Giustizia: carceri sempre affollate; il record in Puglia, in Campania più imputati di condannati Ansa, 1 maggio 2012 Il sovraffollamento nelle carceri italiane resiste nonostante i provvedimenti svuota-carceri, prima di Alfano e poi del ministro Severino. Dunque, sono ancora 21mila i detenuti oltre la capienza regolamentare ufficiale degli istituti di pena che è di 45.742 posti letto, ma i posti reali - secondo l’associazione Antigone - sono molti meno visto che tanti reparti sono chiusi per manutenzione ordinaria o straordinaria. Eppure nel complesso 5.533 detenuti sono usciti grazie alla detenzione domiciliare prevista dalle leggi Alfano-Severino. Ma - secondo Antigone - è il provvedimento che avrebbe dovuto limitare le cosiddette porte girevoli, ossia quegli ingressi in carcere per pochi giorni dopo l’arresto, a non funzionare già più, e gli arresti con conduzione in carcere sono ripresi. Inoltre facendo un raffronto di medio periodo negli anni la durata della custodia cautelare è in crescita e le pene comminate sono più lunghe. La regione con il più alto tasso di sovraffollamento è la Puglia, dove il numero di detenuti è praticamente doppio rispetto alla capienza regolamentare (4.650 su 2.463), a seguire Lombardia (9.389 su 5.384 posti) e la Liguria (1.831 su 1.088). Il Trentino Alto Adige ha invece, al contrario più posti che detenuti (340 su 520). La Campania rappresenta un altro caso limite, ci sono in carcere più imputati che condannati. Il 51,5% aspetta in un istituto di pena la conclusione dell’iter giudiziario. Prima della entrata in vigore della legge Alfano, ossia il 31 dicembre del 2010 la popolazione carceraria era di 67.961 persone. Gli effetti - ricorda Antigone - sono stati ben lontani dalla prevista riduzione di ottomila unità: al 31 dicembre 2011 i detenuti erano infatti 66.897. Quindi poco più di mille in meno. E anche dopo il decreto Severino al 13 aprile 2012 i detenuti arrivano a 66.585, quindi soli altri 312 in meno. E il quadro di sovraffollamento e sofferenza pesante non può non incidere sul numero dei morti in cella: 37 nel primo trimestre di quest’anno, di cui 35 nelle carceri e 2 all’interno delle camere di sicurezza della questura di Firenze. Il tragico bollettino comprende 17 suicidi, 5 morti per malattia e per 15 le cause sono ancora da accertare. Giustizia: ministro Severino; Parlamento dia corsia preferenziale a ddl su pene alternative Asca, 1 maggio 2012 “Se è vero che il grado di civiltà di una società si misura anche attraverso le condizioni delle sue carceri, non posso che dare ragione a ciò che afferma il presidente del Senato Renato Schifani sulla necessità di riportare il dibattito parlamentare su un’emergenza, quella dei penitenziari italiani, che sarebbe incivile far cadere nel nulla”. Così il ministro della Giustizia Paola Severino a seguito della proposta del presidente Schifani di dedicare alla questione carceraria una sessione ad hoc. “Il problema - continua Severino - mi è apparso nella sua macroscopica ed evidente gravità da subito. È per questo motivo che il primo pacchetto di misure sulla Giustizia che ho portato in Consiglio dei ministri, lo scorso dicembre, ha riguardato le carceri. Da un lato, attraverso un decreto legge, abbiamo varato misure che hanno rallentato l’effetto porte girevoli, vale a dire quel fenomeno che ogni anno fa transitare in carcere migliaia di persone per soli tre giorni, così aggravando un sistema già compromesso. Dall’altro, con un disegno di legge, abbiamo ipotizzato un intervento strutturale con la previsione di misure alternative al carcere, la detenzione domiciliare, l’istituto della messa alla prova anche per gli adulti, e una delega al governo per depenalizzare i reati minori. Il ricorso al carcere, torno a ribadirlo, deve essere una extrema ratio”. “Ecco perché - conclude il ministro della Giustizia - non posso che dirmi d’accordo con il presidente Schifani. Quel disegno di legge sulle misure alternative approvato dal governo cinque mesi fa è ora all’esame della Commissione Giustizia della Camera. Una corsia preferenziale al provvedimento sarebbe il migliore dei modi per riportare il dibattito parlamentare su un’emergenza ineludibile”. Giustizia: Di Rosa (Csm); l’opinione pubblica chiede un’espiazione immediata delle pene Intervista di Chiara Rizzo Tempi, 1 maggio 2012 In Italia si ricorre alla carcerazione preventiva più che nel resto d’Europa. Per Giovanna Di Rosa (Csm) questo accade “perché ci sono molti stranieri senza dimora fissa, per la lunghezza dei processi e perché l’opinione pubblica spinge per un’immediata espiazione”. In Italia il 43,8 per cento delle persone detenute è ancora in attesa di giudizio: si tratta di 27mila persone che aspettano una condanna definitiva e di queste, la metà, 13.493, sono in attesa del giudizio di primo grado. Secondo le Statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa, nel 2009 le persone in custodia cautelare in carcere in Germania e Regno Unito sono state il 16 per cento, il 20 per cento in Spagna, il 23 per cento in Francia. In Italia il 50,7 per cento. Perché? Tempi.it ha cercato di capirlo con Giovanna Di Rosa, membro del Consiglio superiore della magistratura, e prima magistrato di sorveglianza a Milano. Perché c’è disparità tra quello che avviene nel nostro paese e il resto d’Europa? Il ricorso alla custodia cautelare si può giustificare verificando la qualità della popolazione detentiva, che in Italia è soprattutto straniera. Ciò significa che per il giudice spesso si pone il problema di concedere gli arresti domiciliari avendo davanti uno straniero che non ha un domicilio, motivo per cui anche reati di piccola entità vengono espiati in carcere. C’è poi anche un grandissimo problema da considerare per l’Italia ed è quello delle “porte girevoli”, cioè di tutti quei detenuti in attesa di primo giudizio, che entrano in carcere spesso per pochissimo tempo, appena tre giorni. Sono tutte situazioni specifiche del nostro sistema. Come si spiega che circa la metà della popolazione carceraria sia composta da persone in custodia cautelare, mentre leggi e giurisprudenza prevedono ferrei paletti per il ricorso a tale misura? In Italia c’è un abuso della custodia cautelare? Le norme sono elastiche e lo è anche l’interpretazione del giudice, che fa una valutazione di insieme sulla possibilità di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Ma c’è anche una forte e diffusa comunicazione mediatica sulla sicurezza, che chiede una pena immediata. Questo non posso dire che influenzi il giudice, però qualche domanda me la fa porre. Pensiamo al clamore mediatico eccessivo sul pranzo di Pasqua del comandante della Concordia: è come se in generale ci si aspettasse un’espiazione immediata. Detto questo, non posso dire però nemmeno che c’è un uso indiscriminato della custodia cautelare. Il problema che un giudice si trova davanti in questi casi, spesso, è la possibilità di reiterazione del reato e in carcere c’è anche una buona parte della popolazione nomade, che di per sé ha forte esperienza di reiterazione dei crimini. Ci sono 13mila presunti innocenti in carcere, sono tantissimi. E di questi solo 5mila sono stranieri. Per tutti gli altri qual è la giustificazione? Sono tantissime persone è vero. Ma il problema è anche l’eccessiva lunghezza dei processi, nel nostro paese il sistema processuale è ingolfato. Per questo la Corte europea dei diritti dell’uomo ha applicato nei confronti del nostro paese delle sanzioni. Esistono dati sulla percentuale di accoglimento delle richieste di custodia cautelare dei pm in Italia? Non c’è anche un problema di “appiattimento” dei gip che devono accogliere o rigettare le richieste, sulle posizioni dei pm? L’esperienza dimostra che, nella maggior parte dei casi, queste richieste hanno un parere positivo. Non esiste una percentuale sulle richieste di accoglimento, ma posso assicurare che non c’è appiattimento. E dove fosse rilevato, da componente del Csm, assicuro che sarebbe un dato rilevante per la valutazione ai fini della professionalità. Noi non abbiamo statistiche su questo, ma tutte le anomalie del sistema giudiziario, come potrebbe essere questa, vengono rilevate attraverso il parere dei capi ufficio giudiziari o dei consigli giudiziari. Non ci sono state note che abbiano rilevato questo problema, per cui non mi sento di dire che sia questa la causa di questi numeri enormi. Ma i consigli giudiziari, o i capi ufficio giudiziari, non sono certo noti, anche nell’ambiente della magistratura, per la severità di giudizio o critica verso i colleghi. Guai a pensare al sistema come se fosse fondato e formato sui rapporti personali: il sistema del governo autonomo della magistratura conosce diversi filtri. Prima di tutto permette a tutti di partecipare, oltre all’onere di segnalazione del capo dell’ufficio giudiziario, poi c’è il parere del consiglio giudiziario e poi del Csm, pensare che si sia tutti d’accordo significa solo riportare notizie per sentito dire. Assicuro che se ci fosse un appiattimento, verrebbe denunciato. Tra le misure cautelari, non è prevista solo la custodia in carcere. Anche per il caso di tossicodipendenti, ad esempio, non sarebbe migliore il ricorso ad alternative al carcere? A Milano, dove ho lavorato e dove da tempo sono stati avviati profondi rapporti tra l’amministrazione penitenziaria e quella del territorio per