Giustizia: l’ex magistrato Gherardo Colombo “oggi il carcere non rieduca” Intervista di Davide Pelanda www.articolotre.com, 21 maggio 2012 “Non credo che il sistema penitenziario italiano sia adeguato alla crescita della responsabilità. Perché la libertà va insieme alla responsabilità. Per fare ciò ci si dovrebbe educare attraverso un percorso adeguato”. Esordisce così nella nostra intervista Gherardo Colombo, ex magistrato divenuto famoso per aver condotto e contribuito allo svolgimento di inchieste celebri come la scoperta della Loggia P2, il delitto di Giorgio Ambrosoli, il processo Mani Pulite, Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme, in questa intervista a margine di una giornata di studi sul senso dell’efficacia della rieducazione in carcere, organizzato da Ristretti Orizzonti e svoltosi alla Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova. Dottor Colombo, lei che da sempre si occupa di giustizia trova che ci siano delle profonde ingiustizie nella struttura carceraria, anche su come vivono le persone qui dentro? “Beh trovo che esso non corrisponda all’articolo 3 né all’articolo 27 della Costituzione. Il sistema così come è organizzato oggi, dove le persone sono costrette a vivere - indipendentemente dal sovraffollamento - generalmente in una situazione normale 22 ore al giorno chiuse in una stanza delle dimensioni che sappiamo, in condizioni igieniche approssimative - anche se ci sono le eccezioni - vivendo quasi per nulla la propria affettività… tutto questo non è in coerenza con la nostra Costituzione”. Che cosa si può fare allora? Abbiamo visto gli effetti dell’indulto ma si è tornati al punto di partenza? Da cosa si può ripartire ora? “Francamente sarei perché venisse superato del tutto il sistema carcerario attuale. È chiaro che ci vuole del tempo, che ci vuole anche un cambio profondo della cultura e della mentalità, però bisogna cominciare a muoversi. Bisognerebbe ripensare progettualmente tutto. Fintanto che si continua a ipotizzare come strada percorribile quella del carcere è difficile arrivare a soluzioni alternative”. Cosa si può progettare in alternativa al carcere? “Credo che occorra separare i due piani. Secondo me chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, che però non vuol dire stare in una cella tre metri per quattro con altre persone 22 ore al giorno come dicevo prima, avendo la possibilità di vedere i propri cari sei ore al mese tutti insieme, non avendo momenti di intimità col proprio partner, dovendo dipendere per quello che riguarda la salute dalle strutture carcerarie e così via: chi è pericoloso sta da un’altra parte ma in una situazione dignitosa. E se la situazione è dignitosa in quanto ai tempi, agli spazi ed alla gestione delle proprie relazioni, non è più il carcere di adesso. Per chi non è pericoloso il percorso di riabilitazione può essere fatto benissimo altrove. Per certi casi, ad esempio, si può ricorrere all’affidamento in prova ai Servizi Sociali. Altrove quasi da tutte le parti è applicato, anche se non da moltissimo tempo, il sistema della giustizia riparativa”. Molta parte però della popolazione carceraria è fatta da immigrati, loro non possono accedere a questo tipo di misura perché non hanno una rete sociale, una famiglia che li aspetta: come si può fare? “Certo, bisogna creare delle strutture analoghe alle, per esempio, comunità per il recupero delle persone tossicodipendenti, dovrebbero esserci anche per chi viene da fuori”. Chi non dovrebbe stare in carcere ed invece in questo momento ci sta? “Si calcola che, su 67/68 mila persone detenute oggi, di effettivamente pericolose a dir tanto sarebbero 15 mila”. Quale modello si potrebbe copiare secondo lei? “Non sono un grandissimo esperto di sistemi carcerari in giro per il mondo. Credo però che sarebbe oltremodo necessario cercare di introdurre effettivamente - ed è tra l’altro nostro obbligo nei confronti dell’Unione Europea - un sistema di giustizia riparativa che affianchi e si sovrapponga, visto che non si può fare tutto e subito, al sistema tradizionale. Esistono in Europa esempi di detenzione in cui le persone non sono sottoposte a un regime come il nostro”. Pensa che le carceri private possano funzionare in Italia? In America ci sono già, vedrebbe bene il carcere con lo sponsor? “In un paese come il nostro non vedo delle garanzie di fatto tali per cui si possa pensare che un sistema del genere non funzioni a scapito delle persone che eventualmente possono essere detenute. Lo dico perché ho passato una parte consistente della mia vita a investigare su corruzione e su reati tipici dei rapporti tra privati e pubblica amministrazione”. Sarebbe comunque un sollievo economico per lo Stato italiano se si presentasse un investitore privato e dicesse “compro le carceri”? “Sì, sarebbe un investimento. Però questa funzione dovrebbe essere svolta con delle garanzie veramente forti che non ci sono nemmeno adesso, e che temo potrebbero diminuire ulteriormente” Cosa pensa del carcere ostativo? Quello per intenderci dove si chiude la cella del detenuto e “si butta via la chiave” come si suol dire? “Per fortuna i casi sono pochi. Credo che sia contrario all’articolo 27 della Costituzione: se il carcere deve tendere alla rieducazione del condannato, vuol dire che si deve dare uno sbocco. Se il carcere dura tutta la vita lo sbocco non esiste. Credo sia contrario anche al riconoscimento della dignità della persona, principio secondo il quale si basa tutta la nostra Costituzione: in essa si dice che “tutti i cittadini hanno parità sociale” e non si dice “escluso i detenuti”. Ci sono detenuti che non incontrano mai in un intero anno né l’assistente sociale né lo psicologo. È un problema di risorse questo o di cattiva organizzazione? “Credo sia un problema che riguarda entrambi gli aspetti. Si spende pochissimo, l’ultima ricerca che ho letto di Ristretti Orizzonti parla di 8 centesimi al giorno per gli aspetti psicologici del recupero delle persone, 13 centesimi al giorno invece per quel che riguarda cultura e sport, tra tutto 21 centesimi al giorno. Con questa cifra cosa fai? Parlando più in generale a me sembra che nelle strutture pubbliche italiane esistano dei grossissimi problemi di organizzazione. Conosco bene quelli che riguardano la giustizia penale. I tribunali ed in palazzi di giustizia sono sempre, salvo rare e casuali eccezioni, organizzati molto, molto, molto approssimativamente… io direi anche male. Per la cattiva organizzazione si sprecano tante risorse”. Ci sono parecchie persone in carcere che sono in attesa di giudizio proprio per questo. Allora è il meccanismo che non funziona? La giustizia è inceppata? “La giustizia, lo sappiamo tutti, funziona malissimo, non lo scopriamo solo adesso. Tutti gli italiani su questo sono d’accordo: la giustizia funziona male. Questo per una serie di motivi che possono riassumersi in quattro cause molto vicine: 1 - regole, devono cioè essere riformati i codici di procedura mentre bisogna fare molto anche sotto il profilo sostanziale; 2 - i mezzi, che non vuol dire non tanto e non solo la mancanza della carta per fotocopie, ma la struttura proprio del giudice che deve fare tutto per conto suo, buttando via un sacco di tempo e facendo cose che potrebbero fare altri; 3 - organizzazione. Inoltre secondo me in Italia c’è anche un numero eccessivo di avvocati, per cui le cause necessariamente si complicano e diventano più lunghe. Ciascuno di questi settori ha delle responsabilità attribuibili per primo al Parlamento, i mezzi al Governo, l’organizzazione alla magistratura e il numero degli avvocati all’avvocatura. Credo però che esista una causa remota, la causa delle cause: secondo me ai cittadini italiani nel loro complesso non importa tanto che la giustizia funzioni bene, allora si fa poco per farla funzionare”. Come non importa ai cittadini italiani? Cosa intende dire? “Intendo dire che se la giustizia funzionasse - la giustizia vuol dire controllo - chi evade le tasse sarebbe scoperto subito, chi mette l’auto in divieto di sosta riceverebbe subito la multa, chi non paga il biglietto del treno avrebbe subito il controllore dietro l’angolo a multarlo e via dicendo… piacerebbe agli italiani una cosa del genere?”