Incontriamoci… per rilanciare la mobilitazione sull’amnistia e la riforma della giustizia di Marco Pannella, Rita Bernardini e Irene Testa Ristretti Orizzonti, 10 maggio 2012 Alle associazioni e organizzazioni che hanno partecipato alle precedenti riunioni. Ai parlamentari ed esponenti politici e/o sindacali che hanno partecipato alla Marcia. Carissime e carissimi, allora, ci siamo. Dopo le incoraggianti risposte che sono arrivate da buona parte di voi (nette, anche se spesso un po’ generiche), vi chiediamo di incontrarci tutti qui, presso la sede del Partito Radicale in Via di Torre Argentina, 76 (III Piano), lunedì prossimo, 14 maggio, alle ore 19.00, ciò per facilitare anche la presenza dei parlamentari che vengono da fuori Roma e che potrebbero anticipare di qualche ora la loro venuta, visto che da martedì sia per la Camera che per il Senato si apre una settimana particolarmente importante dal punto di vista parlamentare. Alle associazioni e alle organizzazioni chiediamo lo sforzo di mobilitarsi e di essere presenti quindi qui a Roma in più d’un “rappresentante”. Noi tutti, che ci siamo capiti e compresi, e che conosciamo la necessità e l’urgenza dell’obiettivo dell’amnistia per l’immediata Riforma della Giustizia e Penitenziaria, dobbiamo continuare ad assumerci la responsabilità di rafforzare, dare slancio, al nostro stato di mobilitazione che dura ormai da anni e non più solo da mesi. Sono troppi i fatti istituzionali e politici che ci confermano il muro di inerzia, di sostanziale indisponibilità a confrontarsi in un pubblico, leale, democratico, finalmente approfondito, dibattito che in troppi temono, evidentemente, come necessariamente foriero della soluzione che continuiamo a proporre. Ci rispondete subito, così che gli annunci di presenza possano incoraggiarci tutti? “Il senso della rieducazione in un Paese poco educato”, il 18 maggio convegno in carcere di Davide Pelanda www.articolotre.com, 10 maggio 2012 Rieducare un detenuto ai tempi del sovraffollamento. Sembrerebbe proprio una contraddizione, soprattutto quando fuori del carcere assistiamo ad una società veramente poco educata. Ci hanno provato ad organizzare un convegno il 18 maggio prossimo sul tema quelli di Ristretti Orizzonti, giornale del carcere di Padova. “Riteniamo il tema della rieducazione - dice Ornella Favero, direttrice della rivista e del sito on - line - così importante, tanto più oggi in queste condizioni di sovraffollamento, da avere deciso di dedicargli il nostro convegno di maggio. Il titolo credo che sia significativo. Perché oggi parlare di rieducazione in carcere non è cosa semplice, si chiede alle persone detenute di rispettare la legge e c’è di fatto uno Stato che non la rispetta, che non rispetta i diritti delle persone detenute. La rieducazione stessa è un diritto perché la Costituzione parla chiaro, però rispettarlo è altra cosa”. “È meglio chiarire anche per i detenuti che cosa si intende per rieducazione. - afferma Marcello Bortolato, magistrato di Sorveglianza a Padova - Perché questo termine viene direttamente dalla Costituzione: l’Art. 27 dice che la pena deve tendere alla rieducazione, e forse ci fa anche sorridere, sembra di essere a scuola con i detenuti quali scolaretti che vanno rieducati perché sono dei maleducati che hanno rotto le regole della convivenza (in realtà sono ben più che maleducati, giusto?). Ma la Costituzione risale a più di 60 anni fa, risente di una concezione della pena e del carcere che prendeva le mosse da tempi precedenti in cui appunto si pensava l’istituzione carceraria come una scuola che dovesse in qualche modo, non solo contenere, ma guidare verso un progetto di educazione quelli che si erano macchiati del reato. Questa impostazione non è stata ancora superata come manifesta lo stesso gergo carcerario: questi diminutivi come spesino, scopino, domandina, sono indice del fatto che si vuole concepire il carcere come una scuola, si vuole in qualche modo rendere più comprensibili, come a dei bambini che devono essere educati, i ruoli che ai detenuti vengono assegnati all’interno del carcere”. “Attenzione pero! - ha ancora sottolineato Bortolato. Perché la modificazione nell’atteggiamento personale non significa pentimento o quello che si chiamava una volta emenda, non mi interessa il percorso interiore di pentimento, mi interessa una modificazione dell’atteggiamento personale”. Giustizia: Vietti (Csm) in visita a Rebibbia “sono favorevole a drastica depenalizzazione” Agi, 10 maggio 2012 Il vice presidente del Csm, Michele Vietti, ha visitato oggi il carcere romano di Rebibbia intrattenendosi con i detenuti, gli agenti della polizia penitenziaria, i dirigenti, gli operatori e i volontari che lavorano nella struttura. Ad accompagnare Vietti nella visita all’Istituto penitenziario, il capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, e una delegazione dello stesso Consiglio della Magistratura tra i quali primo presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, il procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciano. “Credo sia stata un’occasione importante - ha detto Michele Vietti - abbiamo parlato in modo franco con i detenuti, con la polizia penitenziaria e con il personale e abbiamo capito che l’unica soluzione rispetto alle grandi carenze che il mondo carcerario vive, come carenza di personale, di strutture e risorse, è quella di fare squadra”. Il vice presidente Vietti ha inoltre invitato gli agenti della polizia penitenziaria e tutti i lavoratori del carcere a non “sentirsi lavoratori di serie B”. “Sappiamo quanto il vostro lavoro sia importante e difficile - ha detto Vietti - qualcuno può pensare che il momento dell’esecuzione della pena per il fatto che è in fondo al sistema giudiziario sia meno importante. Ma l’intero sistema giudiziario esiste solamente in funzione del fatto che coloro che sono condannati debbano poi scontare una pena. Il vostro è un apparato che esiste come presidio di legalità dello Stato democratico per assicurare che coloro che sono riconosciuti colpevoli poi scontino la pena”. Rivolgendosi agli agenti della polizia penitenziaria il vice presidente del Csm, Vietti, ha