favorire misure alternative, ci sono anche due esperienze in corso che riguardano le misure cautelari per i tossicodipendenti. C’è una postazione del Sert all’interno del Tribunale, e al momento di decidere sulla custodia, il Gip, o il giudice monocratico nelle direttissime, permette dei colloqui con gli operatori del Sert. Questo progetto è partito anche in altre città, si chiamava “Dap prima” ma poi si è arenato. Non so dire perché. Giustizia: Arena; custodia cautelare è patologia di Pm e Gip, una condanna anticipata Intervista di Chiara Rizzo Tempi, 1 maggio 2012 Intervista a Riccardo Arena, penalista e conduttore di Radio Radicale: “Si anticipano condanna ed espiazione alle indagini preliminari e così si aprono le porte all’errore giudiziario”. Riccardo Arena, penalista e conduttore della trasmissione Radio Carcere su Radio radicale, spiega a Tempi perché in Italia il 43 per cento delle persone attualmente detenute sono in attesa di giudizio. Oggi in carcere ci sono oltre 13 mila persone in attesa di un giudizio di primo grado. Come spiega questo fenomeno? C’è un abuso della custodia cautelare? Il problema è complesso. Si tratta di una patologia, che ha diverse cause. Una è la mancata applicazione della normativa sulla custodia cautelare in carcere, che sulla carta è ottima ma non viene correttamente applicata. Il motivo è semplice: siccome il processo penale ha dei tempi irragionevoli, il pm che indaga e il gip che deve decidere sull’ordinanza di custodia cautelare anticipano la sanzione, sapendo che la fase dibattimentale arriverà dopo anni e avrà un esito incerto. Sono in malafede? Non è un meccanismo determinato da cattiveria, è frutto della patologia del sistema: se i processi penali durassero sei mesi, il problema della misura cautelare non ci sarebbe. Ma se la sentenza definitiva arriva dopo otto anni, i magistrati tendono a anticipare la pena. La lunghezza dei processi ha dunque innescato questa reazione da parte di chi opera nel settore giudiziario. Se invece avessimo un sistema processuale dai tempi davvero ragionevoli, si tenderebbe assai meno a ricorrere alla misura cautelare perché pm e gip saprebbero che in poco tempo scatterebbe l’accertamento giurisdizionale: condanna o assoluzione. La tendenza ad anticipare tutto nella fase delle indagini preliminari, non è pericolosa? Certo. In questa metamorfosi del processo penale, come la definisco io, la condanna anticipata, ovvero la misura cautelare, arriva nella fase delle indagini preliminari dove tutto è mutevole. Alla sentenza basata sulle prove si sostituisce quella basata su gravi indizi di colpevolezza E questo apre le porte all’errore giudiziario. Da dove deriva questa metamorfosi? Storicamente, inizia dopo l’introduzione del codice Vassalli, che però ha il grandissimo merito di avere introdotto il rito accusatorio. Perché? È durata anni la metamorfosi del processo penale, che dopo la sua introduzione, ha subìto diverse modifiche legislative e diverse sentenze della Corte costituzionale. Tutto ciò ha creato una macchina processuale incapace a dare risposte di giustizia in tempi ragionevoli perché è diventata un meccanismo processuale ingolfato, pieno di inutili formalismi e contraddistinto dall’incertezza. Macchina processuale che è stata ulteriormente bloccata dall’introduzione di innumerevoli reati. La politica infatti in questi anni non ha ambito a rendere efficiente il processo penale, ma ha usato lo strumento riformatore per pura propaganda, ovvero per introdurre nuovi reati. È lo stato penale. È evidente che l’abuso della misura cautelare è anche frutto dell’indifferenza mostrata dalla politica. Ma oggi quindi si teme di più la fase delle indagini rispetto al processo, secondo te? Assolutamente sì. All’indagato, soprattutto se eccellente, fa più paura la misura cautelare e l’intercettazione, rispetto all’esito del dibattimento che sarà futuro e incerto. Si deve capovolgere invece tutto questo e si deve ridare centralità al giudizio di primo grado. Giudizio che non può durare più di sei mesi e che deve avvenire in un tempo assai vicino all’ipotesi di commissione del reato. Dal primo semestre del 1992 (come si vede dal grafico sopra pubblicato, ndr) il ricorso alla custodia cautelare è aumentato in modo vertiginoso, sino al ‘94, e poi ancora dopo. Perché? Non è stata Tangentopoli, che è servita solo a distruggere i partiti. È pacifico che in quegli anni ci siano stati i famosi “arresti del venerdì” e i “rilasci del lunedì”. La gente veniva liberata dopo che aveva parlato. E in alcuni casi la custodia cautelare è ancora adesso un mezzo per ottenere la prova: ma questa è la patologia secondaria, tipica solo di alcuni pm. Sicuramente nella metamorfosi del sistema penale c’è chi abusa anche della custodia cautelare, per ottenere la prova o la confessione, durante Tangentopoli come oggi. L’aumento delle custodie cautelari però è dovuto piuttosto al progressivo acuirsi delle patologie del processo penale. e di conseguenza all’aumento patologico dei tempi processuali. Più si allungano i tempi del giudizio e più aumenta l’anticipazione patologica della sanzione. I politici questo lo sanno bene, ma si vede che a loro non interessa: del resto, perché oggi la maggior parte dei politici dovrebbe avere interesse in un processo che si conclude in sei mesi ? Oggi il rinvio a giudizio è una manna: significa la salvezza, dopo di che inizia la noia. Giustizia: Rizzoli (Pdl); una pena rieducativa e umana… anche per Provenzano e Savi Intervista di Chiara Rizzo Tempi, 1 maggio 2012 È uscito il libro di Melania Rizzoli (Pdl) “Detenuti”, un viaggio in carcere attraverso le parole di prigionieri eccellenti. A tempi.it: “Anche i peggiori criminali hanno diritto alla valenza rieducativa della pena”. Melania Rizzoli, deputata del Pdl, chirurgo, fa parte della commissione d’inchiesta sugli errori sanitari. Nel suo doppio ruolo di medico e deputato ha sempre visitato le carceri italiane. Da questo lungo viaggio nell’inferno del diritto, Rizzoli ha scritto un saggio in libreria da ieri, Detenuti. Incontri e parole dalle carceri italiane (Sperling & Kupfer): in prima fila ci sono le storie di detenuti colpevoli di reati sanguinari, ancora vivi nel ricordo della società. Il libro di Rizzoli, infatti, non è solo il resoconto di ciò che accade dietro le sbarre, della condizione di quelle 67 mila persone che stanno in carceri da 45 mila posti, nel disprezzo dei più basilari elementi igienico-sanitari, ma anche di come sia andata smarrita la vera funzione della pena in Italia. Da cosa e perché nasce il suo libro? Io sono un medico ed entro sempre nelle carceri per controllare le condizioni sanitarie dei penitenziari. Così segnalavo tutte le incongruenze che vedevo. Ma ogni denuncia fatta al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o ai magistrati competenti del territorio, anche per patologie incompatibili con il carcere, non otteneva alcuna attenzione. Cadeva semplicemente nel vuoto. Il carcere è così: nessuno sa cosa succeda dopo un arresto, ma le persone sono sempre curiose di saperlo. Così ho fatto la cronaca di ciò che succedeva, attraverso le testimonianze di persone balzate sulle prime pagine dei giornali. Persone che raccontano anche la sofferenza drammatica che hanno vissuto. Ho chiesto sempre la liberatoria a ciascuno di questi detenuti e ho ricevuto anche molti rifiuti, ad esempio da Salvatore Riina. Il mio intento è far parlare di questo argomento troppo spesso dimenticato: il libro si apre con otto testimonianze di persone che sono state in carcere e ora sono fuori, con le loro riflessioni su ciò che ha significato per loro la pena. Tra loro tre terroristi come Giusva Fioravanti, Francesco Mambro e Sergio D’Elia. Cosa le hanno detto? Lo leggerete: ma posso anticipare che hanno fatto le loro riflessioni su quegli anni durissimi di carcere di cui ben otto in isolamento. Quali altre storie l’hanno colpita? Quella di Franco Califano, in carcere per tre anni e mezzo per droga, o di Wanna Marchi, che ora è “in articolo 21? (misura che dà la possibilità di uscire durante il giorno per lavorare e rientrare in carcere per il pernottamento, ndr) e che deve ancora scontare quattro anni. Ognuno di loro mi ha stupito perché, pur nel racconto della stessa esperienza, ha dato uno sguardo diverso del carcere, che cambia in base al carattere del singolo. In questo libro ci sono spacciatori, assassini, truffatori: uno spaccato del carcere molto provocante per il dolore di cui parla. Nel libro parlo anche di suicidi. Ho scelto le storie di personaggi noti, e non di poveri cristi, perché sono sicura che altrimenti non avrei mai trovato un editore e che il libro sarebbe passato inosservato. Ha scelto anche criminali sanguinari: da Bernardo Provenzano a Roberto Savi (Uno Bianca). Perché proprio loro? Roberto Savi è stato l’incontro più commovente, perché sono stata l’unica persona che lo ha visitato in 18 anni. Ho trovato un uomo sepolto vivo e questo non è degno di un paese civile, pur con tutto quello che Savi ha fatto. La visione dei suoi crimini rimane intatta, anche nel mio libro, ma nella realtà del carcere non rimane altrettanto intatta la valenza rieducativa della pena. Giustizia: Santanché (Pdl); leggi speciali e carcere immediato per i reati contro le donne Intervista di Andrea Cuomo Il Giornale, 1 maggio 2012 “Galera sin dalle prime molestie. Solo