. Lei che ha indagato persone eccellenti, perché i cosiddetti “colletti bianchi” non vanno mai in carcere? O perlomeno ci vanno in pochi? “È vero, sono molto pochi. Dipende anche dalla struttura del processo: in carcere vanno soprattutto le persone colte sul fatto per reati che in Germania si chiamano “bagatellari”, cioè furti, spacci di minime quantità di sostanze stupefacenti, resistenza a pubblico ufficiale e qualche rapina. Perché si va in prigione con questi reati? Perché l’aver colto in flagranza di reato comporta il rito direttissimo, addirittura queste persone vanno in carcere e scontano la pena prima che si celebri l’appello. È un processo rapidissimo. Quando invece si procede a piede libero il processo non finisce mai, vuoi per la prescrizione e vuoi la capacità anche di avvocati bravi, va a finire che si crea una giustizia a due velocità e con duplice risultati”. Lei ha lavorato a Tangentopoli. Li l’unico ad aver fatto la galera è stato Sergio Cusani, ma altri no… “In quel processo tantissimi casi sono arrivati al patteggiamento, poi frequentissimamente la prescrizione e poi il cambiamento di tante leggi per cui quello che prima era reato è diventato un po’ meno reato, dunque le sentenze di primo e secondo grado sono state riformate e le persone assolte perché il fatto non è più previsto come reato, le prove ridimensionate… Morale è successo quello che diceva lei”. Giustizia: i Radicali, il carcere e i diritti delle minoranze di Alessandro Tessari Notizie Radicali, 21 maggio 2012 Una delle prime esperienze forti che feci quando mi imbarcai nell’avventura radicale fu quella di andare a visitare le carceri. Qualcuno riteneva che fosse pericoloso entrare nelle celle. E spesso gli agenti scortano i visitatori nelle celle. I Radicali avevano un diverso stile. Ti fermi davanti ad una cella, te la fai aprire. A quel punto entrano il maresciallo, le guardie, specie se il detenuto è pericoloso. Le prime volte delle mie visite, il personale di custodia voleva fermarsi dentro, mentre tu parlavi con i detenuti. Mi resi subito conto che un detenuto non ti può raccontare le cose che non vanno, davanti agli agenti. Da allora ho sempre fatto uscire tutto il personale di custodia e poi mi sono chiuso dentro con i detenuti. A quel punto scattava una gara tra tutti i presenti a farti ogni sorta di cortesie: il caffè, la sigaretta, la chiacchiera sulle condizioni di vita del detenuto. Non ho mai avuto un attimo di timore che mi potesse succedere qualcosa. Certo è che se tu li tratti come gli animali che si vedono allo zoo: passi davanti alle loro gabbie con l’aria di chi pensa: prima me la sbrigo meglio è, ti può capitare anche che ti sputino in faccia, come successe a qualcuno. La sensibilità dei Radicali per il carcere, come luogo separato della società, come non luogo, dove fino a non molti anni fa non era consentito andare e non si andava, ma dove le società occultano il loro più profondo modo di essere, ha fatto crescere quella sensibilità che dal mondo delle carceri dilaga nella società. La stratificazione, la discesa agli inferi ha tanti gironi e in ciascuno c’è una componente della nostra società, e in basso stanno quelle meno significative, quelle che hanno un pò meno opportunità e dunque, consequenzialmente, qualche diritto in meno. È la strada che porta a scoprire che i diritti civili da rivendicare, non sono mai delle minoranze, ma di quasi la totalità delle nostre società. È che ciascuna minoranza crede di essere l’unica minoranza sventurata. E così i giovani senza futuro o le donne o gli anziani o gli handicappati. I carcerati, gli omosessuali, i senzacasa, i senza lavoro. Queste categorie sono quasi tutta la nostra società. Se poi andiamo a esaminare quella minoranza forte che governa le nostre società, i maschi adulti impiegati nelle attività produttive, si scopre che anche fra questi, i più si sentono, e sanno di essere, minoranze. Perché vengono espulsi dal lavoro prima, perché a parità di prestazioni hanno paghe più basse e così via. Giustizia: Clemenza e Dignità; il “problema della custodia cautelare” risiede nel codice Agenparl, 21 maggio 2012 “Quando si discute di un abuso della custodia cautelare in carcere, si dice una cosa che formalmente non è propriamente corretta.” È quanto afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità, che aggiunge: “Nel processo, e in questo caso nel processo penale, i giudici, i pubblici ministeri e gli avvocati, hanno ciascuno uno specifico ruolo, ma tutti si muovono pur sempre nell’ambito della legge, di ciò che è codicisticamente previsto o di interpretazioni, ragionamenti e valutazioni che sono codicisticamente consentiti”. “In sostanza, - prosegue - possono variare le modalità di esecuzione che sono proprie delle singole personalità e delle diverse sensibilità, ma il brano, lo spartito, è sempre lo stesso per tutti. Da qui - osserva - si spiega il fenomeno che viene definito di abuso della custodia cautelare in carcere: non si tratta solo di qualche eccesso individuale, di qualche errore umano sempre possibile o di un massivo orientamento anomalo nell’ambito del processo penale, ma di un problema che è così grande, perché è codicistico e quindi va coinvolgendo, come è naturale, tutti i Tribunali della Repubblica”. “Questa precisazione, - sottolinea - non toglie la necessità di ridimensionare il ricorso a questa misura ed allo stesso tempo avvalora il fatto dell’opportunità di rimeditare il sistema delle misure soprattutto per la ragione di consentire una maggiore aderenza ed una tendenziale conformità con l’art. 27 della Costituzione”. “Difatti, - sostiene - se l’art. 27 Cost., recita che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, ad esempio più significativo di capovolgimento della ratio dello stesso articolo, può rappresentarsi che non sono pochi i casi di custodie cautelari in carcere, a cui fanno seguito delle sentenze di assoluzione. Probabilmente, - continua - per quanto concerne la custodia cautelare in carcere, non è sufficiente dire che essa possa essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata, non basta dire che la custodia cautelare in carcere possa essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni. Bisogna restringere gli spazi di valutazione, restringere le tante e possibili valutazioni di proporzionalità della misura all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata, restringere le tante e possibili valutazioni inerenti il pericolo di fuga, il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo della commissione di gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede. Sarebbe quindi necessario - precisa - inserire degli elementi maggiormente tassativi e inequivocabili.” “Il Codice, difatti, - spiega - sembra più preoccuparsi di esporre i casi in cui non possa essere disposta la custodia cautelare in carcere, che esporre precisamente i casi in cui debba essere disposta. Inoltre, non c’è una precisa esplicitazione degli elementi da cui trarre l’inadeguatezza delle altre misure che è la condizione necessaria per l’applicazione della custodia in carcere.” “Pertanto, necessita una prospettiva di riforma ed in quest’ottica - conclude - potrebbe anche ragionarsi nel senso di una maggiore specificazione delle figure di reato, che effettivamente giustifichino la misura della custodia in carcere”. Giustizia: l’orrore degli Opg, la doppia pena degli internati nei vecchi manicomi criminali di Roberto Monteforte L’Unità, 21 maggio 2012 Chi non ha provato un vero sgomento rivedendo le drammatiche sequenze del documentario presa diretta sugli ospedali psichiatrici giudiziari”, realizzato per conto della Commissione Marino? I volti segnati dalla sofferenza. Le vite spezzate, i letti di contenzione. Il degrado. Scene da girone infernale, ma drammaticamente vere, vissute ancora oggi da un migliaio di “pazienti”. Per molti di loro la colpa sta tutta in un paradosso: l’essere stati considerati “non imputabili” dalla giustizia perché “incapaci di intendere e volere” al momento in cui hanno compiuto qualche reato. È stato così quasi vent’anni fa per un allora giovane che a Catania ha rapinato un bar con una mano in tasca, simulando di avere una pistola. Bottino magro: seimila lire. Pene lievissime per i complici. Lui sta ancora scontando la sua pena nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, prorogata di sei mesi in sei mesi per “pericolosità sociale”. Né cure, né recupero sociale per lui. Quanti articoli della Costituzione sono stati stracciati in nome di un’astratta sicurezza sociale? “Non mi merito questo” urlava alle telecamere. È grazie al lavoro di denuncia della Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema sanitario, presieduta dal senatore Ignazio Marino e a quel filmato se l’opinione pubblica ha iniziato a capire, che la tenace battaglia civile, culturale e politica condotta da Psichiatria Democratica e da tante altre realtà ha trovato maggiore ascolto. Si è convinto anche il premier Mario Monti. Ha voluto incontrare il senatore Marino. Oltre due ore per approfondire. Più di ogni parola lo deve aver colpito quel filmato. Nel febbraio 2012 è arrivata la legge che sancisce che entro il 31 marzo 2013 gli Opg vanno chiusi. In tempi di magra il governo ha trovato anche il finanziamento: 273 milioni di euro. “Meglio convincere che vincere” diceva Franco Basaglia, padre della “legge 180”, quella della chiusura dei manicomi. Memori di quell’ammonimento Luigi Attenasio, Emilio Lupo e Cesare Bondioli con gli altri dirigenti di Psichiatria Democratica hanno organizzato seminari, tavole rotonde con esperti, giuristi, politici, operatori sanitari, esponenti della cultura, rappresentanti delle istituzioni per costruire il “dopo Opg”. Le parole chiave? Quei percorsi individuali di reinserimento dei pazienti da che spetta alle