voluto sottolineare il ruolo importante che la stessa Costituzione dà alla “rieducazione della pena”. “Voi custodite - ha detto Vietti - delle persone di cui avete la responsabilità di riconsegnare alla società dopo averle migliorate ed educate. Non perdiamo mai di mira l’obiettivo di riabilitazione e reinserimento”. Quella di oggi è stata la prima visita compiuta in un carcere da consiglieri del Csm che, secondo la legge, possono far visita alle carceri come i parlamentari. Favorevole a drastica depenalizzazione “Sono anche favorevole - ha detto Vietti, parlando a Rebibbia con gli operatori, gli agenti della polizia penitenziaria e un gruppo di detenuti - ad una decarcerizzazione. Punire tutto con il carcere non è possibile. È una illusione quella di costruire fantomatici carceri e nel frattempo quelli che abbiamo scoppiano. Occorre una politica di alternative al carcere per alcuni tipi di reato, o in relazione alla condotta carceraria, per accedere alle misure alternative guardando certo a ieri ma anche all’oggi, al comportamento e al recupero, in funzione del domani”. Il vicepresidente del Csm, rispondendo ad una domanda dei giornalisti ha sottolineato che l’amnistia “è un problema che riguarda il Parlamento e il governo”. “Non so - ha aggiunto - se le condizioni politiche e parlamentari consentano oggi di affrontare il tema dell’amnistia. Certo, l’idea di un indulto separato dall’amnistia fu una scelta sciagurata perché risolse tanti problemi ma ne lasciò tanti altri”. Vietti ha ricordato di essere interessato ai temi della politica della giustizia “da dieci anni: ho sentito grandi annunci sui piani carceri in questi anni, ma ho visto poco e nel frattempo le carceri che abbiamo scoppiano. Per questo - ha insistito - occorre una politica alternativa al carcere per alcuni reati o in relazione alle condotte carcerarie. Guardando a ieri - ha spiegato, richiamandosi all’intervento di un detenuto che aveva lamentato lo scarso interesse della magistratura di sorveglianza per il cambiamento che avviene negli anni a chi è ristretto in un carcere - ma anche all’oggi, al comportamento, al recupero, alla capacità di reinserimento in funzione di domani”. “Dovete continuare - ha detto ancora Vietti rivolgendosi ai detenuti presenti nel teatro di Rebibbia - a credere nel domani e noi dobbiamo impegnarci perché chi esce dal carcere ritrovi un posto in una società disponibile ad accoglierlo”. Vietti, che ha sottolineato come quella odierna è stata la prima visita di una delegazione del Csm in un istituto di pena, ha risposto alla domanda di una giornalista sul tema dell’amnistia: “Non rientra nelle mie competenze - ha affermato spetta al Parlamento ed è da vedere se ci siano le condizioni per una maggioranza qualificata. Certo che l’idea di fare un indulto separato da un’amnistia fu un’idea sciagurata, che risolse pochi problemi e ne lasciò tanti”. Giustizia: il ministro Giarda; in alcune carceri ci sono 2 poliziotti per ogni detenuto… Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2012 Siparietto nelle commissioni Bilancio di Senato e Camera tra il ministro delle Riforme con il Parlamento, Piero Giarda, e il presidente della Commissione di Montecitorio, Giancarlo Giorgetti. Giarda illustra il lavoro di revisione della spesa avviato in questi mesi e, tra le altre cose rileva: “In alcune carceri ci sono due poliziotti per detenuto”. “Sono quelle di massima sicurezza” chiosa Giorgetti, subito ripreso da Giarda che mostra di avere approfondito i dossier: “E non sono quelle di massima sicurezza. Le è andata male Presidente”. Lettere: signor ministro… dei carcerati si può pubblicare anche la posta? di Renato Farina e Maurizio Lupi Tempi, 10 maggio 2012 Non esiste alcuna legge che autorizzi la trasmissione alla stampa e la pubblicazione della corrispondenza dei detenuti, costituendo anzi il caso esposto una violazione palese sia del segreto d’ufficio sia della segretezza della corrispondenza. Testo adattato dall’interrogazione a risposta scritta presentata dagli autori in Parlamento giovedì 3 maggio 2012: “Premesso che il 24 aprile, a pagina 1 e a pagina 13 del Corriere della Sera compare un articolo a firma di Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella, i quali scrivono: “Non stupisce che, agli atti dell’indagine sfociata il 13 aprile nell’arresto di Daccò (già in carcere dal 15 novembre scorso nell’inchiesta sul dissesto del San Raffaele) per 56 milioni di fondi neri della Fondazione Maugeri di Pavia, compaia ora una annotazione di polizia giudiziaria che viviseziona una lettera scritta in carcere da Daccò il 25 gennaio al commercialista Perego”; seguono ampie citazioni di questa corrispondenza privata e di asserite interpretazioni della stessa da parte della polizia giudiziaria; l’articolo 15 della Costituzione sancisce: “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”; la legge numero 95 del 2004, introduce l’articolo 18 - ter nell’ordinamento penitenziario, prevedendo i casi che giustificano una restrizione della libertà di corrispondenza dei detenuti, dispone che “per esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto, possono essere disposti, nei confronti dei singoli detenuti o internati, per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile per periodi non superiori a tre mesi: a) limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica e nella ricezione della stampa; b) la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo; e) il controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza lettura della medesima”; non esiste alcuna legge che autorizzi la trasmissione alla stampa e la pubblicazione sui giornali della corrispondenza dei detenuti, ancorché sottoposta a controllo degli organi giudiziari, costituendo anzi quanto verificatosi nel caso esposto una violazione palese sia del segreto d’ufficio sia del rispetto della segretezza della corrispondenza; queste patenti violazioni della segretezza nell’ambito dei procedimenti giudiziari dovrebbero costituire motivo di preoccupazione; interroghiamo il ministro della Giustizia per sapere: se i fatti sopra esposti corrispondano al vero; se non intenda disporre un’ispezione