così si previene la mattanza”. Solo nell’ultima settimana sono almeno cinque i casi di violenze gravi ai danni di donne finiti sui giornali. Da Vanessa Scialfa, la ventenne di Enna strangolata dal fidanzato e buttata da un viadotto, allo stupro subito il 27 aprile da una donna di 32 anni sul treno Milano-Lodi. E poi la mamma che a Milano, dopo aver accompagnato i figli a scuola, è stata aggredita in un parco della Comasina. La trentanovenne di Salerno sequestrata e violentata dall’algerino che non accettava di vedersi abbandonato da lei. La ventunenne toscana sfuggita per un soffio alla violenza da parte di tre uomini fuori da una discoteca di Voghera. Ed è di ieri il caso della donna di 67 anni accoltellata per motivi oscuri nell’androne del suo palazzo in via Depretis, episodio che ha fatto salire a dieci le violenze denunciate negli ultimi cinque giorni da donne nel solo capoluogo lombardo. Una raffica impressionante, che spinge Daniela Santanché, esponente del Pdl che da anni si occupa del tema, a invocare leggi speciali. “Ci vuole un 41-bis per i reati contro le donne”. Addirittura? “Sì, bisogna trasformare la legge sullo stalking, che è benedetta ma ha i suoi limiti, da ordinaria in speciale. In questo modo si potrebbero sospendere le garanzie per quanti si sono resi protagonisti di violenza sulle donne fino a sentenza definitiva. Perché non bisogna agire quando il danno è stato fatto. Bisogna agire sul nascere di quella escalation che parte da una sberla o addirittura solo da un’intimidazione e sfocia in un omicidio”. Perdoni, però non sempre dalla sberla si arriva all’omicidio… “Questo è vero, però sempre l’omicidio parte da una sberla. I raptus omicidi improvvisi nei confronti della propria moglie, della propria compagna quasi non esistono, sono solo delle eccezioni statistiche. I presupposti dei gravi motivi di pericolo per la donna in genere sono chiari. E se uno viene messo in galera ai primi segnali, invece di attendere tutta la trafila della denuncia, dell’ammonizione, dell’allontanamento dai luoghi eccetera, si interromperebbe la catena della violenza sul nascere. Invece da noi la Cassazione ha addirittura sentenziato la non necessità del carcere preventivo per chi è accusato di stupro di gruppo. I tempi di dissuasione sono troppo lunghi rispetto a quelli in cui matura il crescere esponenziale della violenza”. Però ci vogliono tempi rapidi e certi per la giustizia… “Certo, se c’è qualcuno in carcerazione preventiva non possiamo aspettare sei o sette anni per una sentenza definitiva”. Non basta inasprire le pene? “No, quelle le abbiamo già aumentate, ma le pene agiscono quando il danno è stato già fatto. Noi vorremmo scongiurarlo”. Per questo è anche necessario che le donne abbiano il coraggio di denunciare le prime violenze. Mica facile. “Certo, ma le donne devono capire che se prendono una sberla e stanno zitte, poi ne prenderanno quattro e staranno ancora zitte”. E come farglielo capire? “Facendo loro sentire che ci occupiamo li loro, che non sono sole e abbandonate. Che è stupido avere la sindrome della crocerossina. Che una sberla non è mai un gesto d’amore. Che gli uomini violenti non si possono cambiare. Vede, la nostra è ancora una società che soffre di un retaggio culturale intimamente maschilista, per cui si pensa che la donna che subisce violenza se l’è sempre andata un po’ a cercare. Qual è la prima domanda che ci si fa quando si viene a sapere di uno stupro?”. Ecco, qual è? “Ma lei com’era vestita?”. D’accordo, ma non c’è il rischio di passare da un eccesso all’altro? “Certo, non vogliamo diventare come gli Usa, dove si va in galera per aver toccato il culo ha una donna. Ma il corrispondente del Daspo nello sport è necessario”. Roberto Saviano ha aderito all’appello di “Se non ora quando”: parla di femminicidio... “Mi sembra di essere strumentalizzata. Chi parla di violenza oggi che cosa ha fatto ieri? Dov’era Saviano? Come ha aiutato le donne che hanno subito violenza? Non credo nella generosità”. Che cosa intende dire? “Ho il sospetto che Saviano cerchi pubblicità per il lancio del suo nuovo programma”. Un’accusa forte… “E allora mettiamola così: se Saviano vuole davvero il bene delle donne vittime di violenza, devolva il suo cachet televisivo a un’associazione che si occupa di loro, apra una casa delle donne vittime di violenza con figli a carico. Se lo farà, crederò alla sua buona volontà e metterò anche io i miei soldi. Altrimenti, sono solo parole”. Giustizia: nuovi commenti all’intervento di Renato Schifani sull’emergenza carceri Agenparl, 1 maggio 2012 Marino (Pd): bene Schifani, Senato affronti emergenza “È apprezzabile l’intendimento del presidente del Senato Renato Schifani di affrontare la penosa realtà delle carceri italiane. Il Parlamento queste volta non deve limitarsi a un dibattito istituzionale ma deve offrire ed approvare soluzioni concrete. Si tratta di un tema centrale dato che oltre 60.000 detenuti vivono in condizioni disumane. La funzione rieducativa della pena, così come prevista dalla nostra Costituzione, si è persa in un abisso funestato dal sovraffollamento, dalla mancanza di condizioni igieniche appena accettabili e da un degrado agghiacciante”. Lo dichiara Ignazio Marino, senatore del Partito democratico. “Di carceri mi sono occupato con la Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale, impegnandomi per gli internati nei cosiddetti manicomi criminali, o per accertare le cure effettivamente prestate a Stefano Cucchi. In questi due anni, insieme a parlamentari radicali come Donatella Poretti, ho visitato anche alcune carceri, come quello di Favignana (recentemente chiuso) dove abbiamo denunciato a più riprese, ad esempio, la presenza dell’amianto nei bagni e l’inaccettabile condizione di celle fetide costruite sotto il livello del mare. Un dramma che colpisce tutti, i detenuti, le loro famiglie e anche la polizia penitenziaria”, conclude Marino. Consolo (Fli): sì a soluzione problema carceri, ma no amnistia “Che il problema carceri vada risolto, mi sembra un fatto assolutamente scontato ed urgente. A chi è contrario, un invito a rileggere l’articolo 27 della Costituzione, laddove prevede che la pena sia rieducativa e non afflittiva, come accade ad esempio nei paesi di cultura anglosassone. Che rieducazione si può avere di fronte a celle con un numero doppio o triplo di detenuti rispetto al previsto?”. È quanto afferma Giuseppe Consolo, deputato di Fli e vicepresidente della Giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio. Per il parlamentare finiano “una cosa però deve essere chiara: il problema delle carceri non va risolto attraverso l’amnistia, che a volte costituisce il vero obiettivo di quanti non hanno a cuore la corretta applicazione del dettato costituzionale ma si preoccupano di eludere le condanne ricevute”. Bersani (Pd): riforma carceri? al Senato ci sono un sacco di cose da fare “Capisco Schifani, ma al Senato c’è un bel affollamento. Ci sono le norme sul lavoro, sulla Costituzione, sulla legge elettorale. Ci sono un sacco di cose da fare”. Lo ha detto a Palermo il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, rispondendo ai cronisti che gli chiedevano un commento sulle parole del presidente del Senato, Renato Schifani, a proposito della riforma delle carceri. Gasparri (Pdl): Bersani banalizza proposta Schifani “Stupisce che Bersani abbia banalizzato con tanta superficialità la proposta del presidente del Senato Schifani di dedicare all’emergenza carceraria una apposita nuova sessione parlamentare per rivedere anche le misure alternative al carcere”. Lo afferma il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri. “Il Parlamento - prosegue Gasparri - tutto può e deve affrontare tale questione senza esitazioni. Il Senato non si spaventa certo per il tanto lavoro che c’è da fare e il Pdl in particolare non si avvilisce per quello che Bersani lamenta come un sovraffollamento di provvedimenti da affrontare. A merito di Schifani va il non aver mollato su una questione a lungo discussa ma spesso rimandata. Da Bersani ci saremmo aspettati parole di compiacimento piuttosto che sterili polemiche. Il ruolo di arbitro dei lavori delle due Camere lo affidiamo ad altri, non certo a lui”. Alfano (Pdl): bene Schifani a porre questione carceri “Bene ha fatto il presidente del Senato, Renato Schifani, a porre il tema delle carceri, raccogliendo una sensibilità trasversalmente presente in tutti gli schieramenti politici e sociali. Non mi sembra proprio che il presidente Schifani abbia posto un problema sul ramo del Parlamento che se ne deve occupare e nemmeno mi sembra giusto ridurre a questo un tema così rilevante. Anche perché siamo tutti consapevoli che le proposte del ministro Severino in materia carceraria pendono in commissione Giustizia alla Camera e sarebbe forse ora di svegliarle dallo stato dormiente in cui si trovano, non certo a causa del Governo”. Lo ha affermato il segretario politico del Pdl, Angelino Alfano, intervenendo a proposito delle dichiarazioni rilasciate sull’argomento dal segretario nazionale del Pd, Pierluigi Bersani. Bonfrisco (Pdl): concordo con parole Schifani “Concordo con le parole del presidente Schifani sull’urgenza di risolvere in maniera complessiva e articolata il problema del sovraffollamento delle carceri italiane e le inumane condizioni dei loro detenuti. Sarebbe, come afferma