Giustizia: per le nostre carceri-lager avremo il “giorno della vergogna”? di Valeria Centorame Notizie Radicali, 17 maggio 2012 “Shoah” è un termine ebraico che significa “annientamento”, “sterminio”. Si riferisce ad una delle più vergognose vicende della storia umana, quando i regimi dittatoriali nazi-fascisti, poco più di sessant’anni fa, stabilirono, attraverso leggi razziali, di far arrestare tutti gli Ebrei e di rinchiuderli nei campi di lavoro forzato e di sterminio, per eliminare del tutto la loro “razza”, ritenuta inferiore. La stessa sorte toccò agli zingari, agli slavi, agli handicappati, ai neri, e a tutti coloro che, secondo i nazisti e i fascisti, non appartenevano alla razza bianca ariana, considerata superiore e pura. E non dobbiamo pensare che i nazisti e i fascisti fossero tutti dei pazzi: sarebbe troppo facile liquidare lo sterminio accusando uno o due pazzi responsabili. I loro capi erano persone istruite e di normale intelligenza: sapevano quello che avevano deciso di fare. Lo sapeva Hitler e chi stava al suo fianco, lo sapeva Mussolini e il re d’Italia che firmarono le leggi razziali per perseguitare gli Ebrei italiani. Lo sapevano tutti coloro che obbedirono a quelle leggi sbagliate e crudeli. Il “Giorno della memoria” che viene celebrato ogni 27 gennaio, nella nazione e nelle scuole, serve proprio a non dimenticare le sofferenze di allora, per saper scegliere di evitare nuove sofferenze oggi, ad altri popoli e ad altre persone, in qualsiasi parte del mondo. Ecco, appunto. Siamo stati e siamo capaci di cogliere questo tipo di insegnamento, oppure nelle nostre patrie galere non facciamo altro che continuare a “torturare legalmente” ed in assenza di reato? Ma non proviamo vergogna noi, a celebrare il “giorno della memoria” quando il nostro Paese vìola costantemente le leggi sui diritti umani? Vìola la stessa Costituzione e viene condannato costantemente dalla Cedu? Con che piglio pretendiamo di insegnare ai nostri figli il rispetto e la legalità quando è proprio lo stesso Stato a non farlo? Con che tipo di ipocrita facciata riusciamo ad indire convegni, trattare temi così importanti e delicati quando nel nostro Paese non è ancora stato istituito il reato di Tortura e la shoah è ancora tremendamente attuale nelle nostre carceri lager? Quanta saggezza viene dai bambini invece. Mi sento totalmente dalla loro parte: di quelli che incontro nelle scuole e che non comprendono che un uomo possa essere trattato peggio delle bestie pur avendo sbagliato, di quelli che si stringono la mano non badando al colore della pelle del loro compagno di banco, di quelli che riescono a dire “il re è nudo”! sempre! Di quelli che sono capaci di comprendere, non giudicare a priori ed ascoltare. La pena, ammesso che sia lecito comminarla, si deve scontare in condizioni dignitose, punto. Attualmente nelle nostre carceri soggiorna la fascia debole della società, a cui andrebbero fornite risposte sociali sicuramente e non criminalizzazione, ci sono tossicodipendenti che andrebbero curati altrove, ci sono stranieri rei di avere cercato speranza di vita in un nuovo paese, ci sono piccoli piccolissimi reati che probabilmente tra qualche anno non saranno più considerati tali dalla giustizia. Si perde la vita facilmente, basta una semplice malattia con la conseguente impossibilità di essere curati anche e grazie al disumano sovraffollamento (il più alto dal dopoguerra). Solo in carcere si muore nel 2012 alla media età di 40 anni per “cause naturali”. Cosa c’è di naturale nel perdere la vita a causa di mancato soccorso e di adeguate cure? Ed in base all’obbligatorietà dell’azione penale, per ognuna di queste morti non andrebbe di certo perseguito chi ha “omesso soccorso”? in questo caso lo Stato, che deve avere la tutela della vita dei propri cittadini specialmente se detenuti quindi privi della libertà di azione. Cosa stiamo facendo al nostro Stato di Diritto? Cosa racconteremo ai nostri figli? Ci inventeremo un domani un “Giorno della vergogna” delle carceri lager per non dimenticare le atrocità che oggi stiamo comminando? Sequestrando il doppio delle persone consentite legalmente, tra ratti, blatte, scarafaggi, tubercolosi epatite, scabbia parassitosi, comminando una vera e propria “sedazione istituzionale” a base di benzodiazepine e torturando legalmente migliaia di persone. Cosa raccontiamo alle migliaia di sequestrati per abuso di custodia cautelare? Non di certo che se sono innocenti la legge farà il suo corso ed avranno la facoltà di dimostrarlo, questo è l’esatto rovescio del diritto, non si deve stare in carcere da indagati! Non si può e non si deve permettere un tale aberrazione. La metà delle persone detenute in tali condizioni già sappiamo che è statisticamente innocente! Quanta e quale la nostra diretta responsabilità in questo dramma nel dramma? Perché il Capo dello Stato non si occupa della situazione che ci umilia in tutta Europa per sua stessa ammissione, magari mandando un messaggio alle Camere? Bisogna intervenire con urgenza su un problema non più rinviabile, il rischio è che il sistema stesso esploda da solo, con conseguenze disastrose. E se lo stesso stato di emergenza dichiarato si pensa di affrontarlo ancora con edilizia carceraria allora bisogna gridare forte che “il re è nudo” perché conosciamo tutti il livello di corruzione esistente in Italia e la lungaggine che provvedimenti del genere potrebbero generare! Non c’è il tempo. Le Urgenze si affrontano con provvedimenti di emergenza punto e basta, e si smetta di parafrasare, girarci intorno, filosofeggiare! Si smetta di dire l’ovvio in televisione, mentre poi magari in commissione Giustizia non si accoglie la richiesta della Bernardini di abbinare le proposte radicali per modificare quelle stesse leggi che provocano ed hanno provocato una situazione carceraria da collasso. Siamo complici di morte comminata per mano dello Stato e dell’orrore declamato da Napolitano, orrore di cui però non si è più occupato. L’amnistia, prevista in Costituzione è la proposta e non ne esistono altre al momento, alla stessa e dopo la sua concessione va legata un ampia riforma di un sistema giustizia al collasso per far si che mai più accada una situazione intollerabile come quella odierna. Disse Primo Levi a proposito di Anna Frank: “Una singola Anne Frank detta più commozione delle miriadi che soffrirono come lei, la cui immagine è rimasta nell’ombra. Forse è necessario che sia così; se dovessimo e potessimo soffrire le sofferenze di tutti, non Potremmo vivere”. Se però la memoria ha valore, non occorre una nuova Anne Frank, come non occorre un nuovo “caso Tortora” e come sicuramente non occorrono altre morti e come sicuramente spero non ci sarà bisogno un giorno di indire il “giorno della Vergogna”. Giustizia: Erasmus per adulti… o del ministro Severino nel Connecticut di Davide Pinardi www.davidepinardi.com, 17 maggio 2012 Dunque il ministro della Giustizia Paola Severino è volata fino nel Connecticut per imparare a come sfoltire la popolazione carceraria. Un viaggio molto istruttivo, a quanto pare. In effetti sembra tutto molto ragionevole: quello Stato è uno dei più liberal degli Usa, ha appena abolito la pena di morte e, se ha 16.000 detenuti, pare ne avrebbe il doppio senza sagaci leggi sul reinserimento che hanno un successo del 58%. Parlando con Leo Arnone, titolare del Dipartimento alle carceri, il ministro “fa domande tecniche, prende appunti e si dimostra ferrata sulle leggi del Connecticut”. Dice di essere in visita perché quello Stato è “un modello di successo negli Stati Uniti”: i suoi 16 penitenziari sono puliti, senza troppe restrizioni fisiche e insieme dal ferreo regime di sicurezza. Arnone le spiega che le prigioni servono a riabilitare, non a sfornare criminali come quelli che sono entrati, e che per il reinserimento degli ispanici e degli afroamericani è determinante la collaborazione delle Chiese. E aggiunge che i buoni risultati non sono stati ottenuti con leggi lassiste bensì con l’esatto contrario, con norme molto conservatrici per cui assai raramente il condannato esce prima del termine. Al termine dell’incontro, avvenuto nel Garner Correctional Institution, la Severino ringrazia per quanto “ha visto e ha imparato”. Una notizia edificante. In apparenza. Perché per valutarla forse bisognerebbe ricordarsi di contestualizzarla. Per esempio guardando quanti sono gli abitanti del Connecticut: soltanto 3.500.000. E il suo reddito medio: 54.000 dollari all’anno (pro capite è al primo posto negli Usa). Se in Italia avessimo gli stessi tassi di carcerazione ci sarebbero circa 280.000 detenuti. Adesso sono soltanto 65.000. (In altre parole, nel Connecticut è detenuta circa una persona su 218, in Italia 1 su mille). E uno va nel Connecticut per imparare a sfoltire la popolazione carceraria? Meno male che quello Stato è uno dei più liberal… liberal soltanto negli Usa. Meno preda di una “ossessione securitaria” degli altri (in tutti gli Stati Uniti la percentuale di carcerati è di un detenuto su 125 abitanti, in Italia sarebbero mezzo milione…). Ma perché mai il ministro non fa un volo molto più breve e