presso gli uffici giudiziari interessati (legge 12 agosto 1962, numero 1311). Toscana: 150 operatori sanitari e penitenziari a lezione di salute Redattore Sociale, 10 maggio 2012 La regione, prima in Italia, ha avviato oggi il percorso formativo per operatori sanitari e penitenziari, che prevede anche corsi destinati agli stessi detenuti. Prima regione in Italia, la Toscana ha avviato oggi il percorso formativo per operatori sanitari e penitenziari, che prevede anche corsi destinati agli stessi detenuti. In seguito al passaggio della sanità penitenziaria dal ministero di giustizia al servizio sanitario nazionale, in questi ultimi anni la regione Toscana ha messo in campo varie iniziative perché ai detenuti siano garantiti gli stessi servizi e lo stesso livello di salute garantiti ai cittadini liberi. Tra queste, appunto, un percorso per lo sviluppo continuo della salute in carcere: una qualificazione di chi opera e di chi vive la propria esistenza all’interno degli istituti penitenziari, perché il livello di salute migliori costantemente. Il corso che parte oggi è destinato a 150 operatori, di cui 75 personale sanitario e 75 personale dell’amministrazione penitenziaria. Sono previste 5 edizioni, organizzate per Area Vasta tra aziende sanitarie e istituti penitenziari (una a Siena, due a Firenze e due a Pisa), che coinvolgeranno complessivamente 1.198 operatori. Il piano di formazione ha avuto il suo avvio oggi, con una giornata di studio dal titolo “Salute senza restrizioni: il valore aggiunto dei percorsi integrati di formazione”, alla quale hanno partecipato operatori sanitari e penitenziari. Ad aprire i lavori, l’assessore al diritto alla salute Daniela Scaramuccia, il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria toscana Maria Pia Giuffrida, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Firenze Beniamino Deidda e il Direttore del Centro giustizia minorile per la Toscana e l’Umbria Giuseppe Centomani. I percorsi della formazione professionale riguardano quattro aree tematiche, per ciascuna delle quali sono coinvolti detenuti, personale sanitario che opera dentro il carcere, e personale penitenziario. Un modulo formativo riguarderà le tecniche di rianimazione cardio - respiratoria. Un secondo modulo prevede interventi formativi integrati su gestione del rischio chimico, biologico, fisico e in genere rischi derivanti dall’ambiente in cui si opera, compresa la gestione del rischio suicidario. Un terzo modulo formativo è dedicato in particolare al sistema minorile, con lo scopo di migliorare la gestione della comunicazione, delle emergenze e dei rischi di autolesionismo e suicidio. Un corso, destinato al solo personale sanitario, sulla gestione del rischio clinico, per l’identificazione e la prevenzione degli errori e degli eventi avversi in ambito sanitario, è organizzato dall’azienda ospedaliero - universitaria di Careggi. La linea progettuale per la sicurezza alimentare è destinata invece ai detenuti. “Ci stiamo impegnando con ogni mezzo a nostra disposizione perché a chi vive dentro le mura del carcere siano garantiti gli stessi servizi sanitari che spettano ai cittadini liberi - ha detto stamani l’assessore alla salute Daniela Scaramuccia - La salute è un diritto di tutti indistintamente. La Toscana è stata la prima Regione a regolamentare con una legge il passaggio delle competenze e la gestione della sanità penitenziaria. Da allora, abbiamo messo in atto tante iniziative perché la salute in carcere non resti un diritto solo sulla carta, ma diventi una realtà: dalla sanificazione dei letti alla messa a norma degli impianti, dall’assistenza psicologica, alle azioni per prevenire il suicidio, all’introduzione in carcere di telemedicina e tele diagnostica. Il percorso formativo che prende il via oggi vuole essere un passo ulteriore in questa direzione”. Toscana: 73% detenuti affetti da almeno una patologia Agi, 10 maggio 2012 La Toscana è una delle regioni con la più alta concentrazione degli istituti di pena, in tutto 20: 5 case di reclusione, 12 case circondariali, di cui una femminile, 1 ospedale psichiatrico giudiziario, 2 istituti penali minorili. Il 73% dei detenuti negli istituti toscani è affetto da almeno una patologia. È quanto emerge da un’indagine condotta nel biennio 2009 - 2010 dall’Osservatorio per la salute in carcere coordinato dall’Ars (Agenzia regionale di sanità) su 2.985 detenuti (cioè il 71,6% del totale dei detenuti toscani, che allora risultavano essere 4.169. Al 31 dicembre 2010 i detenuti toscani erano in tutto 4.552: 4.354 uomini e 198 donne; fonte Dap Ministero della giustizia, Dipartimento amministrazione penitenziaria, Provveditorato regionale per la Toscana). Dall’indagine emerge che i detenuti europei e nordafricani sono in genere più sani di quelli italiani, principalmente per la loro giovane età (in media sono più giovani di 10 anni). Il 27% dei detenuti sono sani, il 39,8% ha una diagnosi solo internistica, l’8% solo psichiatrica, il 25,2% internistica e psichiatrica insieme. Il sovraffollamento caratterizza stabilmente gli istituti per adulti, con effetti decisivi sulle condizioni di salute e quindi sui bisogni in termini di assistenza sanitaria. Al 31 dicembre 2011 risultavano presenti nelle strutture penitenziarie toscane 4.242 detenuti adulti: il 33% in più della capienza regolamentare di 3.186 detenuti. A fronte dell’esubero di presenze di detenuti, si riscontra la riduzione del personale penitenziario e una contrazione dei fondi da parte dell’Amministrazione penitenziaria per la manutenzione delle strutture (meno 47% dal 2007 al 2010), il mantenimento dei detenuti, l’acquisto di prodotti per l’igiene personale dei detenuti e la pulizia degli ambienti. Gli operatori sanitari in ambito penitenziario in Toscana sono complessivamente 387: 168 medici, 19 psicologi, 177 infermieri, 13 personale tecnico, 3 operatori sociosanitari, 7 personale ausiliario. Nonostante la giovane età dell’intera popolazione detenuta (età media 38 anni), la richiesta sanitaria risulta essere molto forte e caratterizzata da tre grandi temi: salute mentale, disturbi dell’apparato digerente e malattie infettive e