Schifani, una riforma storica degna di un Paese civile come il nostro. Mi auguro che il Governo e tutte le forze politiche dimostrino la stessa disponibilità, impegnandosi in una nuova sessione parlamentare; è una possibilità che dovremmo tutti cogliere”. Così la senatrice Anna Cinzia Bonfrisco (Pdl), componente dell’Ufficio di Presidenza del Senato. Antigone: sfollare le carceri? inutile se non si cambia legge droga Modificare la legge Fini-Giovanardi sulla droga o qualsiasi altra misura deflattiva per le presenze in carcere sarà inutile. Lo sottolinea Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri, commentando positivamente la presa di posizione del presidente Schifani. “È importante - dice Gonnella - che le più alte cariche dello Stato abbiano consapevolezza della reale situazione negli istituti di pena, ma una sola sessione di discussione in Parlamento non è sufficiente a risolvere questa emergenza”. “Non ci si può affidare a soluzioni simboliche - prosegue - è necessario invece mettere in campo misure concrete per ridurre il sovraffollamento e adottare provvedimenti per la tutela dei diritti dei detenuti. È fondamentale - aggiunge Gonnella - rinunciare all’idea che il carcere sia la sola pena ed è giusto dunque, come dice Schifani, intervenire per ridurre i detenuti in custodia cautelare”. Inoltre, ribadisce Gonnella, “è inutile parlare di depenalizzazione se non si modificano le norme in materia di droga e non si cambia la legge Fini-Giovanardi”. A questo proposito, ricorda “esistono già in Parlamento due bozze di riforma del codice penale che convergono, una del centro sinistra a firma Pisapia, e l’altra del centro destra a firma Nordio: basterebbe una rapida sessione parlamentare per approvarne i contenuti. Infine - conclude il presidente di Antigone - per garantire i diritti dei detenuti è urgente introdurre il crimine di tortura nel nostro sistema penale. L’Italia è al venticinquesimo anno di inosservanza delle norme Onu che lo impongono a tutti gli Stati”. Giustizia: quando la “custodia” si trasforma in tragedia… Niki Aprile Gatti, quale la verità? di Valeria Centorame Notizie Radicali, 1 maggio 2012 Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voci che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza, e il mondo gira indifferente a questa infamia. (Enzo Tortora – lettere dal carcere) Niki. La prima volta che ho visto il suo viso ho scorto una tremenda somiglianza con mio figlio. Stessa età, stesso solare sorriso, stessi occhi dolci ed una vita intera davanti. Solo che quella di Niki è stata spezzata, tragicamente ed a soli 26 anni. Niki era un bel ragazzo, pieno di vita e di aspettative, che fortunatamente e grazie alla sua bravura aveva trovato lavoro in ambito informatico presso una società di San Marino, ma purtroppo proprio per il gruppo di aziende oggetto dell’inchiesta Premium, inchiesta che vede incriminate la Oscorp SpA, Orange, OT&T e TMS, tutte residenti a San Marino, la Fly Net di Piero Mancini, Presidente dell’Arezzo Calcio, più altre società con sede a Londra. Inchiesta per la quale venne indagato e tratto in custodia cautelare in carcere. Su internet mi capita spesso di leggere cosa scrive la sua grande e coraggiosa mamma “mamma per sempre” e di non riuscire a commentare presa da un nodo alla gola. Sento Niki vicino, lo conosco sempre più e non riesco a smettere di pensare alla sua vicenda. “Niki era tanto simpatico e mi faceva così ridere con le sue battute. In memoria mi è rimasto un suo messaggio del 23 ottobre 2007 delle ore 21.14 perché quando non eravamo più davanti ai computer mi faceva i messaggi (non posso pensare che quelle mani così veloci nello scrivere gli sms, non si muovano più, guardo questi messaggi e mi chiedo dove sei?) il messaggio era: “In Giappone è nato un bambino bruttissimo e sai come gli hanno messo nome?” ed io lì che sistematicamente ci cadevo in risposta “come?” e lui di rimando: “Soshito Na-Kakata” mi ricordo che risi così tanto, non ho più riso come ridevo con lui” Una bellissima foto di Niki con il suo piccolissimo fratellino e sotto: “per giocare Niki rubava sempre il ciuccio a Nathan per farlo piangere, così scattai questa foto e gli dissi ridendo:” Niki la farò vedere a tutto il mondo e ti farò vergognare” chi mai poteva immaginare che l’avrei davvero fatta vedere a tutti... quanto abbiamo giocato”. Ogni volta che leggo questi messaggi pieni di amore di Ornella, le sono accanto ed empaticamente provo il suo immenso dolore che tengo riservato dentro di me e faccio mia la famosa frase “Non possiamo parlare finché non ascoltiamo. Quando avremo il cuore colmo, la bocca parlerà, la mente penserà”. Il mio cuore è si colmo, ma quello che si chiede volendo conoscere la verità su questa vicenda è un atto di Giustizia, non solo l’appello disperato di una madre, ma un atto dovuto anche per le migliaia di cittadini che spesso si vedono da innocenti “sequestrare” per mano dello Stato e muoiono anche di questo, un atto dovuto per la nostra democrazia, un atto dovuto per il nostro Stato di Diritto continuamente vilipeso…in carcere abitano più presunti innocenti che detenuti condannati con pena. Niki giovanissimo ed incensurato, viene arrestato il 19 giugno del 2008 a Cattolica, non viene trasferito al carcere di Rimini così come avviene per gli altri 17, bensì portato in un carcere di massima sicurezza in isolamento a Sollicciano, senza poter incontrare i propri familiari e dichiara subito di voler collaborare con gli inquirenti. Il 23 Giugno 2008 dopo quattro giorni di isolamento alle ore 9.00 Niki viene portato in blindato e fatto scendere in manette al tribunale di Firenze per l’interrogatorio di garanzia. Ornella sua mamma prova inutilmente ad avvicinarglisi ma le viene intimato di stare almeno a venti metri di distanza, riesce di sfuggita solo ad incontrare il suo sguardo. Il giorno dopo il 24 Giugno 2008 alle ore 13.15 Ornella riceve la telefonata dal carcere di massima sicurezza di Sollicciano: Niki è morto. La morte di Niki viene archiviata nel 2010 come “suicidio”, ci sono però tre interrogazioni parlamentari sul suo caso ed ancora oggi tante cose continuano a far pensare che si tratti di un suicidio simulato. Oltre al dolore insopportabile ed atroce, della morte di un ragazzo, solamente indagato e quindi innocente mentre si trovava in “custodia” ovvero sotto “protezione” da parte dello Stato, in questa storia c’è molto di più. Una delle prime cosa ad avermi colpita è proprio l’assenza di informazione giornalistica, approfondimenti, inchieste, perché questa storia non viene raccontata ed approfondita? Eppure gli estremi ci sarebbero tutti. Una coltre di nebbia permea attorno alla vicenda, e tanti e troppi i lati ancora da chiarire che spero di cuore qualche vero giornalista d’inchiesta possa approfondire. Il comitato Verità e Giustizia per Niki, come del resto sua madre e tante tante altre persone vogliono risposte e verità. Niki si sarebbe tolto la vita, impiccandosi, lui ragazzone di 92 kg ed alto 1,80 cm con un leggerissimo laccio da scarpe, unito a stracci di jeans, mentre sul laccio addirittura non è stato eseguito nessun esame del Dna come richiesto invece dalla madre. Dalla sua casa di San Marino vengono “casualmente” rubati i pc e tutte le sue cose (mai sequestrati nonostante fosse in custodia cautelare e potessero rappresentare mezzi per la ricerca di ulteriori indizi e prove) lo stesso identico strano furto “casuale” accade anche presso la società per cui lavorava. Mentre Niki si trova in carcere riceve un misterioso telegramma con partenza dalla sua stessa abitazione che gli indica di nominare altro avvocato. Anche essendo in regime di isolamento gli viene stranamente consegnato ed il ragazzo fa ciò che gli viene richiesto. Anche la stessa ora della morte, le 10.00 del 24 giugno, sembra non coincidere con la testimonianza resa da un agente penitenziario, che dichiara di avergli parlato in quegli stessi istanti. Niki risulta inoltre dimissionario da un’azienda londinese nella quale figura come amministratore delegato in data 01.11.2008, nulla di strano se non fosse che quelle dimissioni che lui stesso avrebbe dato sono datate a quattro mesi di distanza dalla sua morte. Riaprire le indagini per appurare le cause della sua morte mi pare proprio il minimo che si possa e si debba fare, dopo che oltretutto sono tornati tutti liberi gli indagati al centro dell’inchiesta Premium. Voglio chiudere queste mie righe con un appello e con la speranza che qualcuno si prenda la briga di approfondire veramente perché Niki è figlio di noi tutti mandandogli un saluto con le parole della sua stessa mamma: “A Niki... il tuo colore non sbiadisce... e sta parlandomi di te... questa giornata che finisce... ti amo. Shalom. Mamma per sempre”. Giustizia: libro di Melania Rizzoli sotto accusa “l’antimafia ha vietato il mio racconto su Riina” Il Messaggero, 1 maggio 2012 “La Procura nazionale antimafia ha negato l’autorizzazione a pubblicare il pezzo sull’incontro che ho avuto con Totò Riina nel mio libro Detenuti”. Lo ha detto la parlamentare Melania Rizzoli (Pdl), intervistata dalla trasmissione La Zanzara su Radio24. Rizzoli ha visitato molti carcerati famosi, da Totò Cuffaro a Bernardo Provenzano, da Lele Mora a Salvatore Parolisi, per, ha spiegato, “sollevare il problema carceri. Non so perché la procura antimafia mi ha vietato di