se ne va a vedere e imparare in Paesi europei che, pur non essendo paradisi, presentano condizioni di vita carceraria migliori dell’Italia e del Connecticut? Forse sono altre le vere motivazioni di questo Erasmus ministeriale. Una subalternità culturale agli Stati Uniti? La convinzione che i problemi delle carceri si risolvono “con leggi ferree”? Necessità di relazioni internazionale con una forte comunità di origini italiane? Giustizia: Fleres (Grande Sud); basta chiacchiere, per le carceri serve l’amnistia Comunicato stampa, 17 maggio 2012 “Nonostante le dichiarazioni di intenti, i proclami, gli impegni, il carcere fa notizia solo quando produce morti, suicidi, violenze o quando manifesta l’illegalità di uno Stato che viene condannato per la sua inciviltà penitenziaria”. È quanto ha dichiarato il Sen. Salvo Fleres, Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia e coordinatore nazionale dei Garanti regionali, in occasione dell’annuncio della conferenza di presentazione del “Rapporto sulle carceri” redatto dalla Commissione Diritti umani del Senato, in programma per il prossimo 22 maggio presso il carcere di Rebibbia. “È scandaloso - ha aggiunto il parlamentare - che si studino i sistemi penitenziari esteri, come fa il Ministro della Giustizia, e non si tengano in considerazione le condizioni disumane delle carceri italiane, né si valutino le proposte, che da più parti si sono levate, in merito alla depenalizzazione di taluni reati, al maggior utilizzo delle comunità di recupero per i tossicodipendenti, alla realizzazione di strutture più adeguate, al reintegro delle piante organiche di agenti, educatori, psicologi etc. Il sistema penitenziario italiano opera nella più assoluta illegalità. Questa non è la mia opinione - ha precisato il Sen. Fleres - ma quella della Magistratura italiana, che ha più volte condannato lo Stato a salati risarcimenti. Ma è anche l’opinione dell’Onu e dell’Ue, che hanno più volte diffidato il nostro Paese a provvedere. È intollerabile, incivile, demagogico lanciare allarmi, indignarsi o dolersi per i numerosi suicidi e per le morti sospette dietro le sbarre e poi non provvedere. È vergognoso ed offensivo ricordare le carceri per i film che vi si girano, trascurando il fatto che, a causa della carenza di fondi, solo il 15 per cento dei reclusi studia o lavora. Così - ha aggiunto il Sen. Fleres - si depista l’opinione pubblica, si confondono i cittadini e si offendono i reclusi. Non è più tempo né di film, né di chiacchiere - ha concluso Fleres - è necessario cambiare le leggi e pensare ad una amnistia che salvi i reclusi dalla indecenza della loro condizione detentiva e lo Stato da risarcimenti a sei zeri”. Giustizia: primi risultati progetto di informazione su patologie virali negli istituti di pena Agenparl, 17 maggio 2012 Presentati oggi i primi risultati della Campagna di Informazione sulle patologie virali croniche all’interno degli Istituti Penitenziari Italiani, promossa dalla Simit (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali), dalla Simspe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria), Nps Italia Onlus (Network Persone Sieropositive) e l’Associazione Donne in rete Onlus e, patrocinata dal Ministero della Giustizia e dal Mini stero della Salute. La vera novità è stata l’introduzione del peer educator (un rappresentante Nps): tutore alla pari con credibilità e competenza, passato attraverso le stesse esperienze, che ha parlato la stessa lingua e che è stato in grado di comprendere i loro problemi, effettuando 32 incontri nei 20 Istituti penitenziari con 1.546 detenuti. I dati elaborati ad oggi si riferiscono ai primi 9 Istituti Penitenziari, che hanno coinvolto 4.072 detenuti, con una età media di 46 anni ed una percentuale femminile del 4,7%. L’82,8% dei detenuti era italiano e l’83,6% ha dichiarato di non essere tossicodipendente. Dai risultati è emerso che il comportamento a maggior rischio per Hiv e Hcv è considerato la tossicodipendenza rispettivamente per il 67% e il 53% degli intervistati, mentre per l’Hbv è l’eterosessualità il comportamento ritenuto più a rischio dal 48% dei detenuti. Il progetto è nato con l’obiettivo di scoprire a quanto ammonti il numero dei “sommersi”, cioè di coloro che non sanno di essere malati, perché la presa di coscienza è fondamentale e viene prima di tutto il resto. All’interno delle carceri, è stato distribuito del materiale informativo in diverse lingue, così da poter informare i detenuti ed incentivarli a fare il test per l’Hiv e le epatiti. “Il Progetto nasce dall’esigenza di aumentare la conoscenza e l’importanza dello screening delle malattie infettive all’interno del sommerso delle Carceri e, proprio per questo, si è pensato di usare un metodo nuovo: cioè una persona che abbia avuto esperienza nel carcere, che parlasse lo stesso linguaggio e che potesse capire più facilmente le esigenze dei detenuti. Abbiamo fatto numerose riunioni nelle Carceri e l’affluenza è stata davvero entusiasmante e l’interesse è stato enorme. I risultati sono ottimali e speriamo però che il Progetto continui altrimenti rischiamo di non avere risultati definitivi.” Ha detto Evangelista Sagnelli, Past President Simit. “L’iniziativa si pone correttamente nella logica di assicurare il pieno diritto alla salute di tutti i cittadini, soprattutto oggi che sono disponibili molti farmaci efficaci per la cura di numerose patologie virali croniche”. Ha aggiunto Orlando Armignacco, Presidente Simit. “Oggi il Progetto è in itinere, ma il primo obiettivo appare ragionevolmente già raggiunto: ben 1.546 persone detenute sulle oltre 4.000 presenti sono state direttamente raggiunte dalle informazioni fornite dal Peer-Educator esterno di Nps e sono state sensibilizzate a trasmettere le stesse informazioni ai propri compagni qualora le ritenessero condivisibili. A conferma di questo, il tasso di esecuzione dei test di screening nei 9 Istituti che ad oggi hanno reso disponibili i risultati, sono passati per quanto riguarda Hiv dal 11,1% pre-intervento al 56% attuale. Da ultimo desidero sottolineare che dai soli dati parziali al momento disponibili, già 130 persone detenute hanno avuto modo di prendere coscienza di una patologia attiva prima non nota. Tutto questo grazie all’azione proposta da questo progetto con il concerto dei diversi attori che vi partecipano”. Ha spiegato Sergio Babudieri, Presidente Simspe. “Nps Italia Onlus da sempre è per garantire il diritto alla diagnosi ed alla cura, i risultati del progetto “La salute non conosce confini” non fanno altro che rafforzare la nostra linea, anche con la crisi economica non si può non curare le persone che sono in carcere, in quanto ospiti dello stato, e quindi, non perdono i diritti alla cura”. Ha affermato Rosaria Iardino, Presidente Onorario Nps Italia Onlus e Presidente Donne in rete Onlus. “Siamo convinti che anche gli operatori penitenziari (direttori, educatori, agenti di polizia penitenziaria) coinvolti nella presa in carico delle persone detenute necessitano di competenze specifiche che tengano conto dei determinanti sociali e culturali delle malattie infettive in carcere e, della necessità d’integrazione fra i ruoli delle diverse figure professionali e con gli operatori del servizio sanitario nazionale, per garantire l’efficacia di un così importante intervento di salute pubblica”. Ha sottolineato Giulio Starnini, Respons abile Progetto “La Salute non conosce confini” Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. “I fattori implicati nella diffusione nelle carceri italiane delle infezioni virali croniche trasmissibili sono molteplici e di diversa natura. La Direzione Generale dei detenuti e del trattamento ha sempre manifestato la massima attenzione a tali fenomeni attraverso la massima collaborazione istituzionale con gli organi e le istituzioni preposte, le associazioni scientifiche e del privato sociale”. Ha concluso Roberto Calogero Piscitello, Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Giustizia: Ignazio Marino (Pd); inutilizzati 38 mln di € per progetti a favore internati in Opg Ansa, 17 maggio 2012 Da febbraio 2012 è disponibile un finanziamento pari a 38 milioni di euro per progetti individuali di cure che la Asl regionali dovrebbero attivare in favore di circa 400 internati “contro legge”, poiché non ne avrebbero i requisiti, negli Ospedali psichiatrici giudiziari, ma “questi soldi non sono usati e rischiano d tornare al ministero dell’Economia”. A denunciarlo è il presidente della Commissione d’inchiesta sul sistema sanitario nazionale, Ignazio Marino. “Il fondo di 38 mln di euro è previsto per il 2012 - ha spiegato Marino - e dal 2013 è previsto a tal scopo un finanziamento pari a 55 mln di euro l’anno. Tuttavia, i percorsi di cura individuali ancora non sono stati attivati dalle Regioni, nonostante ci sia la disponibilità economica”. Da Marino, dunque, una richiesta al ministro della Salute Renato Balduzzi affinché, in vista del definitivo superamento degli Opg fissato per legge al 31 marzo 2013, “solleciti l’attivazione dei piani di cura individuali da parte delle Asl regionali”. Giustizia: detenuto