Giustizia: “misure urgenti per le carceri”… tutti d’accordo, ma poi nessuno si prende la responsabilità di Valter Vecellio L’Opinione, 13 maggio 2012 Per la prima volta nei suoi 50 anni di storia una delegazione del Consiglio Superiore della Magistratura, guidata dal vicepresidente Michele Vietti, con allegato codazzo di giornalisti e reporter per immortalare l’evento, ha visitato un carcere italiano: quello di Rebibbia a Roma. La delegazione ha incontrato detenuti, rappresentanti della Polizia penitenziaria, operatori ed educatori. E c’è da augurarsi che ne abbia ricavato qualche frutto. Si potrebbe obiettare in punta di diritto che il Csm ha altri compiti, ma tante volte ha debordato e questa, tutto sommato, appare tra le meno gravi. Nel corso del confronto Vietti ha auspicato una “drastica e radicale depenalizzazione” non solo per alleggerire le carceri, ma anche a vantaggio di un sistema processuale “ostruito da un’eccessiva quantità di procedimenti. Abbiamo un sistema pena sovrabbondante, dove tutto è reato, e che ha l’effetto di intasare i processi e spesso di farli prescrivere”, dice Vietti rispondendo alla domanda di un detenuto. Un sistema “non equo”, visto che non si applicano le pene “a chi se lo merita davvero” mentre lo si fa con chi “ha meno possibilità di difesa nel processo”; così, oltre a una massiccia depenalizzazione, Vietti auspica anche una “decarcerizzazione”, perché “punire tutto con il carcere non è possibile, bisogna puntare ad una politica che preveda misure alternative al carcere per quei reati che lo consentano, e che tenga conto per gli altri reati del comportamento del detenuto”. A esplicita e diretta domanda relativa all’amnistia, Vietti ha risposto “non rientra nelle mie competenze”. Una decisione spetta al Parlamento ed eventualmente al governo. Sommessamente si vorrebbe suggerire al Csm e al suo vice-presidente di predisporre, nell’ambito dei corsi di formazione per i magistrati, visite nelle carceri italiane. Sarebbe cosa formativa. “Velocizzare i processi” dice Vietti dal Csm. Quello stesso Csm che giorni fa ha preso una decisione che, per come la si apprende, non può che sconcertare. Vale la pena di raccontarla, questa storia: è il caso di un procuratore di fatto “punito” perché ha lavorato. Giorni fa il plenum ha stabilito che Renzo Dell’Anno non sarà più il procuratore capo di Pistoia. Decisione, si legge nelle motivazioni, maturata in base a valutazioni di carattere formale sulle modalità con cui Dell’Anno ha diretto in questi anni il proprio ufficio. Tra le principali motivazioni addotte si evidenzia in particolare quella relativa alla gran mole di lavoro “operativo” che il dottor Dell’Anno ha portato a termine in prima persona in tale periodo: migliaia di fascicoli che si è accollato sia per sgravare dai tanti arretrati i suoi sostituti sia per raggiungere l’obiettivo (del quale, una volta raggiunto, si è dichiarato orgoglioso) di eliminare dalla procura di Pistoia il rischio prescrizione: un lavoro encomiabile che, evidentemente, mentre sarebbe tale per un semplice sostituto procuratore, è invece, secondo il Csm, improprio per un procuratore capo, che dovrebbe dirigere l’ufficio, programmando e coordinando l’attività degli altri e non, in pratica, “fare” il magistrato . Anche se solo come “facente funzioni”. Nel frattempo da Napoli una denuncia che meriterebbe di essere presa in considerazione, non fosse altro per smentirla. Se ne fa interprete il segretario del Sappe, uno dei sindacati della polizia penitenziaria Donato Capace. Nel carcere di Poggioreale si ricicla denaro “sporco”? Denuncia grave, e forse proprio per questo ignorata. Si parte dalla “fotografia” del carcere napoletano di Poggioreale: tra i più affollati d’Italia, con oltre 2.700 detenuti stipati, a fronte di una capacità regolamentare della struttura di circa 1.500 posti letto. Fa presente il Sappe che in quel carcere si registra un movimento di denaro per circa 640mila euro ogni mese, 8 milioni di euro all’anno, senza alcuna “tracciabilità” e con il rischio sotteso di manovre neppure troppo oscure della camorra. A questo punto conviene lasciare la parola al segretario del Sappe, Donato Capece: “Nella Casa Circondariale di Napoli Poggioreale la movimentazione di denaro che entra in istituto ogni mese, vale a dire circa 640 mila euro, si ottiene all’anno una cifra di circa 8 milioni di euro, al netto di eventuali vaglia postali, in mano ai reclusi. In occasione dei circa 600 colloqui che vi si tengono ogni giorno, a causa del versamento presso l’ufficio del Bollettario di una somma di denaro che può raggiungere gli ottocento euro mensili, tenuto conto che ogni recluso ha a disposizione un tetto massimo di circa 200 euro settimanali, entra negli otto padiglioni un fiume di denaro: vale a dire che, poiché in ogni cella si trovano 8-10 reclusi, ogni camera di detenzione può disporre di quasi otto mila euro al mese. Vi sarebbe allora da spiegare tale movimentazione record di denaro, che non lascia alcuna tracciabilità, dal momento che non può non sorgere il sospetto che si tratti di compensi per affiliare e per gli affiliati ai clan camorristici”. La perplessità aumenta se solo si confrontano i dati “napoletani” con quelli di altre realtà carcerarie nazionali dove ogni detenuto incamera quattro volte di meno. Basta per dire che “la struttura napoletana rischia di diventare una palestra criminale, una accademia nella quale la criminalità organizzata riesce ad allevare e a reclutare manodopera?”. Capece ricorda che ogni giorno, nel carcere napoletano, “si buttano circa 2500 pasti al giorno: uno spreco inconcepibile che evidenzia una netta contraddizione, quando dai bollettari compilati dal personale del Corpo emergono cifre e bilanci che rendono superfluo il vitto fornito dall’Amministrazione, a fronte delle numerosissime richieste che pervengono al sopravvitto: un volume di denaro da far impallidire una società per azioni quotata in borsa. Di fatto i due terzi del cibo preparato e pagato dallo Stato finiscono nella spazzatura: e questo è vergognoso oltreché immorale in tempi di crisi come quelli attuali”. Anche questa potrebbe essere una manovra della camorra per acquisire consenso tra i detenuti: “La maggior parte dei detenuti cucina in cella e ai più indigenti i boss forniscono la sussistenza quotidiana rifornendoli di cibo, che diventa quindi occasione di affiliazione e sottomissione”. Com’è possibile, si chiede Capece “che soggetti e famiglie indigenti e nullatenenti siano in grado di depositare ingenti somme di denaro a favore di detenuti di Napoli Poggioreale per i quali lo stato si fa carico del gratuito patrocinio?”