parassitarie. In particolare, la salute mentale dei detenuti risulta compromessa da disturbi legati al consumo di droghe (12,7%) e disturbi di tipo nevrotico (10,9%), spesso associati a reazioni di adattamento connesse con l’inserimento in ambiente penitenziario. A queste malattie vanno associati i numerosi tentati suicidi che rappresentano un’emergenza per il sistema penitenziario, con valori di gran lunga superiori a quelli riferiti alla popolazione generale: 4% in carcere, 0,006% fuori. Il 10% ha alle spalle almeno un episodio di autolesionismo. Più alta tra i detenuti anche l’incidenza di tubercolosi: 0,4% in carcere, 0,006% fuori. Ancona: detenuto di 28 anni si impicca in cella, un altro tenta suicidio tagliandosi collo Ansa, 10 maggio 2012 Un detenuto greco di 28 anni si è ucciso impiccandosi nella sua cella nel carcere di Montacuto ad Ancona. Lo rende noto Aldo Di Giacomo, segretario regionale del Sappe, il Sindacato autonomo di polizia. “Secondo le prime informazioni - spiega Di Giacomo - E. P., arrestato da poco per reati comuni, si sarebbe impiccato. Si tratta del ventiseiesimo suicidio in un carcere italiano nell’arco di pochi mesi. La situazione è ormai al limite di guardia”. Il detenuto era rinchiuso in cella con altri due compagni. Non vedendolo uscire dalla toilette, gli altri due hanno aperto la porta e lo hanno trovato impiccato alla finestra. Sulla vicenda indaga il sostituto procuratore della Repubblica Paolo Gubinelli, mentre un’inchiesta interna è stata aperta dal dipartimento regionale dell’amministrazione penitenziaria. No segni violenza su corpo detenuto suicida Una prima ricognizione cadaverica non ha evidenziato segni di violenza sul corpo di E.P., il detenuto greco di 28 anni, morto nel carcere di Montacuto. E.P., che era stato arrestato per contrabbando, si è ucciso stamane impiccandosi ad una inferriata nel bagno della cella. Sulla vicenda, oltre all’indagine della magistratura, il Dap sta raccogliendo materiale e documenti dalla direzione del carcere, in attesa di aprire un’inchiesta interna. Raffaeli (Idv): carceri sempre più luogo di morte e perdizione “Le carceri italiane sono sempre più luogo di perdizione e morte anziché luogo di recupero come dice l’articolo 27 della nostra Costituzione che vale la pena ricordare ‘La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Quello che è accaduto oggi al carcere di Monteacuto non va visto con gli occhi dell’accusatore “se l’è cercata” ma va visto con gli occhi del buon padre di famiglia che fa di tutto per educare i suoi figli. Un carcerato greco che si toglie la vita è una piccola notizia che forse non troverà spazio nel tg della sera ma in realtà è una grande tragedia umana e una grande sconfitta per tutta la nostra società che fa della solidarietà il suo punto di orgoglio. L’attenzione che l’assemblea legislativa delle Marche e la Terza Circoscrizione del Comune di Ancona hanno rivolto ai detenuti di Monteacuto non è bastata a far sì che oggi non si parlasse di carceri per un altro episodio spiacevole e ciò deve essere sprone ad un impegno maggiore”. Detenuto tenta suicidio accoltellandosi Poche ore dopo il suicidio di un detenuto greco nel carcere di Montacuto ad Ancona, un altro recluso nello stesso istituto di pena ha tentato di uccidersi, procurandosi dei tagli al collo e alle braccia. È stato soccorso da alcune agenti di polizia penitenziaria ed è stato trasportato all’ospedale di Torrette. Le condizioni del detenuto non sono gravi. Si tratta di un ventiquattrenne algerino, in carcere per reati legati alla droga, che ha messo in atto dei gesti autolesionistici. Ma ce ne è abbastanza per far dire ad Aldo Di Giacomo, segretario regionale del Sappe, il sindacato degli agenti di polizia penitenziaria che il carcere di Montacuto “è un inferno”. Parma: boss Provenzano tenta il suicidio, salvato dalla Polizia penitenziaria Il Velino, 10 maggio 2012 Il tentativo di togliersi la vita dell'ex vertice di Cosa nostra detenuto nel carcere di Parma, è avvenuto nella tarda serata di mercoledì. Provenzano ha cercato di soffocarsi mettendo la testa in un sacchetto di plastica ma è stato bloccato dagli agenti. A quanto si apprende da fonti dell'Adnkronos, è difficile stabilire se si sia trattato soltanto di un gesto dimostrativo o di un reale tentativo di togliersi la vita. Il boss di Cosa nostra Bernando Provenzano, detenuto nel carcere di Parma, nella tarda serata di ieri ha tentato il suicidio cercando di soffocarsi mettendo la testa in un sacchetto di plastica. Prontamente soccorso dagli agenti della polizia penitenziaria, Provenzano è stato salvato. A quanto riferito da fonti dell'Adnkronos è difficile stabilire se si sia trattato di un reale tentativo di suicidio o piuttosto di un gesto dimostrativo. Roma: il Garante dei detenuti Marroni; gravi carenze nel Centro clinico di Regina Coeli Il Velino, 10 maggio 2012 Solo sulla carta il Centro diagnostico e terapeutico di Regina Coeli è una struttura di rilievo nazionale. In realtà, fra sovraffollamento, fatiscenza e carenze igienico - sanitarie la situazione rischia di avere, a breve, sviluppi potenzialmente drammatici. È quanto denuncia il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, in una lettera inviata al presidente della Regione Renata Polverini e ai vertici del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e della Asl Rm A. Il Centro diagnostico e terapeutico di Regina Coeli è una struttura detentiva che dovrebbe erogare assistenza sanitaria di qualità superiore rispetto a quanto accade nelle carceri. È per questo che al Centro vengono assegnati, con sempre più frequenza, detenuti con patologie complesse provenienti da tutta Italia. “A fronte di tali obiettivi - ha scritto Marroni - la struttura non è in grado di assicurare gli standard sanitari minimi previsti dalla legge, nonostante i lavori di manutenzione eseguiti. Le maggiori criticità si riferiscono, infatti, allo stato degli ambienti comuni e delle singole celle, che anche a causa delle condizioni strutturali non assicurano livelli igienico - sanitari sufficienti ad ospitare persone con patologie gravi”. Una carenza rilevante, questa, considerando il fatto