inserire proprio il capitolo dedicato a Riina, mentre non ha avuto da ridire per quello su Provenzano: avranno avuto i loro motivi”. Il boss, che sta scontando 14 ergastoli al 41 bis nel carcere milanese di Opera, secondo quanto riferito dalla parlamentare, le ha espresso il desiderio di fare una passeggiata per Milano. Nella sua cella inoltre, ha aggiunto, c’è l’aria condizionata “per ragioni mediche”. La confessione nel libro. Nel libro, ha spiegato Rizzoli, “avrei sottolineato la differenza tra Riina e Provenzano. Quest’ultimo l’ho trovato molto provato e malato, addirittura disorientato, quasi assente e io, da medico, capivo che non era simulazione”. “Riina invece - ha proseguito - era ironico, col morale altissimo, fisicamente in gran forma, curatissimo, con i capelli brizzolati, molto gentile. Mi ha accolto in cella come se fosse a casa sua. È stato spiritoso per una persona che sta scontando 14 ergastoli da 18 anni al 41 bis. Mi ha detto di non avere nostalgia della Sicilia e che gli piacerebbe fare una passeggiata a Milano. Lui è in isolamento totale e perpetuo, riceve una sola volta al mese una visita per un’ora: è la moglie che lo va a trovare. Mi ha detto di non aver mai tolto la fede dal dito, perché ‘io ho una buona moglie e ormai sono diventato un monachello”. L’aria condizionata in cella, ha rilevato l’autrice del libro, “è stata imposta per motivi medici, perché una notte Riina è stato talmente male che è stato ricoverato con una patologia importante”. Lettera: uomini in carcere, trattati peggio dei maiali di Paolo Izzo Il Secolo XIX, 1 maggio 2012 Una “cloaca sociale”: così Emma Bonino ha definito le carceri italiane, perché ci finiscono principalmente quelle categorie di persone di cui lo Stato non sa e non vuole occuparsi: immigrati e drogati. Sono lì e ci resteranno, quei reietti che la società della “brava gente” non vuole vedere in giro, anche se il 40% di loro è in attesa di giudizio. Ma la cloaca non è solo questo. Senza dire delle condizioni igieniche e sanitarie in cui vivono, basti pensare che, qualunque reato abbiano commesso, 3, 4 o 5 esseri umani vivono in undici metri quadrati insieme alle loro poche cose, per 20 ore al giorno. Quando ai maiali destinati al macello sono concessi maggiori spazi e libertà di movimento, per direttiva europea... Sono solo alcune delle disastrose condizioni del sistema Giustizia nel nostro Paese, che instancabilmente i Radicali hanno ripetuto prima e durante la loro bellissima Marcia per l’Amnistia dello scorso 25 aprile. E... continueremo a ripeterlo, non c’è nessuna giustizia se è lo Stato il primo a essere ingiusto. Perché non si ricrea nessuna umanità, nessuna sana convivenza civile, se è lo Stato il primo a essere disumano. Udine: i detenuti di via Spalato in protesta “vogliamo l’amnistia” Messaggero Veneto, 1 maggio 2012 “Libertà, amnistia” hanno gridato nei giorni scorsi i detenuti della casa circondariale di Udine aderendo alle iniziative di protesta attuate a livello nazionale dai Radicali. Si è trattato, come si è appreso dai vertici del carcere, di una manifestazione pacifica che si è svolta in particolare nel giorno della festa della Liberazione. Al mattino, all’ora di pranzo e alla sera, ci sono stati fischi e urla e il rumore delle sbarre percosse con oggetti metallici o in legno si è sentito in tutto l’isolato di via Spalato. Comunque non ci sono stati incidenti e tutto si è svolto secondo le modalità che, nei giorni precedenti, erano state comunicate alla direzione attraverso uno scritto. Poi, nelle giornate successive, la situazione è tornata alla normalità. L’anno scorso, invece, un’analoga protesta si era protratta per diversi giorni e, in quell’occasione, c’erano state anche alcune lamentele da parte dei residenti per i rumori. Lo storico leader dei Radicali, Marco Pannella, il 25 aprile ha partecipato al corteo pro-amnistia che è partito dal carcere di Regina Coeli, a Roma, per poi arrivare in piazzale San Silvestro. “Le carceri sono oggi luoghi di inciviltà senza pari, occorre l’amnistia, subito” ha affermato Pannella. Ed Emma Bonino nel corso delle medesima marcia ha detto: “L’Italia è un Paese che ha nove milioni di processi pendenti e in cui l’istituto della prescrizione fa saltare 200 mila processi l’anno. Tutto questo è insostenibile in un Paese democratico”. In Italia, secondo Bonino, questa situazione “genera un’amnistia di classe, con i più ricchi che si avvantaggiano delle prescrizioni e le carceri che diventano una discarica sociale. Chiediamo l’amnistia come riforma strutturale”. Biella: Osapp; in arrivo altri 300 detenuti, per soli 180 agenti in organico La Stampa, 1 maggio 2012 Dopo la protesta davanti alla Prefettura, organizzata lo scorso mese di marzo, insieme a tutti gli appartenenti alle Forze dell’Ordine, torna a farsi sentire la voce degli agenti di Polizia penitenziaria. Questa volta, a contestare il piano-carceri, è l’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma di Polizia Penitenziaria) che, attraverso il suo responsabile generale Leo Beneduci, si solleva contro la creazione di nuovi padiglioni, con il conseguente aumento della popolazione carceraria, mentre la carenza del personale resta invariata. “Se si considera la Sardegna - dice il sindacalista - le strutture di Tempio Pausania e di Oristano non sarebbero ancora state consegnate per problemi e irregolarità, nella costruzione e nei pagamenti delle maestranze. La stessa cosa starebbe avvenendo, per le gravi carenze di personale, per i nuovi padiglioni di Massa, di Biella e di Terni, solo formalmente ultimati e consegnati”. All’interno del penitenziario cittadino sono infatti, praticamente, conclusi i lavori per i due nuovi padiglioni che, sulla carta, dovrebbero ospitare 200 reclusi, in aggiunta agli altri 300 già presenti nella parte vecchia della casa circondariale. Il timore del personale, però, è che i detenuti possano lievitare a più di 300. E questo a fronte di un organico di 180 agenti, quindi carente del 50%. I carichi di lavoro, infatti, aumenteranno e già i poliziotti sono in difficoltà con piantonamenti, traduzioni e altro. “Tutto questo - continuano dal sindacato -, a Biella come altrove, si ripercuote su due fronti. Il primo riguarda la sicurezza del personale, costretto anche a turni estenuanti, mentre il secondo la sicurezza degli stessi reclusi, che ci vengono affidati. Se vogliono aprire dei nuovi padiglioni allora ci diano dell’altro personale”. Firenze: l’impegno della Regione Sardegna; toglieremo i nostri pazienti dall’Opg di Montelupo www.gonews.it, 1 maggio 2012 L’assessore alla Sanità Simona De Francisci spiega una delibera dell’esecutivo isolano: “Cercheremo di favorire le dimissioni e diminuire gli ingressi per assisterli nelle strutture locali”. Contenere la spesa farmaceutica in Sardegna attraverso dieci nuove azioni e garantire una sanità di qualità anche ai detenuti nelle carceri isolane grazie all’approvazione delle Linee guida per la disciplina dell’ordinamento della sanità penitenziaria. Sono gli obiettivi di due distinte delibere approvate dalla Giunta Cappellacci martedì 24 e illustrate il 26 aprile dall’assessore regionale della Sanità Simona De Francisci. Novità in arrivo anche sul fronte degli attuali Ospedali psichiatrici giudiziari. Novità sul fronte degli attuali Opg: “Stiamo lavorando - ha anticipato l’assessore - assieme alle Regioni che afferiscono all’Opg di Montelupo Fiorentino (Toscana, Sardegna, Liguria, Umbria) per favorire le dimissioni e diminuire gli ingressi dei pazienti, in modo tale da inserirci in un percorso di appropriatezza sui detenuti che possono essere così assistiti in nostre strutture sanitarie. L’obiettivo è garantire un percorso riabilitativo valido e condiviso con i responsabili psichiatrici delle Asl e con la magistratura di sorveglianza. Stiamo valutando dunque, per chi ha necessità di misure particolari, di attrezzare strutture idonee secondo quelle che saranno le disposizioni ministeriali come previsto dalla legge nazionale 9/2012”. Messina: telefonino in mano a detenuto, le indagini sono ancora in corso di Tito Cavaleri Gazzetta del Sud, 1 maggio 2012 Il detenuto sarebbe già stato tradotto in un’altra casa circondariale. A quanto pare si tratta di un personaggio di un certo peso, un boss forse. Gli agenti della Polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Gazzi, lo avrebbero sorpreso con un telefonino in mano. L’uomo, secondo quanto si è appreso, sarebbe stato scoperto durante una visita medica, all’interno della stessa struttura. Ieri sera, dentro al carcere sarebbero state avviate una serie di perquisizioni a cominciare dalla cella dove era rinchiuso lo stesso detenuto. In merito alle indagini, condotte dallo stesso corpo di Polizia penitenziaria, vige il massimo riserbo. Pare che il telefono cellulare rinvenuto, sia stato introdotto all’interno del carcere da un agente penitenziario, adesso sotto indagine, il quale avrebbe favorito il boss dietro un corrispettivo che si aggirerebbe sui 20mila euro. L’inquietante notizia si è appresa ieri in tarda serata. Probabilmente nelle prossime ore si saprà di più sulla vicenda. L’ultimo ritrovamento di un telefonino all’interno del carcere di Gazzi fu attribuito a Salvatore Cutugno, arrestato con l’accusa di essere stato un “postino” dei boss. L’uomo che nel 2009 rispinse ogni accusa, si giustificò sottolineando