Giustizia: la pena di morte in Italia di Vittorio Zucconi La Repubblica, 11 maggio 2012 Premessa per evitare equivoci. Ogni persona che arriva alla decisione di togliersi la vita merita la nostra pietà umana, quali che siano le sue ragioni e la sua storia. Ma perché le centinaia di detenuti, cioè di individui affidati alla nostra custodia, ripeto, custodia, detenuti in carcere che si uccidono e magari neppure entrano nelle statistiche per cavilli formali (non è morto in cella, ma in ospedale a causa del trauma riportato nel tentativo di uccidersi, per esempio) non provocano brividi di sdegno o di attenzione e non increspano spesso nemmeno l’oceano della Rete? Forse perché sono esseri umani da buttare, escrementi sociali? Sono condannati, qualcuno naturalmente obietterà, anche se a volte si tratta di detenuti in attesa di giudizio dunque formalmente innocenti come ci ripetono tutti i manigoldi sorpresi con le mani nel bussolotto pubblico. Giusto, ma condannati a morte? O si ignorano perché non possono essere usati come carne da cannone televisivo e come munizioni politiche da sparare contro questo o quel partito politico, essendo un peso che sta sulla coscienza di tutti i governi e di tutti i vecchi o nuovi politicanti che non ne parlano, dunque nostra? Giustizia: Provenzano e il greco suicida ad Ancona; strappare il cielo di carta dell’informazione di Ascanio Celestini www.faberblog.com, 11 maggio 2012 “Poche ore dopo il suicidio di un detenuto greco nel carcere di Montacuto ad Ancona, un altro recluso nello stesso istituto di pena ha tentato di uccidersi, procurandosi dei tagli al collo e alle braccia. Si tratta di un ventiquattrenne algerino, in carcere per droga. È stato soccorso da alcuni agenti di polizia penitenziaria ed è stato trasportato all’ospedale di Torrette. Le sue condizioni non sono gravi. Avrebbe messo in atto gesti autolesionistici, forse a scopo dimostrativo”. Questa è una notizia Ansa di qualche ora fa proprio mentre sui giornali on line veniva annunciato il tentato suicidio di Bernardo Provenzano. Un tentato suicidio riportato da repubblica.it, corriere.it, ilfattoquotidiano.it, ilgiornale.it, liberoquotidiano.it, ilsole24ore.com, eccetera.. Di questi ultimi due suicidi (uno tentato e l’altro riuscito) invece non ho trovato niente. Se ne parla su qualche pagina di giornale locale o nei siti che normalmente si occupano di galera come detenutoignoto.com, radiocarcere.com, osservatoriorepressione.org e pochi altri. Su clandestinoweb.com leggo che il greco pare avesse 28 anni e che “si sia impiccato alle 8 e 30 del mattino con una cintura dell’accappatoio”. L’articolo parla di un sovraffollamento che “ha raggiunto cifre record: potrebbero essere ospitati solo 178 detenuti ma al momento ci sono circa 440 ristretti. Inutile dire che, in queste circostante, le condizioni di vita sono davvero complicate”. Il 9 maggio 1978 veniva trovato il corpo di Peppino Impastato, ma la sua morte passò inosservata perché nelle stesse ore fu rinvenuto anche il corpo di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. Ne ho sentito parlare da Marco Baliani alla fine degli anni 90, quasi quindici anni fa, in uno spettacolo che ho visto per la prima volta in diretta televisiva dai fori romani. Di Aldo Moro ricordo pure una foto ritagliata dal giornale. Facevo solo la prima elementare, ma la foto me la ricordo. Alle elementari questi personaggi arrivavano ripuliti della loro qualità umana. Erano come maschere della commedia dell’arte, come burattini di un teatrino. Ma di Impastato ne ho sentito parlare la prima volta in quello spettacolo, I Cento Passi, il film è uscito un paio di anni dopo. Per la prima volta quei due esseri umani, quei due morti, li ho sentiti avvicinare uno all’altro. Il presidente della DC e uno sconosciuto. Oggi nel motore di ricerca di Google, Peppino Impastato viene prima di Peppino Di Capri e Peppino De Filippo, ma quindici anni fa non era così. In quei primi due o tre minuti dello spettacolo Marco avvicinava il politico conosciuto da tutti al piccolo attivista sconosciuto alla maggior parte di noi. L’uomo magro con la frezza bianca fotografato insieme alla bandiera con la stella cinque punte e poi rivisto al telegiornale ripiegato nel bagagliaio di una R4, accanto a uno che poi prenderà la faccia di Luigi Lo Cascio, ma che, fino ad allora, non era conosciuto nemmeno per la sua. Per me è stato come lo strappo nel cielo di carta di cui parla Pirandello. Non che Moro fosse meno vero di Impastato, ma ormai si era trasformato nel personaggio di una tragedia, un romanzo a puntate che avevamo seguito in televisione e sui giornali. Invece Peppino Impastato era uno che c’aveva soltanto il nome e una storia che non era scritta nel testo dello spettacolo storico-mediatico al quale assistiamo quotidianamente. 24 anni dopo, negli stessi giorni, ieri, una cosa più piccola, ma che segue le stesse regole. Le notizie hanno un peso. Sono quasi 1.800 i soldati americani morti in Afghanistan e un altro migliaio sono i morti tra gli eserciti alleati, eppure pesano meno dei civili afgani che, secondo alcune stime, sarebbero compresi in un numero che va dai 15.000 ai 35.000. I morti delle torri gemelle pesano più dei morti ruandesi, anche se a New York ne morirono quasi tremila l’11 settembre, mentre in quel piccolo paese africano ne sono stati ammazzati oltre diecimila al giorno per tre mesi di seguito. E dunque quanti piccoli attivisti politici ci vogliono per fare un presidente del più grande partito italiano? Il teatro serve anche per questo. È letteratura che ritesse le relazioni, strappa il cielo di carta dell’informazione e delle gerarchie e mette nello stesso teatro personaggi che nella società sono distanti infiniti gradini nella scala sociale. E clandestinoweb.com scrive che “in 5 mesi, ci sono stati 21 suicidi e 61 morti nelle carceri italiane, una media di 12 decessi al mese”. Quanti detenuti senza nome devono infilarsi la testa in un sacchetto prima di raggiungere le prime pagine del giornale? Giustizia: Berlusconi e Monti sulle carceri hanno le stesse idee di Riccardo Arena www.ilpost.it, 11 maggio 2012 Sul fronte dell’emergenza carceraria il governo Monti si sta comportando come il governo Berlusconi, non c’è alcuna differenza. Il politico e il tecnico sono uguali. E forse è un indizio su cui riflettere. Infatti Monti, come già fatto da Berlusconi, si è prima imbarcato nell’inutile provvedimento “svuota carceri”, che non ha svuotato proprio nulla dato che sono usciti in detenzione domiciliare solo 3 mila persone detenute. Poi, dopo un primo apparente ripensamento, Monti ha rilanciato anche il costosissimo piano carceri. Lo scrive un articolo pubblicato sull’Espresso in cui si dà conto di quanto affermato dal neo commissario per l’edilizia penitenziaria, Angelo Sinesio, dinanzi alla Commissione giustizia della Camera. L’idea, assai poco fantasiosa e tecnica, è la stessa: costruire nuove carceri, ma con meno soldi. Non più 600 milioni di euro, ma circa 440. Un’idea limitata e costosa che sembra non considerare le tante carceri e i tanti padiglioni già oggi realizzati e nuovi di zecca, ma lasciati deserti per mancanza di personale. Un’idea limitata e costosa che tra l’altro non risolve il sovraffollamento (rimarrebbero sempre 10 mila detenuti in più) e che non garantisce, come è noto, tempi certi per la sua realizzazione. Un’idea che serve e rende felice solo i costruttori, chiamati ancora una volta a dividersi una bella torta, quella dei soldi pubblici. Ora