che una struttura ospedaliera, anche se posta all’interno di un carcere, dovrebbe garantire un elevato livello di igiene contro possibili germi patogeni, conseguibile con misure di pulizia e disinfezione compiute da personale qualificato. “A Regina Coeli - afferma il Garante - queste operazioni sono invece affidate ai detenuti/pazienti e ai “piantonì per gli spazi comuni, per di più con l’insufficienza di prodotti detergenti e disinfettanti per l’igiene personale e collettiva. Si converrà sul fatto che se tali carenze sono ingiustificabili per normali ambienti detentivi, esse sono inaccettabili per un luogo destinato alla cura e ricovero”. Fra le altre criticità segnalate dal Garante, la carenza di personale ausiliario e sanitario e la scadente qualità del cibo distribuito. Secondo Marroni, l’insufficiente presenza di infermieri fa si che “l’aiuto per i bisogni fondamentali dei detenuti con gravi deficit motori o visivi sia demandata al “detenuto - piantone” che non ha specifiche conoscenze in materia e in nessun modo può essere considerato un sostituto dell’operatore socio - sanitario qualificato”. Il vitto, invece, oltre ad essere insufficiente per quantità e qualità, “troppo spesso non riesce neanche a tener conto delle diverse necessità alimentari dei pazienti detenuti, per le singole e specifiche patologie e relative prescrizioni mediche”. Per questi motivi, il Garante ha invito i suoi interlocutori istituzionali (Regione, Asl e dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria) “ad affrontare con decisione e in modo globale le problematiche del Cdt di Regina Coeli in considerazione della specificità della sua destinazione a Centro Clinico in un complesso afflitto da gravi carenze strutturali e da sovraffollamento, nonché da insufficiente dotazione di personale sanitario e penitenziario”. “È indubbio - ha concluso Marroni - che per la gestione di un tale Centro Clinico sono necessari ambienti idonei e personale appropriato e quindi adeguate risorse economiche, in mancanza delle quali risulta difficile garantire il fondamentale diritto alla salute della popolazione detenuta”. Cagliari: la Lila si unisce alla denuncia dell’Associazione Sdr su detenuto malato di Aids Comunicato stampa, 10 maggio 2012 La Lila di Cagliari sostiene e si unisce alla denuncia dell’associazione “socialismo, diritti e riforme” sul caso del detenuto sieropositivo ricoverato nel centro clinico del carcere di Buoncammino, e chiede con forza che venga riconosciuto il differimento della pena. La sua grave situazione immunitaria, ulteriormente compromessa da varie altre patologie, al punto da ridurlo in sedia a rotelle, non consente di attendere ancora altri incomprensibili ritardi. L’incompatibilità tra aids e carcere è ampiamente riconosciuta dalla legge 231/99, che afferma il diritto alla salute per i detenuti malati di aids e costituisce una grossa conquista di civiltà giuridica. In virtù della legge, che sancisce tale diritto ma offre al magistrato la discrezionalità della decisione, ci chiediamo quale pericolosità sociale potrebbe essere rappresentata da un detenuto invalido e nelle condizioni descritte. Un malato che, anche usufruendo della migliore sanità penitenziaria, trarrebbe certo maggior beneficio dal poter essere assistito dai suoi familiari sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico. Cogliamo pertanto l’occasione per rivolgerci al magistrato del tribunale di sorveglianza, per chiedergli di concedere senza ulteriori indugi il riconoscimento del differimento della pena. Brunella Mocci Presidente Lila Cagliari Sassari: scontro tra sindacati di polizia penitenziaria sul “nuovo corso” a San Sebastiano La Nuova Sardegna, 10 maggio 2012 È scontro all’interno del carcere di San Sebastiano tra le sigle sindacali. E questo anche in virtù dei cambiamenti apportati dalla direzione nella gestione del rapporto con i detenuti, alcuni dei quali vengono lasciati liberi di circolare in tre sezioni. Il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, il Sappe, chiede al Dap la rimozione del direttore Francesco D’Anselmo (incaricato a novembre), accusato dalla prima sigla sindacale tra i bracci di comportamento anti-sindacale. “Viola la concertazione”, si legge in un duro comunicato che contesta i turni festivi che non sarebbero svolti da tutti gli agenti. “Non tutti i poliziotti hanno svolto un turno di servizio festivo, al contrario sono rimasti a casa per tutte le festività di Pasqua, Pasquetta, 25 Aprile e Primo Maggio)”. Il Sappe contesta anche “una serie di rilievi disciplinari contro dirigenti sindacali”, ma soprattutto l’ordine di servizio del 20 aprile - a firma di D’Anselmo - di aprire le camere di tre sezioni per la “socialità”, così come previsto da una serie di direttive ministeriali. Per il Sappe, però, “non si è ancora proceduto alla classificazione dei detenuti in base alla loro pericolosità”. Ma tutte le altre sigle che rappresentano gli agenti di San Sebastiano si schierano in difesa del direttore, in una nota “di dissenso” al Sappe inviata al provveditore regionale Gianfranco De Gesu. Sinappe, Osapp, Cisl Fnspp, Uil pa e Fsa Cnpp, esprimono “solidarietà a D’Anselmo”, direttore di una delle “cayenne d’Europa a causa della vetustà, con un sovraffollamento immane”. Per le cinque sigle, il dirigente - capo della Scuola dell’amministrazione penitenziaria di Monastir - ha intavolato sin dai primi giorni un confronto sindacale improntato al raggiungimento di obiettivi condivisi per il bene comune, dimostrando sempre aperture alle proposte sindacali”. I sindacati anti - Sappe non si esprimono sulla aperture di tre sezioni, dove i detenuti liberi di entrare e uscire dalle celle richiedono maggiore attenzione (“anche a causa della circolazione di alcolici”, spiega il Sappe). Ma ricordano che esiste una grave carenza di personale nella sezione femminile “che in estate - chiedono - dovrebbe essere chiusa”. Nuoro: “Fine penna mai”, laboratorio di scrittura nell’alta sicurezza di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 10 maggio 2012 “Grazie per averci dato questa opportunità, speriamo che il libro diventi un best seller” scherza al microfono