che non avrebbe mai potuto introdurre all’interno del carcere (dove lavorò per anni) un telefonino, dal momento che in qualità di civile, ogni suo ingresso nella struttura era controllato dal metal detector, strumento al quale non sarebbe mai potuta sfuggire una simile rilevazione. Cutugno, nella notte del 31 dicembre 2005, avrebbe introdotto all’interno del carcere il telefono cellulare con cui da quel momento in poi sarebbero stati impartiti ordini e disposizioni relativi alla prosecuzione delle attività delittuose del sodalizio criminale di Giostra e Santa Lucia sopra Contesse. In questo modo avrebbe favorito alcuni boss detenuti, mettendogli a disposizione il telefonino con cui alcuni elementi di spicco della criminalità messinese, anche dopo il loro arresto continuarono tranquillamente a tenere contatti con gli affiliati all’esterno. Fu proprio grazie a un’intercettazione telefonica tra un boss e un suo “picciotto” che i carabinieri del Reparto operativo nell’aprile 2006 sventarono un omicidio. Quattro i fermi, operati in fretta e furia dai militari dell’Arma nell’ambito dell’operazione “Ricarica” proprio per impedire l’agguato durante le festività pasquali. Roma: “Beccati a scrivere”, nasce la rivista dalla III Casa Circondariale di Rebibbia Comunicato stampa, 1 maggio 2012 Nasce la rivista dal carcere di Rebibbia “Beccati a scrivere”, redatta dai detenuti presenti nella III Casa Circondariale. Sarà presentata l’11 maggio 2012, dalle 10.30 alle 11.30, presso la III Casa Circondariale di Rebibbia in Via Bartolo Longo 82 (Metro B - Rebibbia). “Beccati a scrivere” è un semestrale di 32 pagine. Ogni uscita 1.500 copie saranno distribuite in tutte le carceri del Lazio, nel territorio circostante Rebibbia e tra i singoli e gli enti interessati. Un’iniziativa editoriale dell’associazione “Express” Onlus, con il patrocinio e il contributo del Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio e con il patrocinio del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della “Sapienza” Università di Roma. In redazione i detenuti presenti nell’istituto, che accoglie giovani tossicodipendenti in fase avanzata di trattamento e con un residuo di pena non superiore ai 6 anni. Direzione responsabile di Claudia Farallo, giornalista specializzata in media education. All’interno della rivista: approfondimenti su carcere e comunicazione, cronache degli eventi realizzati nell’istituto, storie di vita dei ragazzi detenuti, prevenzione della tossicodipendenza e poi ancora ambiente, natura, cucina e salute. Nel primo numero: intervista ad Angiolo Marroni (Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio), commento del prof. Mario Morcellini (Direttore Dipartimento Comunicazione e Ricerca Sociale Università Sapienza), cronache “recluse” di sport e teatro, racconti di vita, animali in carcere e consigli per seguire un’alimentazione corretta (anche in un penitenziario). Inoltre ricette di cucina, cruciverba, poesie e umorismo. Intervengono alla presentazione, oltre a tutta la redazione (reclusa e non): Angiolo Marroni (Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio),Valeria Giordano (prof.ssa Sociologia della Metropoli Università Sapienza) e Gemma Marotta (prof.ssa Criminologia e Sociologia della Devianza Università Sapienza). Conduce l’incontro Daniela De Robert (giornalista Tg2). Al termine della presentazione si inaugurerà la mostra d’arte “Dentro la Gal(l)er(i)a” dell’associazione Made in Jail, con dimostrazioni pratiche di serigrafia. A pranzo, un rinfresco a cura dei ragazzi detenuti. Per partecipare è necessario accreditarsi entro giovedì 3 (per le necessarie autorizzazioni) indicando nome, cognome, luogo e data di nascita a beccati@expressonlus.it oppure a roberto.defilippis@giustizia.it. I giornalisti possono entrare anche senza prenotazione, semplicemente esibendo il tesserino dell’ordine. Bologna: “Piazza Grande” di maggio dedicato alla condizione dei detenuti della Dozza Dire, 1 maggio 2012 È dedicato alla condizione dei detenuti della Dozza il nuovo numero di “Piazza Grande”, il giornale dei senza dimora di Bologna, in distribuzione da domani (anche grazie ad un banchetto in piazza Maggiore, dove i sindacati festeggeranno il Primo maggio). “Testimone d’eccezione delle difficili condizioni di vita dei reclusi in Italia è Ascanio Celestini”, anticipa una nota della redazione. Nel suo nuovo spettacolo “Pro patria”, infatti, l’attore e regista porta in scena il monologo di un detenuto che immagina di scrivere ai padri del Risorgimento. “Per preparare questo spettacolo, mi sono recato in diverse prigioni- racconta Celestini nell’intervista a Piazza grande- ma più che altro ho fatto un lavoro di ricerca sui testi”. Nel preparare i testi “mi interessava soprattutto il carcere inteso come struttura concreta, esito diretto dell’ideologia della giustizia che l’ha prodotto”, dice Celestini, sottolineando che “il nodo sul quale si dovrebbe riflettere è la giustizia, così com’è concepita nel nostro Paese: una giustizia fondata sulla galera.” Purtroppo, aggiunge l’autore, “sappiamo perfettamente che il carcere non ha nessuna delle finalità che vengono sbandierate: rieducazione e ricollocazione nel mondo del lavoro”. In copertina, invece, c’è il volto di Laura Lucchetta, volontaria bolognese di “Ausilio per la cultura”, che si occupa dell’allestimento di biblioteche in carcere. “Abbiamo cominciato portando i libri che i detenuti volevano dalle biblioteche di Bologna e poi, parlando con loro, è venuta fuori l’idea della biblioteca universitaria”, spiega Lucchetta, pensata per fornire “una raccolta di testi-base per la preparazione agli esami da parte dei detenuti”.( Nel nuovo numero di Piazza grande, poi, “attraverso le voci di chi lavora in carcere, insegnanti, volontari- continua la nota- si racconta chi sono e come vivono le persone recluse a Bologna”. C’è perfino “chi chiede di rientrare dopo essere uscito grazie all’indulto- racconta Vincenzo Scalia, dell’associazione Antigone- l’angoscia ha un peso specifico dopo molti anni di vita senza l’esterno”. Il giornale, poi, si sofferma sui i dati commentati dalla garanti regionale Desi Bruno e da quella comunale Elisabetta Laganà: oggi alla Dozza ci sono 1.002 detenuti per 483 posti e solo il 10% di questi lavora, mentre dal 2007 a oggi i detenuti in Italia sono aumentati del 50% e le risorse sono diminuite del 10% e la spesa media pro capite è scesa a 113 euro (di cui 95,3 destinati al personale). Passando alle altre pagine del giornale, nel nuovo numero si si ricorda la figura di Massimo Zaccarelli, tra i fondatori di Piazza grande e della cooperativa La Strada, scomparso nel 2003: l’occasione è un torneo di calcio a lui dedicato che si terrà il 19 maggio nell’ambito del festival Porte Aperte. Piazza grande, poi, racconta come il Bici centro dell’associazione parteciperà alla “svolta ecologica” cittadina: durante i T-Days, infatti, ci sarà spazio per un’officina mobile e per uno stand per provare le bici elettriche. A seguire, dopo lo scorso numero speciale un’intera pagina è ancora dedicata al ricordo di Lucio Dalla. Attraverso la nota, infine, “cogliamo l’occasione per ringraziare Gaby Mudingayi per l’invito ai 100 senza dimora e profughi” ad assistere alla partita con il Genoa: “Una bella giornata di sport e solidarietà sociale”, scrive Piazza grande. Prato: “Hamlet’s dream”, un’esperienza di carcere e teatro di Mariagiovanna Grifi www.settimopotere.com, 1 maggio 2012 Un’esperienza di confine. Laddove pregiudizi, schemi mentali, classificazioni, stato delle cose e delle persone compaiono alterate. È bastato entrare nel carcere La Dogaia di Prato per lasciarsi alle spalle la vita quotidiana e approdare al sogno. Accedere a una realtà-limbo, la cui suggestione non era data solo dallo spettacolo che ci accingevamo a vedere, ma dal luogo. Un luogo isolato, per raggiungerlo abbiamo dovuto varcare metal detector, porte automatiche, perquisizioni e controlli. Non capita certo tutti i giorni di assistere alla messinscena dell’Amleto in una Casa Circondariale. L’occasione ci è stata data dal Teatro Metropopolare, il cui spettacolo, in collaborazione con il Teatro Metastasio (con il sostegno della Regione Toscana e del Comune di Prato), era inserito nella rassegna Nuova Scena Toscana presentata al Teatro Magnolfi. “Hamlet’s dream”, però, era allestito in uno spazio alternativo, scelta necessaria data l’identità dei suoi interpreti: i detenuti, appunto, del carcere maschile in via La Montagnola. Gli spettatori curiosi, timorosi, stupiti hanno fatto il loro ingresso ne La Dogaia ed è apparso come un “rito di passaggio”. Forse, però, non si aspettavano di vedere uno spettacolo vero, “un gran bello spettacolo”. La rappresentazione faceva leva sulle varie riscritture novecentesche della storia di Amleto (da Giovanni Testori a Carmelo Bene, da Bernard-Marie Koltes a Claude Chabrol), di una vicenda diventata mito, in cui sono racchiuse tutte le tematiche care all’essere umano: il potere, il tradimento, l’aldilà, l’odio, l’amore, la pazzia, la morte. Si parla di assassini, di vittime e carnefici. Si parla di amori impossibili e di gesti inconsulti. Argomenti che all’interno del carcere sono stati affrontati in un percorso laboratoriale intenso e radicale. Radicale, da cui è emersa una grande umanità. Gli attori-detenuti hanno messo in scena il dramma di Amleto