. Giustizia: che significato ha il tentativo di suicidio (vero o simulato) di Bernardo Provenzano? La Gazzetta del Sud, 13 maggio 2012 La sorveglianza è stata intensificata e ora il boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano non potrà tenere in cella nemmeno il fornelletto per scaldarsi i pasti. Ma sul fatto che due notti fa abbia realmente tentato il suicidio nella sua cella della sezione protetta del penitenziario di Parma sono in tanti, a cominciare dal Dap, a dubitare e a pensare piuttosto a una messinscena, se non a un segnale che ha voluto mandare a chi è fuori dal carcere. Il più prudente è il procuratore di Palermo Francesco Messineo , che reputa “legittima” ogni lettura (“sia che siamo davanti a un reale tentativo di suicidio, sia che si sia trattato di un gesto fatto per attirare l’attenzione sulla propria condizione”) e che ritiene comunque quanto accaduto “una spia importante di un disagio personale, di una mancanza di equilibrio, soprattutto per un capomafia di quel livello”. Ma i nuovi particolari che filtrano sull’accaduto sembrano rendere più consistente l’ipotesi della simulazione. Il boss avrebbe utilizzato una busta di plastica molto piccola, e ha scelto di infilarsela non nel bagno, dove l’immagine delle telecamere è meno nitida, ma nella stanza ripresa dal video molto più chiaramente. Ed è proprio dal monitor che controlla la sua cella che gli agenti del Gom (gruppo operativo mobile della polizia pentenziaria) lo hanno visto proprio quando si infilava il sacchetto in testa, tenendolo con le mani. Anche il momento in cui ha agito non sembrerebbe casuale: dopo la mezzanotte, al momento del cambio di turno tra gli agenti, che sono intervenuti subito. “Chiederò alla Procura di Palermo di aprire un’inchiesta su quanto accaduto a Bernardo Provenzano in carcere”, annuncia il suo legale Rosalba Di Gregorio, che aveva sollevato il dubbio di come potesse, il suo assistito in regime di 41 bis, tenere in cella un sacchetto di plastica. Nessun mistero, fanno sapere dal Dap: divieti sono previsti solo per chi manifesta forme di depressione e il capomafia - che è pure gravemente malato - sinora non aveva dato nessun segnale di questo tipo. Un appello al boss - che ieri ha rinunciato a comparire in videoconferenza a un processo davanti alla corte d’assise d’appello di Palermo per omicidio - perché collabori con la giustizia, viene dal procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: Provenzano, per la cui morte “forse non avrei pianto”, ammette Grasso, “sta per morire ma può aiutarci a risolvere dei misteri di questa Italia”. Ma c’è chi dà una diversa lettura. “È un segnale. Forse ha dato segni di cedimento e gli altri capi, il signor Totò Riina in testa, gli hanno ordinato di suicidarsi e lui non è stato in grado, o non ha voluto. Se non è andata così, si vuole pentire”. L’analisi del presunto tentativo di suicidio di Bernardo Provenzano è di Francesco Marino Mannoia, il pentito che l’anno scorso, dopo una permanenza negli Stati Uniti durata vent’anni, è tornato in Italia. Dal suo rifugio segreto, l’ex super killer di Santa Maria di Gesù traccia gli scenari possibili del gesto che Provenzano ha messo in atto nella notte tra mercoledì e giovedì, infilandosi un sacchetto in testa nel supercarcere di Parma. “Quando uno dà segni di cedimento - dice Mannoia - i capimafia danno l’ordine di uccidersi. Provenzano è uno che sa tante cose, che potrebbe dire tante cose, anche al livello della mafia e della politica. È vecchio, è stanco, ma la gente come lui deve morire in carcere. Tuttavia i segnali di insofferenza che sta dando, i tentativi di farsi passare per malato grave e per pazzo, non sono da sottovalutare”. E se le cose non fossero andate così, se cioè l’ordine - ammesso che ce ne sia stato uno - di suicidarsi non fosse mai arrivato, come del resto dovrebbe essere normale, con i rigori del 41 bis? “Allora potrebbe essere il segnale che vuole pentirsi, che vuole collaborare. In questo caso, però - secondo Mannoia - non potrebbe permettersi di dire solo le barzellette dei soliti pentiti. Da lui ci si aspetterebbe molto di più, che dicesse la verità su tanti fatti oscuri, le stragi in primo luogo. Io lo capirei subito, se lui non dicesse la verità: conosco tanti fatti che lui conosce, quindi non potrebbe ingannarmi. In questo caso vorrei essere messo a confronto con lui, davanti a una commissione Antimafia, più che davanti ai magistrati”. “È strano che un capo mafia del calibro di Provenzano compia un gesto del genere, che dimostra la debolezza di un padrino”, sottolinea Lirio Abbate, giornalista e scrittore, che al Salone del Libro di Torino modererà l’iniziativa “Trame di memoria” a vent’anni dalla strage di Capaci. “Se è vero che Provenzano ha tentato di togliersi la vita - aggiunge Abbate - è strano come questo malessere stia colpendo anche altri boss come Totò Riina, Pippo Calò e Tommaso Cannella, che è una delle persone più vicine a Provenzano. Non si dica - conclude - che la loro situazione è incompatibile con il regime carcerario”. Giustizia: caso Lonzi; Corte europea dei diritti dell’Uomo dichiara “irricevibile” il ricorso della madre Ansa, 13 maggio 2012 La Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo ha “dichiarato irricevibile il ricorso” presentato da Maria Ciuffi, la madre di Marcello Lonzi, il detenuto morto in carcere a Livorno l’11 luglio 2003. Lo ha reso noto la donna che ieri a Pisa ha partecipato al corteo degli anarchici in ricordo di Franco Serantini, lo studente sardo ucciso 40 anni fa in seguito a un pestaggio subito dalla polizia. “Mi fido più degli anarchici che dei giudici”, ha detto Maria Ciuffi ricordando che suo figlio, che secondo la giustizia italiana è morto in cella a causa di un malore, “subì violente percosse in carcere al punto da provocarne il decesso”. La decisione della Corte, in composizione di giudice unico, risale al 18 aprile scorso ma solo pochi giorni fa la donna ha ricevuto la comunicazione. “La decisione della Corte - si legge nel provvedimento - è definitiva e non può essere oggetto di ricorsi davanti alla Corte, compresa la Grande Camera, o ad altri organi”. Con la deliberazione di Strasburgo si chiude definitivamente la vicenda giudiziaria scaturita dalla morte del giovane detenuto livornese. Giustizia: il caso Pippo Calò porta alla ribalta il carcere dei grandi criminali di Peppe Ercoli Il Messaggero, 13 maggio 2012 Sale ancora alla ribalta delle cronache il carcere di Ascoli che oltre ai detenuti del braccio comune ospita anche quelli sottoposti al 41 bis, il cosiddetto “carcere duro”. La notizia è trapelata solo ieri, ma già dal 30 aprile scorso Pippo Calò, uno dei capi della mafia degli anni Ottanta con Bernardo Provenzano e Totò Riina, da anni detenuto nella struttura carceraria ascolana, è stato ricoverato ad Ancona, all’ospedale Lancisi, per un delicato intervento chirurgico. Calò ha avuto una crisi cardiaca nel pomeriggio di quel giorno ed è stato prima trasportato all’ospedale Mazzoni di Ascoli, poi, viste le condizioni piuttosto serie, dopo poche ore è stato trasferito ad Ancona dove il primo maggio è stato operato d’urgenza; gli sono stati impiantati due by pass. Nel nosocomio dorico Calò è attualmente ricoverato come un paziente qualsiasi, anche se sorvegliato a vista da agenti armati. La notizia della sua presenza nell’ospedale anconetano era stata tenuta segreta proprio per motivi di sicurezza (non solo suoi, ma anche degli altri pazienti comuni), ma giovedì sera è trapelata da Palermo, dove ieri il boss sarebbe dovuto comparire in teleconferenza al processo davanti alla Corte d’assise di appello per l’omicidio di Calogero “Gigino” Pizzuto, avvenuto nel 1981 in provincia di Agrigento. Nello stesso procedimento è imputato anche Bernardo Provenzano. Secondo l’avvocato ascolano Mauro Gionni, che lo assiste e gli ha fatto visita anche sabato scorso, Calò sta “abbastanza bene”. Ieri il legale ascolano ha fatto di nuovo visita al boss mafioso ed era attesa al capezzale anche la moglie di Calò. Il “cassiere della mafia” non è che uno dei tanti detenuti eccellenti che sono stati rinchiusi nel supercarcere di Ascoli. Il 27 aprile 1981, mentre ricopriva la carica di assessore regionale ai lavori pubblici in Campania, il democristiano Ciro Cirillo venne sequestrato a Torre del Greco dalle Brigate Rosse. Il suo rapimento si concluse dopo 89 giorni di prigionia. Dal carcere di Ascoli, il boss della camorra Raffaele Cutolo gestì la trattativa della liberazione, coinvolto dalla DC come mediatore con le Br, visto che diversi leader dell’organizzazione eversiva erano ristretti proprio nel carcere di Ascoli. Lo stesso Riina ha trascorso parecchi anni a Marino del Tronto, come anche Leoluca Bagarella, Gaspare Spatuzza o il più noto rapinatore d’Italia, Renato Vallanzasca. E come dimenticare Alì Agca, l’attentatore di Papa Giovanni Paolo II. Lettere: pensieri davanti al carcere… la forza delle madri di Marco Pozza Avvenire, 