strutture sanitarie territoriali presentare. “È questa la sfida per le Asl e per i Dipartimento di salute mentale per vedere se gli Opg verranno superati” afferma il segretario di Pd, Emilio Lupo. Denuncia un pericoloso spread tra le necessità delle persone ancora rinchiuse negli Opg e l’azione di Stato e Regioni. Dove andranno i pazienti “dimessi”? Andrebbero ospitati in adeguate “strutture residenziali” (per un massimo di 20 ospiti) realizzate sul territorio in base a progetti delle autorità sanitarie. Il rischio è che, invece, si vadano a ricostruire altre “strutture chiuse”. Altre forme di reclusione, gestite da privati. Il reparto femminile È di questo che si è discusso lunedì scorso a Roma, nell’incontro organizzato al Nuovo cinema Aquila. Vi ha partecipato anche il senatore Marino. Era il 14 maggio. Una data significativa: il 13 maggio del 1978 il Parlamento ha approvazione la “legge Basaglia”. Un anniversario. Non a caso l’incontro ha avuto per titolo “La stanza rosa”. Era l’ex reparto per “Le donne inquiete” del manicomio di Arezzo che in quegli anni, grazie all’azione di Agostino Pirella e della sua équipe, divenne il luogo dove si costruì la riforma che portò alla chiusura di quel manicomio. Si discusso dell’oggi e del futuro. Vi ha partecipato anche Vittorio Borraccetti, già presidente di Magistratura Democratica e ora membro del Consiglio Superiore della Magistratura. È sul paradosso della “non imputabilità” che il magistrato ha invitato a riflettere: invece che tutelare la dignità della persona più debole, incapace di intendere e volere, ha finito per determinare quel terribile “fine della pena: mai”. “La condizione dell’internato è peggiore di quella del condannato per uno stesso reato. Il primo sarà prosciolto, ma la sua “pena” non avrà una fine certa. Solo riconoscendogli una responsabilità sarà possibile assicurargli delle garanzie. Per lui non valgono le regole sulla pena che deve puntare al recupero della persona e rispettarne la dignità. È per questo - conclude - che va riformato il Codice Penale, rivedendo anche il concetto di “pericolosità sociale”. Oggi è un surrogato della sanzione penale, utilizzata di chi è rinchiuso”. Giustizia: Commissione Affari sociali Camera adotta Testo Unico per l’assistenza psichiatrica Public Policy, 21 maggio 2012 L’assistenza psichiatrica attende di essere riformata. Il decreto “svuota-carceri” entrato in vigore a febbraio, ha deciso la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo 2013. La Commissione affari sociali della Camera ha adottato un testo unificato delle proposte di legge sul tema dell’assistenza psichiatrica. Sono 1.549 le persone attualmente ospitate negli ospedali giudiziari, secondo dati del ministero della Giustizia. Il testo, a prima firma di Giuseppe Francesco Maria Marinello (Pdl) riassume otto proposte di legge sul tema, presentate da Pdl e Lega Nord. La proposta mette al centro i dipartimenti di salute mentale delle Aziende sanitarie locali che coordinano i trattamenti sanitari e l’attività di assistenza nel lungo periodo. Agli ospedali, spetta garantire uno spazio “operativo 24 ore su 24” per le emergenze. A ciò si aggiungono equipe mobili di intervento domiciliare e sportelli di ascolto e orientamento. Il trattamento sanitario obbligatorio cambia nome e diventa “trattamento sanitario necessario” (Tsn). Si applica quando la “garanzia della tutela della salute è ritenuta prevalente sul diritto alla libertà individuale”. Ci sono due tappe: l’accertamento sanitario obbligatorio (Aso) e il trattamento sanitario necessario (Tsn). L’accertamento, ad opera dei Dipartimenti di emergenza e accettazione (Dea), è fatto entro 48 ore dalla richiesta, che proviene dal medico curante e deve essere convalidata dal sindaco del paese di residenza del malato. Dopo la convalida del trattamento, da parte di uno psichiatra del dipartimento di salute mentale, ha inizio il Trattamento sanitario necessario che dura per un massimo di 15 giorni. Può essere prolungato ma con motivazione. La terapia si svolge, o nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura degli ospedali, o in strutture residenziali, o ancora al domicilio del paziente, quando “sussistano adeguate condizioni di sicurezza per lo stesso e per la sua famiglia” e sia assicurata la somministrazione della terapia. Per i pazienti che necessitano di cure prolungate si può decidere per un “trattamento sanitario necessario extra ospedaliero”, che può durare dai 6 ai 12 mesi. Il giudice tutelare del malato deve approvarlo e deve ricevere una relazione sull’andamento delle cure almeno ogni tre mesi. La proposta di legge fissa il numero di posti letto che i servizi sanitari territoriali devono mettere a disposizione per la cura dei disturbi mentali: uno ogni 20mila abitanti. Si vincolano per la realizzazione di questi servizi 300 milioni di euro del Fondo sanitario nazionale. Giustizia: basta con le stragi, la legislazione dell’emergenza e le torture… di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 21 maggio 2012 Lo stragismo in Italia da piazza Fontana (12 dicembre 1969) a Bologna (2 agosto 1980) non rispondeva ad un’unica “strategia della tensione” ma a diverse strategie delle forze reazionarie e conservatrici italiane e occidentali, anche in reciproca guerra ma per lo più compatibili rispetto alle mutevoli esigenze politiche ed elettorali del partito repubblicano Usa (Nixon e Reagan), ed ebbe come effetto quello di favorire lo sviluppo delle Leggi dell’Emergenza. Queste ultime ricevettero la maggiore accelerazione e il massimo consenso sociale dopo la strage di Bologna, la più tremenda e crudele fra le grandi stragi verificatasi nel corso della Prima Repubblica. Al tempo stesso crearono le condizioni ottimali, grazie alla legalizzazione dei prolungati fermi di polizia, per un uso più sistematico e diffuso delle torture. Un filo indissolubile collega perciò i fenomeni dello stragismo, della legislazione dell’Emergenza e delle torture di Stato. La matrice politico - culturale degli acclarati stragisti, come l’esperto di bombe Carlo Digilio, informatore dei servizi segreti militari statunitensi (Ftase di Verona e Vicenza), italiani e israeliani, infiltrato nel gruppo “Ordine Nuovo” del Triveneto e attivo dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Ottanta, è infatti uguale a quella del bitontino “professor De Tormentis”, il più famoso torturatore dello Stato italiano dal 1978 al 1982. Lo stragista e il torturatore si dichiaravano neofascisti ma erano due funzionari di uno Stato a sovranità limitata e ad Emergenza continua. Entrambi, tanto per dirne una, diedero la caccia ai brigatisti rossi che il 17 dicembre 1981 avevano rapito il generale Usa James Dozier, responsabile della Ftase (Nato dell’Europa meridionale). Si sentivano militanti di una specie di guerra santa filoatlantica, una guerra in cui la sovranità nazionale doveva restare limitata e subalterna alle strategie della destra statunitense. Da quel tempo molte cose sembrano cambiate. Lo stragismo del biennio 1992 - 1993, ad esempio, ebbe una diversa matrice ed era l’espressione della crisi del rapporto fra la vecchia mafia e il regime agonizzante della Prima Repubblica. La tentata strage di Brindisi del 19 maggio 2012 che ha provocato la morte di una ragazza e il ferimento di altre giovani persone è invece qualcosa di molto diverso da tutte le precedenti stragi verificatesi o tentate nell’Italia repubblicana. In questo caso è improbabile ci sia una matrice “mafiosa”. Nessuna organizzazione mafiosa, neppure la pugliese Sacra Corona Unita, ha interesse a compiere un crimine indiscriminato e a ragionare al di fuori della logica commerciale dei costi e dei ricavi di un’azione. È pure improbabile ci sia la matrice del “terrorismo politico” autonomo dallo Stato e dai servizi segreti: il (residuo) “terrorismo politico” di sinistra non ha mai compito azioni indiscriminate contro una scuola e da decenni neppure il (residuo) “terrorismo politico” di destra si è macchiato di crimini di questo tipo. Qui siamo dinnanzi ad un fenomeno che da un lato tende a provocare i soliti effetti liberticidi sul piano delle politiche istituzionali riguardanti la giustizia e la sicurezza collettiva e dall’altro si colloca sulla scia dei crimini compiuti da personaggi psicolabili, reazionari e neotemplari del XXI secolo come Anders Behring Breivik, l’autore degli attentati del 22 luglio 2011 in Norvegia, e Gianluca Casseri, colui che il 13 dicembre 2011 uccise a Firenze tre senegalesi. Il primo dato certo è che i governanti italiani si sono scandalizzati molto poco quando furono uccisi quei tre immigrati e non hanno fatto nulla, ad esempio nel campo relativo allo sviluppo territoriale delle attività psicologiche e di educazione permanente formali e informali, per contrastare in modo preventivo la diffusa mentalità schizofrenica, razzista e militarista esistente nella società che produce migliaia di “lupi solitari” facilmente strumentalizzabili. Un altro dato certo è che in Italia le stragi e le