Benedetto Privitera, uno dei dieci detenuti - scrittori. “Ora speriamo in un altro corso”, aggiunge. Un corso come “Scuola di scrittura”, quello realizzato dalla Fondazione Casa di carità arti e mestieri onlus (sede centrale a Torino), “un corso iniziato nel settembre 2010 e concluso nel giugno 2011” spiega la direttrice della sede nuorese Eliana Pittalis. Quattrocento ore di lezione, in totale, che hanno portato alla pubblicazione di “Evasioni d’inchiostro”. Uno dei tanti corsi che la Casa di carità organizza non soltanto nel carcere circondariale di Nuoro. A Macomer, per esempio, la Fondazione ha portato a termine un corso per falegname, a Isili invece un corso per serricoltore vivaista, mentre a Mamone ha messo su un corso per muratore, lo stesso portato avanti anche a Lanusei. Tutti nell’ambito dei progetti d’eccellenza “Inserimento lavorativo di soggetti a rischio di esclusione sociale”, con fondi Por Sardegna 2000 - 2006. Dieci detenuti scrittori dell’alta sicurezza a Badu ‘e Carros, dieci prigio-neri di seppia: Gian Paolo Locci, Antonio Marini, Mario Cabras, Agostino Murru, Benedetto Privitera, Vincenzo Russo, Cosimo di Pierro, Arcangelo Valentino, Vittorio Salis, Ugo de Lucia. Chiamati all’appello, compresi gli ultimi due - trasferiti in altri penitenziari -, nella cappella esagonale del carcere barbaricino, per la consegna ufficiale del loro primo libro, Evasioni d’inchiostro, un’antologia di racconti, favole e poesie (con un “diario di bordo” a corredo) uscito lo scorso marzo per i tipi della giovanissima editrice sassarese Voltalacarta. Un libro di speranze, sguardi sconfinati, 260 pagine di sogno e di libertà, di voglia di raccontare e di raccontarsi, di mettersi alla prova negli spazi ristretti di una cella, un libro di evasioni, appunto, per dare un senso alle giornate. Questo, del resto, era uno degli obiettivi primari del corso di scrittura realizzato dalla sede nuorese della Fondazione Casa di carità arti e mestieri onlus, un percorso formativo finanziato dal Por Sardegna nell’ambito del progetto “La filiera dell’inclusione - Provincia di Nuoro”, e portato avanti “in collaborazione con l’Associazione Ut Unum Sint, la Kompas Sas e la cooperativa Progetto Verde” ha subito sottolineato Eliana Pittalis, direttrice della Casa di carità nuorese. “Senza dimenticare - ha aggiunto - il contributo, fondamentale per la stampa, del Comune di Nuoro”. Un grazie particolare, poi, e non poteva essere diversamente, va all’amministrazione penitenziaria, che ha permesso l’iniziativa, all’area educativa, agli agenti tutti. Ma più di chiunque altro, i protagonisti veri sono loro, i dieci allievi detenuti nel braccio dell’alta sicurezza, come pure i loro insegnanti d’eccezione, Angelo Mazza e Alberto Capitta, professore di Italiano il primo, scrittore romanziere il secondo. E la coordinatrice del corso, Daniela Laria, e la tutor Sara Mameli. “L’alta sicurezza è quella riservata ai detenuti giudicati più pericolosi - scrive Capitta nella quarta di copertina di Evasioni d’inchiostro -. Mi aspettavo dunque individui sinistri e sogghignanti, ceffi dalle barbe unte, la benda all’occhio e il bicipite tatuato, magari senza una gamba o senza un braccio. E invece cosa mi ritrovo davanti? Persone”. Le stesse persone che ieri mattina erano riunite nella chiesa del carcere. Gli scrittori - ristretti, ma anche diversi detenuti cosiddetti “comuni” e la sezione femminile. Con loro, seduti in prima fila, c’erano anche l’editor che ha messo mano ai testi, Piero Fadda, il vescovo monsignor Mosè Marcia, il cappellano don Giampaolo Muresu, gli assessori comunali alla Cultura Leonardo Moro e ai Servizi sociali Mario Angioi, il garante per i detenuti Gianfranco Oppo, il magistrato di sorveglianza del tribunale di Nuoro Adriana Carta. Tra gli ospiti, anche Giampaolo Cassita, funzionario del ministero di Grazia e giustizia nonché scrittore autore di diversi saggi e romanzi. “Oggi è la vostra festa” ha esordito l’assessore Leonardo Moro, che ha firmato una nota introduttiva all’antologia dei dieci detenuti scrittori. “Gente che ha fatto degli errori e riflette - ha scritto -; questa raccolta è l’essenza di chi vive ogni attimo, ne coglie ogni sfumatura, ne apprezza ogni valore, riempie le sue giornate e i suoi pensieri di questi attimi dai quali ha saputo tirar fuori tanta profondità”. La stessa profondità che emerge appena Luisa Puggioni dà il via alla lettura di alcuni brani del libro (per il quale si era pensato anche al titolo Fine penna mai), con il sottofondo musicale della chitarra di Fabio Calzia. A cominciare dalla poesia Homo sapiens, opera di Antonio Marini: “Io sono l’uomo della grotta / Io sono l’uomo dei graffiti, / di Altamura e di Lascaux”. Oristano: violenze in cella su un detenuto, quattro compagni sotto processo La Nuova Sardegna, 10 maggio 2012 In cinque in una cella del carcere si sta stretti. Se in quattro prendono il sopravvento, per il quinto detenuto quei pochi metri quadri diventano invivibili. È quello che sarebbe accaduto in piazza Manno dove alcuni detenuti avrebbero sottomesso un loro compagno. Per questo motivo ora rischiano un nuovo processo l’orgolese Paolo Ungredda, 29 anni detenuto per rapine e furti (assistito dall’avvocato Lorenzo Soro), Graziano Pinna, 42 anni di Borore detenuto per una rapina a Paulilatino (assistito dall’avvocato Aurelio Schintu), Graziano Congiu 30 anni di Milis (assistito dall’avvocato Aurelio Schintu), detenuto per una rapina in una tabaccheria di Simala, e il sassarese di 26 anni Daniele Daga (assistito dall’avvocato Gabriele Satta). Secondo le accuse del pubblico ministero Rossella Spano avrebbe avuto un trattamento vessatorio nei confronti di un quinto compagno di cella che ora si è costituito parte civile assistito dall’avvocato Marco Martinez. I quattro gli avrebbero lanciato contro delle sigarette accese, fatto dei gavettoni e abbassato i pantaloni, tanto che tra i capi d’imputazione figura anche quello di abuso sessuale. Un difetto di notifica ha costretto il giudice Annie Cecile Pinello a rinviare l’udienza al 10 luglio. Perugia: domani convegno sulla figura del Garante delle persone detenute www.ilsitodiperugia.it, 