sia chiaro: è evidente che la maggior parte delle carceri italiane debba essere dismessa o ristrutturata, ma è altrettanto vero che non è il questo modo per affrontare l’emergenza carceraria. Serve infatti una intelligente legge di indulto, seguita da una seria depenalizzazione (e non quella ridicola proposta dal ministro Severino). Come serve una radicale riforma sia del sistema delle pene che del processo penale, lento, farraginoso e incapace di dare una adeguata risposta di giustizia. Concetti magari difficili da spiegare a un politico, ma che dovrebbero essere assai congeniali ad un tecnico, o presunto tale. Eppure i fatti ci dicono il contrario. È andato via Berlusconi, è arrivato Monti, ma sul fronte dell’emergenza carceraria i metodi sono rimasti gli stessi. Poca fantasia o troppi interessi? Infine una annotazione. Il 23 dicembre del 2011, il governo Monti nomina il vice questore di Catania, Angelo Sinesio commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria. Incarico che prima era svolto dal direttore del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta. Tradotto: Berlusconi ci aveva messo un magistrato e Monti un poliziotto. Due scelte inopportune, data la formazione professionale dei due commissari scelti. Altra strana analogia, altro indizio. Come mai neanche un governo di tecnici ha pensato che quell’incarico dovesse essere dato a un manager, o a chi sa gestire appalti e costruzioni tanto specifiche? Forse è stato scelto il dottor Sinesio perché è anche capo della segreteria tecnica del ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri? Ma, difficile capirlo. Nel mentre l’emergenza carceraria resta fuori controllo e non si fermano ovviamente i suicidi tra i detenuti. L’ultimo? un ragazzo di 28 anni che si è impiccato oggi, 10 maggio, nel carcere di Ancona. (Un carcere che potrebbe ospitare solo 178 detenuti, ma che oggi detiene più di 440 persone). Nell’indifferenza del governo, sale così a 21 il numero delle persone detenute che si sono suicidate nei primi 5 mesi del 2012, per un totale di 61 decessi. Ovvero più di 12 morti al mese, di cui 4 causate da suicidio. Giustizia: Rita Bernardini e gli “interessi costituzionalmente rilevanti” del ministro Severino di Valter Vecellio Notizie Radicali, 11 maggio 2012 L’impellente urgenza ora viene rubricata come “interesse costituzionalmente rilevante”. Il ministro della Giustizia Paola Severino, intervenuta ieri al plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, così definisce i temi della prescrizione, le intercettazioni e la responsabilità civile dei magistrati. Questioni “tutelate e da tutelare”. Tutelate da chi, come e quando? Da tutelare da chi, e come? Il ministro dice che è “essenziale trovare un punto di equilibrio”. Una modica quantità di prescrizione? Una responsabilità civile del magistrato ma non tanto? Intercettazioni, ma così così? Vai a capire cosa significa che, in tema di prescrizione occorre “un punto di equilibrio tra la necessità di interromperla e la durata del processo penale…da una parte il percorso processuale non escluda la possibilità di giungere a una decisione di merito e dall’altra tuteli il diritto del cittadino a essere giudicato in tempi equi”. Per quelle cose del caso che non vengono a caso, il ministro queste cose le ha dette proprio a quel Csm che giorni fa non ha confermato il rinnovo dell’incarico di capo della procura di Pistoia a un magistrato che in poco tempo aveva smaltito tutto l’arretrato che aveva trovato sul suo tavolo e su quello dei suoi sostituti. E, al di là del singolo e bizzarro episodio, quei circa duecentomila processi, molti dei quali importanti, vanno da anni ogni anno in fumo, in che ambito rientrano? E gli armadi-vergogna come quello scoperto mesi fa a Bologna? Il ministro si dice consapevole che “il paese vive momenti di severa difficoltà che richiamano tutti noi a un impegno comune, la necessità di restituire competitività al paese attraverso scelte di riorganizzazione e di riforma che guardano al recupero dell’efficienza, all’eliminazione dell’arretrato civile, a un sostanziale miglioramento della geografia giudiziaria e, più in generale, all’impatto del sistema giudiziario sulle nostre imprese e sulla nostra economia”. Tutto giusto, né del resto, si aveva motivo di dubitare del fatto che il ministro avesse ben chiara la situazione in cui la giustizia italiana sprofonda. Ma non è la “descrizione” che si chiede al ministro, piuttosto possibili e praticabili inizi di soluzione: il deserto di iniziativa, il “fare” e il “fatto” è un desolante vuoto. E qui sono i gli apparenti “piccoli” episodi che contano. Un “piccolo” episodio come quello sollevato e segnalato da Rita Bernardini, che porta a casa un significativo successo legato alla sua iniziativa incessante e alla sua capacità di “scavare” e “martellare”. In breve: ogni giorno i parlamentari radicali chiedono ai ministri competenti di render conto di un “fare” (e molto più spesso un “non fare”) che è riconducibile al loro ministero. Documenti preziosi, che fossero raccolti danno da soli una rappresentazione desolante del paese in cui ci tocca di vivere. Raramente giungono le risposte, ancora più rare le risposte soddisfacenti. Una quantità di interrogazioni a risposta scritta da lei e dagli altri, indirizzate al ministro della Giustizia, restano inevase. Per farla breve, e senza scadere nel tecnicismo, Rita si accorge che non solo queste interrogazioni restano lettera morta, ma vengono, con un colpo di mano, considerate esaurite nel loro iter; come, in sostanza, se la risposta fosse stata data. Una vicenda che Rita ha raccontato nel dettaglio nel corso dell’ultima puntata di “Radio Carcere”. Legittima protesta rivolta al presidente della Camera Gianfranco Fini, che riconosce le buone ragioni radicali e in particolare la fondatezza del rilievo che il ministero della Giustizia è la maglia nera nel non considerare il lavoro di sindacato ispettivo dei deputati: “Ho verificato i dati che Ella mi ha sottoposto, constatando che essi descrivono in maniera sostanzialmente fedele, in termini generali, il fenomeno segnalato…”. Il fenomeno sostanzialmente fedele segnalato consiste nel fatto che il Ministero della Giustizia ha risposto solo al 2% delle interrogazioni. Risultato? “Dalla prossima settimana”, dice Rita, “il Ministero della Giustizia, in Commissione, sarà costretto a rispondere alle 83 interrogazioni che ho richiamato ai sensi dell’art. 134 del regolamento della Camera”. Per dare un’idea di come funzionano le cose nel “Palazzo”. La sola Rita ha presentato 1.037 interrogazioni a risposta scritta, la cui risposta è stata sollecitata più volte. Le prime interrogazioni contano 24 solleciti senza che nulla sia accaduto. Rita ha ricevuto risposta dai ministri competenti solo in 60 casi, soprattutto per la sua insistente richiesta di metterle all’ordine del giorno della Commissione permanente di cui sono membro, la Commissione Giustizia. Siamo, pertanto, al 5,78% di risposte. Per ulteriore informazione che aiuta a comprendere l’ampiezza e lo scandalo istituzionale del problema, questo è il seguente quadro - dati tratti dal sito www.camera.it - che riguarda la delegazione radicale: - Rita Bernardini: 1.037 interrogazioni a risposta scritta; 60 risposte. - Marco Beltrandi: 135 interrogazioni a risposta scritta; 18 risposte. - Maria Antonietta Farina Coscioni: 957 interrogazioni a risposta scritta; 296 risposte. - Matteo Mecacci: 21 interrogazioni a risposta scritta; 14 risposte. - Maurizio