morto per sciopero fame; è intervenuta quasi in tempo, ministro Severino… Il Foglio, 17 maggio 2012 Un ministro che non aspetta, non tergiversa ma agisce, è un buon ministro che fa il suo lavoro. La Giustizia italiana, nella persona di Paola Severino, ha dato inizio a un’indagine ispettiva immediata sul caso di un detenuto morto nel carcere di Lecce dopo uno sciopero della fame. Si chiamava Pop Virgil Cristria, aveva 38 anni, era di Bucarest. Si è lasciato morire perché considerava ingiusta la condanna a rimanere in prigione fino al 2018, si dichiarava innocente, voleva parlare con un giudice, voleva che gli sospendessero la pena. Invece non ha parlato con alcun magistrato, non ha ottenuto la sospensione della pena, non ha quindi mai smesso di rinunciare al cibo. Anche in ospedale, gli ultimi giorni, si sfilava l’ago della flebo. “Il magistrato mi deve ascoltare”, diceva. Voleva andare fino in fondo e ci è andato: è morto. Pare non avesse soldi né famiglia. A maggior ragione ora che non potranno essere i suoi famigliari a fare luce sul caso, nel caso ci sia un caso; a maggior ragione per dimostrare che a volte, e non sempre in ritardo, un ministro della Repubblica si occupa della storia di un disperato, di cui sono tra l’altro piene le carceri, bene ha fatto il ministro ad avviare immediatamente l’inchiesta. Uno stato che non sempre sa rieducare chi ha commesso un reato, e non sempre sa rispettare i diritti umani laddove è tenuto a farlo - cioè tanto più dentro una prigione, dove prende in consegna il corpo di un cittadino - ha avuto con il ministro Severino un positivo segnale di tempismo e umanità. Resta intera, invece, l’attesa della riforma di tutto il complicato pacchetto legato alla detenzione, che potrebbe evitare altre morti in cella. Giustizia: il caso di Virgil Cristian Pop e i troppi suicidi tra i detenuti romeni di Miruna Cajvaneanu www.stranieriinitalia.it, 17 maggio 2012 Virgil Cristian Pop, un cittadino romeno di 39 anni, è deceduto nella notte di domenica, 13 maggio, nell’ospedale di Lecce, dopo uno sciopero della fame durato 50 giorni. Era condannato a 18 anni per reati contro il patrimonio. In carcere dal 2000, si è sempre proclamato innocente. I medici del penitenziario hanno deciso il suo trasferimento in ospedale solo tre giorni prima del decesso. Il fratello di Virgil, Alexandrul Stefan Assael, anche lui in Italia, sostiene, citato dal giornale romeno “Evenimentul Zilei” che suo fratello è stato picchiato nel carcere di Lecce, durante una punizione di sei mesi in isolamento, applicata in seguito ad un tentativo di evasione: “Quando lo hanno portato a Lecce, lo hanno messo direttamente in isolamento per sei mesi. Lo hanno picchiato più volte. Entravano di notte nella sua cella e lo picchiavano. Hanno anche censurato tutte le sue lettere”. Virgil Pop avrebbe, in passato, tentato il suicidio e ha iniziato più volte lo sciopero della fame. “Era depresso, soprattutto dopo la morte della madre in Romania, nel 2003” racconta il fratello. Pop era arrivato in Italia nel 1990, con un biglietto premio per la Coppa del Mondo di calcio. Un premio ricevuto da parte dello Stato romeno, perché - sostiene Assael - Virgil aveva partecipato alle manifestazioni che hanno portato alla caduta del regime di Ceausescu e aveva ricevuto un riconoscimento e un attestato di “rivoluzionario”. Ora Assael, unico parente di Virgil, intende chiedere un risarcimento dallo Stato italiano in seguito alla morte del fratello. Il ministero degli esteri romeno: “Nessuno ci ha informato” Il Ministero degli Esteri di Bucarest ha chiesto al suo omologo italiano l’avvio di un’inchiesta per stabilire le cause esatte della morte di Pop. Sostiene inoltre che lo stato italiano avrebbe dovuto informare l’Ambasciata romena del caso di Lecce, ma “le rappresentanze diplomatiche romene in Italia non hanno ricevuto nessuna notifica in merito alla detenzione e al trasferimento in ospedale di Pop, come richiederebbero invece le usanze diplomatiche”. Il caso di Virgil Pop non è singolare: “Sono tante qui dentro le storie come quella di Pop Virgil, in molti sono nelle sue stesse condizioni, in 30 o forse 40 sono in sciopero della fame: c’è chi protesta perché vuole essere trasferito, chi si dichiara innocente, quasi tutti sono stranieri” lo ha detto lo stesso vicedirettore del carcere di Lecce, Giuseppe Renna. Più suicidi tra i romeni Nelle carceri italiani ci sono 66310 detenuti, 23985 dei quali stranieri (dati aggiornati dal Ministero della Giustizia al 30 aprile 2012). Tra questi, 3664 sono romeni (256 donne e 3.408 uomini), cioè il 15,3% tra gli stranieri e il 5,5% sul totale. Nel 2011, ci sono stati 66 morti per suicidio nelle carceri. Tra loro, dice l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, 45 erano italiani e 21 stranieri. Guardando la lista dei loro nomi, sembrerebbe che la situazione dei carcerati romeni è più difficile. Tra coloro che si sono tolti la vita, nove erano romeni, cioè quasi la metà tra gli stranieri e il 14% sul totale, un’incidenza notevolmente maggiore rispetto a quella che hanno sulla popolazione carceraria. Sette di loro erano in attesa di giudizio. Affidato incarico per autopsia È stato affidato oggi all’anatomopatologo Ermenegildo Colosimo e al medico legale Roberto Vaglio l’incarico di effettuare, domani, l’autopsia sul corpo di Pop Virgil Cristria, un detenuto romeno di 38 anni morto tre giorni fa nell’ospedale del capoluogo salentino dopo aver digiunato per 50 giorni. L’uomo era in sciopero della fame perché per qualche furto, alcune rapine, piccoli reati che metteva in atto soprattutto per assicurarsi la sopravvivenza era stato condannato, per un cumulo di pene, a 18 anni di reclusione. Gli incarichi sono stati affidati stamani dal pm Carmen Ruggiero. L’autopsia si terrà domani mattina nell’obitorio dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce. Ieri sono state iscritte nel registro degli indagati una quindicina di persone, tra medici, psichiatri e psicologi che hanno avuto in cura il detenuto romeno. Quest’ultimo si proclamava innocente e continuava a ripetere che un magistrato avrebbe dovuto sentire le sue ragioni e fare in modo che potesse tornare in libertà. Le iscrizioni nel registro degli indagati sono state fatte anche per consentire che coloro che sono sospettati di avere responsabilità nella morte di Cristria possano nominare propri consulenti per l’autopsia. Giustizia: depositato disegno di legge per abolizione delle misure di sicurezza detentive Agenzia Radicale, 17 maggio 2012 La presente proposta di legge, elaborata dall’Associazione Il Detenuto Ignoto, mira a mettere in evidenza come le misure di sicurezza detentive appaiono sempre più come una duplicazione sanzionatoria nei casi di condanna o l’unica reazione dell’ordinamento nei casi di proscioglimento, con la particolarità tuttavia che la misura di sicurezza ha una potenziale durata indeterminata. Proposta di legge: Bernardini ed altri: “Modifiche al codice penale in materia di abolizione delle misure di sicurezza personali detentive” (5169). Onorevoli senatori.- La presente proposta di legge, elaborata dall’Associazione Il Detenuto Ignoto, mira a mettere in evidenza come le misure di sicurezza detentive appaiono sempre più come una duplicazione sanzionatoria nei casi di condanna o l’unica reazione dell’ordinamento nei casi di proscioglimento, con la particolarità tuttavia che la misura di sicurezza ha una potenziale durata indeterminata. Dopo che - Con le sentenza n. 348 e 349/2007 - la Consulta ha attribuito, sostanzialmente, valore di norma interposta, nel giudizio di costituzionalità, alle prescrizioni presenti nella Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (Cedu) - si presenta come assai probabile il seguente scenario: l’esito di una declaratoria di violazione convenzionale a carico dell’Italia (per violazione del principio di tipicità riverbererà nel nostro ordinamento sotto forma di l’illegittimità costituzionale delle misura di sicurezza (in particolar modo con riferimento all’istituto della casa di lavoro). Non ci si vuole soffermare, poi, sulla reale funzione di detta misura (questione che comunque viene travolta dalla sua illegittimità visto il contrasto con l’art. 5 Cedu) e neanche contestare il sistema delle pene presente nel nostro Stato che a tutto servono fuorché a rieducare, riabilitare e a reinserire. Quello che si vuole fare con questa iniziativa é prevenire, con un drastico intervento legislativo, che a fare giustizia di questo retaggio del codice Rocco sia il Giudice Interno e le Autorità Giurisdizionali Internazionali (Corte di Giustizia ma soprattutto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), ponendo fine alla paradossale situazione che è presente nel nostro Ordinamento. La possibilità di essere destinatari di una misura detentiva quando la pena è stata espiata è stata per decenni oggetto della denuncia avanzata da illustri giuristi per sensibilizzare il legislatore circa la superfluità di tale strumento: ma più in generale tutte le misure di sicurezza consentono che, nel nostro Stato, trovino ancora posto provvedimenti