in uno spettacolo di parole e immagini, ognuno dando il suo contributo esistenziale, culturale e artistico. Personaggi e vicende shakespeariane hanno la presunzione di essere universali e atemporali, nell’Amleto è stato possibile l’incontro tra tradizioni, culture e lingue diverse: ogni interprete ha potuto raccontare una parte di sé attraverso i protagonisti della tragedia, in un’atmosfera onirica e unica. L’albanese Ervis Hibraj, che da 5 anni segue il laboratorio di ricerca teatrale in carcere (è dal 2007 che Teatro Metropopolare cura questa iniziativa di fondamentale impegno civile), ha rivelato una grande forza espressiva nell’impersonare Amleto. Accanto a lui il re suo padre-fantasma (Augusto Savi), il re-zio Claudio (Giovanni Tripodi) e Laerte (Giuseppe Rapicano), ognuno nel suo dialetto meridionale ha reso una versione contemporanea e realistica del proprio personaggio, a cui ha saputo affiancare una buona dose di autoironia. Il resto del cast ha dato vivacità e colore allo spettacolo con coreografie corali e scene rituali, a cui si aggiungono le pantomime dei tre comici (Ayoub Elmounim, Chen Zhin Aman e Tarek Omezzine). Le due donne dell’opera shakespeariana, invece, erano interpretate dalle due attrici della compagnia Metropopolare, Ilaria Cristini (regina) e la giovane Alessia Brodo (Ofelia). Tra le travolgenti musiche e le accattivanti scene (teli neri con disegni in bianco, semplici, lineari, d’impatto) circa 20 attori-detenuti hanno narrato il dramma. Per la maggior parte si trattava di ragazzi tra i 25 e i 30 anni, qualcuno di età più avanzata. Ciò che li univa era una forte dedizione al lavoro che stavano compiendo, un lavoro artistico e creativo. Albanesi, marocchini, romeni, napoletani, siciliani, romani, calabresi, uniti nel trasmettere emozioni. Emozioni intense, forti. E il pubblico non ha potuto fare a meno di piangere. Il gruppo Metropopolare, costituito da Livia Gionfrida (regista di questo ottimo lavoro e colonna portante del laboratorio), Marco Serafino Cecchi (assistente alla drammaturgia, per una riscrittura dell’Amleto moderna e intrisa di nuovi vissuti personali), Ilaria Cristini (attrice in scena e altra “colonna” del laboratorio), Alice Mangano e Nicola Console (per le scene), è riuscito a creare un prodotto di altissimo livello, nonostante abbia lavorato con non-professionisti e in condizioni complesse, soprattutto da un punto di vista logistico, burocratico e organizzativo. Fare le prove in un carcere significa attenersi a mille e più regole che durante l’attività creativa è difficile tenere a mente. Il rigore e la cura con cui gli attori-detenuti sono stati diretti è visibile in ogni attimo di questo spettacolo. Emerge una co-creazione tra sapienti artisti della scena ed esperti conoscitori di una vita non facile. È la dimostrazione delle enormi potenzialità del teatro che, come di altre forme d’arte, vengono sottovalutate: un modo per guardarsi dentro inconsapevolmente, per spingere all’esterno i mostri che qualsiasi animo umano conserva al suo interno, un’occasione per cooperare insieme e dar vita a qualcosa di concreto, qualcosa di bello e che altri possono ammirare. In quella zona di confine che è il teatro spettatori e attori sono diventati un tutt’uno, uniti da quella passione che coinvolge e che fa dimenticare luogo e contesto in cui ci si trova. Per un po’ tutti hanno dimenticato di trovarsi in un carcere e per un attimo, forse, i pregiudizi che spingono scioccamente a pensare che chi si rende autore di un reato è cattivo e insensibile sono crollati. Erano solo venti uomini dediti al lavoro scenico, venti uomini che esprimevano sentimenti incommensurabili, che raccontavano vite diverse e culture lontane. A vederne di spettacoli di questa portata. Fanno bene all’arte. Fanno bene al cuore. E farebbero bene alla società. Infine l’amarezza più grande è stato vedere dissolversi tutta la magia del sogno in quella ultima partita che è la vita. Ognuno ha rivestito i propri panni, chi di vincitore e chi di vinto, chi era dentro è rimasto, chi doveva uscire è uscito. Immigrazione: che business affamare il migrante…. di Gianluca Schinaia L’Espresso, 1 maggio 2012 Dopo la manovra, è corsa al ribasso nelle gare d’appalto per la gestione dei centri di identificazione ed espulsione. Il record a Bologna: dove si dovranno mantenere e custodire i reclusi con 28 euro al giorno, un decimo di quello che si spende per un detenuto “normale”. Con i tagli voluti dal governo Monti, la permanenza forzosa di uno straniero in Italia in un Centro di identificazione ed espulsione (Cie) può arrivare a costare otto volte di meno rispetto a quanto lo Stato spende quotidianamente per un detenuto “normale”. Nel dettaglio: lo Stato vuole spendere 30 euro al giorno per vitto, alloggio, vestiti, medici, mediatori, sicurezza, nei centri di identificazione, a fronte del contributo medio di circa 250 euro per un cittadino recluso nelle carceri italiane. E poiché le carceri nel nostro Paese sono notoriamente sovraffollate e raramente rispettano la dignità della persona, è facile intuire quali siano (a questi costi) le condizioni di vita nell’arcipelago dei Cie, da cui ogni tanto emergono denunce raggelanti: come quella sul girone infernale di Trapani dove sono stipate quasi 200 persone o quelle sul centro di Bari, dove alcuni ex ospiti hanno raccontato di essere stati imbottiti per settimane di sedativi che li facevano “sempre dormire”. Naturalmente non in tutti i 12 Cie esistenti in Italia (che hanno visto transitare nel 2010 circa settemila cittadini stranieri) la spesa è uguale: al momento la media per ogni individuo accolto si aggira intorno ai 55 euro, in una forbice che passa dal picco del Cie di Torino (76 euro al giorno) a quello di Bari (35 euro al giorno), secondo i dati del report “Al di là del muro” di Medici senza frontiere. Se è vero che a volte i costi possono essere sovrastimati, è probabile che altre volte si vada al ribasso a scapito delle condizioni minime di dignità, igiene e sussistenza degli stessi ospiti dei Cie. E le nuove gare d’appalto per i gestori dei Centri di identificazione ed espulsione, da marzo scorso, sono impostate sul criterio del massimo ribasso, con una base d’asta di partenza pari appunto a 30 euro a persona. A Bologna hanno poi già stabilito un nuovo record minimo: dal prossimo luglio per ogni ospite del Cie di via Mattei dovranno bastare 28 euro a testa. Fino a poco tempo fa la Onlus La Misericordia (vecchio gestore del Cie bolognese, ente con a capo Daniele Giovanardi, fratello del senatore Carlo) spendeva 72 euro al giorno per gli stranieri ospitati. Solo la settimana scorsa è scoppiata la rivolta di una quarantina di ospiti, mentre altri due sono fuggiti dalla struttura bolognese: il bilancio dei feriti, dopo due ore di disordini, contava cinque uomini in divisa e due stranieri. Viene quindi difficile credere che le cose miglioreranno riducendo il budget per l’assistenza al Centro di Via Mattei di oltre il 40 per cento. Il refrain a supporto delle ultime manovre, e quindi anche di questi tagli lineari, potrebbe ripetersi: ce lo chiede l’Europa. In realtà la Corte di giustizia europea e la Corte europea dei diritti dell’uomo ci interrogano da tempo sullo stato dei nostri Cie che spesso non sono neanche all’altezza delle nostre carceri, strutture che già di per sé non godono di una buona fama internazionale. Eppure chi è accolto nei Cie non è un criminale, anche se vive in uno stato di isolamento peculiare nel nostro Paese, soprattutto riguardo al contatto con i media: ai giornalisti l’accesso è interdetto da tempo e dall’aprile del 2011, tramite una circolare firmata dall’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni e inviata alle prefetture interessate, il divieto era diventato a tempo indeterminato. Il motivo è che i giornalisti sarebbero stati “d’intralcio alle operazioni che si stanno svolgendo all’interno dei centri”. La settimana scorsa è partita la mobilitazione LasciateCIEntrare che ha portato parlamentari e giornalisti a visitare i Cie nonostante il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri abbia abrogato le disposizioni della circolare di Maroni. “È un bene che sia stato ripristinato il diritto dei giornalisti a entrare nei Cie, dopo che il precedente governo ce lo aveva negato” ha dichiarato Roberto Natale, presidente della Federazione nazionale della stampa (Fnsi). “Rimangono però ancora tanti ostacoli a una vera attuazione del diritto a informare, perché molte strutture si oppongono più o meno pretestuosamente all’ingresso dei giornalisti”. Droghe: legge regione Toscana, cannabis adottata a scopo terapeutico di Francesca Lozito Avvenire, 1 maggio 2012 La Toscana avrà una legge sulla cannabis a scopo terapeutico, la prima legge regionale del genere in Italia. Nella seduta di domani, infatti, è all’ordine del giorno l’approvazione di due disegni di legge unificati che hanno avuto l’ok dalla commissione sanità. Un testo che dà il via libera alla distribuzione a carico del sistema sanitario regionale, attraverso le farmacie ospedaliere, dei farmaci derivati dalla cannabis per sintesi chimica e di “preparazioni magistrali a base di principi attivi” nei limiti della legge. Nel nostro Paese nessun farmaco contenente principio attivo derivato dalla cannabis è autorizzato dall’Agenzia del farmaco alla commercializzazione. Per