Turco: 832 interrogazioni a risposta scritta; 286 risposte. - Elisabetta Zamparutti: 962 interrogazioni a risposta scritta; 215 risposte. Su 3.944 interrogazioni presentate dalla delegazione radicale, solo 889 hanno ottenuto risposta (22%). In questa legislatura sono state presentate in totale 15.860 interrogazioni a risposta scritta e solo 4.781 hanno ottenuto risposta (30,1%) (Alcune interrogazioni sono state indirizzate a più Ministri). Il Ministero più deficitario sia quello della Giustizia con solo il 7,9% delle risposte, ben al di sotto della pur scadente attenzione dimostrata dagli altri ministeri all’attività di sindacato ispettivo dei deputati. Dice ancora Rita: “Fra le tante ferite inferte alla nostra martoriata Repubblica, c’è anche questa della quale nessuno sembra volersi occupare pur essendoci precise norme del regolamento a tutela del diritto dei deputati ad ottenere una risposta dal Governo. Molte delle mie interrogazioni sono state presentate a seguito di approfondite visite di sindacato ispettivo nelle carceri; documentavano lo stato di illegalità permanente in cui il nostro Stato fa vivere l’intera comunità penitenziaria in violazione non solo della nostra Costituzione ma di tutti i trattati e convenzioni europee e onusiane che l’Italia ha sottoscritto e ratificato. So, perché me lo hanno riferito di persona, che i direttori penitenziari hanno fornito le risposte al Ministero della Giustizia, ma queste documentate relazioni non sono mai pervenute all’interrogante. Trovo veramente desolante che i luoghi istituzionali - in questo caso la Camera dei deputati - siano ogni giorno di più sordi e, in definitiva, mortificanti e distruttivi della funzione del parlamentare”. “Piccolo” episodio, ma estremamente significativo. Il ministero della Giustizia, rispetto ai quesiti posti dai parlamentari e ai suoi doveri istituzionali, è in perfetta coerenza con il funzionamento generale della Giustizia. Le conclusioni, amare, ognuno le può ricavare. Ed è la conferma dell’urgenza e della necessità di quell’appello “per una grande mobilitazione sul problema sociale e civile della giustizia” che Marco Pannella, Rita Bernardini e Irene Testa hanno rivolto un paio di giorni fa. Giustizia: Dap; il tentato suicidio di Bernardo Provenzano è stato un “gesto dimostrativo” Adnkronos, 11 maggio 2012 Un gesto dimostrativo. A quanto apprende l’Adnkronos da fonti qualificate del Dap, sarebbe questa la lettura più accreditata del presunto tentato suicidio del capomafia Bernardo Provenzano, nella sua cella di massima sicurezza a Parma, sventato dal Gom, Gruppo Operativo Mobile della Polizia penitenziaria. Il boss di cosa nostra recentemente era stato sottoposto a visita psichiatrica, disposta dalla Corte d’Appello di Palermo. Dall’accertamento non sarebbero state evidenziate però problematiche di tipo psichiatrico per Provenzano, seguito dal centro clinico all’interno della casa di reclusione. La busta con la quale il boss ha tentato di soffocarsi era trasparente, del tipo di quelle usate per gli alimenti. Quanto alla dinamica dell’episodio, alle 00,24 del 10 maggio un sottufficiale del Gom è entrato nell’area riservata dove è detenuto il superboss. Vi si accede attraverso una porta d’ingresso. In quest’area c’è un altro agente che a turno, 24 ore su 24, controlla Provenzano. Quando il boss ha sentito il rumore dell’apertura della porta da parte dell’agente che faceva entrare il sottufficiale del Gom, si sarebbe infilato il sacchetto in testa. Pochi secondi in tutto. Tre metri. Gli agenti si sono fiondati su Provenzano togliendo il sacchetto, che non era legato ma retto con una mano dal boss della mafia ristretto al 41 bis. Immediatamente è stato chiamato il medico in servizio al carcere di Parma, che ha visitato il detenuto non riscontrando condizioni cliniche particolari. Le sue condizioni di salute sono buone e non si è ritenuto di procedere al ricovero. Legale chiede apertura inchiesta È giallo sul tentativo di suicidio del superboss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, che nella notte tra mercoledì e giovedì - ma si è appreso solo nella tarda serata di ieri - avrebbe tentato di togliersi la vita nella sua cella del carcere di Parma, infilandosi la testa in un sacchetto. A salvarlo sarebbe stata una guardia penitenziaria del Gom, il gruppo operativo speciale del Dap. E il suo legale, Rosalba Di Gregorio, chiede adesso che venga aperta al più presto un’inchiesta “per capire cosa realmente” sia accaduto in cella. “Che cosa ci faceva un sacchetto di plastica dentro la cella del mio assistito - si chiede il legale - è stato un tentativo di suicidio o qualcosa di diverso? Dobbiamo pensare che qualcuno lo voleva eliminare?”. “Appena pochi giorni fa gli psichiatri della perizia hanno ritenuto che Provenzano fosse compatibile con la detenzione e i risultati si vedono...”, aggiunge l’avvocato. Inoltre, il legale lamenta che la famiglia di Provenzano non sarebbe stata avvertita di quanto accaduto. “Ho sentito il figlio Angelo che non sapeva nulla e neppure io sapevo niente, eppure sono il suo legale”, aggiunge. Ma da fonti del Dap fanno sapere che Provenzano non avrebbe tentato il suicidio, sarebbe stata piuttosto una simulazione. Provenzano, che dopo l’arresto avvenuto nel 2006 in un casolare nei pressi di Corleone, è detenuto in un reparto speciale del carcere di Parma, è reduce da un tumore alla prostata, soffre anche di un inizio di Parkinson e di un’encefalite destinata a peggiorare. Questa mattina il suo legale chiederà al Presidente della Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Biagio Insacco, nel corso di un processo per omicidio che vede imputato lo stesso Provenzano, se “dopo il gesto eclatante di ieri davvero si ritiene che Provenzano sia compatibile con la detenzione in carcere”, come annuncia Rosalba Di Gregorio all’Adnkronos. Ieri sera anche il sindacato di polizia penitenziaria Osapp è intervenuto sulla vicenda sottolineando che il tentativo di suicidio del boss “è stato sventato solo grazie alla solerzia degli uomini del Gom della polizia penitenziaria, la sola, ormai, rimasta a fronteggiare la disfatta del sistema carcerario italiano”. E proprio mentre nella tarda serata di ieri si diffondeva la notizia del presunto tentato suicidio di Bernardo Provenzano, un altro boss di grosso calibro, Pippo Calò, è stato colpito da una crisi cardiaca, detenuto nel carcere di Ascoli. Anche Calò oggi avrebbe dovuto comparire in videoconferenza nello stesso processo per omicidio davanti Corte d’assise di Palermo che vede imputato anche Provenzano. Sappe: una bufala il tentato suicidio di Provenzano “Per quanto ci è dato sapere, quello messo in atto nel carcere di Parma da Bernardo Provenzano è stato un maldestro tentativo di simulazione di suicidio probabilmente per evitare di essere sottoposto ad una visita psichiatrica già programmata. Non a caso, le modalità del presunto tentativo sarebbero avvenute quasi in presenza del preposto di Polizia penitenziaria addetto alla sorveglianza del detenuto, poliziotto che comunque è stato bravissimo ad intervenire nell’immediatezza per scongiurare che anche il maldestro tentativo potesse in realtà avere gravi conseguenze. L’attenzione, lo scrupolo e la professionalità del poliziotto penitenziarie vanno certamente rimarcate perché, ripeto, sono state fondamentali per un tempestivo intervento. Ma, ripeto, per quel che ci è dato sapere il tentativo di suicidio di Provenzano è una bufala.” Lo dichiara Donato Capece, Segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe - il primo e più rappresentativo della Categoria. Associazione Vittime Georgofili: non crediamo a tentativo suicidio Provenzano “Non crediamo affatto che Bernardo Provenzano colui che diede l’ordine di uccidere i nostri parenti in continente abbia tentato il suicidio, perché detenuto in un regime carcerario disumano”. Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, è convinta che Provenzano si sia “messo un sacchetto in testa per fare un atto eclatante. Infatti non è morto, per fortuna”. “In questi ultimi tempi - denuncia - troppi i tentativi per Bernardo Provenzano di farlo uscire dal 41 bis per dare così la stura all’atto finale dell’abolizione di questo regime inviso alla mafia, ma tanto necessario per macellai e affaristi come sono i boss di cosa nostra. Una domanda però corre l’obbligo di porla: come mai - chiede Giovanna Maggiani Chelli. Provenzano, a regime di 41 bis, aveva un sacchetto di plastica fra i suoi effetti personali?”. “Non è suicidandosi che si risolvono i problemi ma affrontandoli, come abbiamo fatto noi. Volete che vi dica quanti di noi hanno pensato di buttarsi in Arno dopo la strage di via dei Georgofili? Quasi tutti, e per alcuni il pericolo esiste ancora, eppure i Gom che si precipitano non li vediamo mai. Quindi - conclude - tutto sommato Provenzano sta meglio di noi”. Procuratore di Palermo Messineo: gesto è spia di disagio “Ogni lettura è legittima: sia che siamo davanti a un reale tentativo di suicidio, sia che si sia trattato di un gesto fatto per attirare l’attenzione sulla propria condizione”. È cauto il procuratore di Palermo Francesco Messineo che commenta la notizia del tentativo di suicidio messo in atto mercoledì notte dal capomafia Bernardo Provenzano, detenuto al 41 bis nel carcere di Parma. “In ogni caso - spiega - quanto accaduto è una spia importante di un disagio personale, di una mancanza di equilibrio, soprattutto per un capomafia di quel livello”. “Si è trattato - spiega Messineo - di un gesto allo stato assolutamente iniziale: Provenzano si era appena infilato il sacchetto in testa tenendolo stretto con le mani, quando è stato visto dall’agente”. A parlare di una possibile simulazione compiuta dal detenuto per attirare l’attenzione sono in tanti: i sindacati di polizia penitenziaria ma anche il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Alcune cose non convincono nel gesto fatto dal boss: dal sacchetto scelto, una busta per alimenti molto piccola, al fatto che si sia infilato la busta non nel bagno, in cui l’immagine delle telecamere è meno nitida, ma nella stanza ripresa dal video molto più chiaramente. Quando l’agente dal monitor ha visto cosa accadeva e si è precipitato dal detenuto, Provenzano avrebbe detto: “Cosa è successo, dove andiamo?”. Melania Rizzoli: Provenzano fragilissimo, difficile pensare a simulazione Un uomo “fragilissimo, sia fisicamente sia psicologicamente, con un profondo deficit cognitivo, disorientato nel tempo e nello spazio” al quale “difficilmente attribuirei la lucidità necessaria per simulare un suicidio”. Così Melania Rizzoli, medico, scrittrice e deputato del Pdl, parla del super boss Bernardo Provenzano, detenuto al 41 bis nel carcere di Parma, dove lo ha incontrato, per poi dedicargli un capitolo del suo libro, “Detenuti”. La notte tra mercoledì e giovedì, Provenzano è stato trovato con una busta di plastica in testa: un tentativo di suicidio o, come sostiene il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, solo un gesto dimostrativo. “Comunque - dice all’Adnkronos - è un episodio cui guardare con grande attenzione. Il Dap avrà elementi per dire che si tratti di una simulazione, ma è sicuramente il sintomo di un disagio profondo”. “Quando ho parlato con il suo avvocato che mi ha detto che l’hanno trovato con in testa un sacchetto di plastica trasparente, di quelli senza i manici, ho subito pensato a quando l’ho visto, circa 4 mesi e mezzo fa. Stava mangiando - racconta - e il cibo gli era stato portato dentro quei sacchetti. Non ho alcun elemento per dire che abbia usato uno di quelli, ma dopo averlo saputo mi è tornata in mente quell’immagine”. Con quei sacchetti, comunque, “è difficile riuscire a suicidarsi”, sottolinea. “È irriconoscibile, molto malato, ha perso 20 chili, gli occhiali gli ballano sul viso. Da medico dico che è un paziente neurologico oltre che oncologico. Quando l’ho visto lo avrei messo a letto e gli avrei messo una flebo. Diversissimo da Riina - conclude - che ho visto combattivo, con il morale altissimo, anche dopo 18 anni di 41 bis”. Giustizia: il carcere entra in hit parade… evadere a tempo di folk di Valentina Ascione Gli Altri, 11 maggio 2012 Pare che la casa discografica fosse tutt’altro che entusiasta dell’iniziativa di Johnny Cash di suonare in una galera e che avesse perfino tentato di contrastarla. Ma alla fine anche i più scettici avevano dovuto ricredersi davanti alle vendite straordinarie che fece registrare At Folsom Prison: “Il primo enorme successo discografico tratto da un concerto live (e in una prigione!)”, come si legge nel libro “La musica è leggera, racconto su mezzo secolo di canzoni”, da poco dato alle stampe dal sociologo Luigi Manconi con Valentina Brinis (Il Saggiatore, pp. 505, euro 16). Era il 1968 e l’anno successivo Cash sarebbe tornato a esibirsi davanti a una platea di detenuti, ancora in California, nel penitenziario di San Quintino. Lo stretto connubio tra il mondo della musica e quello della pena, tuttavia, affonda le radici ben più lontano nel tempo. Nel blues, che oltreoceano si levava dai campi di cotone, risuonava nei ghetti e negli altri luoghi abitati dagli ultimi del mondo. E quindi anche nelle prigioni. In quella di Parchman, ad esempio, nel Mississippi, “dove sono stati reclusi i più noti bluesmen del mondo che con le loro note avrebbero influenzato il rock”, spiega Salvatore Ferraro leader dei Presi per caso, la band nata a Roma tra le mura di Rebibbia. Il carcere è stato una fucina sia di musica che di testi ispirati dalla detenzione, dal tempo sospeso, dilatato e vuoto della pena. E dalle storie di quell’infinito campionario umano che è costretto in cattività dietro le sbarre di una cella. “Il legame è forte e si rintraccia anche nel filone della musica popolare osserva Ferraro -, c’è sempre un rapporto tra la musica e i cosiddetti “fuorilegge”, sono tantissimi i musicisti finiti dentro e le tematiche di un certo tipo di musica richiamano spesso la condizione carceraria, o comunque un’esistenza che fatica a integrarsi con le regole sociali”. Lo stesso Johnny Cash si era fatto un po’ di galera, così come “il grande bluesman di colore Leadbelly, condannato per un omicidio che lui diceva di aver commesso per legittima difesa, Aretha Franklin per una banale rissa, Gilberto Gil per motivi politici, Chet Baker, per il suo abuso di eroina e, per l’impegno pacifista, pure Bob Dylan”, elenca sul suo blog Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che con Susanna Marietti racconta l’incrocio tra carcere e musica su Radio Popolare in un programma che hanno intitolato “Jailhouse Rock”, come la leggendaria canzone portata al successo da Elvis Presley. Nomi tra i più illustri anche della musica di casa nostra sono transitati per la prigione, come Vasco Rossi, per poche settimane nel 1984: esperienza che avvicinerà il Blasco al Partito Radicale e a Marco Pannella che andò a fargli visita. O come Franco Califano, il quale anni più tardi tornerà a Regina Coeli e