13 maggio 2012 Le contempli sotto la pensilina attonite e mute, coi loro fagotti di bucato profumato e qualche pacchetto di biscotti da recare oltre le sbarre. Senza trucchi o abiti ricercati, sotto il sole cocente d’agosto come sotto la nebbia padana d’inizio inverno. Quei figli che oggi stanno dietro le sbarre di un carcere sono usciti dal loro grembo: per il mondo sono delinquenti e briganti, per loro rimangono pur sempre figli da amare e custodire. Dietro le sbarre abitano i figli, davanti alle sbarre stazionano le loro madri, splendide donne capaci di rimettere in scena ogni primo mattino all’esterno delle carceri la riedizione di quella prima Madre sotto la croce. Stabat mater dolorosa: ieri, oggi e sempre. Le chiamano povere donne, di loro qualcuno s’intenerisce, qualche altro forse le prende sottilmente in giro: eppure non cambia nulla dentro quel cuore capace solo di amare a oltranza. Perché una cosa è il delitto, altra cosa è l’uomo che lo compie. Il primo va condannato, il secondo va amato senza giustificarlo. Anche in carcere si celebra la festa della mamma, di quelle splendide eroine che campeggiano statuarie fuori dalle sbarre per stringere una mano, carezzare la barba, baciare quel figlio del quale si prova evidente nostalgia. Le loro occhiaie stanche parlano di fatiche e lunghi viaggi, le loro rughe raccontano di notti insonni e pensieri vagabondi, nelle loro scarpe ci sono andate e ritorni senza più certezze. Sono donne speciali, le mamme dei carcerati, perché donne capaci di rimetterli al mondo due volte: la prima volta quando li fecero entrare in questo splendido palcoscenico dell’esistenza, la seconda volta quando, il giorno dopo un misfatto, si sono rimboccate le maniche e han trovato il coraggio di scendere pure loro negli inferi delle galere; per amare quei figli quando forse meno se lo meritavano. Loro hanno capito che è proprio quello il momento in cui hanno più bisogno. La geografia del Vangelo ambienta la vita di Maria tra Nazaret e Gerusalemme, tra la ferialità nascosta dei primi anni e la nostalgia di Risurrezione degli ultimi tre anni. Da quel giorno in ogni mamma abita l’inimitabile capacità di unire la quotidianità con l’eternità, il profumo della farina con le lacrime di nostalgia, la ricetta del minestrone con l’alfabeto della misericordia, lo sgranare la corona del rosario con il rimboccarsi le maniche in fronte a una cella. Gli uomini hanno paura delle donne: basta un loro sguardo per piegare delinquenti di vecchia data. Non è una questione di forza fisica, ma di forza del cuore perché la donna, a maggior ragione se madre, spinge il mondo un passo oltre le capacità dell’uomo. E gli uomini lo sanno perché Dio nel loro grembo ha deposto la custodia della vita fino al suo ritorno. Ecco perchè le mamme tremano ma non disperano, hanno paura ma non si rassegnano, piangono ma non soccombono. E se qualche volta danno l’impressione di scomparire dalla vita di un figlio è solo per farsi trovare più forti un attimo dopo, come i torrenti carsici che s’inabissano e improvvisi ritornano più lontano. Per vent’anni Emanuele, ergastolano costretto al regime del 41-bis, ha fatto i colloqui con la madre da dietro un vetro: nemmeno l’emozione di stringerla quella donna. Dopo 8.000 giorni di galera gli hanno tolto il 41bis e ha fatto il primo colloquio attorno ad un tavolino. Sono tre giorni che Emanuele non si lava il volto: non vuole perdere il profumo lasciato dalla madre sul suo collo mentre lo baciava. Dentro il ventre della galera è il profumo della mamma a tenere accesa la vita. Pavia: detenuto di 28 anni muore di tumore; la famiglia accusa “in carcere non l’hanno curato” di Anna Ghezzi La Provincia di Pavia, 13 maggio 2012 Dani Renati, detenuto al carcere di Torre del Gallo a Pavia per un cumulo di reati, dal furto di bicicletta al borseggio è morto di tumore a 28 anni, al San Matteo era arrivato all’inizio di aprile. E poi era tornato in carcere, prima di essere ricoverato di nuovo il 16. I genitori, Elsa e Antonio chiedono giustizia: “In carcere non l’hanno curato”, sostengono. Stanno cercando un avvocato, vogliono fare denuncia: “Vogliamo capire come sia possibile che nessuno si sia accorto della malattia prima di aprile”, spiegano al campo nomadi di via Bramante. Da Torre del Gallo dicono di aver fatto tutto il possibile, di aver caldeggiato il ricovero al San Matteo più volte. Ma al policlinico sono tranquilli: “Sono stati fatti subito tutti gli accertamenti ma è arrivato all’ospedale con metastasi in tutto il corpo e senza diagnosi. L’unica possibilità era la chemioterapia, non risolutiva. Dal 2009 fino al ricovero non risultano altri contatti con l’ospedale”. La famiglia di Dani ha ringraziato il San Matteo per la vicinanza di medici e infermieri. E le cornee del ragazzo sono state donate alla banca degli organi dell’ospedale pavese. Cosa è accaduto in carcere? Dani, detto Tito, è morto il 7 maggio in ospedale. Era in carcere da 22 mesi, il 25 aprile è stato scarcerato perché malato terminale per decisione del magistrato di sorveglianza e della Corte d’appello, come ha ricordato ieri il direttore di Torre del Gallo, Jolanda Vitale. I genitori sostengono che da quattro mesi avesse dolori lancinanti, solo sedati con antidolorifici. In realtà aveva diversi problemi di salute, era in cura dagli infettivologi di Torre del Gallo per problemi al fegato e altre patologie. Risulta che ad agosto 2011 i sanitari della casa circondariale avessero chiesto una biopsia del fegato. A marzo, secondo quanto risulta dagli stessi, era stato inviato in pronto soccorso per violenti dolori lombari e dimesso immediatamente con antidolorifici. All’inizio di aprile compare l’ittero. Il dirigente sanitario di Torre del Gallo Roberto Marino, psichiatra dell’Asl chiede il ricovero. Al San Matteo l’unico posto letto per carcerati è in chirurgia. Dani resta piantonato in ospedale per 10 giorni. Il 13 aprile è dimesso. Il policlinico. Al San Matteo Dani arriva il 3 aprile, “per una caduta -spiegano dalla fondazione - con forti dolori. È stato visitato da neurologi, internisti, oncologi, ematologi già al primo ricovero. È stato dimesso il 13 aprile, con una lettera per il direttore sanitario del carcere in cui si consigliava di farlo ricoverare nel reparto di medicina penitenziaria a Milano. L’invito è stato ignorato, l’hanno rinviato da noi il 16”. Dani sta male, non cammina. All’ospedale San Paolo di Milano, riferiscono dal carcere, dicono che per i pazienti ematologici anche detenuti si rivolgono al San Matteo, struttura d’eccellenza. Che però non ha un reparto di medicina penitenziaria, e in cui ospitare un detenuto significa distaccare agenti carcerari di Torre del Gallo. Già sotto organico. Ricoverare i detenuti. Roberto Marin, il direttore sanitario di Torre del Gallo assicura: “In carcere sono stati fatti tutti gli accertamenti possibili. Quando ha manifestato dolori, sono state fatte analisi che hanno dato esito negativo. Ha continuato a peggiorare, è stato fatto ricoverare al San Matteo. Inizialmente anche lì pensavano non ci fossero particolari patologie. Non era facile capire la gravità della malattia, ma i sanitari del carcere sono stati acuti nell’insistere sul ricovero, caldeggiato fortemente da loro: il magistrato di sorveglianza è stato da me informato sulla situazione. Avevamo chiesto due volte il ricovero ma il ragazzo era stato mandato indietro”. È la prassi? “Accade più spesso di quello che noi vorremmo - risponde Marino. Ci sono diversi casi clinici in cui noi lo chiediamo ma i medici dell’ospedale non lo ritengono necessario. Così li rinviamo più volte finché non viene deciso di ricoverarli: cerchiamo di dare standard sanitari elevati anche in carcere, facciamo screening diagnostici approfonditi perché i detenuti sono soggetti delicati, esposti