usarli a scopo unicamente medico, bisogna importarli attraverso le farmacie degli ospedali, con una procedura rigida e articolata. A dire il vero era attesa in questi mesi l’approvazione del Sativex - derivato della cannabis - da parte dell’Agenzia del farmaco, ma la procedura è ferma. Il preparato potrebbe essere utilizzato nei pazienti affetti da sclerosi multipla, rallentandone i fenomeni di tremore, come per quelli sofferenti per le chemioterapie da cancro o in fase terminale per alleviare nausee e dolore. Ma la comunità scientifica è divisa sull’uso dei cannabinoidi. Il Sativex, commercializzato dal 2005 in Canada e dal 2010 nel Regno Unito - la Gw Pharmaceuticals, la ditta che lo produce, è britannica - ha incontrato negli ultimi giorni il parere negativo dell’Agenzia tedesca per la qualità e l’efficienza della salute, che ha giudicato i suoi effetti non rilevanti rispetto agli altri farmaci in commercio. La legge toscana afferma che la somministrazione dei farmaci a base di derivati dalla cannabis deve iniziare in ospedale, proseguendo durante la dimissione assistita. Il testo che verrà approvato dall’aula regionale si limita ad affermare alcuni principi: “Saranno i regolamenti attuativi a darne una maggiore definizione”, spiega uno dei relatori, Enzo Brogi del Sel, che racconta come la legge abbia preso le mosse dall’esperienza diretta di una consigliera regionale, Alessia Ballini, scomparsa proprio per una malattia tumorale e che aveva voluto portare avanti una battaglia per la cura del dolore inutile. “Ho potuto ascoltare inoltre in questi mesi molti familiari e associazioni di malati - dice ancora Brogi - che chiedono proprio questo”. Dura però la replica dell’opposizione, per bocca di Marco Carraresi dell’Udc: “Questa - spiega - è l’ennesima legge manifesto della Regione, le cui motivazioni scientifiche sono tutte da dimostrare e che soprattutto non produrrà alcun vantaggio neanche per i malati. Non è fuori luogo pensare che alla fine le vere finalità siano ben altre. Non a caso questa legge è stata voluta e sostenuta da coloro che teorizzano lo “spinello libero”. Contro l’approvazione della legge, anche una campagna del Centro culturale Lepanto “in difesa del diritto dei bambini di crescere in una società dove le droghe (tutte) siano vietate, e quello dei malati di essere curati con farmaci sicuri”. Ricorda il Centro culturale che “nessun medicinale può essere immesso in commercio sul territorio nazionale senza aver ottenuto un’autorizzazione dell’Alfa o quella comunitaria”. Che cosa succede, invece, nelle altre regioni? In Puglia ha fatto scalpore la sperimentazione a Casarano, su alcuni pazienti affetti da distrofia, di un altro derivato della cannabis, il Bedrocan. L’obiettivo annunciato è di arrivare in tempi brevi a una legge. In Lazio, Abruzzo e Friuli sono state presentate proposte simili. In tutti i casi una forte campagna di sensibilizzazione viene portata avanti dal Partito Radicale. Ucraina: sul caso di Yulia Timoshenko la solita ipocrisia dell’occidente di Moni Ovadia L’Unità, 1 maggio 2012 Il caso di Yulia Timoshenko ex pasionaria degli arancioni in Ucraina e oggi detenuta nelle carceri di quel Paese infiamma in misura crescente lo scenario politico delle cancellerie dell’Europa comunitaria, in particolare di quella tedesca. Merito della questione: violazione dei diritti umani nella persona dell’ex leader politica. La Timoshenko si trova in prigione per una condanna a sette anni con l’accusa di abuso d’ufficio. I sostenitori di Yulia e molti fra i ministri della Ue pensano che la condanna contro la Timoshenko sia stata pilotata del presidente panrusso Yanukovich per farla fuori politicamente. Lei accusa l’attuale regime al potere di essere autoritario e sostiene di essere stata sottoposta a torture nel carcere dove si trova. L’Ue a cominciare dalla Germania chiede la liberazione della leader arancione e il rispetto dei suoi diritti, minacciando in caso contrario di boicottare i prossimi campionati mondiali di calcio che si terranno proprio in Ucraina. Battersi per i diritti umani è un impegno nobile, giusto e necessario e quelli di ogni essere umano vanno garantiti non solo se innocente, ma anche se si fosse macchiato di un reato. La pratica della tortura è poi un vero crimine. Detto questo lascia perplessi il comportamento contraddittorio e ipocrita del civile Occidente riguardo a questa questione fondamentale per l’affermazione universale della democrazia. Le condanne retoriche a parole si sprecano. Per esempio non c’è presidente statunitense o ministro europeo che visitando la Cina per affari, prima di affrontare il core business del viaggio ovvero il commercio e la finanza, non faccia un fervorino moraleggiante ai dirigenti del partito comunista cinese sulla violazione dei diritti umani nel Celeste Impero. Ma dopo avere ricevuto dai cinesi la consueta risposta: “fatevi i fatti vostri!”, i prodi rappresentanti dell’Occidente si accontentano e parlano di quattrini. Di boicottare il gigante economico, per esempio in occasione dei Giochi Olimpici non se n’è parlato nemmeno. Eppure la violazione dei diritti umani in Cina è sistematica, per non parlare della vergogna del Tibet. Con la fragile Ucraina in crisi economica è diverso si può fare la voce grossa. Pro bono dei diritti umani? Davvero? E allora perché non si boicotta l’Ungheria per le persecuzioni dei rom e le violazioni della libertà di stampa, e la Slovacchia perché non la si espelle dall’Europa? La pantomima dei diritti umani serve in realtà a mascherare la sana realpolitik in vista delle elezioni e la meno nobile voglia di qualche vantaggio economico futuro. Medio Oriente: sale allarme per sciopero fame detenuti palestinesi, due in pericolo di morte Ansa, 1 maggio 2012 Cresce la tensione e salgono gli allarmi sullo sciopero della fame collettivo a oltranza in atto nelle carceri israeliane da parte di centinaia di detenuti palestinesi che protestano contro le condizioni penitenziarie e contro gli “arresti amministrativi” prolungati (inflitti ad alcuni di loro dai tribunali militari in assenza di processo). Una manifestazione di solidarietà organizzata oggi di fronte alla prigione di Ofir, in Cisgiordania, è degenerata in sassaiola e disordini. Le forze israeliane l’hanno dispersa alla fine con proiettili di gomma e gas lacrimogeni, con un bilancio di almeno quattro giovani palestinesi feriti o contusi. In totale, secondo fonti palestinesi, i detenuti che rifiutano il rancio sono ormai 2.500. Preoccupazioni sono state sollevate in particolare per le gravi condizioni di almeno quattro reclusi, fra cui i due “veterani” che hanno dato il via a questa nuova ondata di proteste (seguiti poi gradualmente da centinaia di compagni). Si tratta di esponenti della Jihad Islamica tenuti agli “arresti amministrativi” (senza la formalizzazione di capi d’imputazione) dal 2010 e dal 2011. Entrambi sono in sciopero della fame da oltre due mesi e i loro avvocati, sulla base di perizie mediche, denunciano rischi concreti per la loro vita: uno risulta in coma farmacologico. Da Tunisi, dove si trova in visita, il presidente moderato dell’Autorità palestinese (Anp), Abu Mazen, ha rinnovato un appello all’Onu affinché intervenga sul dossier. Mentre dalla Striscia di Gaza, gli islamico-radicali di Hamas cercano di cavalcare la vicenda invocando per bocca del premier del governo di fatto al potere nella loro enclave, Ismail Haniyeh, “una nuova intifada (rivolta popolare) a sostegno dei prigionieri”. Per provare a disinnescare la mina, il capo del dipartimento penitenziario israeliano ha incontrato ieri una delegazione di detenuti guidata dal popolare ex tribuno della Seconda Intifada, Marwan Barghuti. Ne ha raccolto un elenco di lamentele a cui ha promesso di dar risposta entro pochi giorni. Tunisia: chiude la prigione-lager di Borj Erroumi, sarà un museo Tm News, 1 maggio 2012 “Plus Jamais ça”, mai più cose di questo genere: è lo striscione che campeggia sulle mura del carcere-lager tunisino di Borj Erroumi, località a 65 chilometri da Tunisi, dove venivano rinchiusi gli islamisti e i dissidenti che si ribellavano al regime del deposto presidente Ben Ali. Ora sta per chiudere e diventare un museo, monito dei 35 anni di violenza e sopraffazione per il popolo tunisino. Pareti ammuffite e catene arrugginite testimoniano ancora quanto dura fosse la vita tra queste mura. “Appena siamo arrivati - spiega questo ex detenuto - ci hanno detto che questo posto significava indegnità, non-rispetto. Ci hanno detto che dovevamo convincerci che qui non saremmo mai stati rispettati”. Per anni Borj Erroumi è stato sinonimo di “inferno”, nel febbraio 2011 fu teatro della ribellione di oltre 1.400 detenuti. Questi uomini, tuttavia, saranno gli ultimi a guardare il cielo da dietro le sue sbarre. A giugno 2012 il carcere diventerà un luogo della memoria ma un gruppo di ex detenuti islamisti è già tornato a visitare i luoghi della propria prigionia. “Prima era una caserma militare - spiega quest’uomo - poi i soldati sono andati via e noi li abbiamo rimpiazzati. L’abbiamo inaugurata noi come prigione e grazie a Dio ora inauguriamo la sua chiusura. Sono orgoglioso di questo”. A ufficializzare lo smantellamento del carcere e a portare la propria solidarietà agli ultimi detenuti di Borj Erroumi è arrivato anche il ministro tunisino della Giustizia e dei Diritti umani.