a Rebibbia a cantare, applauditissimo, per i detenuti. Gli arresti e le detenzioni celebri hanno sempre destato curiosità. E anche un sottile, malcelato piacere davanti alle facce stravolte e gonfie, alle grosse borse sotto occhi finalmente sottratti al trucco, che sgomenti guardano da brutte foto segnaletiche: le stesse che, raccolte in gallerie sulle homepage dei siti di informazione, sono ormai diventate un genere per voyeuristi e non solo, e che immortalano il momento in cui la nemesi si abbatte sui deliri di onnipotenza di star belle e viziate. Come dimenticare, ad esempio, lo sguardo disorientato di un Hugh Grant all’apice del successo, finito in manette dopo esser stato sorpreso a Sunset Boulevard in compagnia della prostituta Divine Brown? Tuttavia il legame fin qui descritto tra carcere e musica va ben oltre. E se è vero che la letteratura e il cinema sono le forme artistiche più ricettive nei riguardi del mondo della pena, dei drammi e delle suggestioni che albergano al di là delle sbarre, la musica è quella che più rapidamente riesce a cogliere ciò che trapela dalle mura di un carcere. In Italia accade soprattutto a partire dagli anni Settanta “quando l’opacità del sistema penitenziario comincia un po’ a diradarsi e alcune problematiche a emergere”, spiga ancora Salvatore Ferraro, ma non solo: La ballata del Miché (“un brano fondamentale”, secondo Manconi) fu scritta nel 1961 da un Fabrizio De André appena ventunenne. Seguì Nella mia ora di libertà, nel 1973, e Don Raffaè, nel 1990. Ma Faber non è stato il solo, nel panorama italiano, a cantare le pene del carcere. Francesco De Gregori l’ha fatto ne L’impiccato, Babbo in prigione (1978) e in Canta canta (1983). Luigi Manconi ricorda anche La casa in riva al mare, scritta da Lucio Dalla nel 1971, e le più recenti Che giorno è, di Raf (1998), la bellissima Aria, con cui nel 1999 Daniele Silvestri conquistò il premio della critica al Festival di Sanremo (classificandosi però solo nono nella gara canora), e Morire tutti i giorni dei 99 Posse (2011) il cui testo porta la firma dell’ergastolano scrittore Carmelo Musumeci. Alessandro Mannarino, nuovo fenomeno del folk romano, ha recitato nel suo tour i pensieri del Carcerato qualunque (“la domanda segreta è/a che serve chiudere la gente qua dentro?”); mentre solo pochi giorni fa Marina Rei ha cantato l’emergenza carceraria sul palco del Primo Maggio, davanti alla giovane platea che affollava piazza San Giovanni, con un testo Qui è dentro, che prende spunto dalle lettere scritte dai detenuti a Radio Carcere. Accessorio prezioso, la radio, e formidabile canale di scambio tra “il dentro” e “il fuori”. Proprio come le parole e le note che gracchiano nelle celle, riempiendo le ore vuote di un tempo che pare infinito. “La musica è la forma più felice di evasione”, spiega agli Altri Luigi Manconi, “un termine gioiosamente doppio, ambiguo, con il quale si intende sia la capacità di uscire dalla propria prigione mentale, che quella di immaginare di trovarsi altrove rispetto al luogo dove si è reclusi”. La musica abbraccia tutti i sensi possibili dell’evasione, “rompe le sbarre, ti consente di uscire da una cella e riesce a liberarti dalla reclusione psicologica della mente”. Non è un caso che, come racconta Manconi nel libro La musica è leggera, un documento firmato da un gruppo di ex militanti della lotta armata, nel quale si illustravano i contenuti della loro scelta di dissociazione mentre si trovavano in carcere, aveva come titolo un verso tratto da La musica che gira intorno di Ivano Fossati: “Sarà che avete nella testa un maledetto muro”. Pavia: detenuto suicida nel 2002, dopo 10 anni Dap condannato risarcire famiglia con 150mila € Corriere della Sera, 11 maggio 2012 “Al dovere di custodire il detenuto corrisponde l’obbligo di impedire fenomeni auto soppressivi”. Il fatto che un detenuto sia per definizione sottoposto “a una stringente restrizione della propria libertà personale” fa “derivare” in capo all’amministrazione penitenziaria “un obbligo generico di esercitare un controllo per impedire fenomeni auto soppressivi nelle carceri”: l’amministrazione penitenziaria, infatti, “proprio in virtù dei poteri attribuitile sulla persona dei reclusi, è tenuta a prendersi cura della salvaguardia della loro incolumità. Al dovere di custodia del detenuto”, che grava sul carcere, “corrispondono obblighi accessori di protezione”. Proprio nei mesi che registrano sempre più suicidi nelle carceri sovraffollate, la seconda Corte d’appello civile condanna il ministero della Giustizia a risarcire con 150.000 euro la madre e le due sorelle (assistite dagli avvocati Fabrizio Gnocchi e Cinzia Sacchelli) di un 30enne tossicodipendente che, arrestato nel 2002 per il furto di uno scooter, nel carcere di Pavia si era ucciso respirando il gas di una bomboletta che si era procurato, non si sa come, in carcere. La sentenza, sulla scia del primo grado deciso dal giudice Andrea Borrelli, ricorda come già al suo ingresso in cella il detenuto avesse cercato di strangolarsi con un laccio, e fosse stato valutato dal medico come soggetto al quale prestare “alta sorveglianza” in quanto esposto a un rischio “medio” di suicidio. Ancona: al carcere di Montacuto notte di protesta e tensione, dopo suicidio di un detenuto greco Ansa, 11 maggio 2012 Notte di tensione nel carcere di Montacuto ad Ancona, dopo il suicidio di un detenuto greco di 28 anni, Elisaios Pavlidis, che ieri mattina si è impiccato nel bagno della cella, e il gesto autolesionistico di un altro detenuto, un algerino di 24 anni, che si è ferito alla gola e a un braccio con un oggetto tagliente. Un terzo recluso ha simulato di volersi impiccare, una forma di protesta subito rientrata, mentre altri detenuti hanno a lungo battuto oggetti contro le inferriate. Qualcuno avrebbe anche cercato di dar fuoco ad una maglietta, ma la notizia non è stata confermata. Dopo l’intervento della direttrice della casa circondariale alle 23:30 circa la protesta è terminata. A Montacuto si contano attualmente 399 detenuti contro una capienza di 172 posti, una situazione “infernale” secondo il segretario regionale del Sindacato autonomo di Polizia Aldo Di Giacomo. Da tempo il Garante delle Marche Italo Tanoni chiede di alleggerire il sovraffollamento della struttura rendendo pienamente operative le 90 celle del nuovo carcere di Barcaglione, utilizzato solo in minima parte. Radicali: stanchi delle parole di Tanoni…. amnistia subito! Matteo Mainardi, Presidente Radicali Marche e Membro Giunta di Segreteria di Radicali Italiani, dichiara: “I Radicali sono da anni impegnati nella battaglia per delle carceri più umane, per una giustizia che funzioni, che sia al servizio dei cittadini e per il ripristino di uno stato di diritto nella violentata Italia. Siamo stanchi di sentire un Deputato della Repubblica, nonché Garante dei Detenuti della Regione Marche, On. Italo Tanoni, affermare cose del tipo: “Individuare soluzioni concrete e condivise per migliorare la situazione delle carceri”. Noi Radicali forniamo da tempo una proposta che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha definito di prepotente urgenza: “Amnistia per la Repubblica, per la Giustizia, per la Legalità”. Anche ieri abbiamo assistito all’ennesimo suicidio di un detenuto nel carcere di Montacuto, un carcere che scoppia e che può godere di un solo psicologo per una popolazione carceraria allo stremo, che sconta il sottorganico degli operatori penitenziari e l’assenza di risoluzioni da parte del Governo e del Parlamento nazionale. Quante altre sentenze dell’Ue e quante altre morti dobbiamo attendere prima che qualcuno inizi a prendere seri provvedimenti?”