torture sono per lo più impunite e quindi c’è il rischio che si producano nuove torture, nuovi crimini aberranti, nuove stragi, nuovi depistaggi e impistaggi statuali e interstatuali e nuove Leggi dell’Emergenza. Veri e propri corti circuiti che offendono il nostro paese e non offrono alcun futuro ai giovani. Anzi, a volte li uccidono nel senso letterale della parola come hanno già ucciso a Brindisi la studentessa di 16 anni Melissa Bassi. Giustizia: ingiusta detenzione; i magistrati dovrebbero attenersi alle sentenze assolutorie di Giulio Petrilli Ristretti Orizzonti, 21 maggio 2012 È di qualche giorno fa la notizia che la V sezione d’appello di Palermo, ha respinto la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione all’ex Ministro democristiano Calogero Mannino. L’On. Mannino fu protagonista di una lunga vicenda giudiziaria iniziata nel 1995 e conclusasi con l’assoluzione nel 2010. Fu arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e rinchiuso nel carcere di Roma Rebibbia, dove rimase dodici mesi, prima di passare agli arresti domiciliari. In carcere perse 33 chili ed ebbe una grave forma di debilitazione. Successivamente scontò altri undici mesi ai domiciliari. Un iter giudiziario molto lungo e complesso il suo che lo vide prima condannato e poi assolto. La cassazione nel gennaio 2010, pose definitivamente fine ai processi confermando l’assoluzione. Partendo da questo dato inconfutabile, i suoi legali presentarono tempo fa la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione. Qualche giorno fa la risposta dei giudici che negano detto risarcimento, asserendo che l’On. Mannino con i suoi comportamenti “ ha dato causa con colpa grave alla sua vicenda giudiziaria”. Non è la prima volta che i magistrati, con questo escamotage, si rifiutano di concedere il risarcimento a coloro i quali sono stati ingiustamente privati della libertà personale. Casi clamorosi ci sono stati ultimamente anche a Milano e Roma con persone assolte e non risarcite. L’art. 314 e 315 del nuovo codice di procedura penale, stabilisce la riparazione per ingiusta detenzione. Un diritto questo inalienabile, che viene però negato con interpretazioni incredibili della norma. Tante persone assolte con sentenza definitiva si vedono rifiutare questo risarcimento in quanto, secondo i magistrati, con le loro frequentazioni hanno tratto in inganno gli inquirenti. Colpevole anche se assolto: questa è la sostanza della sentenza sopracitata e anche di tante altre sentenze. La legge è uguale per tutti nel bene e nel male, quindi tutti gli assolti dovrebbero essere risarciti. Basta con le valutazioni extragiudiziarie. Se la sentenza definitiva è assolutoria, una persona è da considerarsi innocente e quindi deve essere risarcita e i magistrati che valutano la riparazione per ingiusta detenzione devono attenersi alle sentenze. Lecce: “giustizia per Virgil”, parla il fratello del detenuto morto dopo sciopero della fame di Elisabetta Paladini www.quotidianoitaliano.it, 21 maggio 2012 Si torna a parlare di Pop Virgil Cristria, il detenuto romeno 38enne, morto dopo oltre 50 giorni di sciopero della fame. Era condannato a 18 anni per reati contro la persona e il patrimonio, ma lui ha cercato da sempre di proclamare la sua innocenza. Era in carcere dal 2000 e in passato avrebbe tentato il suicidio e iniziato più volte lo sciopero della fame. Ma alla fine la sua protesta si è tramutata in tragedia. Da oltre 50 giorni non toccava cibo, desidera solo ottenere la sospensione della pena. Ma più i giorni passavano, più le sue condizioni di salute peggioravano, fino a condurlo alla morte. I medici del penitenziario hanno deciso il suo trasferimento in ospedale solo tre giorni prima del decesso. Ora il fratello di Virgil, Alexandrul Stefan Assael, anche lui in Italia, desidera fare chiarezza su cosa davvero sia successo. Malgrado l’autopsia abbia chiarito che Pop è morto per malnutrizione, Stefan non si dà pace, vuole giustizia e ha deciso di contattare anche la nostra redazione per poter aver parola: “Sono povero e ho due figlie in Romania. Voglio sapere se si prendono provvedimenti per fare giustizia sulla morte di mio fratello! Lui deve essere sepolto come chiese la nostra religione ortodossa in Romania! Dalle lettere di mio fratello mi risulta che ha trascorso 12 anni di galera in un modo che neanche i veri criminali lo fanno! Lui aveva iniziato lo sciopero della fame e della sete da più di 54 giorni e per questo non sarebbe dovuto essere portato in ospedale solo 3 giorni prima del decesso, quindi quando ormai era già troppo tardi. Era pure malato e non doveva essere portato in un carcere comune!”. Pop Virgil Cristria si trovava nell’Opg di Aversa, ma alla fine dello scorso anno era giunto nel carcere di Lecce alla fine dello scorso anno. “Quando lo hanno portato a Lecce, lo hanno messo direttamente in isolamento per sei mesi. Lo hanno picchiato più volte. Entravano di notte nella sua cella e lo picchiavano. Hanno anche censurato tutte le sue lettere”, denuncia il fratello sul giornale romeno “Evenimentul Zilei”. Pop era arrivato in Italia nel 1990, con un biglietto premio per la Coppa del Mondo di calcio. Un premio ricevuto da parte dello Stato romeno, perché - sostiene Assael - Virgil aveva partecipato alle manifestazioni che hanno portato alla caduta del regime di Ceausescu e aveva ricevuto un riconoscimento e un attestato di “rivoluzionario”. Ferrara: Sappe; terremoto causa danni al carcere, evacuati 500 detenuti Agi, 21 maggio 2012 “Il grave evento sismico che ha colpito alcune zone dell’Emilia Romagna ha riguardato anche le carceri, in modo particolare quello di Ferrara, dove la polizia penitenziaria, a partire dalle quattro circa di questa mattina, è stata costretta ad evacuare 500 detenuti, molti dei quali hanno il divieto di incontro tra di loro, perché collaboratori di giustizia, sottoposti al regime di alta sicurezza ed altro. I detenuti sono stati portati in spazi esterni, come il campo di calcio, nel rispetto del piano di evacuazione e, soprattutto, delle norme di sicurezza”. A fare il punto è Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe. “Fortunatamente tutto si è svolto nel migliore dei modi - assicura Durante - senza conseguenze per nessuno, nonostante le grandi difficoltà incontrate per l’esiguità degli spazi a disposizione e la carenza di personale, soprattutto di notte, quando si riduce ulteriormente. Infatti, sono stati richiamati gli agenti liberi dal servizio, in quel momento reperibili, e quei pochi che erano rimasti in caserma a dormire. I vertici dell’istituto hanno chiesto l’intervento dei vigili del fuoco, per verificare eventuali danni strutturali. In luoghi come le carceri eventi di questo tipo possono assumere aspetti ancora più drammatici, considerato che coloro che si trovano nelle strutture detentive, perché reclusi, oppure perché ci lavorano, non possono allontanarsi, per evidenti ragioni”, conclude il sindacalista. Bari: Osapp; condizioni igienico-sanitarie del carcere sono al limite della vivibilità www.barilive.it, 21 maggio 2012 Si è tenuto la scorsa settimana l’Assemblea Generale dei Quadri Permanenti del Sindacato di Polizia penitenziaria dalla quale è nuovamente emersa la situazione di profondo degrado in cui versa il carcere di Bari. Cosa non nuova ai più, ma ad essere inefficiente e in condizioni igieniche drastiche è ora anche la Sezione Femminile. Non è solo il numero elevato delle detenute a spaventare gli agenti, ma il fatto che l’invivibilità è aggravata dalla “presenza di insetti, volatili, scarafaggi, zanzare, millepiedi, piccioni e finanche intrusioni di roditori”. È questa la denuncia allarmante del sindacato Osapp, i cui poliziotti sono costretti a svolgere il proprio lavoro in situazioni di degrado che minano l’animo delle donne. “Non deve stupire - dice - se l’intero terzo piano della struttura è stato dichiarato anni fa inagibile ed è attualmente “vietato” alle persone che altrimenti si troverebbero a combattere con l’odore nauseante di escrementi animali”. Ad intervenire sulla vicenda in modo concreto sono state anche le Donne dei Baschi Azzurri della Polizia Penitenziaria che, nel corso di uno specifico incontro sul nuovo Carcere, segnalarono la questione anche al Sindaco della Città di Bari. In quella occasione non mancarono, da parte del primo cittadino, rassicurazioni che sono rimaste tuttavia solo verbali perché ad oggi non vi è stato alcun miglioramento e non è stato adottato nessun provvedimento specifico per i singoli reparti. Domenico Mastrulli, Vice Segretario Nazionale Osapp, in una missiva rivolta a tutte le autorità competenti nell’ambito delle situazioni carcerarie, da Roma a Bari, palesa tutta la sua preoccupazione per gli agenti e per il dispendio economico di risorse che non vengono ben destinate. “Per il Sindacato dei Poliziotti - scrive - è necessario dover sollecitare nuovamente la costruzione di un nuovo Penitenziario nella Città di Bari, urgenza quanto mai indispensabile per Sicurezza della Comunità Barese