di fatto coercitivi in situazioni in cui il soggetto destinatario ha già scontato la pena inflitta. L’Associazione Il Detenuto Ignoto tramite il suo consulente legale, l’Avvocato Alessandro Gerardi, sta offrendo assistenza legale assumendo la incostituzionalità quanto meno degli artt. 215 co 1 n. 1, 216, 217, 218 e 231 co 2 del codice penale e relativa normativa del c.p.p. e O.P. riferita alla misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro e della colonia agricola per violazione degli artt. 25 e 117 Costituzione. Per ciò che attiene il Diritto comunitario e la Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, si assume che tali misure configurino la Violazione di: artt 6 § 1 e § 2 T.U.E; art. 4 prot. N. 7 (Strasburgo 22 novembre 1984); art 50 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; artt. 5 e 7 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Ecco i motivi per i quali il legislatore è tenuto a rimuovere l’evidente vulnus che le misure di sicurezza detentive apportano ai principi di liberta personale e tipicità della giurisdizione penale (e relativa esecuzione della pena): a questo tende il presente disegno di legge. Testo del Disegno di legge Articolo 1 (abolizione delle misure di sicurezza detentive) 1. Gli articoli 206, 209 terzo comma, 210 secondo comma ultimo periodo, 211 terzo periodo, 212 secondo e terzo comma, 213, 214, 216, 217, 218, 219, 220 , 221, 222, 223, 224, 225, 226, 227, 230 secondo comma, 231 secondo comma e 232 secondo e terzo comma del codice penale sono abrogati. 2. L’articolo 215 del codice penale è sostituito dal seguente: “Art. 215. Specie. Le misure di sicurezza personali sono esclusivamente non detentive e consistono in una delle seguenti misure: 1) la libertà vigilata; 2) il divieto di soggiorno in uno o più comuni, o in una o più province; 3) il divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche; 4) l’espulsione dello straniero dallo Stato. Quando la legge stabilisce una misura di sicurezza senza indicarne la specie, il giudice dispone che si applichi la libertà vigilata.” 3. L’articolo 232 del codice penale è sostituito dal seguente: Articolo 232 (casi di affidamento) 1. Ai sensi dell’articolo 230, primo comma, n. 4), deve essere ordinata la libertà vigilata per le seguenti categorie di soggetti, con le modalità di cui al secondo comma: a) i condannati alla reclusione per delitti commessi in stato di ubriachezza, qualora questa sia abituale, o per delitti commessi sotto l’azione di sostanze stupefacenti all’uso delle quali siano dediti, sono sottoposti a libertà vigilata; b) coloro che sono destinatari di proscioglimento per infermità psichica, ovvero per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, ovvero per sordomutismo, salvo che si tratti di contravvenzioni o di delitti colposi o di altri delitti per i quali la legge stabilisce la pena pecuniaria o la reclusione per un tempo non superiore nel massimo a due anni; c) minori degli anni quattordici o maggiori dei quattordici e minori dei diciotto, prosciolti per ragione di età, quando abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato, trovandosi in alcuna delle condizioni indicate nella lettera b); d) qualora il fatto commesso da un minore degli anni quattordici sia preveduto dalla legge come delitto, ed egli sia dichiarato dal giudice pericoloso; e) qualora il minore che, nel momento in cui ha commesso il fatto preveduto dalla legge come delitto, aveva compiuto gli anni quattordici, ma non ancora i diciotto, sia riconosciuto non imputabile, a norma dell’articolo 98; f) quando il minore che ha compiuto gli anni quattordici, ma non ancora i diciotto, sia riconosciuto imputabile per un delitto ovvero sia condannato durante l’esecuzione di una misura di sicurezza a lui precedentemente applicata per difetto d’imputabilità; g) minore degli anni diciotto, che sia delinquente abituale o professionale , ovvero delinquente per tendenza. 2. La persona di cui al comma 1 è posta in libertà vigilata unitamente al suo affidamento ai genitori, od a coloro che abbiano obbligo di provvedere alla sua educazione o assistenza, ovvero a istituti di assistenza sociale.” Articolo 2 1. Tutti i riferimenti alle misure di sicurezza detentive, contenuti nel codice di procedura penale, nell’ordinamento penitenziario e nel relativo regolamento, nonché nelle leggi speciali, sono abrogati. 2. Coloro che sono sottoposti a misura di sicurezza detentiva, alla data di entrata in vigore della presente legge, passano per il residuo da scontare al regime di liberta vigilata che, nel caso di cui al comma 3 dell’articolo 1, è applicato unitamente alla modalità dell’affidamento ivi prevista. Giustizia: a Trieste il Commissariato degli orrori di Cinzia Gubbini Il Manifesto, 17 maggio 2012 La morte di Alina rivela una gestione gravissima e omertosa della Questura. A casa del capo un altare al Duce, il Mein Kampf e tutti i testi antisemiti Targa nazi sulla porta: Ufficio epurazioni. Sequestri e violenze su 50 immigrati Il misterioso suicidio di una donna ucraina in un commissariato svela un nucleo di poliziotti neofascisti. A guidarli il vicequestore Baffi, accusato di omicidio. Ed è ancora lì. Il fermacarte di Mussolini. Dietro la scrivania una targa con su scritto “Ufficio epurazione”, sberleffo della dizione ufficiale dell’ufficio che dirige, quello dell’”immigrazione” a Trieste. E a casa un vero “arsenale” di testi antisemiti, tra cui spicca il classico “Mein Kampf” ma anche il libro per veri “intenditori”: “Come riconoscere un ebreo”. Carlo Baffi, dirigente della questura triestina, è ora indagato per sequestro di persona e omicidio colposo. A scoperchiare il pentolone su come funzionasse il commissariato di villa Opicina il suicidio di una giovane ragazza ucraina avvenuto proprio nelle stanze della polizia. Dalle indagini sulla vicenda, condotte dal pm Massimo De Bortoli, stanno emergendo filoni più ampi. La Procura è interessata soprattutto a capire quale fosse la prassi seguita dalla questura nei confronti dei migranti privi di permesso di soggiorno, ma privi anche di un decreto prefettizio che ne stabilisse la reclusione in un Centro di espulsione. Sta emergendo infatti che l’ufficio di Baffi ritenesse la legge insufficiente, e si organizzasse di conseguenza, rinchiudendo in questura gli immigrati in attesa della decisione del prefetto. Si chiama sequestro di persona, che è infatti uno dei reati contestati dal pm al vicequestore che dovrà rispondere davanti a un giudice anche della morte di Alina. Il procuratore capo, Michele Dalla Costa, parlando con Il Piccolo di Trieste ha lasciato intendere che presto potrebbero esserci altri indagati. Di fronte a un fatto così grave la reazione dell’Associazione nazionale funzionari di polizia è quasi divertente: “A casa di Baffi sono stati trovati anche testi di Marx e sulla storia del movimento operaio”, è normale, scrive l’Anfp “che un poliziotto che ha lavorato alla Digos legga testi che vanno dall’estrema destra all’estrema sinistra”. Insomma, Baffi sarebbe un intellettuale. Ieri in città, a piazza della Borsa, si sono radunate duecento persone in un sit in promosso dalle forze democratiche della città - Arci Occupy Trieste, centri sociali, studenti, a cui hanno aderito Rifondazione e Sel. Hanno chiesto l’immediata sospensione di Baffi ma anche le dimissioni del questore “che non poteva essere all’oscuro né delle simpatie fasciste di Baffi, né di come operava quell’ufficio”, dice Luca Tornatore dei centro sociali del nord est. La Procura ha sequestrato i fascicoli relativi a 49 immigrati detenuti da agosto ad aprile nel commissariato di villa Opicina per capire se avrebbero dovuto stare lì o no. Un posto non molto bello in cui passare le giornate, visto che la storia di Alina denuncia un totale abbandono delle persone recluse. La ragazza, che si è stretta un cappio intorno al collo formato con il cordoncino della sua felpa la mattina del 16 aprile, e si è impiccata alla finestra della stanza a un metro e mezzo da terra, avrebbe avuto 40 minuti di agonia. Su di lei era puntata una telecamera di sorveglianza. Ma pare che in quella stanza i poliziotti siano entrati solo per comunicarle che era arrivato il fax del prefetto: destinazione Cie di Bologna. Sicuramente non il posto in cui si aspettava di andare, dopo dieci mesi di carcere. La storia di Alina la racconta il suo avvocato, Sergio Mameli, che ora rappresenta la mamma e la sorella e ha depositato una memoria difensiva sulla vicenda: “Alina era implicata in un processo molto complesso di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il suo era un ruolo marginale - dice Mameli - sul suo conto erano passati alcuni soldi. Io mi sono fatto l’idea che lei non ne sapesse nulla: era la fidanzata di uno degli indagati, ha fatto un favore. Dunque non si spiegava perché dovesse stare in carcere. Negli ultimi tempi era nervosa, voleva uscire, aveva già tentato il suicidio e aveva delle evidentissime suture sul braccio sinistro. Per questo abbiamo deciso di patteggiare”. È il 13 aprile. Il giorno dopo, sabato, Mameli la va a trovare in carcere: “Oggi ti liberano”, le