a patologie, con diritti limitati. Ma c’è carenza oggettiva di informazioni per la famiglia, ne comprendo l’angoscia, il dubbio che non sia stato fatto quello che occorreva. Ben venga la denuncia, servirà ai familiari a capire com’è andata”. Riccardo Canevari, segretario dei Radicali pavesi, commenta: “Sarà bene chiarire perché il giovane era stato dimesso e perché il direttore sanitario del carcere ha rifiutato l’ipotesi del ricovero a Milano. Da qualche mese non facciamo visite in carcere perché non ci sono parlamentari disponibili ad accompagnarci, ma dall’ultima rilevazione sembra che a Pavia il trattamento sanitario in carcere sia accettabile per gli standard carcerari italiani. Ma quella dei ricoveri è effettivamente una difficoltà causata, in parte, anche dalle difficoltà che comporta per gli agenti di polizia penitenziaria”. Ancona: suicidi in carcere; Commissione Affari Istituzionali della Regione chiede un incontro con il Ministro www.vivereancona.it, 13 maggio 2012 La presidente della Commissione affari istituzionali Rosalba Ortenzi scrive ai Presidenti di Giunta e Consiglio affinché diano seguito a quanto previsto nella risoluzione di dicembre. “L’ennesimo suicidio di un detenuto e, a poche ore di distanza, un nuovo caso di autolesionismo, confermano la grave situazione in cui versano gli istituti penitenziari marchigiani. Nelle recenti visite a quelli di Ancona, Fermo ed Ascoli ho potuto verificare personalmente che non è più possibile rinviare interventi concreti e decisi, che forniscano la possibilità di ristabilire condizioni di vita accettabili per i detenuti e per la sicurezza dell’intero sistema penitenziario”. Lo ha detto il Presidente della Commissione regionale Affari Istituzionali, Rosalba Ortenzi, subito dopo aver appreso la notizia di quanto verificatosi presso il carcere di Montacuto. Già promotrice di una risoluzione approvata dal Consiglio regionale nel dicembre scorso, la Ortenzi torna a chiedere l’impegno dei Presidenti della Giunta, Gian Mario Spacca, e dell’Assemblea legislativa, Vittoriano Solazzi, perché si rendano promotori al più presto di un incontro istituzionale con il Ministro della Giustizia e con il Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Lo fa attraverso una lettera nell’ambito della quale vengono ribadite tutte le preoccupazioni per una situazione diventata ormai molto pesante. “Un incontro - stigmatizza - non più rinviabile. Le condizioni di vita all’interno delle celle sono al limite della sopportabilità; le attività trattamentali riguardano solo una parte marginale della popolazione detenuta, il personale di sorveglianza risulta gravemente carente, come carente è il servizio sanitario, l’assistenza psicologica e sociale. Così vengono calpestati i diritti dei detenuti e viene meno anche la sicurezza necessaria”. Aversa (Ce): nell’Opg internati ultraottantenni, non possono uscire perché nessuno li accoglie di Enzo Ciaccio www.lettera43.it, 13 maggio 2012 Michele Schiano di Zenise, a 84 anni nell’ospedale psichiatrico perché nessuno può accoglierlo. È rinchiuso nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa perché colpevole di non aver rispettato alcuni obblighi di legge mentre era in libertà vigilata per un’accusa di presunte molestie. E poco importa se il temibile detenuto ha 84 anni, non si regge in piedi, balbetta e accusarlo di “pericolosità sociale” appare a molti un paradosso, oltre che una sfida al buon senso. È in una cella con altri tre, se ne sta sempre in disparte, solitario e sognante come un bambino messo in castigo: nessuno lo vuole né lo cerca, è un sepolto vivo nel lager più antico d’Italia (il Filippo Saporito di Aversa ingoia stracci di esistenza dal 1876), mescolato a centinaia di altri derelitti, nel silenzio stravolto della comunità e dei familiari che vivono sull’isola di Procida e non appaiono in grado di sollevare obiezioni. Triglie, alici e gamberi, giù dal letto quando è ancora buio, con i denti battono per il freddo: Michele Schiano di Zenise, classe 1928, ha fatto il pescatore per tutta la vita. Un mestiere che impone sacrifici, pelle da tartaruga, ritmi biologici da sballo. E spesso manda fuori di testa. Il caso di Michele Schiano, trattenuto in manicomio a 84 anni, è stato rilevato dai dirigenti di Psichiatria democratica, la società fondata da Franco Basaglia, che hanno iniziato un tour di ispezioni ai sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani che dal marzo 2013 saranno smantellati per legge dopo decenni di angherie e battaglie civili. Il segretario nazionale di Psichiatria democratica (Pd), Emilio Lupo, insieme ai dirigenti Salvatore Di Fede, Antonio Morlicchio e Giuseppe Ortano, hanno rilevato “carenze igienico sanitarie nelle disadorne stanze dei degenti” nonché l’assenza “di progetti personalizzati per ciascun utente che preparino il trasferimento in strutture convenzionate” e che “il tremendo regime da ergastolo bianco, cioè di degenti costretti a subire continue proroghe di detenzione sine die, sebbene sia stata completata l’espiazione della pena inflitta, riguarda perfino cittadini ultra70enni”, sulla cui pericolosità sociale “c’è da esprimere seri dubbi”. Lupo (Pd): i detenuti ultra-70enni di Aversa sono un obbrobrio giuridico Il caso di Michele Schiano di Zenise non è unico nei manicomi criminali italiani: “Ad Aversa”, racconta a Lettera43.it Anna Gioia, insegnante, che da anni opera al fianco dei degenti, “sono attualmente detenuti ospiti molto anziani che non vengono dimessi solo perché all’esterno non c’è nessuno disposto ad accoglierli. È un’ingiustizia, irrisolvibile finché non verrà rivista la legge sulla pericolosità sociale: chiunque commetta un reato ha diritto al processo e non a essere sepolto vivo con la scusa dell’incapacità a intendere”. Il segretario Pd Emilio Lupo, psichiatra, spiega a Lettera43.it: “Ci battiamo perché, una volta chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari, gli ospiti non più socialmente pericolosi vengano accolti dai Dipartimenti di salute mentale in piccole comunità di accoglienza. Stiamo all’erta, perché già si segnalano trasferimenti in blocco di pazienti verso strutture detentive private”. Il 26 maggio 2012, ad Aversa, è prevista la visita del senatore del Pd Ignazio Marino, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale: “Speriamo che sappia prendere atto che fra le tante brutture c’è anche quella dei cosiddetti nonnini da manicomio, i detenuti ultra-70enni che - qualsiasi reato abbiano commesso - rappresentano un imperdonabile obbrobrio giuridico”. E Domenico Ciruzzi, avvocato e presidente della Camera penale di Napoli, aggiunge: “Spesso noi penalisti ci chiediamo inquieti se sia opportuno o no proporre per il nostro assistito l’ipotesi dell’ospedale psichiatrico in alternativa al carcere. Il rischio è di immergersi in un buco nero senza fine che, di proroga in proroga, lo terrà segregato a vita senza motivo se non l’assenza di strutture di accoglienza”. Ferraro: non c’è motivo per tenerli rinchiusi, l’85% potrebbe uscire subito Racconta Egisto R., paramedico, con amarezza: “Come Michele Schiano di Zenise, vegetano negli ospedali-prigione italiani decine di cittadini vittime di una giustizia che in troppi casi non contempla il diritto al reinserimento e si adagia nel barbaro concetto del fine pena mai”. E aggiunge, citando nomi e date: “A volte, succede che le famiglie accettino di riprendersi in casa il matto, ma solo per derubarlo della pensione, svuotargli il conto corrente e ri-seppellirlo nel lager autorizzato”. C’è chi ricorda la storia di Vito De Rosa, un detenuto ormai anziano che era rimasto per 54 anni, un lasso di tempo inconcepibile, rinchiuso in una cella al Sant’Eframo di Napoli, manicomio giudiziario da brividi, dimenticato dal mondo. L’uomo, che da ragazzo aveva