oltre che per la sicurezza dell’igiene e della salubrità dei 500 detenuti, a fronte delle 292 regolamentari, e nell’interesse delle oltre 400 unità di dipendenti”. Inoltre, il sindacalista denuncia che, “seppur con Dpr 395/1995 venne stanziata, dalla Commissione sul benessere del Personale, per l’amministrazione penitenziaria del Carcere di Bari, la somma di 50.000,00, su una disponibilità finanziaria pari a 150.000,00 euro per le Strutture della Puglia, i fondi sembrerebbero stati utilizzati per la “foresteria dei dirigenti”, ovvero acquisto di mobilio, arredamento, suppellettili, tutto poi trasferito presso la Struttura Penitenziaria di San Severo”. Per il Sindacato Osapp, come puntualizzano nella nota, “l’aver impiegato cinquantamila euro in tutt’altro indirizzo da quello indicato dalla Commissione deputata, mentre oggi restano situazioni di disagio e di scarsa igiene negli ambienti del benessere e dove stazionano i dipendenti Poliziotti, appare gravissimo soprattutto dal momento in cui i fondi dovevano essere destinati esclusivamente per il penitenziario di Bari”. Ma Mastriorilli non si ferma qui, anzi, confida nell’apertura di un’indagine conoscitiva sulle criticità igieniche segnalate soprattutto perché, sottolinea, “da tempo non risulta che il personale dipendente femminile sia stato sottoposto a visite di routine e di controllo, o invero, sottoposte ad esami clinici e di laboratorio né, risulta a chi scrive, la presenza mensile nei reparti dove lavorano i dipendenti del medico del lavoro così come richiede la legge”. Il sindacato, profondamente sconcertato, assicura di continuare a denunciare il “degrado barese” a tutti i livelli fino a segnalare la questione alla Corte Europea per la Difesa dei diritti alla sopravvivenza dell’essere umano e contro la tortura del disinteresse da parte di chi dovrebbe essere in prima fila nella tutela dei lavoratori. Sabato scorso la festa penitenziaria, cerimonie, fiori e visite ufficiali. Sarebbe bello se per quel giorno i carceri non fossero stati sovraffollati, le condizioni igieniche fossero state ottimali, e dipendenti e detenuti/e avessero vissuto in un ambiente salubre e degno tanto da poter definire la pena come i padri Costituzionali l’avevano immaginata: rieducativa. Cagliari: ministro Severino; aprire parte completata del nuovo carcere: Cisl e Sdr: è impossibile La Nuova Sardegna, 21 maggio 2012 Prima di Is Arenas, tappa non prevista nel nuovo carcere di Cagliari, in costruzione nell’hinterland, a Uta. Il Guardasigilli, infatti, ha voluto rendersi conto di persona dello stato dei lavori del nuovo istituto, con reparti ancora non conclusi, accertandosi anche dei motivi dello slittamento della consegna dell’opera. E Il giudizio del ministro è stato positivo: è possibile aprire, sia pure parzialmente il carcere e liberare così parte di Buoncammino. “C’è una parte del carcere che è praticamente pronta e sulla quale insisterò molto incontrando il ministro Passera perché si possa aprire al più presto. Ci sono dei lotti da completare - ha spiegato il guardasigilli - però io credo che se si procede per blocchi e si possa intanto cominciare a utilizzare una parte per la quale sono stati spesi tanti danari pubblici. Mi sembra assurdo che questi denari non vengano messi a frutto per la collettività. Ho quindi molto insistito perché la parte principale del carcere possa aprire al più presto. Lunedì come ho annunciato ci sarà una riunione di carattere politico per poi passare ai tecnici in modo da sollecitare una soluzione di questo problema”. Se il ministro è convinto della parziale riapertura del carcere, il sindacato degli edili esprime le sue perplessità. “Vorrei che il ministro si preoccupasse anche dei lavoratori che da mesi inseguono lo stipendio e che invece di avere garanzie dal governo si sono ritrovati con i licenziamenti. Magari se si facesse parte attiva per farci dare quanto dovuto sarebbe meglio. A noi risulta - ha detto Renzo Corveddu, segretario degli edili della Cisl - che il carcere sia quasi completato, ma mancano le rifiniture. Non possiamo avere elementi tecnici perché i lavori nella struttura sono per loro natura coperti dal segreto, ma non credo che si possa aprire sia dal punto di vista tecnico che burocratico, una struttura così complessa “a pezzi”. Ci sarà anche l’emergenza - carceri, ma la legalità si rispetta anche dando certezze ai lavoratori che aspettano da mesi il loro salario”. Opere pubbliche, la società che sta realizzando la struttura, avrebbe ricevuto circa 40 milioni di euro, una parte rilevante dei 58 milioni e 840 mila euro stanziati dallo Stato per la costruzione del nuovo carcere. Sdr: apertura parziale non praticabile “L’intenzione espressa dalla Ministra Paola Severino di aprire il nuovo carcere di Cagliari - Uta per blocchi non è praticabile e non favorirà quindi la riduzione del sovraffollamento di Buoncammino”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” ricordando che “le strutture penitenziarie, secondo il dettame costituzionale e la legge sull’ordinamento penitenziario devono garantire ai ristretti condizioni di vita compatibili con i bisogni dei familiari e con la sicurezza. Due aspetti, allo stato attuale, non praticabili a Uta”. “Appare evidente che - sottolinea Caligaris - gli allacci fognari così come l’infermeria, infrastrutture indispensabili per la fruibilità del carcere, non possono funzionare per un blocco o addirittura essere inesistenti. Così come è indispensabile fornire servizi pubblici di collegamento per gli impiegati degli uffici amministrativi, per gli Agenti di Polizia Penitenziaria, per i familiari dei detenuti. C’è poi del tutto irrisolto il rebus di quale personale dovrà garantire la sicurezza contemporaneamente nei due Istituti e come potrà risultare efficiente una nuova struttura penitenziaria in un’area in cui nel frattempo ci sono operai di una ditta che stanno lavorando”. “Il discorso non cambia neppure se il progetto di inaugurare la struttura penitenziaria per blocchi - rileva la presidente di SDR - fosse finalizzato ai detenuti in regime di carcere duro. Anche in quel caso, nonostante le restrizioni si porrebbe il problema comunque di garantire i colloqui con i familiari ma ancora di più non servirebbe ad alleggerire Buoncammino dove sono presenti alcuni detenuti in alta sicurezza ma non ci sono invece quelli in “41bis”. Impraticabile del tutto il progetto anche per quanto riguarda il numero di Agenti. Senza dimenticare che l’intera zona non è stata ancora risanata dai residui della lavorazione delle carni sotterrati nell’area prospiciente con miasmi nauseabondi in estate”. “Resta ancora da approfondire infine - conclude Caligaris - la questione dei terreni che sono stati espropriati, l’importo inserito nel capitolato d’appalto ma attualmente è ancora in atto un contenzioso tra Opere Pubbliche e i proprietari. Oristano: il nuovo carcere è quasi pronto, è costato 40 milioni e ospiterà 400 detenuti L’Unione Sarda, 21 maggio 2012 Il nuovo carcere di Oristano è costato circa quaranta milioni di euro messi a disposizione dal Ministero delle infrastrutture e ci sono voluti sei anni di lavoro (il doppio del previsto). Mancherebbero ancora da completare verifiche e controlli sugli impianti tecnologici e sulla sicurezza e anche di carattere igienico e sanitario, ma intanto di procede con il passaggio di consegne a livello burocratico presso la sede del Ministro della Giustizia. Non coinvolge l’amministrazione penitenziaria locale, e tantomeno le istituzioni del territorio, l’atto di consegna del nuovo carcere di Oristano annunciato per oggi dal ministro della Giustizia Paola Severino. La complessa procedura burocratica preliminare all’apertura della struttura, infatti, si svolge a livello ministeriale e dunque lontano da Oristano. Tanto è vero che la strada di accesso al nuovo carcere stamattina era ancora chiusa con nastro bianco e rosso e cartelli di lavori in corso e divieto di accesso. Nella Casa circondariale di piazza Manno, comunque, è già tutto pronto per il trasferimento dei circa 120 detenuti ospitati attualmente. Nessuno però pare sia in grado di dire quando il primo detenuto del vecchio carcere potrà lasciare la sua cella con finestra a bocca di lupo per andare a occupare le nuove e sicuramente più sane e confortevoli celle della nuova struttura. Il preavviso potrebbe anche essere molto breve, ma non sarebbe comunque imminente. Da quanto si è appreso, ci sarebbero ancora da completare verifiche e controlli sugli impianti tecnologici e sulla sicurezza e anche di carattere igienico e sanitario. Il nuovo carcere sorge in località Is Argiolas, a poche centinaia di metri dalla frazione di Massama, e può ospitare 260 detenuti. Per completarlo ci sono voluti una quarantina di milioni di euro messi a disposizione dal Ministero delle Infrastrutture e sei anni di lavoro, tre in più del previsto. Secondo una prassi consolidata, il trasferimento dei detenuti avverrà gradualmente. Si comincerà con il trasferimento dei detenuti attualmente