dice. Lei è contenta. Sa che verrà espulsa, ma pensa di avere almeno un week end per sé, fino a lunedì. Invece no: a prelevarla arriva una volante inviata da Baffi. Non fosse mai che una clandestina giri in città. La mattina del 16 Alina chiama alle 10 allo studio dell’avvocato, che non c’è. Lui richiama alle 11,30: Alina è già morta. Il consigliere regionale di Rifondazione Roberto Antonaz aveva già presentato un’interrogazione sulla morte e ora dice. “Sono allibito. Non è possibile che nessuno dei dirigenti della questura sapesse”. Messina: l’Opg di Barcellona passato al setaccio da ispettori Comitato Ue contro la tortura Gazzetta del Sud, 17 maggio 2012 Barcellona Ispezione all’Opg “Vittorio Madia” dei membri del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, istituito dall’Ue per verificare le condizioni di vita negli istituti penitenziari. L’eco delle notizie provocate dalle ispezioni e dai sequestri dei reparti effettuati dalla Commissione parlamentare nazionale sulla Sanità, presieduta dal sen. Ignazio Marino, è giunta fino in Europa, tanto da spingere i membri francesi, elvetici, olandesi, lussemburghesi e della Repubblica Ceca, a spingersi fino in Sicilia, per una ispezione durata due giorni, da lunedì di buon ora, fino a martedì sera. Ispezione che ha confermato la rimozione di tutte quei rilievi, letti di contenzione compresi, che erano stati evidenziati dalla commissione Marino. I commissari infatti hanno lavorato a fondo, dopo aver varcato i cancelli dell’istituto, alle 8,30 di lunedì scorso, nel quale attualmente sono rinchiusi 260 internati e 18 detenuti comuni in stato di “semilibertà”. Durante la permanenza tra le mura del “Madia”, gli ispettori del Comitato si sono intrattenuti con gli internati e hanno avuto la possibilità di verificare terapie di cura anche per i casi di soggetti cronici. Ispezionati tutti i reparti e presa visione dei progetti lavorativi, anche quelli rivolti all’esterno, e delle iniziative di riabilitazione che da anni l’Istituto persegue con modalità “pionieristiche” rispetto al ritardo delle norme che dovrebbero portare già da marzo 2013 alla chiusura definitiva dell’Opg e alla trasformazione della struttura in casa circondariale per detenuti di media pericolosità. Gli ispettori internazionali avevano al seguito traduttori che hanno consentito di effettuare colloqui con gli internati e gli operatori. Si è trattata di una autentica radiografia della struttura che dopo l’intensa giornata di lunedì è durata fino a martedì sera per concludersi alle 19,30. I componenti del Comitato, rivolgendosi al direttore Nunziante Rosania, hanno confermato di non aver rilevato fattori critici nei trattamenti degli internati e nemmeno nella struttura, sottoposta persino a verifiche statiche dagli stessi tecnici al seguito del Comitato. Gli stessi ispettori hanno anzi raccolto le preoccupazioni più volte espresse dal personale medico e parasanitario, circa i ritardi con cui la Regione non ha ancora recepito e attuato la legge che precede il passaggio al Servizio sanitario nazionale della sanità penitenziaria. I commissari hanno assicurato che interverranno nei confronti dell’assessorato regionale alla Salute per sollecitare l’attuazione della riforma e per la rimozione degli ostacoli che impedirebbero l’assunzione delle competenze della sanità penitenziaria in capo alle Asp siciliane. I componenti del Comitato internazionale europeo contro le torture relazioneranno sullo stato dell’Opg di Barcellona al Governo italiano e ciò - come ha spiegato il direttore Nunziante Rosania - per fugare ogni dubbio sui precedenti rilievi che erano stati fatti dalla commissione parlamentare che aveva concluso le ispezioni con il sequestro di due reparti. Napoli: la Garante; carceri sovraffollate, serve nuovo modello architettonicoo e detentivo Il Velino, 17 maggio 2012 “Stare in nove in una piccola cella è una pena aggiuntiva, una tortura”. Lo ha detto Adriana Tocco, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania, aprendo il convegno “Carcere leggero-Struttura pesante. Quale modello architettonico per la funzione costituzionale della pena”, che si è svolto alla Federico II di Napoli, alla Facoltà di Architettura. Nel corso del dibattito si è posto l’accento sul sovraffollamento dei penitenziari e sullo spazio minimo all’interno delle celle che ospitano anche 9 reclusi in una sola stanza. “Condizioni disumane” per Alfonso Sabella, direttore generale delle Risorse, dei Beni e dei Servizi del Dap. “Dodicimila campani su 66 detenuti, ma i posti regolamentari non sono tutti disponibili, nonostante abbiamo l’articolo 27 della Costituzione che ci obbliga al trattamento dei detenuti”, ha aggiunto il magistrato. Ma troppi soldi spesi per le strutture carcerarie: “Bisogna ridurre i costi, i soldi che sono stati spesi, andavano investiti in modo diverso”, ha continuato Sabella. Le politiche rivolte al miglioramento dell’edilizia carceraria, “hanno portato allo sforzo di eliminare le apparenze del carcere”, ha spiegato Luca Zevi, presidente della sezione Laziale dell’Istituto nazionale di architettura (Inarch). La folla nei penitenziari italiani è comunque ai limiti di capienza consentita dalla normativa. Qualche dato: nelle carceri italiane sono detenute 67.437 persone, contro una capienza regolamentare di 45.281. Queste cifre valgono al nostro Paese il primato europeo per sovraffollamento carcerario, oggi pari al 140 per cento. La denuncia arriva da un dossier Fp Cgl. “Bisogna distinguere i reati - ha dichiarato Anita Sala, consigliere regionale Idv - non si possono mettere nello stesso luogo chi ha commesso reati minori con altri che hanno avuto altre condanne. E poi bisogna fare un percorso di recupero all’interno dei penitenziari”. Hanno partecipato al convegno, tra gli altri, Angelo Sinesio, commissario delegato Piano carceri, Paolo Giardiello, presidente della Consulta Cultura della Facoltà di Architettura Università Federico II; ha moderato l’incontro Franco Corleone, presidente Coordinamento Nazionale dei Garanti. - Sassari: a San Sebastiano nuove emergenze, arriva il provveditore regionale alle carceri di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 17 maggio 2012 L’emergenza acqua scattata nel weekend è stata, è il caso di dirlo, la goccia che fa traboccare il vaso. Ma solo la più evidente. Perché al chiuso di San Sebastiano le tensioni crescono di giorno in giorno, soprattutto a causa del sovraffollamento. E questa mattina viene a cogliere i segnali di una estate già rovente il rappresentante più alto del ministero della Giustizia in Sardegna, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Gianfranco Degesu. Arriva in via Roma per osservare da vicino lo stato delle celle, in un carcere decadente quanto difficile da gestire, soprattutto a causa del numero di detenuti che ha superato la soglia psicologica delle 210 unità. Siamo oltre, quasi a 220: il penitenziario tra i peggiori d’Italia ne contiene al massimo 170. Questo ha ricordato il direttore del carcere, Francesco D’Anselmo, in una comunicazione che era pronta per essere inviata a Roma, alla direzione centrale del Dap, da leggere come una sorta d’appello. O di chiamata alla responsabilità. Oltre quella soglia, la vivibilità negli spazi angusti e ai limiti della dignità umana, rischia di incrinare un equilibrio precario messo a dura prova dai numeri. Aumentano gli ospiti forzati, ma restano a meno trenta (tante le unità mancati) gli agenti di polizia penitenziaria, alle prese con la disperazione dei detenuti (almeno un suicidio sventato nelle ultime settimane) e il dovere di garantire la sicurezza di tutti. Non è chiaro quale sia lo scopo del sopralluogo di oggi, Degesu l’avrebbe programmato solo negli ultimi giorni. Ma nell’ambito, probabilmente, di una strategia più ampia, con l’obiettivo di strappare promesse concrete da parte del ministero. E cioè una accelerazione sull’apertura del nuovo carcere di Bancali, il cui cantiere resta inaccessibile a causa del segreto di Stato imposto sull’area. L’ultima scadenza concessa è ottobre, ma le preoccupazioni che nelle ultime settimane vengono mal celate in via Roma significano che quella dead line potrebbe slittare. È possibile che il provveditore possa poi riferire al ministro Severino sull’urgenza che si aggrava di ora in ora. Ed è una ipotesi non peregrina che anche il guardasigilli, già colpita dalla visita all’istituto di Buoncammino, a Cagliari, possa venire a Sassari per entrare tra le mura carcerarie note nel Paese per i pestaggi ai detenuti del 2000. Ipotesi al momento non confermata perché dipende dagli impegni istituzionali del ministro, in viaggio negli Stati Uniti fino a domani. Sul suo tavolo, da febbraio ci sono i dossier sugli istituti di pena sardi portati dal segretario nazionale del sindacato Sappe, Donato Capece. Ovviamente San Sebastiano occupa una parte consistente del file. Che alla voce emergenze annovera, anzitutto, quella umanitaria: in alcune celle si stendono su brande multipiano - almeno tre - fino a 16 detenuti. In pochi godono di un water esterno alla stanza: nella maggior parte dei casi