ammazzato il padre che lo picchiava, fu graziato dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi grazie a qualche cronista che per mesi ne aveva denunciato l’ingiusta detenzione. Una storia diversa ma simile, la sua, a quella di Michele Schiano di Zenise, l’84enne segregato al Filippo Saporito di Aversa dove negli anni si sono uccisi due direttori, accusati di nefandezze e post mortem riconosciuti innocenti. Su un muro c’è scritto: “Se vuoi costruire una nave, insegna la nostalgia del mare aperto”. In giardino hanno messo le papere da allevare, un tentativo di umanizzare l’orrore. I dirigenti non parlano. Sui prigionieri Adolfo Ferraro, ex direttore del manicomio giudiziario di Aversa, ha detto: “Non c’è motivo per tenerli rinchiusi, l’85% potrebbe uscire subito. Invece, ci comportiamo come il branco fa con il lupo malato: se lo portano dietro, ma solo per scaricare su di lui rabbia, rancori e frustrazione”. Sulmona (Aq): le Camere penali e “l’ergastolo bianco” degli internati in Casa di Lavoro Il Centro, 13 maggio 2012 “Ci troviamo di fronte a una situazione di palese illegalità perché gli internati ai quali dovrebbe essere garantito un lavoro, si trovano ad affrontare un ulteriore periodo di detenzione pur non avendo commesso alcun reato”. La denuncia arriva dal presidente dell’Unione delle Camere penali, Alessandro Di Federicis, al termine della visita istituzionale effettuata ieri al carcere di Sulmona. Una sorta di ergastolo bianco al quale sono costrette persone che al momento non vedono nessun futuro. Una situazione ad alto rischio sia per gli internati che per gli agenti di polizia penitenziaria. “Quella di Sulmona è la più importante Casa lavoro d’Italia”, sottolinea Di Federicis, “ma non c’è nessun progetto rieducativo perché manca il lavoro e alla fine gli internati sono detenuti come gli altri, con tutti i rischi che ne conseguono in termini di sicurezza. Non a caso il carcere di Sulmona viene definito il carcere dei suicidi”. Nei 250 posti a disposizione, a Sulmona sono detenute 440 persone, di cui 198 internati, 167 dell’alta sicurezza, 14 in regime di 41bis e 70 in media sicurezza. Gli agenti in pianta organica dovrebbero essere 329 (per 250 detenuti), ma in realtà sono 260 (per 440 detenuti). Gli educatori dovrebbero essere 9 (sempre su 250 detenuti) e sono invece solo tre. “Per non parlare del servizio sanitario”, hanno continuato gli avvocati, “sei stanze di fatto vuote. Abbiamo apprezzato lo sforzo della direzione nell’avviare programmi sperimentali e laboratori che, però, anche per la non sistematicità dei fondi assegnati, rischiano di finire prima che si raccolgano i frutti”. (c.l.) Roma: Alemanno visita Associazione “Isola dell’Amore Fraterno” per reinserimento ex detenuti Dire, 13 maggio 2012 Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, e il presidente del Municipio XII, Pasquale Calzetta, hanno visitato questa mattina l’Associazione “Isola dell’Amore Fraterno”, che accoglie detenuti, ex detenuti e persone in difficoltà, soprattutto per reati legati alla droga. “Questo - ha detto Alemanno - è un luogo di solidarietà molto importante che è cresciuto sempre con forze proprie, senza sostegno da parte delle istituzioni. Noi vogliamo sostenerlo e ci impegneremo innanzitutto per l’abbattimento delle barriere architettoniche. Dobbiamo vedere come collaborare lanciando nuovi progetti, anche perché emerge sempre più chiaramente l’esigenza del reinserimento degli ex detenuti e di chi sta ancora scontando una pena”. “È lo stesso principio - ha concluso - che ci ha portato ad utilizzare i detenuti nelle attività di restauro nei luoghi archeologici”. La casa, aperta nel 1956, accoglie attualmente 25 ospiti (prevalentemente stranieri), ma è in grado di ospitarne fino a 55. “Il magistrato, a seconda del loro status giuridico, decide se concedere o meno dei benefici ai richiedenti - ha spiegato il direttore della struttura, Claudio Guerrini - che qui svolgono principalmente attività di facchinaggio, manutenzione e pulizie. Dal momento che ci sono state delle fughe, abbiamo installato anche un sistema di telecamere di sorveglianza”. Un’oasi d’amore e di libertà per i detenuti (Il Tempo) È l’Isola dell’amore fraterno, un luogo dove i detenuti e gli ex-carcerati respirano un’aria diversa fatta non solo di natura ma anche di sudore e lavoro: da giardinieri a facchini, da imbianchini ad addetti alle pulizie. A gestire la struttura, che offre aiuto agli ex-galeotti, è l’associazione onlus Iaf, organizzazione di volontariato cattolica: “Questa struttura riesce ad ospitare 55 persone - ha spiegato il direttore Claudio Guerrini. Al momento ce ne sono 25. Molti di loro sono in custodia cautelare e stanno espiando la loro pena qui. C’è una prevalenza di stranieri rispetto agli italiani. Cosa fanno? Si rendono utili e lavorano sia qui per mandare avanti la casa che all’esterno: abbiamo una cooperativa che si occupa di servizi di facchinaggio, manutenzione del verde o pulizia di immobili”. La casa è dotata di un sistema di videosorveglianza con telecamere ed è soggetta spesso ai controlli da parte di carabinieri e polizia. Ma nonostante ciò non sono mancati episodi di fuga: “Qualcuno ogni tanto è scappato - ha raccontato Guerrini - Quando succede a noi non resta che avvertire le autorità ed informare i magistrati su quando è accaduto. Ma se c’è qualcuno che se ne va ci sono altri che restano. Alcuni dei detenuti, una volta scontata la loro pena, sono rimasti a collaborare con noi”. Dal 1996 al 2011 sono state ospitate 2.129 persone con una media di 125 al giorno tra detenuti ed ex. Treviso: progetto “Diamoci dentro”, una cordata di associazioni per reinserire i giovani detenuti La Tribuna di Treviso, 13 maggio 2012 Mancano solo una decina di giorni perché il progetto sia ufficializzato, ma ormai i lavori sono già partiti. “Diamoci dentro”, questo l’imperativo che dà il titolo al progetto in cui la Cooperativa Alternativa di Vascon ha deciso di investire i 90mila euro vinti dal bando di concorso “La vita non attende” promosso dal Centro Servizi per il Volontariato della Provincia di Treviso. Una somma volta a finanziare percorsi di promozione e reinserimento di giovani esclusi dal mondo sociale e della scuola, che la cooperativa Alternativa ha scelto di impegnare in un progetto che prestasse particolare attenzione ai giovani detenuti nelle due carceri di Treviso: attualmente 120 nella casa circondariale e altri 20 nell’Istituto Penale per Minori con meno di 29 anni. Nove le associazioni di volontariato che hanno unito le loro forze per dare vita al progetto: Possibili Alternative, B-Net, Ipsia, La Prima Pietra, Circolo, Legambiente Piavenire, Legambiente di Treviso, Associazione Culturale Islamica di Treviso, Per Ricominciare e Tonino Bello. Numerosi anche i partners che hanno contribuito, fra cui la Comunità Morialdo, la Caritas Tarvisina, il Centro per l’Impiego, l’Ulss 9 e la Camera di Commercio di Treviso. L’iniziativa ha durata biennale. I volontari attualmente sono un centinaio, ma il progetto conta di allargarsi. “Il punto di forza di questo progetto sta nella solidità di chi lo compone” spiega Igor de Pol, presidente dell’Associazione Possibili Alternative. L’iniziativa sarà inaugurata sabato 19 dalle 14 alle 19 con l’evento “Boot Camp” (“Campi di addestramento per i marines”) che sta ad indicare la collaborazione tra associazioni. Brescia: si è concluso il concorso letterario “Palla al piede”…. il carcere visto dai giovani studenti Brescia Oggi, 13 maggio 2012 L’angoscia del carcere, la voglia di ricominciare, la speranza di un futuro migliore: i ragazzi delle scuole superiori sono giovani e spesso non si sono ancora confrontati con queste tematiche, ma molti di loro hanno dimostrato di avere una spiccata sensibilità. La prova è il concorso letterario “Palla al piede”, organizzato dalle associazioni Carcere e territorio e Volca e diretto agli alunni delle scuole secondarie di secondo grado: ieri i vincitori sono stati premiati nella sala Piamarta di via San Faustino, in una cerimonia che ha aperto la tre giorni dedicata al mondo del volontariato in carcere. La condizione fondamentale per partecipare al concorso era che all’interno del testo ci fosse la parola “carcere”: e come hanno detto alcuni dei giurati presenti alla premiazione, i ragazzi sono stati capaci di declinare il concetto anche su loro stessi, raccontando storie personali e interpretando il termine anche da un punto di vista intimo, parlando del “carcere che c’è in ognuno di noi”. Il concorso, giunto alla sua seconda edizione, ha visto il numero dei partecipanti triplicarsi rispetto allo scorso anno: se nel 2011 i temi pervenuti erano venti, stavolta sono stati 60 i ragazzi che hanno recapitato i propri elaborati. A vincere è stato Matteo Fedele dell’istituto Santa Maria degli Angeli, con un racconto dal titolo “L’insegna azzurra”; dietro di lui si sono piazzati Jessica Pasquariello della 5G del Calini con “Il carcere della vita” e Bouadili Redouane del Tartaglia (ma recluso a Canton Mombello), con un testo senza titolo. Il Premio web è andato a Greta Sommer, che con il suo “Fiocchi di neve” ha sbaragliato la concorrenza. La premiazione è stata la prima di una serie di iniziative che coinvolgeranno la città, avvicinando il mondo del carcere ai cittadini. Oggi, dalle 9 alle 12 nella sala Piamarta, si terrà un convegno dal titolo “Criticità e buone prassi: verso la carta bresciana dell’inclusione post detentiva”, cui parteciperanno esponenti del mondo carcerario, istituzionale e del volontariato. Lo scopo, come ha spiegato il presidente di Carcere e territorio, Carlo Alberto Romano, è “trovare un accordo tra tutti gli attori in gioco per attuare buone pratiche di reinserimento, e non lasciare solo chi ha scontato la sua pena”. Sempre oggi, ma in piazza Mercato, dalle 15 alle 20 (con replica domani dalle 10 alle 18) ci sarà un mercatino per promuovere l’economia carceraria, accompagnata dalla mostra di alcune opere di un detenuto e dalla riproduzione di una cella, in cui si potrà entrare e verificare di persona a quali condizioni siano costretti i detenuti. Alle 16.30 sempre in piazza Mercato si terrà anche il dibattito “Lavoro in carcere, facciamo il punto?”. Verona: un incontro con i volontari di “Microcosmo”, per riflettere sul mondo del carcere L’Arena, 13 maggio 2012 Solidale e commovente l’incontro organizzato da Microcosmo, il gruppo d volontariato del carcere di Verona, nella sala polifunzionale di Lugo per sostenere i progetti rieducativi dell’associazione. “È la prima volta che parliamo di carcere in un contesto di convivialità”, ha detto Paola Tacchella, insegnante e responsabile di Microcosmo, “e abbiamo trovato molta attenzione e collaborazione dalle associazioni del paese, alpini, comitati festeggiamenti di Lugo e Corso, parrocchia e gruppi collegati. Ci siamo proposti di far dialogare due mondi separati e abbiamo sotto gli occhi la soddisfazione di vedere che il messaggio ha funzionato”. Ha rotto il ghiaccio Rossano, raccontando la sua sofferenza degli ultimi quattro anni di carcere a Montorio, dopo aver sperimentato il Campone: “Ce l’avevo con il mondo ma i volontari di Microcosmo mi hanno fatto riflettere: ho preso la licenza di terza media, ho fatto un sacco di cose positive, ho incontrato i ragazzi delle scuole e riflettuto sui miei errori. Non ho più nulla di quello che avevo, ma ho ritrovato quello che avevo perso”, ha detto stringendo la mano della figlia Giorgia. Lei, piccola grande donna, di appena 9 anni quando il papà fu incarcerato e oggi adolescente, ha raccontato tra le lacrime le paure di quei mesi, il giudizio della gente, la solitudine di una famiglia smembrata, la fatica dei colloqui, la gioia dell’attesa e il dolore del distacco ogni volta: “Mi è pesato non averlo vicino sempre, non potergli parlare quando ero arrabbiata con tutti e sapevo di poter contare su di lui ma non c’era, uscire di scuola e non trovarlo”. La sofferenza della detenzione, che aumenta con il sovraffollamento, la privazione della libertà, è stata ben descritta da Elonari Rida, marocchino, da cinque anni a Montorio: “Ho sbagliato ed è giusto che paghi, ma con umanità. Si vive in 4-5 persone in una stanza di 3 metri per 4 con la cucina dentro il bagno, un’ora d’aria al mattino e un’ora e mezzo al pomeriggio in un cortile poco più grande della cella e cementato, un forno d’estate”. “È duro il carcere ma anche la convivenza con gli altri, andar d’accordo fra gruppi con mentalità e costumi diversi”, ha aggiunto Roberto che ora lavorando può godere del regime di semilibertà. Elena, rumena di 26 anni, da 10 in Italia, ne ha passati quasi la metà in carcere: “dove è molto difficile trascorrere il tempo e rischi la depressione. Poche donne lavorano e mancano le condizioni minime per una convivenza civile: d’estate si soffoca”. Il parroco don Matteo, esperienza di cappellano a Rebibbia per cinque anni, ha voluto che ci fossero due gruppi di adolescenti della parrocchia ad ascoltare queste testimonianze e il cappellano di Montorio, don Maurizio che con l’ottuagenaria suor Stella segue i detenuti, ha fornito i dati del sovraffollamento del carcere di Verona: “Ci sono 940 detenuti; nell’arco dell’anno ne passano in media tremila in un posto dove non potrebbero starcene più di 400. Sono 780 uomini e 60 donne: il 70 per cento stranieri di 49 nazioni diverse, veronesi il 15 per cento del totale”. “Solo 187 sono detenuti con sentenza definitiva, la maggior parte è in attesa di giudizio ed è quindi sbagliato dire che nel carcere ci siano delinquenti”, ha precisato Paola Tacchella, raccontando con Dannia Pavan il lavoro di Microcosmo: “Offriamo ai detenuti l’occasione per riflettere, coinvolgendoli in progetti di ri-orientamento della loro vita: il carcere non deve essere solo espiazione di una colpa, deve promuovere il cambiamento se vuole assolvere in pieno il suo compito: i detenuti ci dicono che se non ci avessero incontrati, mai avrebbero avuto occasione di trovare qualcosa di buono anche in se stessi”. Invece con il lavoro preventivo fatto nelle scuole attraverso il progetto “Vedo, sento, parlo”, mirato alla legalità e con quello che si sta facendo in carcere come i filmati sull’attività di panificazione e il progetto cinofilo hanno mostrato, si può credere che il cambiamento nelle istituzioni e nelle persone sia possibile. Nuoro: Croce rossa in festa con i detenuti della colonia penale di Mamone La Nuova Sardegna, 13 maggio 2012 Si celebra domenica in piazza Vittorio Emanuele la festa della Croce Rossa nuorese, insieme all’associazione Icaro di Bitti e ai detenuti della colonia penale di Mamone. Lo scopo è quello di coinvolgere tutta la comunità di appartenenza per poter acquistare l’attrezzatura necessaria per realizzare le attività di protezione civile. Perché è fondamentale essere pronti ad affrontare le situazioni di emergenza con personale addestrato e qualificato, avendo però a disposizione un’attrezzatura adeguata, in modo da mettere in condizioni gli operatori di svolgere i vari compiti con competenza ed efficacia. Da tenere presente che in occasione di incendi, alluvioni, frane, allagamenti e le altre catastrofi naturali, la Croce rossa, insieme agli operatori degli altri settori, è sempre in prima fila con i propri uomini, pronta a fronteggiare le emergenze con le attrezzature che oggi però sono ancora insufficienti. Tra gli obiettivi strategici dell’organizzazione provinciale quello del coinvolgimento e la partecipazione degli attori sociali: il Comune, la Provincia e il carcere, con l’intento di favorire le occasioni di prossimità per cercare