ospitati nella struttura di piazza Manno e solo successivamente, ma comunque nel giro di qualche mese, comincerebbero ad arrivare anche detenuti da altre strutture dell’isola e anche della penisola. Contemporaneamente si dovrà procedere però anche all’adeguamento dell’organico degli agenti di Polizia penitenziaria per adeguarlo al più alto numero di detenuti. Sassari: Comune e direzione del carcere insieme per i detenuti stranieri www.sassarinotizie.com, 21 maggio 2012 “L’obiettivo che mi sono prefisso, una volta visitate le celle è quello di creare all’interno di questo carcere un germoglio di umanità”. È quanto dichiarato dal nuovo direttore della Casa circondariale di San Sebastiano, Francesco D’Anselmo nel corso dell’incontro a Palazzo Ducale con il sindaco di Sassari, Gianfranco Ganau. Comune e Direzione del carcere di Sassari hanno sottoscritto un protocollo d’intesa per lo svolgimento di attività di mediazione linguistico - culturale a favore delle detenute e dei detenuti stranieri. Un risultato importante, frutto del lavoro svolto all’interno della casa circondariale dal Garante dei detenuti, Cecilia Sechi presente questa mattina all’incontro insieme all’Assessore alle Politiche sociali, Michele Poddighe, alla responsabile dell’Area trattamentale, Maria Paola Soru e al vice Comandante della Polizia Penitenziaria, Pier Maria Basile. “A fronte di una totale inadeguatezza della struttura carceraria - ha dichiarato il sindaco - fortunatamente le detenute e i detenuti possono contare su risorse umane preziosissime e altamente professionali. La firma di questo protocollo - ha aggiunto Ganau - ben si inserisce all’interno di quel percorso di condivisione che da tempo abbiamo avviato insieme alla direzione del carcere, che noi consideriamo parte integrante della città”. Il servizio di mediazione linguistico - culturale sarà attivo all’interno del carcere nelle prossime settimane grazie ad un operatore o operatrice dello Sportello degli Extracomunitari del Comune che per due ore alla settimana, ogni giovedì pomeriggio, presterà servizio all’interno della Casa circondariale. L’amministrazione penitenziaria avrà il compito di agevolare l’attività degli operatori e di supervisionare lo svolgimento del servizio che nasce con un unico obiettivo: agevolare tutti coloro che operano dentro il carcere affinché possano comprendere al meglio le esigenze espresse dai detenuti stranieri, in particolare quelli privi di rapporti familiari, amicali o con le comunità stranieri di riferimento presenti in città. Firenze: quasi la metà dei detenuti è dipendente da alcol o droghe www.gonews.it, 21 maggio 2012 Il direttore del Dipartimento dipendenza della Asl 10 Paola Trotta: “Per far fronte al problema è presente dal 2000 una sorta di Sert interno, che avvia dei percorsi di recupero”. In Toscana, e in particolare nel territorio fiorentino con Sollicciano che è il più grande carcere della Regione, quasi la metà dei detenuti ha problemi di dipendenza da sostanze o da alcol. È quanto emerso oggi nel corso di un convegno sul tema “Buone prassi e modelli organizzativi integrati per le tossicodipendenze in carcere”. In Italia, è stato ricordato, ci sono 66.973 detenuti (al 31 gennaio 2012), dei quali 25 mila sono tossicodipendenti, pari a circa uno su tre. Secondo Paola Trotta, direttore dipartimento dipendenza della Asl di Firenze, quello “della dipendenza è un problema sovra rappresentato all’interno delle carceri, a causa della legislazione italiana”. Per fare fronte al problema, ha aggiunto, in Toscana e in altre Regioni “dal 2000 circa nelle strutture penitenziarie è presente una sorta di Sert interno che opera come quelli all’esterno e prende in carico le persone, offre un trattamento farmacologico e psicologico, un inquadramento sociale, una programmazione per gestire meglio l’uscita della persona dal carcere”. Gorgona (Li): ammanco di 80mila € dalle casse dello spaccio, sotto accusa due agenti di Lara Loreti Il Tirreno, 21 maggio 2012 Avrebbero sfruttato la presenza di detenuti come scudo per violare i sigilli dello spaccio della Gorgona e inquinare le prove del rogo appiccato al bar, dopo la scoperta dell’ammanco dalle casse di circa 80mila, lo scorso marzo. È l’ipotesi investigativa emersa all’interno dell’indagine sul buco allo spaccio dell’isola. Nelle scorse settimane, alcuni detenuti sono stati trasferiti dalla Gorgona alle Sughere per essere ascoltati dagli inquirenti come persone informate sui fatti e per evitare che subiscano pressioni. La loro testimonianza potrebbe essere fondamentale per la ricostruzione della vicenda. Ascoltati dalla magistratura anche alcuni agenti. Nel mirino della magistratura ci sarebbero due agenti della polizia penitenziaria - che nel frattempo sono stati trasferiti - accusati di aver accumulato debiti. Al centro dell’indagine c’è un ammanco di 80mila euro allo spaccio, l’unico dell’isola, presso cui si servono poliziotti e abitanti. E la Procura sta indagando anche sul tentativo di occultare le prove della cattiva gestione del bar attraverso l’incendio. Un buco dalle casse dello spaccio che nel corso di mesi è diventato sempre più alto fino a sfuggire di mano a chi gestiva l’esercizio. Il fatto è successo all’inizio di marzo e sulla vicenda è in corso un’indagine della Procura, coordinata dal pm Luca Masini, e condotta da una squadra di polizia giudiziaria di agenti penitenziari, che dipendono dal Prap, Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. L’ipotesi investigativa è che l’incendio nello spaccio non sia causale, ma doloso, appiccato apposta nel tentativo di coprire l’ammanco dalla cassa. Subito dopo i fatti, il bar è stato sequestrato. Ma pare il giorno dopo il rogo, qualcuno abbia infranto i sigilli e abbia cercato di inquinare la scena del reato o comunque di manomettere le prove. E in quel frangente sarebbero stati presenti anche dei detenuti. Ma questa per ora è solo un’ipotesi. Per approfondire l’origine del rogo, quel giorno sull’isola erano intervenuti anche i tecnici dei vigili del fuoco, giunti da Livorno e chiamati dalla stessa polizia, per una perizia tecnica. Ma chi avrebbe appiccato il fuoco? Secondo indiscrezioni emerse nel corso dell’indagine, non è escluso che il rogo sia stato appiccato in fretta e furia per via dell’imminente trasferimento di uno dei gestori del bar e quindi per l’impossibilità di far tornare i conti in tempi brevi. Si tratta comunque di ipotesi di indagine che solo il lavoro della magistratura potrà confermare o smentire. In questi mesi nell’isola si respira un’atmosfera surreale. Da un lato il caso ha scosso chi vi lavora e vi vive, dall’altro però c’è massimo riserbo da parte di tutti a parlarne. Procedono intanto indagini della penitenziaria: gli ispettori monitorano costantemente la situazione negli ambienti intorno al carcere. Roma: detenuti lavorano a riciclo, accordo tra Consorzio Acciaio e coop Rebibbia Recicla Ansa, 21 maggio 2012 Il Consorzio Nazionale Acciaio (Cna) ha siglato una convenzione per il recupero e il riciclo degli imballaggi in acciaio con la cooperativa sociale Rebibbia Recicla operante nell’omonima casa circondariale di Roma. Grazie a uno speciale impianto di selezione e cernita installato all’interno del penitenziario, spiega una nota, i dipendenti della cooperativa - undici detenuti coordinati da un tecnico esterno - si occuperanno di separare manualmente gli imballaggi in acciaio, alluminio e plastica, estraendoli dal materiale multi leggero raccolto da più Comuni della provincia di Roma e quindi trasferito nella struttura. Una volta recuperato, l’acciaio viene assemblato, pressato e inviato in acciaieria dove viene fuso e riconsegnato a nuova vita. Il Consorzio Nazionale Acciaio riconoscerà un contributo per il lavoro svolto sia alla cooperativa Rebibbia Recicla e sia al Consorzio Rolando Innocenti, l’azienda specializzata nel settore della raccolta, trasporto e recupero di rifiuti speciali nel bacino Est della regione Lazio, per conto della quale opera la cooperativa in Rebibbia. Il Consorzio Nazionale Acciaio punta con l’iniziativa a un’azione non solo ambientale ma anche di impatto sociale contribuendo al reinserimento occupazionale dei detenuti, che oltre a svolgere un’attività per la quale percepiscono un regolare stipendio possono acquisire una formazione sul campo da spendere sul mercato del lavoro una volta scontata la pena. Roma: firmato accordo tra Fidal e Garante detenuti per sport in carcere Asca, 21 maggio 2012 Si è tenuta questa mattina alle ore 11.30 nella sala del Carroccio in Campidoglio la cerimonia di sottoscrizione del Protocollo di Intesa tra il Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale rappresentato dall’avvocato Filippo Pegorari, la Fidal - Comitato regionale Lazio rappresentato dal Presidente Marco Pietrogiacomi e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria rappresentato dalla dott.ssa Maria Claudia Di Paolo, per la promozione dell’atletica leggera nelle carceri presenti sul territorio di Roma Capitale. L’iniziativa