contrario: per noi così è impossibile garantire anche l’esistente. Spero di sbagliarmi e che la nuova gestione sia in grado di fare quello di cui c’è bisogno”. Immigrazione: nel Cie di Ponte Galeria a Roma internati oltre 800 europei in 2 anni Redattore Sociale, 23 maggio 2012 Si tratta di romeni, rinchiusi per pericolosità sociale. Sono la terza nazionalità dopo tunisini e nigeriani. Numeri così alti configurano un potenziale abuso. Tante anche le vittime di tratta. Il rapporto di Medu. Centinaia di europei vengono rinchiusi ogni anno nel centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria, il più grande d’Italia che si trova alla periferia sud est di Roma. Si tratta di romeni. Sono stati 304 nel 2011 e 516 nel 2010 (rispettivamente la terza nazionalità più presente dopo Tunisia e Nigeria nell’anno passato e la prima nazionalità a essere internata nel Cie due anni fa). È uno dei dati più sorprendenti contenuti nel rapporto “Le sbarre più alte” realizzato dall’Ong Medici per i diritti umani sul Cie della capitale, in seguito a una visita effettuata il 22 febbraio scorso nell’ambito di un progetto di “Osservatorio” dei Medu e della campagna LasciateCIEntrare. I Cie infatti dovrebbero servire a rimpatriare gli immigrati irregolari provenienti da paesi non comunitari. Le persone che arrivano da paesi dell’Unione europea possono essere internati solo per particolari motivi di pericolosità sociale. Si configura dunque un uso molto esteso di questa misura eccezionale. I dati sono stati forniti all’Ong direttamente dalla prefettura di Roma. Il Cie può ospitare 354 persone, di cui 176 uomini e 178 donne. Vi è anche una piccola sezione (6 posti letti) destinata ai trattenuti transessuali che però non è mai stata resa funzionante. La media di presenze nel centro si attesta intorno alle 240 unità. La maggior parte dei trattenuti uomini proviene dall’area del Maghreb ma vi è anche un numero rilevante di cittadini comunitari, in particolare rumeni. Tra le donne, la nazionalità di gran lunga più presente è quella nigeriana. Secondo i dati della Prefettura, le nazionalità più rappresentate nel corso del 2011 sono state nell’ordine: Tunisia, Nigeria, Romania, Marocco e Algeria. Si conferma, come nelle precedenti visite, la presenza di un elevato numero di trattenuti provenienti dal carcere (80%) tra gli uomini e di vittime della tratta a scopo di prostituzione (80%) tra le donne. Tra loro, pochissime denunciano gli sfruttatori e usufruiscono del permesso di soggiorno per protezione sociale (ex articolo 18) che permetterebbe a queste donne di uscire dal Cie. Secondo l’Ong “Appare, inoltre, del tutto improprio, il trattenimento all’interno del Cie di donne potenziali vittime di tratta, in quanto tale struttura non è evidentemente il luogo adeguato per avviare gli opportuni percorsi di assistenza e protezione sociale a favore di persone particolarmente vulnerabili”. Sono poche le donne che richiedono di accedere alle misure di protezione sociale per le vittime di tratta, rispetto a quante ne avrebbero potenzialmente diritto. Secondo il dossier “ciò si verifica anche a causa dei condizionamenti ambientali all’interno del centro ove spesso le vittime si trovano a subire una situazione di convivenza e di controllo da parte di persone responsabili o coinvolte nel loro sfruttamento. Le stesse operatrici sono state inoltre testimoni di casi di donne che dopo aver denunciato la propria condizione di sfruttamento presso commissariati e stazioni di pubblica sicurezza sono state successivamente tradotte nel Cie”. Cuba: secondo governo 57mila in carcere; per associazioni dissidenti sarebbero 70-100mila Il Velino, 23 maggio 2012 Ma per i gruppi dissidenti i reclusi sono tra le 70 e le 100mila persone. Sono oltre 57mila i detenuti a Cuba e di questi, circa 23mila, lavorano e ricevono uno stipendio. Il regime dell’Avana risponde con un dettagliato rapporto sulla popolazione carceraria alle accuse di abusi commessi nelle strutture penitenziarie dell’isola. In un articolo pubblicato da Granma, organo di stampa ufficiale, si sottolinea in particolare l’avvio di programmi di riabilitazione per i carcerati nell’ambito di un piano di investimenti fino al 2017 per apportare miglioramenti alle infrastrutture e, più in generale, per le condizioni di vita dei detenuti. Sempre secondo i dati forniti dal regime, circa 10mila persone sono state scarcerate negli ultimi sei mesi, mentre è in aumento il numero di detenuti condannati per corruzione. Dati che i gruppi dissidenti contestano, spiegando che in realtà la popolazione carceraria si aggirerebbe tra le 70 e le 100 mila unità, molti dei quali reclusi per motivi politici. La situazione cubana è oggetto di valutazioni da parte del Comitato Onu contro la tortura, riunitosi ieri per verificare testimonianze di violazioni commesse dalle autorità. Israele: tre detenuti palestinesi proseguono sciopero fame Nena News, 23 maggio 2012 Mahmud Sarsak, Akram Rikhawi e Mohammad Abdel Aziz rifiutano il cibo e continuano la protesta contro la detenzione amministrativa, senza processo, applicata da Israele e le condizioni di vita nelle carceri. Non cedono Mahmoud Sarsak e Akram Rikhawi, i due prigionieri politici nel carcere di Ramle che hanno deciso di continuare lo sciopero della fame contro la detenzione amministrativa (senza processo) applicata nei confronti dei palestinesi. A loro si è unito un terzo detenuto, Mohammad Abdel Aziz. La protesta non è in polemica con l’accordo raggiunto poco più di una settimana fa da Israele con i rappresentanti dei detenuti palestinesi e che ha messo fine allo sciopero della fame attuato dal 17 aprile scorso da 1.550 dei circa 5mila prigionieri politici, con il sostegno all’esterno di migliaia di palestinesi scesi più volte in strada a manifestare. Le autorità israeliane ridimensionano la protesta, affermano che si tratta di una iniziativa isolata non legata alle condizioni di vita in prigione e che due dei tre palestinesi verranno rilasciati nel giro di un mesi o due. I tre in sciopero della fame invece fanno sapere che si ritengono prigionieri politici, ingiustamente tenuti in cella dall’occupante israeliano. Sarsak, che vuole essere riconosciuto anche come prigioniero di guerra, aveva cominciato a rifiutare il cibo il 23 marzo. Poi ha interrotto brevemente la protesta per riprenderla il 16 maggio. Rikhawi denuncia di essere detenuto pur essendo gravemente ammalato. Nelle scorse settimane ha fatto il giro del mondo il caso di Bilal Diab e Thaer Halahla, entrambi del Jihad Islami, che hanno fatto per 78 giorno lo sciopero della fame prima dell’accordo del 14 maggio con Israele. Siria: Osservatorio diritti umani; torturato e seviziato scrittore palestinese Salama Kila Nova, 23 maggio 2012 Lo scrittore palestinese Salama Kila ha subito feroci torture durante la detenzione a Damasco per avere criticato il regime. È quanto scrive il quotidiano “al-Hayat”, citando l’Osservatorio siriano per i diritti umani che ieri ha condannato la ferocia con cui gli apparati di sicurezza siriani si accaniscono contro i detenuti politici. L’intellettuale palestinese Salama Kila avrebbe subito sevizie e torture prima di venire allontanato dalla Siria. L’organizzazione ha diffuso anche delle foto di Kila in cui appaiono nitidi segni di percosse, ecchimosi e bruciature su mani e piedi.