di sviluppare la cultura della reciprocità e di una rete di solidarietà per affrontare insieme i costi delle emergenze, e nella fattispecie l’acquisto della attrezzature di protezione civile. Dunque, oltre alle peculiari attività della Croce rossa, è prevista la raccolta di fondi per rispondere adeguatamente in caso di specifiche emergenze. Domenica, per la prima edizione nuorese della festa Cri, saranno presenti anche i detenuti di Mamone e i volontari di Icaro, per la maggior parte stranieri, che molto spesso fruiscono di permessi collettivi per partecipare alle varie opportunità sociali offerte dalle comunità del Nuorese. L’altro obiettivo è quello di creare una banca dati dei volontari e dei partecipanti alla manifestazione, al fine di mantenere i legami con i donatori e con i volontari, per essere pronti in futuro ad eventuali chiamate. Saranno presenti 25 “sorelle Cri”, di cui 7 infermiere volontarie e 18 allieve, che effettueranno il controllo dello stato di salute dei cittadini. Libri: “Le voci del silenzio”, di Fabio Polese e Federico Cenci… gli italiani detenuti all’estero e dimenticati di Leonardo Varasano www.ilsitodiperugia.it, 13 maggio 2012 È recentemente uscito in libreria “Le voci del silenzio - Storie di italiani detenuti all’estero”, scritto per Eclettica Edizioni dai giovani free-lance Fabio Polese e Federico Cenci, perugino il primo e romano il secondo. Il Sito di Perugia li ha incontrati per porgli qualche domanda su questo argomento, estremamente attuale e poco approfondito dagli organi d’informazione. Come avete avuto l’idea di scrivere questo libro-inchiesta sui detenuti italiani all’estero? L’interesse è nato dopo esserci accorti che ad alcune disavventure giudiziarie, in cui erano incappati nostri connazionali all’estero, non veniva dedicato dai maggiori quotidiani più di un misero trafiletto. Ci sembrava piuttosto ingeneroso verso di loro e verso i fruitori dell’informazione, soprattutto a fronte della sovraesposizione mediatica di cui invece godono abitualmente vicende a nostro avviso di minore interesse sociale. È così che abbiamo provato a colmare noi questo vuoto, iniziandoci ad occupare del tema, in origine senza lo scopo di ricavarne un libro ma esclusivamente per “passione giornalistica”. In un secondo momento, una volta effettuato un certo numero di inchieste, ci è sembrato opportuno raccoglierle in un libro, anche per consentirgli una maggiore eco attraverso la diffusione editoriale. Avete avuto difficoltà nel reperire informazioni per la stesura del libro? Diciamo subito che è un argomento abbastanza scomodo, qualche difficoltà l’abbiamo trovata. Alcuni familiari che prima erano pronti a raccontarci la loro storia sono spariti nel nulla. Altri li stiamo ancora aspettando. Con altri, invece, siamo in stretto contatto per seguire le novità dei loro casi. Nei media di massa - come dicevamo prima - questo genere di argomento non ha molta esposizione, dunque abbiamo trovato poco e nulla. In compenso, abbiamo reperito molto materiale grazie a gruppi virtuali e siti che sono stati creati a sostegno dei detenuti. E grazie al presidente della Onlus Prigionieri del Silenzio, Katia Anedda, che ci ha fornito molte cose che ci occorrevano per indagare i casi, oltre a diversi contatti. Quali sono le maggiori difficoltà per gli italiani imprigionati oltreconfine? Uno dei principali problemi è sicuramente legato alla gravosa spesa economica che i familiari dei detenuti sono costretti ad affrontare. C’è il mantenimento del detenuto, le spese legali sono elevate. Poi, ovviamente, c’è un problema di comunicazione. Non solo linguistica (alcuni Stati non forniscono un interprete in sede processuale), ma anche dovuta al fatto che, molto spesso, la cultura del Paese straniero è completamente diversa dalla nostra. Secondo le testimonianze che abbiamo raccolto, inoltre, mancherebbe un concreto appoggio da parte delle Istituzioni sia nei luoghi di detenzione sia in Italia. Ci sono associazioni che cercano di dare risposte concrete a questi problemi? Esiste la Onlus “Prigionieri del Silenzio”, cui abbiamo accennato prima. È stata costituita nel febbraio 2008 e si occupa concretamente della tutela dei diritti umani degli italiani detenuti all’estero. Sino ad oggi si è occupata di un centinaio di casi, facendo proposte agli enti governativi e dando suggerimenti per un corretto supporto alle famiglie. Purtroppo - come ci hanno spiegato nell’intervista che trovate nel libro - anche loro debbono scontrarsi con difficoltà talvolta davvero preclusive. Il caso che vi ha più colpito? Ogni storia tra quelle da noi trattate possiede aspetti toccanti. Non può non lasciare oltremisura sgomenti, tuttavia, la storia di Mariano Pasqualin. Un ragazzo di Vicenza arrestato per traffico di stupefacenti a Santo Domingo, in una cui galera ha trovato poi la morte in circostanze alquanto sospette. Sua sorella Ornella ci ha trasmesso una grande forza d’animo, ma anche il dolore lacerante che ha colpito tutta la loro famiglia. A Perugia, dove si può trovare il libro? Il libro si può trovare alla libreria Feltrinelli. In ogni caso, è possibile richiederlo direttamente alla casa editrice alla mail: info@ecletticaedizioni.com. Inoltre potete contattarci direttamente sul nostro sito web www.levocidelsilenzio.com, dove è possibile anche segnalare la vostra storia come italiani detenuti all’estero o quelle di cui siete a conoscenza. Torino: Radio Ferrante sul Web, in onda voci e sogni dei giovani reclusi La Repubblica, 13 maggio 2012 Senti la voce ed è quella di un ragazzo che trasmette i desideri e le incertezze dell’adolescenza. Senti la sua voce e non immagini che quel ragazzo vive in una stanza con le sbarre alle finestre assieme ad altri che come lui sono inciampati nell’illegalità e ne stanno pagando le conseguenze. Invece è proprio questo che emoziona chi ascolta Radio Ferrante, la neonata web radio gestita dai giovani reclusi del carcere minorile Ferrante Aporti, di Torino. “Voglio farvi capire cos’è la vera libertà e non capirlo quando è troppo tardi”, dice il conduttore nella prima puntata. Per il momento sul sito www.radioferrante.it ci sono tre episodi in cui i ragazzi parlano di sé e del mondo, della nostalgia della fidanzatina e di come fare il ladro faccia guadagnare quanto un avvocato o di quanto possa essere utile tra gli zingari comperare la propria moglie. Poi ci sono gli ospiti da intervistare: l’infermiera, il maestro, l’educatore... E naturalmente la selezione musicale, con molti brani etnici, dai classici arabi all’hip hop romeno. La prima ascoltatrice di Radio Ferrante è la direttrice del carcere, Gabriella Picco: “Con la radio riusciamo ad abbattere il muro che separa questi ragazzi dal mondo esterno. Sono giovani che vengono considerati sempre diversi dagli altri, invece sono più uguali di quanto non si immagini”. L’idea di creare una radio era nata quando fu realizzato dai ragazzi del Ferrante Aporti un audio-documentario assieme allo scrittore Fabio Geda. Da quel seme è oggi nata la web radio, realizzata attraverso il progetto Docusound, in collaborazione con l’Unione Ciechi, il consiglio regionale del Piemonte e il finanziamento della Fondazione Compagnia di San Paolo. Sono una trentina, al momento, i ragazzi tra i 16 e i 20 anni detenuti del Ferrante Aporti. Ci stanno in media un paio di mesi, prima di essere inseriti in percorsi alternativi di reinserimento della società. “Il periodo da noi vorremmo che fosse una pausa di riflessione su quanto commesso e sul futuro, un periodo per studiare e per fare cose che li facciano maturare, coma la radio - spiega la direttrice. A volte mi fanno arrabbiare, come tutti gli adolescenti, ma quando sento quelle voci che parlano di sé e della libertà che hanno perso mi fanno davvero emozionare”. Droghe: Radicali; la legge