è realizzata con l’associazione Gruppo Idee ed avrà certamente altissimi contenuti sociali. Alla manifestazione sono intervenuti il Delegato allo Sport Alessandro Cochi e l’ex pugile Nino La Rocca. Dopo aver osservato un minuto di silenzio in ricordo delle vittime dell’attentato accaduto a Brindisi e del terremoto in Emilia Romagna, l’avvocato Pegorari ha evidenziato come “con il documento che si è sottoscritto si è voluto dare un segnale chiaro e forte continuando a lavorare con maggior determinazione per la legalità e i diritti umani”. Pegorari ha inoltre evidenziato come “studio, lavoro, sport ed arte sono le quattro vie consolari che portano il detenuto al suo pieno recupero sociale. L’ufficio da me diretto, segue questo principio nella sua opera volta a favorire il reinserimento del detenuto nel tessuto sociale e il recupero del senso della legalità. Lo sport, con le sue regole e i suoi principi, favorisce anche il riappropriarsi dei valori etici e morali”. Ancona: venerdì prossimo il convegno “Carcere e diritti: voci di un mondo silenzioso” www.vivereancona.it, 21 maggio 2012 Presentato lunedì ad Ancona dall’assessore Dellabella e dai penalisti Franco Argentati, Tommaso Rossi e Valentina Copparoni un convegno sulla Giustizia, il sistema carcerario e le occasioni di riabilitazione, che si terrà venerdì 25 maggio all’ex Villarey. Sarà un convegno aperto ai cittadini per sensibilizzarli sulla sorte dei detenuti che non sempre hanno occasioni di reinserimento dopo avere scontato la pena, ma anche per parlare di sovraffollamento delle carceri, Montacuto incluso. Parteciperanno tra i tanti la sorella di Stefano Cucchi e il legale della famiglia Cucchi. Il convegno “Carcere e diritti: voci di un mondo silenzioso”, è organizzato con il Patrocinio del Comune di Ancona e del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Ancona. L’iniziativa della Camera Penale di Ancona, alla quale sono iscritti per la maggior parte avvocati che svolgono la loro attività soprattutto nel campo penale, si riportano ai principi ispiratori che ebbero originale molti anni fa e per i quali si ideò, per avere più tutela ed influenza nazionale, di istituire Camere Penali Territoriali che vennero stabilite in ogni sede di Tribunale. La Camera Penale di Ancona quindi è una delle Camere Penali Italiane che confluiscono in quella Nazionale e circa sei anni fa organizzò in Ancona, sempre con il patrocinio del Comune di Ancona e al Teatro delle Muse, un Congresso Nazionale che di regola si svolge ogni due anni in una città scelta tra quelle più significative. Per venire all’argomento che ci interessa in questa sede ricordiamo che i principi ispiratori sono quelli del giusto processo e qui non spenderei tante parole perché si spiegano da sole. Chiaro che applicato un giusto processo si possa verificare che venga erogata una pena detentiva che porta alla detenzione in carcere. Ecco la questione. Nulla pena sine giudizio, ma una volta che il giudizio è definitivo e c’è da scontare una pena e per questa non vi è probabilità di misure diverse dalla detenzione negli istituti penitenziari si vive l’esperienza del detenuto che ai più è sconosciuta. Ecco il motivo del Convegno e anticipiamo che ci saranno dopo l’estate altri convegni su altri argomenti comunque di interesse per la cittadinanza. Per venire quindi al punto: l’iniziativa “Carcere e diritti: voci di un mondo silenzioso” ad ingresso gratuito ed in programma in Ancona il 25 maggio 2012 ore 15,00 presso l’Università Politecnica delle Marche - Facoltà di Economia (ex Caserma Villarey), si colloca proprio all’interno di tale finalità. Si tratta di un incontro rivolto in particolare alla cittadinanza (oltre che agli addetti ai lavori) con lo scopo di sensibilizzare tutti sulla discussa “questione carcere” in Italia e nella nostra Regione, favorendo un dibattito consapevole che nasca dalla conoscenza e dalle testimonianze di chi, quel pianeta, per ragioni diverse lo ha toccato con mano e di quelle realtà che permettono di trasformare la pur difficile esperienza carceraria in un’occasione di rinascita, di scoperta e consapevolezza di sé stessi ricordando che il carcere non nasce solo con l’idea di pena punitiva ma anche per un percorso di reinserimento sociale. Dopo i saluti del Presidente della Camera Penale di Ancona Avv. Franco Argentati e del Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Ancona Avv. Giampiero Paoli, il dibattito, moderato dall’Avv. Valentina Copparoni e Avv. Tommaso Rossi, prevede gli interventi dell’Onorevole Mario Cavallaro della Commissione Giustizia della Camera, della Dott.sa Anna Bello, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Ancona, della Dott.ssa Santa Lebboroni, Direttrice del Carcere di Montacuto, dell’Avv. Fabio Anselmo legale delle famiglie Cucchi e Aldrovandi insieme ad Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi ed autrice del libro “Vorrei dirti che non eri solo”. Saranno presenti ed interverranno anche l’Associazione Antigone Marche in persona del Presidente Avv. Samuele Animali , il Giornalista RAI e scrittore Giancarlo Trapanese, autore del libro “Madre Vendetta”, Vito Minoia, Presidente del Coordinamento nazionale teatro in carcere, fondatore del Teatro Aenigma e coautore del libro “Recito dunque so(g)no - teatro carcere 2009”, Teresa Valiani, Direttrice responsabile di “Io e Caino - Periodico di Informazione del Carcere di Ascoli Piceno”. L’incontro prevede anche l’intervento di un detenuto attualmente in regime di detenzione domiciliare dopo un lungo percorso detentivo il quale racconterà la sua esperienza diretta con il mondo del carcere ed il suo reinserimento all’interno della società. Il carattere divulgativo dell’iniziativa prevede che si alterneranno momenti di racconto ed eventuali interventi del pubblico, proiezione di filmati e letture di passi celebri in cui la letteratura incontra il pianeta carcere. Camera Penale di Ancona Avv. Franco Argentati, Avv. Valentina Copparoni, Avv. Tommaso Rossi. Voghera (Pv): inaugurata la mostra “Libera Pittura”, esposte opere realizzate da 19 detenuti La Provincia Pavese, 21 maggio 2012 È stata inaugurata sabato la mostra “Libera Pittura”, che raccoglie una cinquantina di opere realizzate da 19 detenuti della casa circondariale. Sotto i portici dell’ex - caserma si sono riuniti il sindaco Barbieri, il presidente del consiglio comunale Nicola Affronti, gli assessori Azzaretti e Di Valentino, rappresentanti delle forze dell’ordine, fra cui la polizia penitenziaria. Non potevano mancare Maria Gabriella Lusi, direttrice del carcere, e Aldo Fabozzi, nella duplice veste di provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e di ex direttore del supercarcere di Voghera. “Insieme all’assessorato ai servizi sociali, alla direzione del carcere e al museo di scienze naturali - ha detto Nicola Affronti - abbiamo organizzato questa mostra per provare a dare colore e vita a un mondo che può sembrare lontano e oscuro, ma che in realtà è vicino e vitale”. “Essere liberi - ha spiegato Simona Guioli, direttrice del civico museo di scienze naturali e insegnante all’interno del carcere - almeno con la mente e con la fantasia: questo è il desiderio che emerge dalle opere esposte e dagli scritti che le accompagnano”. La mostra sarà visitabile ancora oggi dalle 10 alle 23, davanti all’ingresso del civico museo di scienze naturali. Le opere potranno essere acquistate presentando un’offerta al personale del museo: il ricavato servirà a comprare nuovo materiale per dipingere e organizzare nuovi corsi di arte per i detenuti. Immigrazione: “mele marce” e “cuori neri”… così si muore in un commissariato a Trieste di Stefano Gallieni Liberazione, 21 maggio 2012 C’è di tutto in questa storia: il razzismo e la violenza delle istituzioni e delle leggi, lo spirito di corpo e la normalità con cui una morte passa in secondo piano, i sequestri di persona istituzionalizzati, la nostalgia mussoliniana. Ieri pomeriggio erano in centinaia a manifestare davanti alla questura. È accaduto un mese fa, il 16 aprile ma evidentemente la notizia non meritava sufficiente attenzione da parte degli organi di informazione nazionali. È accaduto a Opicina, provincia di Trieste in una stanza del commissariato. Alina Diachuk aveva 32 anni, era stata scarcerata 2 giorni prima, dopo una sentenza di patteggiamento per l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Per la legge risultava libera ma era stata prelevata da una volante e, su disposizione del responsabile dell’ufficio immigrazione Carlo Baffi, reclusa nella stanza di controllo del commissariato, in attesa di provvedimenti del questore e dell’udienza davanti al giudice di pace, peraltro né fissata né tantomeno richiesta. Si era ritrovata ancora in una cella, probabilmente con il timore di venire portata in un Cie, secondo i primi rilievi avrebbe utilizzato una cordicella per impiccarsi ad un termosifone. È morta dopo quaranta minuti di agonia, ripresa da una telecamera di sorveglianza che dava su un monitor a cui nessun