. Cassino (Rm): Sappe; detenuto 60enne ha rischiato di essere ucciso dai compagni di cella Ansa, 11 maggio 2012 “L’attenzione, la professionalità, l’arguzia di un poliziotto penitenziario ha impedito, qualche giorno fa, che in una cella del carcere di Cassino si potesse compiere l’omicidio di un detenuto italiano, di circa 60 anni. Il Basco Azzurro, nel giro di sorveglianza ha infatti visto, in una celle detentiva occupata da sei ristretti, l’italiano con una busta di plastica in testa, chiusa da un laccio, accerchiato da alcuni degli altri occupanti. Immediatamente ha lanciato l’allarme ed è intervenuto, con altri colleghi, per soccorrere il malcapitato”. A darne notizia è Maurizio Somma, segretario nazionale del Lazio del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe - il primo e più rappresentativo della Categoria. “Ovviamente sono in corso le indagini per ricostruire le ragioni del grave gesto, sventato in tempo dal nostro poliziotto al quale va il nostro grande apprezzamento. Ci auguriamo che l’Amministrazione Penitenziaria lo sappia compensare con un adeguato riconoscimento, quale l’encomio o la lode, per la sua attenzione e la sua professionalità”. Sassari: l’omicidio Erittu all’esame del Gup; sei sotto accusa, tra detenuti e agenti penitenziari di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 11 maggio 2012 L’appuntamento col primo squarcio di verità sull’oscuro delitto di San Sebastiano è a giugno. Il 19, davanti al giudice per l’udienza preliminare di Cagliari, dovranno presentarsi i sei accusati di aver ucciso e poi mascherato da suicida, Marco Erittu, il 18 novembre 2007. Il detenuto che sapeva troppo, il detenuto che, assediato dal terrore per quel Pino Vandi - quasi riverito, in alcune carceri sarde, come un vero boss - sperava di trovare un salvacondotto collaborando con i magistrati. Svelando “il ruolo di Vandi nel sequestro di Paolo Ruiu, farmacista di Orune e nell’omicidio e nel seppellimento di Giuseppe Sechi”: due rapiti degli Anni Novanta mai tornati a casa. Per la Direzione distrettuale antimafia Vandi è, già da mesi, un nuovo punto da cui partire per cercare di ricomporre casi che il tempo rende solo più contorti. Per ora, Vandi risponde di omicidio premeditato aggravato da motivi abietti, perché considerato il mandante di quel delitto avvenuto nella cella numero 3, la stanza “liscia” per detenuti a rischio, nel braccio promiscui. Ad aprire la porta - i magistrati ne sono certi - fu l’agente penitenziario Mario Sanna, 48 anni di Bonorva. Mentre a bloccare il respiro della vittima ci pensò Giuseppe Bigella, 36 anni, con una bustina di nylon, (tutti e tre sono in cella dal giorno dell’arresto, nel luglio scorso) aiutato da Nicolino Pinna, 47 anni, allora detenuto, imputato mai arrestato. Poi il corpo sarebbe stato spostato dalla branda al pavimento, sotto la finestra, per simulare l’auto impiccagione. Ad aiutare i presunti esecutori, altri due agenti penitenziari, Giuseppe Soggiu, sassarese di 36 anni, e Gian Franco Faedda, 50 anni, di Padria. Anche grazie ai loro racconti, il caso fu archiviato come suicidio. La domenica del presunto delitto, Erittu era steso sulla branda a riflettere, forse, sulle angherie subite nel penitenziario dove Vandi aveva il potere di stabilire “chi potesse mangiare carne e chi no”, rivelerà Bigella. I timori di Erittu sono nel diario dove annotava ogni torto. Voleva svelare quanto accadeva al chiuso dei bracci, e del presunto coinvolgimento di Vandi nei due sequestri. Era arrivato a scrivere una lettera all’allora procuratore della Repubblica, Giuseppe Porqueddu. Eppure, nonostante i due edifici siano contigui, la lettera non uscì mai dal carcere per raggiungere il Tribunale. Al contrario, qualche corvo avvisò Vandi che era il momento d’agire, come ha ricostruito in verbali ormai cristallizzati in un incidente probatorio lo stesso esecutore, reo confesso, Giuseppe Bigella. Piccolo spacciatore da carcere, già condannato per un omicidio a scopo di rapina (si attende la Cassazione), Bigella ha fatto riaprire il caso archiviato come suicidio. Non ha nulla da perdere. Ma nemmeno da guadagnare, secondo i pm Gian Carlo Moi e Giovanni Porcheddu. Ecco perché sarebbe accusatore di grande attendibilità. Ed ecco perché potrebbe scegliere la strada del rito abbreviato, e il processo arriverebbe in Corte d’Assise (a Sassari) già gravato da una sentenza di condanna. Il 19 giugno i difensori Agostinangelo Marras, Gabriele Satta, Luca Sciaccaluga, Patrizio Rovelli, Pasqualino Federici, Elias Vacca potrebbero rinunciare a riti alternativi per andare a processo. Salvo assoluzioni. Ascoli: Pippo Calò, 81enne, in regime di 41-bis, ricoverato in ospedale per una crisi cardiaca Agi, 11 maggio 2012 Il boss Pippo Calò, detenuto nel supercarcere di Ascoli, ha avuto una crisi cardiaca ed è stato trasportato in una struttura ospedaliera di Ancona. La notizia si è appresa a Palermo dove domani Calò, 81 anni, avrebbe dovuto comparire in teleconferenza in un processo, che si celebra davanti alla corte d’assise d’appello, per un delitto di mafia in provincia di Agrigento. Nello stesso processo è imputato Bernardo Provenzano che mercoledì sera ha tentato il suicidio in carcere. Dap: garantite terapie e sicurezza, boss mimetizzato fra altri pazienti Ottantuno anni, tre condanne all’ergastolo (una per la strage del treno 904), Pippo Calò, il “cassiere della mafia”, ricoverato nell’Unità di terapia intensiva coronarica dell’ospedale cardiologico Lancisi di Torrette di Ancona, è sorvegliato notte e giorno da agenti della polizia penitenziaria. Una vigilanza così accuratamente mimetizzata che la presenza nel nosocomio del boss, entrato in ospedale il 30 aprile e sottoposto ad un intervento cardiochirurgico il primo maggio, fino a ieri era passata inosservata. Anche ora che la notizia è trapelata, e nella sala d’attesa dell’Utic spunta qualche giornalista, il dispositivo di sicurezza (che all’esterno dell’ospedale si avvale anche di altre forze di polizia) appare invisibile. Si intuisce che due uomini che escono dal reparto sono agenti in borghese, ma non si vedono armi, né auto blindate o elicotteri sorvolare la struttura. Al contrario di quanto avvenne nel 2003, quando Totò Riina, all’epoca detenuto come Calò nel carcere di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno, fu portato per 24 ore a Torrette per controlli cardiologici, con uno spiegamento di forze senza precedenti da queste parti. Calò è un recluso in regime di 41 bis, “e dobbiamo contemperare le esigenze sanitarie e le terapie con misure di sicurezza e sorveglianza sempre attiva, anche in un ricovero ospedaliero di lunga durata”, spiegano dal Dipartimento regionale dell’amministrazione penitenziaria. Operato per l’impianto di by-pass coronarici, il boss ha trascorso alcuni giorni nel reparto di rianimazione, per poi essere trasferito all’Utic. Protocolli terapeutici standard, la degenza condivisa con altri malati. Ad avere l’ultima parola su eventuali spostamenti o, quando sarà possibile, sulle dimissioni è sempre la direzione sanitaria. Quanto ai rapporti con familiari e avvocati, per “l’ambasciatore dei corleonesi a Roma” il trattamento è analogo al regime carcerario. Una o due visite al mese per i familiari stretti (la moglie gli ha fatto visita un paio di volte), e colloqui con i difensori secondo le regole del