10 maggio 2012 Domani, venerdì 11 maggio, presso il salone d’onore di Palazzo Donini, sede della Giunta Regionale in corso Vannucci 96 a Perugia, si terrà un convegno sul “garante dei detenuti: a che punto siamo”. L’evento, promosso da radicaliperugia.org - Associazione Giovanni Nuvoli, inizierà alle 15.30. Nel comunicato diffuso dall’associazione si legge: “la Regione Umbria, con legge regionale n. 13 del 18 ottobre 2006, ha istituito la figura del Garante delle persone sottoposte a misure privative o limitative della libertà personale. La legge, dal 1996, non è mai stata applicata, eppure la sua applicazione contribuisce, in armonia con i principi fondamentali della Costituzione, delle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Itala e dalla normativa statale vigente e nell’ambito delle materie di competenza regionale, a garantire i diritti delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale, in una situazione i cui si può tranquillamente affermare che gli istituti penitenziari italiani sono incostituzionali. Il Garante - conclude la nota - è un organo di garanzia che, in ambito penitenziario, ha funzioni di tutela delle persone private o limitate della libertà personale”. Bologna: "La verità salvata da una menzogna", spettacolo scritto dai detenuti www.controcampus.it, 10 maggio 2012 Se fossi un detenuto, vorrei un libro per volar via, oltre le mura del carcere. Così afferma Peppe Lanzetta, drammaturgo italiano. Un luogo chiuso, il carcere, quasi una parentesi dal mondo, che vede nella cultura un modo per rinascere, per vedere la luce, per poter uscire da quegli angusti confini e poter sentirsi veramente liberi. Il progetto, organizzato dalla Casa Circondariale di Bologna in collaborazione con l’Università di Bologna, è coraggioso e illuminato: un seminario di scrittura teatrale per i detenuti, liberi di fantasticare e di creare, in collaborazione con un regista come Paolo Billi. Lo stesso Billi, nelle sue note di regia, ha ben a mente l’importanza del lavoro compiuto: Credo che Dostoevskij sia stato il primo testimone a raccontare di uno spettacolo di teatro in carcere, affermando che il teatro fa bene ai detenuti e a chi sorveglia! In Memorie da una casa di morti il romanziere ripercorre gli anni passati in carcere: dal suo arrivo, alle occupazioni quotidiane; dalle privazioni alla violenza dell’arbitrio più totale. Nel laboratorio di scrittura i detenuti hanno sviluppato i principali temi del romanzo: la pazienza, il silenzio, gli esercizi quotidiani, la pratica del ricordo, i ritmi del tempo. Il risultato non è pura autobiografia, ma rappresentazione lirica di visioni impalpabili, intrise di ciò che è difficile cogliere se non lo si è provato: l’ineffabile vuoto della privazione della libertà e dell’essere in balia. La verità salvata dalla menzogna è il titolo del testo partorito dentro il Dozza, un testo con tante anime, tante storie diverse che si mescolano e si parlano. Interpretato dall’attrice Francesca Mazza, andrà in scena giovedì 10 maggio al Teatro del Pratello, in via Azzo Giardino 65 a Bologna. Lo spettacolo chiuderà Stanze di teatro in carcere, giunto ormai alla seconda edizione. A precedere lo spettacolo il seminario di studi La valutazione degli interventi formativi: il caso teatro/carcere, organizzato dall’Alma Mater di Bologna, che si interrogherà sulla possibilità del teatro di influire sulla vita e sul futuro dei detenuti, e sulle possibilità di cambiamento e sperimentazione. Immigrazione: reportage dal Cie di Bologna “qui è peggio del carcere…” Redattore Sociale, 10 maggio 2012 Ex detenuti, lavoratori che hanno perso il permesso di soggiorno, vittime di tratta e richiedenti asilo. Viaggio con video tra i reclusi del Cie di via Mattei, dove la “pena” non finisce mai. Attualmente ci sono 54 persone, 20 donne e 34 uomini S. viene dal Salvador. È entrata in Italia con un visto turistico un anno e mezzo fa. Un visto che è scaduto prima che lei riuscisse a trovare un lavoro. È finita sulla strada, dormendo nei parchi e chiedendo aiuto qua e là. Al Cie di via Mattei c’è da poco tempo. Ma anche una settimana dietro le sbarre senza sapere niente del proprio futuro è lunga. S. però ha avuto il nullaosta per ritornare nel suo Paese. Forse tra 3 o 4 settimane potrà riabbracciare la sua famiglia e suo figlio. “Sono felice perché qui non ho trovato niente, sono venuta solo a disturbare - racconta - . Vivevo come una barbona e io non lo sono”. Le telecamere di Redattore Sociale sono entrate proprio nel Centro di identificazione ed espulsione di via Mattei a Bologna, scenario di numerose rivolte. E anche in occasione di questa visita, i detenuti hanno tentato incendiare un materasso. La storia di S. è quasi positiva, ma è una rarità. Esma è al centro da 3 mesi. Qualche giorno fa ha bevuto il detersivo ed è stata in ospedale 2 giorni. Poi si è arrampicata su un’inferriata e ha tentato di buttarsi di sotto. È di origine croata e in Italia, dove vendeva fiori, c’è dal 1991. Il marito è bosniaco, il Paese dove si sono sposati. Ma nè l’Ambasciata di Croazia né quella di Bosnia l’hanno riconosciuta. “Ho la fissa in testa di ammazzarmi - racconta. Non posso stare qui fino a un anno e mezzo, mi sento troppo male”. Zineta viene da Torino. Ha 46 anni e vive in Italia da 30. È di origine jugoslava. L’hanno presa nel campo dove abitava con il marito e i figli, tutti nati in Italia. Non ha documenti, non li ha mai avuti. E con il suo Paese, l’attuale Bosnia, non ha più nessun legame. In via Mattei c’è da poco, qualche giorno, ma nei suoi occhi si legge la disperazione di chi non sa quando potrà rivedere la sua famiglia. “Sono malata - racconta - . Ho problemi di cuore e la pressione alta”. Sono alcune delle persone incontrate dentro al Centro di identificazione ed espulsione di Bologna. Difficoltà di identificazione. È il problema denunciato dalla maggior parte dei reclusi. Molti di loro arrivano dal carcere. Sono ex detenuti che hanno scontato la loro pena e sono finiti al Cie perché non sono stati identificati. È il caso di Karim. Fuori lavorava come muratore e imbianchino. In nero, ovviamente. “Com’è possibile che in 8 mesi non