piantone ha trovato il tempo di dare un’occhiata. “Eppure - racconta Gianfranco Schiavone, (Asgi e Ics) - che Alina fosse in condizioni di particolare vulnerabilità era noto a tutti. Durante la detenzione aveva compiuto numerosi atti di autolesionismo. Le autorità competenti compreso il prefetto e il questore, avrebbero dovuto verificare attentamente la situazione, sottoporre la donna a visite mediche, magari sospendere o dilazionare l’eventuale allontanamento. Non in base ad una discrezionalità ma nel rispetto della normativa. Ciò che stupisce è l’automatismo cieco del provvedimento”. Ma non è finita qui. Quando ieri mattina il pm Massimo De Bortoli si è presentato al commissariato con una decina di finanzieri e due agenti di polizia per perquisire gli uffici, per effettuare una perquisizione e comunicare al funzionario che era stata aperta a suo carico un indagine per sequestro di persona e omicidio colposo, il quadro si è fatto ancora più fosco. Sono stati rinvenuti 49 fascicoli originali relativi a cittadini immigrati che sono stati illegalmente trattenuti in una cella, chiusi a chiave, anche per 4 giorni, in attesa che venisse convalidata una udienza davanti al giudice di pace per definire l’allontanamento o l’espulsione. Tanto l’ufficio quanto l’abitazione del funzionario sono stati perquisiti e il materiale ritrovato offre un chiaro spaccato della sua personalità: un fermacarte con il fascio littorio, un cartello con l’immagine del “duce” e la scritta “Ufficio epurazione”, busti e manifesti raffiguranti Mussolini, materiale variegato di propaganda fascista, antisemita e razzista, volumi come il “Mein Kampf”, “Come riconoscere e spiegare l’ebreo”, “La difesa della razza” persino “La questione ebraica” di Marx, libro probabilmente acquistato unicamente per il titolo. “Fare piena luce sulle circostanze connesse alla tragica morte di una cittadina ucraina avvenuta nel Commissariato di Opicina”. Questo il titolo dell’interrogazione rivolta il 20 aprile al Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia dai consiglieri regionali di Rifondazione Comunista - Federazione della Sinistra, Roberto Antonaz e Igor Kocijancic, secondo cui: “Visto che dalle informazioni riportate sulla stampa emerge che la cittadina straniera morta in circostanze misteriose sia stata condotta al Commissariato di Opicina per essere portata al Cie di Bologna, in attesa di essere rimpatriata in Ucraina, nonostante i suoi familiari vivessero a Milano; appreso che uno stato di grave depressione aveva già spinto la donna ad un tentativo di suicidio in carcere; sottolineato che la tragedia pone ancora una volta il tema dei suicidi e degli atti di autolesionismo nelle carceri, nei Cie e nelle caserme di cittadini italiani e stranieri; nella convinzione che la morte della giovane donna pone interrogativi ai quali è necessario dare una risposta, chiarendo quali siano le condizioni nelle quali viene effettuato il rimpatrio forzoso dei cittadini stranieri e quali siano in concreto i diritti garantiti agli stranieri trattenuti, i sottoscritti consiglieri regionali interrogano il Presidente Tondo per conoscere se durante il trattenimento siano stati messe in atto tutte le misure atte ad evitare atti di autolesionismo da parte di una donna segnalata come soggetto a rischio; se l’interessata avesse manifestato il timore di incorrere in gravi pericoli una volta rientrata in patria; se fosse stata messa nelle condizioni di chiedere eventualmente diritto di asilo, garantendo una informazione adeguata ed una mediazione linguistica”. La vicenda sta in questi giorni animando il dibattito a Trieste, via via che emergono particolari sulle modalità di trattenimento in questura che difficilmente possono essere scaricate su un unico funzionario. Ieri alle 17 davanti alla questura del capoluogo giuliano, si è tenuto un presidio di protesta indetto da alcune realtà di movimento e in cui sarà presente anche il Prc. Nella lettera di richiesta di adesione alla manifestazione si invitava la cittadinanza a partecipare per: “Esprimere questa repulsione, per porre delle domande precise al questore dal quale pretendere delle risposte precise, per pretendere che Baffi non resti a dirigere l’ufficio immigrazione”. Si sono ritrovati in oltre 200, attivati grazie al tam tam di movimento, con la presenza di poche forze politiche ma di cittadine e cittadini a urlare che questa storia nera offende tutta Trieste, la sua storia e la sua memoria. Stati Uniti: rivolta in un carcere del Mississippi, ucciso un agente Associated Press, 21 maggio 2012 Momenti di frenesia in un carcere nel Mississippi: una rivolta dei detenuti che è andata avanti per l’intera giornata di domenica ha ucciso un agente di 23 anni - di cui il nome non è noto - e molti altri impiegati sono stati feriti. Secondo le notizie a disposizione, il carcere “conteneva migliaia di immigrati irregolari” che da tempo si lamentavano per i maltrattamenti nella struttura. Siamo a Natchez, dove la struttura da 2.500 posti ed oltre “ospita immigrati illegali di sesso maschile per conto dell’Fbi” Secondo l’ufficio dello sceriffo, “il secondino è morto nel tragitto verso l’ospedale”; anche tre detenuti fra i feriti, uno dei quali con ferite da coltello. La prigione è privatizzata e gestita dal Corrections Corp. of America, una società appunto privata. Lo sceriffo riferisce che la rivolta è scoppiata in pieno pomeriggio, intorno alle 2, per concludersi intorno alle 11: pare che a farla iniziare siano state “regolamenti di conti” fra i detenuti, ma secondo il Daily Mail il tutto è diventato velocemente un’occasione per protestare contro “i maltrattamenti” da parte del personale della prigione. “Fra i 200 e i 300 detenuti stavano causando i peggiori problemi, inclusa l’accensione di un fuoco durante la notte. Ad un certo punto, fiamme e fumo erano visibili da fuori la prigione; i rivoltosi, in una fase particolarmente critica, hanno preso delle persone in ostaggio. I detenuti non erano armati con armi tradizionali” ma piuttosto con dispositivi d’offesa improvvisati come “cestini dell’immondizia, scopettoni e legno staccato dai letti a castello e lavatoi”: il poliziotto morto è stato ucciso con un colpo alla testa. Al momento della diffusione delle notizie la situazione era in via di normalizzazione, in tarda serata il personale della prigione è riuscito infatti a ricondurre i detenuti in cella. Tunisia: ex premier libico al Mahmudi in sciopero fame, non vuole estradizione a Tripoli Tm News, 21 maggio 2012 L’ex Primo ministro libico al Baghdadi al Mahmudi, detenuto in Tunisia, ha cominciato uno sciopero della fame per protestare contro una sua eventuale estradizione in Libia. Lo ha riferito oggi all’Afp il suo avvocato, Mabruk Kurshid. Al Mahmoudi, 67 anni, ha dato il via alla protesta dopo le dichiarazioni del capo del governo tunisino, l’islamista Hamadi Jebali, riguardo una eventuale estradizione a Tripoli, ha precisato Kurshid. Jebali giovedì aveva affermato in una conferenza stampa che la Tunisia “non sarà un rifugio per coloro che minacciano la sicurezza della Libia” aggiungendo che Tunisi era “al servizio del popolo libico”. Primo ministro fino agli ultimi giorni del regime di Gheddafi, al Mahmudi è stato arrestato nel settembre 2011 in Tunisia, dove da allora è detenuto. Su di lui pendono due domande di estradizione di Tripoli sulle quali la giustizia tunisina si è già pronunciata positivamente per due volte. L’ex presidente ad interim tunisino Fuad Mebazaa non ha mai firmato il decreto di estradizione ma il suo successore, Moncef Marzuki, ha promesso di consegnare al Mahmudi alle autorità di Tripoli quando si realizzeranno le condizioni di un “processo equo”. Secondo la difesa di al Mahmudi e delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, l’ex esponente libico sarà giustiziato se consegnato alla Libia. Norvegia: nuova perizia psichiatrica, Breivik è sano di mente Agi, 21 maggio 2012 Anders Behring Breivik, l’uomo che massacrò 77 persone tra Oslo e l’isola di Utoya in Norvegia è perfettamente sano di mente, e quindi può andare in carcere. Lo ha stabilito una seconda perizia psichiatrica, che, sovvertendo la prima, ritiene l’estremista di destra pienamente responsabile delle sue azioni. La nuova perizia crea una situazione bizzarra per la corte chiamata a giudicare Breivik perché ora ha due pareri perfettamente validi e legittimi ma contrastanti. La prima perizia dello scorso anno aveva stabilito che l’autore dei massacri era uno psicotico che soffriva di “schizofrenia paranoide”. Ciò gli avrebbe aperto le porte di un manicomio e precluso quelle del carcere. Ma l’odierna contro - perizia, ordinata dopo il clamore suscitato dai risultati del primo esame, ha concluso che Breivik è completamente sano di mente e può essere ritenuto responsabile delle sue azioni davanti alla giustizia. Paradossalmente Breivik preferisce l’esito del secondo esame perché ci tiene ad essere dichiarato penalmente responsabile per non vedere invalidata la sua ideologia anti-islam.