diritto alla difesa. L’avv. Mauro Giommi, del foro di Ascoli Piceno, ha visto il suo assistito in due occasioni. Anche per preparare i documenti con cui ha informato la corte d’assise d’Appello di Palermo che stamani Calò non poteva comparire in teleconferenza in un processo. Parma: Gaetano Fidanzati, 76 anni, in condizioni “incompatibili” col carcere dopo un ictus Agi, 11 maggio 2012 Non solo Bernardo Provenzano e Pippo Calò. Anche il boss del narcotraffico Gaetano Fidanzati, capomafia della borgata palermitana dell’Arenella, sta male e, secondo i periti che lo hanno visitato, deve uscire dal carcere. Fidanzati, 76 anni, detenuto a Parma, col regime duro del 41 bis, nello stesso penitenziario in cui Provenzano l’altra notte avrebbe tentato di togliersi la vita, è stato giudicato in condizioni “incompatibili” col regime di detenzione. La valutazione è scritta nella relazione del medico legale Manfredi Rubino e della cardiologa Francesca Mascari, che lo hanno visitato Fidanzati all’ospedale Maggiore di Bologna, su incarico della prima sezione della Corte d’assise d’appello di Palermo. Il boss, catturato a Milano nel 2009, dopo una latitanza durata quattordici mesi, sta scontando due condanne, a 10 e a 17 anni, per un omicidio e per associazione mafiosa. Le pene non sono ancora definitive. Colpito da un ictus, iperteso, diabetico, affetto da un tumore alla prostata e da una “broncopneumopatia cronica ostruttiva”, Fidanzati aveva chiesto di essere visitato e i due esperti, nominati dal collegio presieduto da Giancarlo Trizzino, ritengono necessarie cure urgenti, da effettuare presso centri di riabilitazione neuromotoria, anche con il ricovero fuori dal circuito penitenziario. Si tratta dunque di un’indicazione precisa per la concessione degli arresti ospedalieri o domiciliari: decisione che spetta comunque alla corte. Il 14 aprile Fidanzati ha avuto un ictus ed è stato ricoverato all’ospedale Maggiore di Parma. È lì che lo hanno visitato i due periti, assieme al consulente di parte. La diagnosi porta all’incompatibilità col regime carcerario. Occorre anche predisporre, scrivono Rubino e la Mascari, un “opportuno piano di riabilitazione neuromotoria, al fine di ottenere il massimo recupero funzionale perseguibile”. Milano: calci, pugni e bastoni, rissa tra 150 detenuti stranieri a San Vittore www.cronacaqui.it, 11 maggio 2012 Calci, pugni e bastoni: rissa tra 150 stranieri detenuti a San Vittore Si sono affrontati poco prima della fine dell’ora d’aria. Centocinquanta detenuti di San Vittore, magrebini contro slavi, si sono scontrati, presi a calci, pugni, sprangate. Alcuni erano armati di bastoni ricavati rompendo i tavoli o le sbarre dei letti a castello, i marocchini di lamette staccate dai rasoi. E soltanto grazie al pronto intervento degli agenti di polizia penitenziaria si è potuta evitare la tragedia. La maxi rissa è scoppiata mercoledì, verso le 14 e 30, al terzo piano della sesta sezione. Una decina di detenuti sono finiti al pronto soccorso interno dell’istituto, qualcuno con semplici contusioni, altri con lesioni più serie, anche alla testa. Nessun ferito, invece, tra gli uomini della penitenziaria, che hanno riportato la calma senza neppure utilizzare gli sfollagente. La situazione rischiava di sfuggire di mano e di avere conseguenze gravissime, non c’era tempo per prendere i manganelli, che vengono custoditi in armeria. Senza armi, una quindicina di agenti si sono subito frapposti alle due fazioni. Poi sono arrivati i rinforzi, e la situazione è tornata alla calma. Una volta sedata la rissa, sono scattate le misure disciplinari per i detenuti ritenuti responsabili, e in una decina sono stati trasferiti in altri istituti della regione. Sulmona (Aq): delegazione delle Camere Penali in visita agli internati nella Casa di Lavoro Adnkronos, 11 maggio 2012 L’Osservatorio Carcere dell’Unione camere penali italiane, con una delegazione delle Camere Penali di Sulmona e de l’Aquila, ha visitato la Casa di Reclusione di Sulmona, presso la quale è istituita la più grande Casa di Lavoro italiana per 198 reclusi che solo dal 2 maggio, a rotazione, hanno potuto riprendere un lavoro per molto tempo interrotto per mancanza di fondi. “Le condizioni degli stessi, di cui la delegazione, accompagnata dal presidente del Tribunale di Sorveglianza de l’Aquila e dal direttore, ha preso atto - si legge in una nota dell’Ucpi - sono del tutto simili a quelle dei detenuti. Con la sostanziale differenza che gli internati sono in casa di lavoro-senza lavoro, poiché dichiarati delinquenti abituali. La loro situazione, per le ragioni sopra esposte, impedisce un effettivo riesame della pericolosità e dunque il ritorno alla libertà. Quindi - conclude la nota - l’internamento si protrae sine die rendendo, anche per questo, incostituzionale la misura”. Trapani: interrogazione del Senatore D’Alia (Udc) sulla chiusura del carcere di Marsala Asca, 11 maggio 2012 Il presidente dei senatori dell’Udc, Gianpiero D’Alia, in un’interrogazione presentata al Senato critica le motivazioni con le quali il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha deciso la chiusura del carcere di Marsala. “Nel decreto ministeriale del 6 marzo scorso - scrive D’Alia - la soppressione dell’importante struttura penitenziaria viene motivata dalle precarie condizioni strutturali e igienico-sanitarie che mettono a rischio la sicurezza degli operatori e dei detenuti”. Tutto questo, però, secondo il capogruppo Udc “non è vero, come si evince dalle relazioni sanitarie redatte dagli organi dell’Asp locale, nelle quale non sono state segnalate irregolarità proprio dal punto di vista igienico-sanitario”. La seconda motivazione contenuta nel decreto, che annulla la veridicità del primo punto, è di carattere economico. “Secondo il ministro, infatti - prosegue D’Alia - sarebbe inopportuno ed antieconomico, per costi e benefici, programmare la ristrutturazione dell’istituto poiché i lavori da realizzare sono troppo costosi, rispetto la capacità ricettiva della casa circondariale”. “Non essendoci, però, spese da affrontare - continua il segretario regionale dell’Udc - i veri disagi nascono invece della chiusura della struttura: la soppressione del carcere di Marsala, infatti (capienza 50 detenuti e 200 accessi ogni anno), provoca ulteriore sovraffollamento nelle altre case circondariali siciliane, appesantendo la già critica situazione nell’Isola. Inoltre, la città di Marsala è sede della Procura della Repubblica e di Tribunale, il cui circondario comprende Petrosino, Mazzara del Vallo, Pantelleria, Castelvetrano, Salemi, Partanna, Poggioreale, Vita, Campobello di Mazara. La struttura penitenziaria, quindi, rientra in un importante polo giudiziario, e la casa circondariale più prossima dista 80 chilometri (Erice). La sua chiusura comporterebbe un notevole aggravio economico e logistico anche per l’attività delle forze di Polizia, della magistratura lilibetana; crisi economica per gli operatori che forniscono beni e servizi al carcere marsalese e disagio per i lavoratori della sede penitenziaria”. D’Alia chiede nell’interrogazione al ministro Severino di “verificare l’effettivo stato igienico - sanitario e strutturale della casa circondariale trapanese e, se non sussistono più i presupposti e le motivazione presenti nel decreto ministeriale, intraprendere le iniziative necessarie per non chiudere il carcere”. Immigrazione: Asgi; i Cie sono sopruso, puniscono non per ciò che si è fatto, ma per ciò che si è Dire, 11 maggio 2012 “Il sopruso