l’evacuazione fisiologica avviene a pochi centimetri dal posto dove si mangia. La sospensione della fornitura d’acqua in tutta la zona da parte del gestore Abbanoa - per lavori alla condotta di Monte Oro -, per tre notti di fila, ha contribuito ad accendere gli animi. Non ce n’era bisogno. Pochi giorni fa detenuti “locali” hanno affrontato, durante l’ora d’aria, colleghi di origine romena. Sembra che la scintilla sia stata originata da epiteti che gli immigrati hanno ritenuto discriminatori. Ne è nata una rissa sedata dagli agenti. Ma il rancore tra disperati, quello è impossibile da placare. Alghero: in carcere ancora tensioni, manca personale sanitario per distribuzione farmaci di Andrea Massidda La Nuova Sardegna, 17 maggio 2012 Momenti di altissima tensione all’interno del carcere di San Giovanni, dove ormai le emergenze sono quasi quotidiane. Ieri pomeriggio un detenuto straniero di circa trent’anni, ancora in attesa di essere trasferito a Genova, con una lametta da barba si è procurato alcuni tagli sul braccio per protestare contro il mancato “avvicinamento colloqui”. Mentre una settimana fa un agente di custodia è stato aggredito da un altro ospite del penitenziario, stavolta italiano, che dando in escandescenze per futili motivi gli ha rovesciato addosso una scrivania costringendolo a letto con alcune lesioni risultate poi guaribili in quindici giorni. Ma il fatto più inquietante è avvenuto domenica mattina, quando i responsabili dell’istituto si sono accorti che - causa assenza di personale specializzato - nessuno poteva distribuire il metadone ai tossicodipendenti reclusi e tanto meno dispensare i farmaci nelle dosi prescritte. L’unico medico incaricato disponibile si è infatti improvvisamente ammalato e al momento non risultava in turno alcun infermiere. A quel punto non si è potuto far altro che chiamare con urgenza la guardia medica cittadina, che alla fine si è dovuta sostituire al collega assente, facendo oltretutto un lavoro improprio. Una situazione che i due sindacati della polizia penitenziaria, Sappe e Sinappe, non esitano a definire gravissima, anche perché i detenuti a correre il rischio di una crisi di astinenza sarebbero circa 60 su 175. E va da sé che un certo tipo di terapie non possono essere interrotte con disinvoltura . “Siamo molto preoccupati per il lassismo con la quale viene gestita la situazione sanitaria nel carcere di San Giovanni e purtroppo non ci stupisce che si sia arrivati a questo punto - dice senza mezzi termini Luigi Arras, coordinatore nazionale del Sinappe -. Ora auspichiamo che il provveditorato regionale intervenga tempestivamente per sanare tutte le carenze”. Più secco, ma altrettanto incisivo il commento di Antonio Cannas, segretario provinciale del Sappe: “È una situazione a dir poco vergognosa “. Il riferimento è anche all’aggressione subita dal collega il 9 maggio scorso. Stando a quanto si è appreso, un detenuto sassarese di 42 anni si sarebbe spostato senza autorizzazione da una sezione all’altra del penitenziario. E quando l’agente di custodia glielo ha fatto notare, questi lo avrebbe apostrofato con ripetuti insulti sino ad acchiapparlo per un braccio strattonandolo. La scena, condita da ulteriori e gravi minacce, sarebbe poi proseguita anche più tardi, quando rientrato nella “sua” sezione, il detenuto avrebbe appunto rovesciato sull’uomo in divisa una scrivania del corpo di guardia . Vale la pena di ricordare che a San Giovanni gli episodi di violenza non sono nuovi. Appena qualche mese fa, infatti, all’interno del carcere è scoppiata una rissa furibonda e in quell’occasione a farne le spese è stato un giovane libico, pestato a sangue da una banda di romeni e albanesi. Viterbo: “In carcere mi picchiarono”, denuncia in tribunale di un ex detenuto Il Messaggero, 17 maggio 2012 “Drogato di merda, non reggi nemmeno uno schiaffo”. Pugni e minacce dagli agenti di polizia penitenziaria a un detenuto: Alessandro Ricci - 51 anni e un passato con qualche problema di tossicodipendenza - ha deciso di denunciare “perché certi episodi non accadano più”. Ieri sulla vicenda si è svolta la seconda udienza davanti al giudice Eugenio Turco e al pm Barbara Santi. Solo uno per ora è stato riconosciuto, Umberto Fortuna - assente in aula - difeso dall’avvocato Riccardo Gozzi, che rigetta le accuse: “È una storia priva di fondamento”. Fortuna è stato riconosciuto da alcune foto, “ma se avessi davanti gli altri - ha commentato Ricci - li indicherei subito”. La vicenda. Tutto ebbe inizio il 19 luglio del 2008: dopo una perquisizione nella sua azienda agricola, i carabinieri trovarono alcune piante di marijuana. Ricci fu quindi arrestato e portato a Mammagialla. “Quel giorno - ha raccontato Ricci, difeso dall’avvocato Cristina Gotti Porcinari - alla visita di ingresso fui riconosciuto come persona tranquilla. Entrai con scarponi da lavoro con punta metallica e un paio di zoccoli, depositai 176 euro e i miei beni personali. Ma era sabato e non essendoci il personale addetto non fu registrato nulla”. Dopo due giorni in isolamento, il lunedì mattina all’ufficio matricole iniziarono i problemi. “Ho chiesto i miei zoccoli, l’agente disse no. Insistetti e fui insultato”. Nella denuncia, la frase attribuita da Ricci all’agente è “stai zitto e non rompere i coglioni”. La violenza. Alla nuova richiesta l’agente avrebbe iniziato a prenderlo a schiaffi. “Non fu Fortuna - ha continuato Ricci - ma lui era lì che rideva. Poi arrivò un altro e mi dette dei pugni, quindi mi colpì prima con una penna, che si ruppe subito, e con altri oggetti. Mi coprii con le braccia per difendermi. Alla fine andai via scalzo e sanguinante. Durante il tragitto incrociammo un’altra persona che, vedendomi in quello stato, disse: sono sempre loro che fanno questo casino, riferendosi a chi mi avevano colpito”. Poi le medicazioni e di nuovo in cella. Non finì lì. Dopo essersi presentato “scalzo davanti al giudice” e aver ottenuto gli arresti domiciliari, fu il momento di tornare a prendere le proprie cose prima di andarsene. Ad aspettarlo c’era Fortuna. “Mi disse: firma e ti ridò le tue cose. Ma io - ha proseguito Ricci - le volevo prima di firmare, così lui disse che se non lo avessi fatto non sarei più uscito. Dopo la firma però sottolineò che le aveva buttate. Insistetti per riaverle e mi prese a pugni anche lui. Intervenne la persona che si occupava della contabilità: per proteggermi mi chiuse dentro una stanza”. Alla fine avrebbe riavuto solo 104 euro su 176. Tornato a casa si sentì male, chiamò l’ambulanza e fu portato a Belcolle, ma non fu ricoverato. Poche ore dopo “su consiglio del maresciallo Angelo Ciardiello - ha concluso Ricci - mi feci fotografare le ferite e consegnai il rullino ai carabinieri”. La difesa. L’avvocato di Fortuna smentisce la ricostruzione. “È una storia priva di fondamento - ha commentato Gozzi al termine dell’udienza - e il mio assistito respinge ogni addebito. Anzi, mi sembra strano che la sua posizione non sia stata archiviata”. Come testimoni sono intervenuti due medici: Luca Moscetti ed Enrico Giuliani. Il primo visitò Ricci dopo il primo giro di pugni evidenziando ferite da taglio ed escoriazioni al volto e alle braccia. Il secondo lo fece prima che uscisse, aggiungendo al precedente diario medico ulteriori lesioni da grattamento. Prossima udienza il 26 settembre. Trieste: al “Coroneo” dibattito su errori e risarcimenti di Stefano Bizzi Il Piccolo, 17 maggio 2012 La configurazione del sistema giudiziario italiano presuppone ovviamente l’eventualità dell’errore. Per questo esistono tre gradi di giudizio ma solo dalla fine degli anni Ottanta la legge obbliga lo Stato a un indennizzo per l’ingiusta detenzione. Il tema degli errori giudiziari e della responsabilità civile dei magistrati è stato affrontato ieri dall’ex presidente del Tribunale di Trieste Roberto Mazzoncini. Al dibattito pubblico organizzato dall’associazione culturale “Amici del Caffè Gambrinus” nella sala conferenze del carcere del Coroneo saranno presenti anche alcuni dei detenuti. A più riprese si riapre la questione, irrisolta, sulla responsabilità civile dei magistrati e, in particolare, sul diritto di chi si ritiene danneggiato d’intentare causa direttamente al giudice. L’ex presidente del Tribunale di Trieste Roberto Mazzoncini traccia il punto della situazione. Giudice Mazzoncini, la questione fu affrontata dal giurista e patriota Domenico Giurati già nel 1893. Davvero è così datata? Nel 1893 la responsabilità civile dei magistrati era limitata ai soli casi di dolo, frode, concussione e diniego di giustizia; ma soprattutto nessuna norma prevedeva che lo Stato fosse tenuto a risarcire danni cagionati da errori giudiziari. Siamo dovuti arrivare al 1989, col nuovo Codice di procedura penale perché, anche indipendentemente dall’esito di un giudizio di revisione, fosse previsto l’indennizzo di un’ingiusta detenzione, sia pure in limiti contenuti e a certe condizioni. A tutt’oggi nessun indennizzo è riconosciuto per i danni subiti da chi sia stato processato e, sia pure senza essere stato incarcerato, abbia subito discredito e danni psicologici ed economici, per essere