Fini-Giovanardi ha dato una casa a tanti giovani… la galera! Notizie Radicali, 13 maggio 2012 Appuntamento antiproibizionista per sabato 12 maggio e domenica 13 maggio, a Napoli in Piazza del Gesù. Nel 1993 i cittadini italiani abrogarono con un referendum le sanzioni penali per i consumatori di droga. Lo slogan allora proposto dal Coordinamento Radicale Antiproibizionista fu: “La legge sulla droga ha dato una casa a tanti giovani: la galera”. Da quel referendum sono passati quasi 19 anni ma la volontà dei cittadini è stata annullata dalla partitocrazia. Ad oggi oltre 880mila persone sono implicate in procedimenti amministrativi per possesso di droga e sui 67mila detenuti totali, 28mila sono carcerati per droga. Il mercato illegale è in continua crescita garantendo alla criminalità organizzata un giro d’affari annuo stimato in almeno 24 miliardi di euro l’anno solo in Italia. Ne sono coinvolti 250mila piccoli spacciatori e 4milioni di consumatori abituali. Basta con i Cucchi, gli Aldovrandi, i Bianzino, le patenti ritirate, le umiliazioni e le visite degradanti al Sert. È ora di piantarla! Questo week-end l’associazione radicale “Per la Grande Napoli” terrà tavoli di raccolta firme sulla petizione al Parlamento per sostenere la proposta di legge n. 2641 (Bernardini e altri) per la depenalizzazione della coltivazione domestica di piante dalle quali possono essere estratte sostanze stupefacenti o psicotrope, in vista di un nuovo referendum antiproibizionista, che partirà dopo l’estate. India: marò italiani, il tribunale nega la libertà su cauzione di Giovanni Trotta Il Secolo d’Italia, 13 maggio 2012 Cattive notizie per i nostri marò in carcere dal 19 febbraio scorso in India. Ieri il giudice istruttore di Kollam, nello Stato indiano del Kerala, ha esteso la carcerazione preventiva per i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone di altri 14 giorni, ossia fino al 25 maggio. Inoltre il tribunale ha respinto la richiesta di libertà su cauzione La domanda è stata respinta dal giudice che sta istruendo il processo a carico dei due fucilieri di Marina accusati di aver ucciso due pescatori lo scorso 15 febbraio. Subito dopo la pronuncia, il team legale dei due marò ha annunciato di presentare un ricorso contro la decisione a un tribunale di appello. “La domanda di ricorso sarà presentata nella prima giornata utile della prossima settimana”, ha precisato una fonte che segue la vicenda. Latorre e Girone, attualmente detenuti nel carcere di Trivandrum, erano tornati al tribunale per la scadenza dei termini di carcerazione. L’ultima estensione era stata disposta lo scorso 30 aprile. La richiesta della libertà dietro cauzione in realtà era stata resa possibile da una recente ordinanza della Corte Suprema di Nuova Delhi, in cui si precisava che l’esistenza di un ricorso dell’Italia per incostituzionalità dell’arresto dei marò presso la stessa Corte “non preclude la possibilità di una loro richiesta di libertà dietro cauzione”. Purtroppo questa speranza è stata frustrata dalla corte. In realtà, secondo fonti che seguono da vicino le udienze, per una sorta di vincolo procedurale il giudice istruttore di Kollam non aveva i poteri reali per concedere la libertà su cauzione ai due marò. La richiesta del pool legale italiano è quindi stata respinta per ragioni di competenza, senza che il magistrato entrasse nel merito. Ma ora si attende che il gruppo di indagini speciali (Sit) della polizia del Kerala presenti i capi di accusa nei confronti di marò. E hanno una scadenza più vicina del 25 maggio, il 19, quando scadranno i tre mesi limite massimo della detenzione provvisoria. Ora la polizia è chiamata con urgenza alla chiusura delle indagini. Sulla vicenda è intervenuto l’europarlamentare Carlo Fidanza, sostenitore al parlamento di Strasburgo, insieme con Roberta Angelini di un emendamento che dà ragione all’Italia: “Il conflitto di competenze esistente tra i diversi organi della giustizia indiana ormai sembra diventata una palude A forza di rinvìi e rimpalli di responsabilità - ha detto Fidanza - il diritto internazionale viene violentato, Serve un’iniziativa politica forte, col sostegno dell’Europa”. E in Italia non si ferma la solidarietà ai nostri due soldati: l’Associazione Nazionale alpini ieri ha sfilato a Bolzano con uno striscione “gli alpini a fianco dei nostri Marò”. De Mistura torna in India, pressing per il rilascio dei militari italiani Proseguono le iniziative in merito alla vicenda dei due marò italiani (Massimiliano Latorre e Salvatore Girone) fermati in India con l'accusa di aver ucciso due pescatori nel corso di un'azione antipirateria. Il sottosegretario agli Esteri, Staffan De Mistura, sarà in India "il 15 o il 16 maggio per continuare a premere perché i nostri marò prima cambino localizzazione, visto che sono in una prigione anche se attenuata, e poi perché tornino a casa". Lo ha annunciato lo stesso De Mistura, a margine dell'inaugurazione del padiglione dell'Italia all'Expo di Yeosu, in Corea del sud. "Il sistema giudiziario indiano è complesso e lungo", ha aggiunto il sottosegretario. Di supporto alla visita di De Mistura, ci sarà anche una missione di parlamentari italiani in Kerala, dove Latorre e Girono sono detenuti. "Concorderemo con il sottosegretario la visita ai marò di una delegazione di parlamentari di tutti i gruppi politici", ha reso noto Domenico Gramazio (Pdl), promotore della missione parlamentare. "Ho ricevuto già l'adesione di oltre venti parlamentari che sosterranno personalmente tutte le spese di viaggio e soggiorno. A parte l'ottimo lavoro di De Mistura, mi sembra che il basso profilo tenuto dal governo non sia stato concludente perché si rinvia continuamente e si arriva a una situazione che è vergognosa sotto tutti i punti di vista". Israele: sciopero della fame dei detenuti palestinesi, possibile soluzione Ansa, 13 maggio 2012 Le centinaia di detenuti palestinesi che da settimane sono impegnati in uno sciopero della fame a oltranza in prigioni israeliane potrebbero mettere fine a breve alla loro protesta in seguito ad una serie di concessioni da parte di Israele sulle loro rivendicazioni. Lo hanno annunciato Amin Shoman, capo dell’Alto comitato per i detenuti palestinesi e un responsabile dell’Associazione dei detenuti palestinesi. Israele “nelle prossime ore” dovrebbe dare alcune risposte alle rivendicazioni delle centinaia di prigionieri in sciopero della fame. I detenuti chiedono l’abolizione dell’isolamento e della detenzione amministrativa, che permette l’incarceramento senza incriminazione e senza giudizio per periodi di sei mesi rinnovabile a tempo indefinito; l’autorizzazione a ricevere visite da parte dei detenuti originari di Gaza. Shoman ha detto di ritenere che i servizi penitenziari israeliani faciliteranno le visite dei familiari da Gaza, autorizzeranno i detenuti a riprendere i loro studi e toglieranno dall’isolamento 17 di loro. Due dei prigionieri, ha aggiunto, sono già stati tolti dall’isolamento ieri. Turchia: rilasciati due giornalisti detenuti in Siria, grazie alla mediazione dell’Iran Ansa, 13 maggio 2012 Il capo della diplomazia turca, Ahmet Davutoglu, ha annunciato il rilascio di due giornalisti turchi incarcerati in Siria per due mesi. Il rilascio, secondo quanto reso noto dal ministro, è stato possibile grazie alla mediazione dell’Iran. “Ho appena parlato con il ministro iraniano degli Affari esteri Ali Akbar Salehi - ha detto Davutoglu. I nostri due giornalisti, Adem Ozkose e Hamit Coskun, sono attualmente in viaggio per Teheran, dove dovrebbero arrivare a breve”. I due reporter, arrivati in Siria all’inizio di marzo per realizzare un documentario sulla situazione nel Paese, sono stati visti l’ultima volta il 9 marzo nei pressi della roccaforte ribelle di Idleb (nord-ovest), vicino al confine turco.