maggiore è la detenzione amministrativa ovvero rinchiudere qualcuno non per quello che fa ma per quello che è: se sdoganiamo questo principio, si rischia che in un Cie ci possa finire chiunque”. A parlare è Alessandra Ballerini, avvocato dell’Asgi, a margine del convegno “Quali alternative ai Cie? Prospettive e proposte”, promosso dal movimento Primo marzo insieme alla Campagna LasciateCientrare durante il Trans Europa Festival. E, in effetti, è proprio ciò che accade in Italia. Vittime di tratta ed ex detenuti sono due categorie di immigrati che non dovremmo trovare in un Centro di identificazione ed espulsione (Cie). Così come le persone richiedenti asilo o protezione internazionale. Eppure ci sono. Nel Cie di Bologna, ad esempio, buona parte delle donne presenti ha un passato di violenze alle spalle o è vittima di tratta (che hanno diritto alla protezione in base all’articolo 18 del Testo Unico sull’immigrazione), mentre tra gli uomini si trovano molti ex detenuti che, finita di scontare la loro pena in un carcere, sono arrivati lì. A scontare un’altra pena, ma senza aver commesso nessun reato. Com’è possibile? “Finita la detenzione in carcere, lo Stato dovrebbe prendere queste persone e riportarle nel loro Paese, invece non lo fa- spiega Ballerini- non voglio pensare che lo Stato le ha tenute in carcere senza una corretta identificazione, invece è così, non le identifica e poi quando escono, le va a prendere e le porta nel Cie: è lo specchio dell’assurdità del sistema di detenzione amministrativa”. Tuttavia per la prima volta Ballerini si sente di dire che ci potrebbe essere una svolta. “Quando ne parlavamo 12 anni fa ci prendevano per pazzi - dice - oggi finalmente sento parlare di chiusura dei Cie e non del loro superamento: ci sono voluti 12 anni per arrivare a delle parole, ora vorrei vedere dei fatti”. Il Cie non è propedeutico al rimpatrio. Qual è la procedura nel caso di un immigrato irregolare? Lo Stato lo può invitare ad andarsene volontariamente dal territorio italiano: in questo caso, si evita l’espulsione con divieto di reingresso e l’immigrato ha la possibilità di rientrare seguendo le procedure regolari. Il rimpatrio assistito è previsto, ma solo in caso di pericolosità della persona o di non attendibilità (cioè quando si sa che non se ne andrà). Solo nel caso in cui l’immigrato non collabori, non si riesca a identificarlo, non si trova un vettore e non ha famiglia in territorio italiano è previsto un periodo di detenzione in un Cie e l’espulsione. Il Cie, insomma, è l’extrema ratio. L’ultima possibilità. “Se questo è la procedura - continua Ballerini - non dovrebbero esserci quasi casi, invece è la norma”. Ma perché non si riesce a identificare una persona o a rimpatriarla? Le cause vanno cercate, ad esempio, nella mancanza di collaborazione da parte di consolati e ambasciate dei Paesi di origine, dall’assenza di registrazione di queste persone nelle anagrafi dei loro Paesi e dalla mancanza di accordi bilaterali tra l’Italia e i Paesi da cui provengono. “Dovrebbero esserci accordi bilaterali con tutti gli Stati ma non è così- afferma Ballerini- ma se sappiamo che, per una di queste ragioni, non possiamo rimpatriare una persona, perché gli infliggiamo anche un periodo di detenzione di 18 mesi in un Cie?”. Droghe: Fict plaude iniziativa del ministro Riccardi per misure alternative a tossicodipendenti Redattore Sociale, 11 maggio 2012 La Federazione italiana delle comunità terapeutiche saluta “con grande entusiasmo” l’iniziativa del ministro, volta ad incrementare il ricorso alle misure alternative alla carcerazione delle persone tossicodipendenti. “Ma la legge ex-Cirielli non aiuta”. La Federazione italiana delle comunità terapeutiche (Fict) saluta “con grande entusiasmo” l’iniziativa del ministro per la Cooperazione internazionale e l’integrazione, Riccardi, sulla scorta dell’attività del Dipartimento politiche antidroga, volta ad incrementare il ricorso alle misure alternative alla carcerazione delle persone tossicodipendenti. “La Federazione, da sempre - si legge in una nota -, si è fatta promotrice e sostenitrice di una politica in tal senso nei confronti delle persone detenute con problematiche legate alla tossicodipendenza. La quasi totalità dei Centri aderenti alla Federazione accoglie persone provenienti dal carcere attuando, laddove possibile, interventi più o meno strutturati agli interni degli istituti penitenziari in risposta a quell’orientamento politico che riconosce la necessità di liberare dal carcere il tossicodipendente”. “I propositi del Ministro Riccardi - continua la Fict - confermano quanto da noi asserito alla Conferenza nazionale sulle droghe di Trieste, laddove invocavamo un ricorso importante alle misure alternative con la collaborazione di tutti i soggetti delle rete sociale. Ma ancor più ci preme sottolineare il valore della volontà di incoraggiare tutti quei progetti che si realizzano già nella fase del processo per direttissima che vedono coinvolti i servizi pubblici e le comunità del privato sociale. Progetti che, oltre a ridurre sensibilmente il sovraffollamento carcerario, evitano il passaggio inframurario del tossicodipendente. I nostri Centri hanno sempre contribuito al sorgere di tali iniziative, come ad esempio il Centro di Genova che ha investito forti risorse professionali affinché l’idea fatta, non solo si concepisse, ma si affermasse introducendo una cultura giudiziaria stabile di sostegno ai percorsi di cura”. “Gli intendimenti del Ministro rappresentano una risposta seria e concreta ad un bisogno che concretizza, da sempre, un’emergenza a cui si rischia di reagire solo con temporanea emotività - conclude la Fict -. Posto, dunque, che sia il sovraffollamento carcerario che il passaggio carcerario del tossicodipendente rappresentano problemi stabili, recidivanti e di clamore intermittente, riteniamo di sostenere ed incoraggiare iniziative che siano altrettanto stabili e durature, frutto di una politica illuminata e responsabile nei confronti dei cittadini: sia di quelli con problematiche tossicomaniche che di quelli che stanno loro intorno e che devono accoglierli. Ci preme, quindi, chiudere ricordando al ministro Riccardi che la strada che intende intraprendere passa anche attraverso una valutazione della legge ex-cirielli il cui mantenimento nell’attuale formulazione, rischia di rendere difficoltoso il cammino”. Israele: dopo 13 anni stop a cella di isolamento per due detenuti palestinesi in sciopero fame Nova, 11 maggio 2012 Il Dipartimento penitenziario israeliano ha ordinato ieri di mettere fine all’isolamento di due detenuti palestinesi dopo lo sciopero della fame intrapreso 24 giorni fa da 1.600 prigionieri. I due detenuti erano in cella di isolamento da 13 anni. Restano irrisolti i casi di altri 17 detenuti reclusi in isolamento, tra cui il leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), Ahmed Saadat, e il responsabile delle Brigate al-Qassam (l’ala militare di Hamas) in Cisgiordania, Abdullah Barghouthi. Ieri i capi della protesta in carcere hanno respinto un’offerta israeliana per mettere fine all’isolamento di 16 dei 19 detenuti palestinesi. Cos i 1.600 detenuti hanno proseguito per il 24° giorno lo sciopero della fame insistendo sull’attuazione di tutte le loro richieste. Intanto, lo sciopero di altri due detenuti entrato nel suo 74° giorno; altri otto stanno mettendo in atto la loro protesta da due mesi mentre si moltiplicano gli avvertimenti sul peggioramento delle loro condizioni di salute.