poi assolto. Nella grande maggioranza dei casi questo avviene senza che sia possibile individuare, nei molti giudici intervenuti nel processo e nei molti provvedimenti dello stesso, alcuna ipotesi di colpa grave. Oggi di cosa parlerà? Voglio proporre, partendo da Giuriati, il lungo, difficile cammino di queste istanze di giustizia, nel cui ambito si agita, in realtà come secondaria, anche la questione della responsabilità civile dei magistrati. I giudici possono sbagliare ma non pagano. Come la mettiamo? L’errore è connaturato alla responsabilità del giudicare. Ciò che non deve accadere è che l’errore sia commesso consapevolmente o sia dovuto a un comportamento gravemente colpevole. In questi casi è prima di tutto lo Stato che deve intervenire sanzionando disciplinarmente o addirittura penalmente il magistrato. È evidente che il controllo sulla libertà del giudice nell’interpretazione della legge, come nella valutazione dei fatti, ne ridurrebbe l’autonomia, fino a farne un automa. Né va trascurato che la soluzione del concedere ai danneggiati dalla Giustizia la possibilità di agire direttamente contro il giudice o il pm, come era stata posta dal referendum del 1987 e come viene oggi riproposta, finisce per privatizzare il controllo sul sistema giudiziario. Può spiegare? Lasciando l’iniziativa al danneggiato, si consegna il potere di controllo e di sanzione nelle mani di una persona, che quasi mai ha mezzi e risorse per esercitarlo. E se li ha, può usarli a scopo intimidatorio. Allora, è molto più utile che al controllo sui giudici pensi lo Stato con i ben diversi mezzi di cui dispone; ad esso potrà sempre affiancarsi chi si ritenga danneggiato, con denunce, esposti e quant’altro. Nel 1987 il referendum ha aperto la strada per agire contro lo Stato. Quante sono state le cause? Pochissime: circa 400. Con solo 4 condanne, alle quali ha fatto seguito sia l’azione disciplinare, sia l’azione di rivalsa contro i giudici responsabili di comportamenti gravemente colposi. Le ragioni dello scarso ricorso a questa normativa è da addebitarsi soprattutto al costo e alla difficoltà di simili cause, che il danneggiato dovrebbe intraprendere, in solitudine, contro lo Stato, e per la quasi impossibile individuazione dell’errore gravemente colpevole e del suo autore. Nell’ipotesi in cui si potesse chiedere il risarcimento direttamente al giudice, cosa cambierebbe? Il vantaggio per i danneggiati sarebbe limitato ma, per l’indipendenza della magistratura l’effetto sarebbe disastroso e non per l’improbabile esito favorevole ai danneggiati delle cause quanto, piuttosto, perché il magistrato sarebbe facile oggetto di persecuzione da parte di chi ha potere e disponibilità economiche sufficienti. In conclusione? Ritengo utile che il tema della responsabilità civile del magistrato e, in particolare, dell’esercizio dell’azione diretta contro di lui, venga riportato al livello che gli compete, senz’altro marginale, anche quantitativamente, rispetto al tema dell’indennizzo dello Stato a quanti, per essere stati definitivamente assolti, risultino essere stati anche ingiustamente processati. Ed è significativo che gli argomenti in gioco siano ancora oggi gli stessi utilizzati da Giuriati 120 anni fa. Come pure, vuol essere significativo parlare di errori giudiziari, responsabilità e rimedi dentro al Coroneo: tra questi muri, insieme ai colpevoli, sono stati rinchiusi anche molti poi riconosciuti innocenti. Pisa: lo scrittore Marco Malvaldi porta il sorriso ai detenuti del Don Bosco Il Tirreno, 17 maggio 2012 La sua ventata di ironia e buon umore è entrata dentro le mura del carcere Don Bosco spazzando via, almeno per qualche ora, un pò di tristezza e malinconia. Lo scrittore Marco Malvaldi è uno al quale si può chiedere di dedicare mezzo pomeriggio a chi non ha la possibilità di andare ad ascoltarlo nei consueti incontri pubblici. La richiesta gli è arrivata dalla sua ex professoressa di lettere del liceo, Giovanna Baldini, volontaria dell’associazione Controluce, che segue la scuola superiore all’interno del carcere e che insieme all’Area Educativa formata dalle educatrici del carcere Don Bosco, prevede una serie di incontri di arte, ascolto della musica, incontri con gli autori e altro ancora. Per Marco è stata la prima esperienza di questo genere e quando ritorna alla luce del sole ci racconta: “Sono rimasto stupito di quanto siano stati bravi. Hanno dimostrato interesse e fatto domande del tutto simili a quelle che mi vengono rivolte in qualsiasi altra presentazione. Sì, sono rimasto sorpreso della normalità dell’incontro. Non me lo aspettavo, credevo che il confronto sarebbe stato diverso”. In quanti hanno assistito alla presentazione? “Circa una ventina di detenuti, il direttore, gli educatori, qualche volontario e alcuni agenti della Polizia Penitenziaria”. Quali domande le sono state rivolte? “C’è chi ha voluto sapere di più sulla mia storia di vita e di scrittore, chi si è identificato nel mio percorso, chi si è concentrato sullo stile e sui personaggi, citando anche altri autori per fare un confronto. Insomma, proprio come una qualsiasi presentazione, ma alla fine per ringraziarmi mi hanno offerto un dolce fatto da loro, questo normalmente non succede nelle altre presentazioni. Ho capito che per loro era un giorno diverso dagli altri, un’occasione importante e me lo hanno dimostrato anche con le strette di mano e i sorrisi”. Cosa l’ha colpita di più? “Intanto la capacità di qualcuno di ironizzare sulla propria pena e poi grande densità di detenuti in uno spazio non molto grande”. Avevano letto i suoi libri? “Certo, erano molto preparati, ma di questo non avevo alcun dubbio, avendo come insegnante Giovanna Baldini”. India: i due marò italiani trasferiti dal carcere di Trivandrum in una struttura protetta Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2012 Le autorità del Kerala hanno disposto nella notte il trasferimento dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone dal carcere di Trivandrum ad un’altra struttura della città. Lo ha appreso l’Ansa da fonte certa. Tuttavia, hanno reso noto di avere bisogno di 20 giorni per mettere in regola la struttura, denominata Boston School. La decisione delle autorità carcerarie e di polizia di Trivandrum è venuta allo scadere della settimana disposta dalla Corte suprema di New Delhi per questa decisione, ed al termine di una serie di riunioni, anche con la delegazione italiana sul posto. La richiesta di un periodo così lungo per realizzare il trasferimento dal carcere di Poojapura è stato giustificato con la necessità di portare a norma di legge la struttura scelta. Tuttavia alcuni osservatori sottolineano che il 2 giugno prossimo si svolgerà in Kerala una elezione suppletiva, e che quindi il governo locale non ha voluto correre rischi di dover far fronte a critiche politiche dell’opposizione per questa misura, considerata “impopolare”. La speciale squadra della polizia del Kerala, nel sud dell’India, che si occupa del caso dei marò, presenterà domani al magistrato istruttore le accuse a carico di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Lo sostiene oggi il quotidiano The Times of India nella sua edizione locale. Secondo quanto scrive il giornale, la polizia trasmetterà al giudice istruttore di Kollam, 150 pagine contenenti gli indizi a carico dei due fucilieri italiani. Tra questi c’è anche la perizia balistica (di una cinquantina di pagine) sulle armi sequestrate a bordo della petroliera Enrica Lexie in cui sono stati identificati i due fucili che avrebbero ucciso i due pescatori lo scorso 15 febbraio al largo della costa del Kerala. Sempre in base al Times of India, “si prevede che il tribunale inizi il processo contro i due militari alla fine di maggio”. Una fonte della polizia ha inoltre precisato che “finora sono state formalizzate le accuse soltanto contro i due militari” lasciando intendere che in futuro potrebbero anche includere altre persone nell’atto di accusa. Ieri il commissario Ajit Kumar, che guida la squadra investigativa speciale (Sit) incaricata di indagare sul duplice omicidio, aveva dichiarato all’Ansa di formalizzare le accuse entro la fine di questa settimana quando scadranno i termini di carcerazione preventiva dei due marò detenuti nel penitenziario di Trivandrum. Stati Uniti: benvenuti in Louisiana, lo Stato con più carcerati al mondo di Giulia Villafranca www.america24.com, 17 maggio 2012 La Louisiana ha un triste primato: è lo Stato con il più alto numero di carcerati del mondo, con un numero di carcerati triplo rispetto all’Iran, sette volte quello della Cina e dieci volte maggiore a quello della Germania. Secondo il sito ‘Nola.com’, quotidiano di New Orleans, dietro a questi numeri preoccupanti si nasconde un losco giro d’affari: la maggior parte dei detenuti è infatti incarcerata in prigioni private, che alimentano un business da 182 milioni di dollari all’anno. I proprietari delle prigioni costituiscono in Louisiana una potente lobby, che si assicura che non venga fatta alcuna riforma al sistema giudiziario tale da abbassare il numero di crimini per cui è richiesta l’incarcerazione, o porti a una riduzione delle pene. Ogni detenuto vale, per un carcere privato, 24,39 dollari al giorno di rimborso da parte dello stato, e il “Nola” attacca: “I detenuti vengono scambiati come se fossero cavalli e non c’è alcun tipo di progetto per il recupero e il reinserimento sociale: non ci si occupa che diventino cittadini produttivi una volta usciti dal carcere”. Negli ultimi vent’anni la popolazione di carcerati in Louisiana è raddoppiata, costando miliardi di dollari di aumento nelle tasse statali, e nel frattempo New Orleans rimane la città degli Stati Uniti con il più alto numero di omicidi. In Louisiana un adulto su 86 è in carcere, oltre il doppio della media nazionale. Un uomo di colore su quattordici è dietro le sbarre, uno su sette è o in prigione o in libertà condizionata. “Va fatto qualcosa, e in fretta, riguardo alle prigioni private” ha detto il direttore del carcere statale di Angola, Burl Cain. “Le sentenze di carcerazione sono troppo lunghe. In Louisiana un ladro di macchine può prendere tranquillamente ventiquattro anni di carcere senza libertà condizionata, chi è coinvolto in affari di droga può rimanere in carcere a vita. Ogni dollaro speso per alimentare il business delle carceri è un dollaro in meno per le scuole, gli ospedali e le infrastrutture”. Rispetto alla media nazionale, in Louisiana il numero di persone incarcerate per atti di violenza è molto minore, mentre è maggiore la percentuale di chi è dietro le sbarre per droga, un chiaro segnale che bisognerebbe puntare sulle istituzioni sociali. La Louisiana si trova in questa drammatica situazione a causa della strada imboccata nel 1990, quando l’amministrazione governativa, a causa di un problema di sovraffollamento delle carceri, si trovò di fronte a un bivio: costruire altre prigioni o rivedere il sistema legislativo. Si optò per la costruzione di nuove carceri, che vennero edificate in larga parte da privati con consistenti incentivi statali. Ma tra le carceri statali e quelle private si è creata una frattura notevole: anche se nelle prigioni statali ci sono i detenuti condannati per crimini più gravi, spesso destinati a passare lì tutta la vita, sono solo queste le carceri dove vengono organizzate attività ricreative e i detenuti possono imparare un lavoro, o entrare in un programma di istruzione che permette di diplomarsi. Le carceri private non investono nei detenuti: questo, ovviamente, danneggerebbe il loro giro d’affari. “Chiaramente, più soldi vengono spesi per mantenere le prigioni, meno ne rimangono per le scuole o per tutte le altre istituzioni sociali” ha dichiarato Marc Mauer, direttore del Sentencing Project, un’associazione che propugna una riforma della giustizia su scala nazionale. “Ovviamente un numero sempre più alto di carcerati significa anche che sempre più bambini crescono senza un padre, un fratello o uno zio su cui fare affidamento, perché sono tutti in prigione. Il ragazzino non troverà nessun appiglio nemmeno nella scuola o nelle attività ricreative, crescerà nel degrado e il rischio che prenda una brutta strada è assicurato”. “Per cambiare rotta, bisogna procedere su due linee: ridurre gli anni di carcere per i crimini minori, come per esempio i piccoli furti o lo spaccio di droga, e investire più soldi nelle comunità di recupero - ha affermato David Cole, professore della scuola di legge di Georgetown - tutti questi cambiamenti su larga scala possono essere fatti solo dalla classe politica, che deve prendere in mano la situazione e risolverla una volta per tutte. La sicurezza sociale non può venire dopo gli interessi pecuniari di poche persone senza scrupoli”. Israele: raggiunto accordo, duemila detenuti palestinesi sospendono sciopero fame Tm News, 17 maggio 2012 Circa 2.000 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno sospeso lo sciopero della fame che durava da un mese, dopo che Israele ha accettato di attuare alcune misure per migliorare le condizioni di prigionia: un passo che secondo Amnesty International va nella direzione del rispetto degli obblighi internazionali in materia di diritti umani da parte di Israele. Tra le varie misure concordate grazie all’accordo mediato dall’Egitto, Israele ha sospeso l’isolamento per 19 prigionieri (durato fino a 10 anni) e ha tolto il divieto di visite familiari per i prigionieri della Striscia di Gaza, in vigore dal 2007. “Ci auguriamo di essere di fronte a un nuovo approccio da parte di Israele, basato sul rispetto dei diritti umani dei prigionieri. Resta il fatto che 2.000 persone non avrebbero dovuto mettere in gioco la loro vita per ottenere il rispetto di diritti che le autorità israeliane violavano da anni”- ha dichiarato Ann Harrison, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. Gran Bretagna: indagini “disastrose” costringono giovane a 7 anni di carcere Tm News, 17 maggio 2012 È stato in prigione per sette anni per un omicidio che non ha commesso. Ieri, la corte di Appello di Londra, ha rilasciato Sam Hallam, 24 anni, vittima di errore giudiziario provocato da indagini “disastrose” della polizia. Lo riferisce oggi il Guardian. La vicenda inizia nell’ottobre del 2004, quando Essayas Kassahun, 21 anni, viene ucciso nella periferia di Londra in seguito a una brutale aggressione di una gang di ragazzi. Hallam, appena 17 anni, viene accusato dell’omicidio e condannato all’ergastolo, malgrado le immagini di alcune telecamere di sorveglianza non evidenzino la sua presenza sul luogo dell’omicidio. A inchiodare il giovane le testimonianze di Phoebe Henville, un’adolescente che nel corso delle deposizioni fornisce diverse versioni dei fatti. Ieri, nel corso del processo di revisione, ottenuto grazie alla mobilitazione della famiglia e degli amici di Sam (samhallam.com), la difesa ha dimostrato che il giovane non era sulla scena del delitto e che le dichiarazioni della principale testimone non erano attendibili. La procura ha annunciato che non presenterà appello. Algeria: il 75% dei detenuti ha meno di 30 anni; per loro corsi scolastici e prospettive di Diego Minuti Ansa, 17 aprile 2012 L’Algeria, da un punto di vista demografico, è un Paese giovanissimo, e una conferma viene anche dall’analisi della composizione della sua popolazione carceraria, con il 75 per cento dei detenuti che ha meno di 30 anni. Una percentuale enorme e, insieme, inquietante perché è l’ennesimo segnale di un disagio sociale che, come insegna la cronaca di tutti i giorni, è stratificato e verso il quale la risposta dello Stato tarda ad arrivare. E quando arriva non sempre riesce ad essere soddisfacente. La percentuale dei detenuti algerini under 30 è stata data dal Direttore dell’Amministrazione penitenziaria, Mokhtar Felioune, che ha comunque riconosciuto al Ministero della Giustizia una grande attenzione verso i giovani reclusi, ai quali, ha detto in sostanza, non si sta facendo mancare l’aiuto mirato ad assicurare loro “l’insegnamento e la formazione necessaria”, quando il livello precedente al loro ingresso in carcere è debole o addirittura, come nel caso degli analfabeti, inesistente. In buona sostanza, lo Stato algerino cerca di portare i detenuti ad un livello di scolarizzazione superiore a quello che avevano al loro ingresso nelle carceri, nella speranza di agevolarne il reinserimento una volta fuori dai reclusori, ma anche, presumibilmente, pensando che un livello didattico superiore possa allontanarli dalla tentazione di ricadere nella commissione di reati. Cosa questa che è frequentissima per chi, uscito dal carcere, non ha modo e spinte per uscire dal circuito della criminalità. D’altra parte, ha detto Felioune, “l’ignoranza e la dispersione scolastica sono le principali cause della delinquenza”. L’Amministrazione penitenziaria algerina, per cercare di stimolare i giovani detenuti ad accettare la scolarizzazione, ha attuato anche delle misure minime, ma che si stanno rivelando efficaci. Come, ad esempio, alcuni meccanismi premiali che scattano se il giovane recluso legge un libro. Ma ci sono altri incentivi, come la concreta possibilità di accedere alla grazia presidenziale se, nella loro permanenza in carcere, ottengono un diploma o, addirittura, una laurea. Traguardi questi importantissimi, visto che, nella maggior parte dei casi, il giovane delinquente ha abbandonato presto la scuola, preferendo la strada. L’Algeria, in questo specifico campo, è in prima linea, tanto che, dicono al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria non tradendo la soddisfazione, il Paese ha la percentuale più alta al mondo di detenuti che conseguono un titolo di studio. Attualmente 135.420 reclusi seguono corsi di istruzione, di cui 35.417 di alfabetizzazione, 95.632 per corrispondenza e 4.371 a livello universitario. E un altro elemento di soddisfazione è quello delle elevate percentuali dei detenuti che, in carcere, seguono dei corsi di istruzione e superano i relativi esami. In questo momento in Algeria la popolazione carceraria è di circa 58 mila detenuti, di cui 800 donne. Per oltre quindicimila di loro in questi giorni si sta aprendo il periodo per la verifica di quanto hanno imparato dietro le sbarre.