siano riusciti a identificarmi - dice - Forse non sanno fare il loro lavoro”. In via Mattei c’è da 8 mesi. “Qui sono diventato un numero, il mio nome non me lo ricordo più - continua - Questo posto è un cimitero, siamo cadaveri che camminano”. Consolati non collaborativi e non iscrizione nelle anagrafi dei Paesi di origine sono le principali cause della difficoltà di identificazione. Per quanto riguarda i Paesi del Maghreb, i tumulti del 2011 non hanno di certo facilitato la situazione. “L’allungamento dei tempi di trattenimento non ha favorito le espulsioni - spiega Alberto Meneghini, vicedirettore della Misericordia. Se non si riusciva a identificare una persona in 6 mesi, non ci si riesce nemmeno in 18 e questa reclusione prolungata non fa altro che gravare sulla situazione psichica dei trattenuti”. Come racconta, Meneghini, “spesso anche chi vuole andare a casa non riesce o non può perché il Consolato non le riconosce o non rilascia il lasciapassare: ma tenerle al centro per un tempo così lungo, non risolve di certo la situazione”. Alì che dopo aver scontato una pena per spaccio in carcere, da 10 mesi si trova al Cie. “Il carcere è meglio, almeno so quando esco - racconta. Oggi mi hanno prorogato di altri 2 mesi, ma 18 mesi qui dentro sono troppi senza motivo”. Alì è tunisino ma non ha più nessun legame con il suo Paese, tutti i suoi parenti sono morti. Dice di aver commesso un errore e di aver pagato e ora ha bisogno di un aiuto “per mettere a posto la sua vita”. Promiscuità. È l’altro problema di questo posto. Persone che hanno perso il lavoro. Vittime di tratta. Richiedenti asilo. Ex detenuti. Donne con esperienze di violenza. Tossicodipendenti. Una presenza, quella di persone che hanno i requisiti per ottenere una protezione internazionale, sociale o per motivi di salute che viene “ammessa” dalla stessa Prefettura visto che nei documenti di autorizzazione all’accesso si specifica di garantire la non identificabilità degli ospiti vittime di violenza o abusi, evitare di riprendere situazioni di disagio o malattia, contenere le immagini che rendano identificabili le singole persone (che possono anche essere richiedenti di protezione internazionale/asilo). Per ognuno di loro la Misericordia ha a disposizione circa 70 euro al giorno. Dentro ci deve stare tutto: vitto, alloggio, assistenza sanitaria, psicologica e sociale. Ma ovviamente non bastano. “È ovvio che bisogna andare oltre al capitolato del bando - spiega Meneghini - se si vuole dare assistenza a queste persone”. Il 31 luglio non scade solamente la gestione della Misericordia ma anche le convenzioni che questa ha stipulato con Asl e altri soggetti del territorio. Ciò significa che a rischio c’è anche l’assistenza sanitaria. Solo per fare un esempio oggi c’è un medico 24 ore al giorno e un infermiere per 12 ore al giorno. Il nuovo bando prevede la presenza del medico solo per 8 ore al giorno. Oggi nel centro di via Mattei ci sono 54 persone, 20 donne e 34 uomini. Un numero inferiore a quello di qualche settimana fa perché, come racconta Meneghini, “la Questura ha chiesto una riduzione delle presenze per consentire i lavori di sistemazione delle stanze e delle aree danneggiate dalle rivolte”. Nelle scorse settimane, infatti, si sono verificati numerosi episodi di rivolte e alcuni reclusi sono riusciti a fuggire dal centro. Camminando lungo il perimetro esterno si vedono i segni delle bruciature, il plexiglas rotto, le ciabatte che hanno lanciato oltre alle recinzioni insieme alle pietre. Durante la visita alcuni detenuti hanno tentato di dare fuoco a dei materassi. “Il prolungamento del trattenimento fino a 18 mesi ha provocato una recrudescenza dell’aggressività nei confronti della struttura - continua Meneghini - Il sistema è paradossale: alle norme assolutamente repressive si contrappongono i tagli alle risorse, due cose che faticano a conciliarsi”. Dal prossimo agosto, il nuovo gestore avrà a disposizione 28,50 euro per ogni recluso. Una cifra ridicola. E una gara di appalto che, come ci ha detto la direttrice Anna Maria Lombardo, “mortifica perché basta fare due conti per capire che è impossibile gestire il centro con quelle cifre”. Immigrazione: Cie Bologna; nel 2011, uno su sei uscito con permesso protezione sociale Redattore Sociale, 10 maggio 2012 Delle 665 persone transitate per il centro, 334 sono state espulse, mentre 107 sono uscite grazie a progetti individualizzati di assistenza. Pilati (Progetto sociale): “Questo è un posto di paradossi”. Con il passaggio di gestione, a rischio l’assistenza Nel 2011 sono state 665 le persone transitate per il Centro di identificazione ed espulsione di via Mattei. Di queste, circa la metà (334) sono state espulse, 192 hanno fatto richiesta di protezione internazionale, 226 in passato era in possesso di un permesso di soggiorno, 104 provenivano dal carcere. Sono, invece, 107 (61 uomini e 46 donne) le persone uscite con un permesso per protezione sociale o per motivi di salute. Quasi 1 persona su 6. Un numero molto elevato che fa riflettere sulla funzione di questi centri. Si tratta, infatti, di persone che non vi sarebbero mai dovute entrare. “Non solamente non sarebbero dovuto entrare in un Cie - spiega Franco Pilati, responsabile del Progetto sociale della Misericordia dentro al Cie di Bologna - ma paradossalmente è stato qui che hanno potuto iniziare un percorso di assistenza”. Un altro paradosso deriva dall’allungamento dei tempi di trattenimento a 18 mesi. “Si tratta di una decisione terrificante - continua - ma è anche vero che paradossalmente con persone trattenute da tempo si è potuto intraprendere un percorso psicoterapico”. Con il passaggio di gestione (che avverrà a fine luglio, salvo l’esito del ricorso presentato dalla Misericordia) però, questi interventi sono a rischio. Dal 2005 all’interno del Cie di Bologna è attivo il Progetto sociale. Si tratta di una serie di interventi messi in piedi dagli operatori della Misericordia (mediatori culturali, psicologi, antropologi, assistenti sociali) e da realtà del territorio. Ad esempio, l’associazione Sos Donna è presente ogni giovedì al Cie per assistere le donne presenti e collaborare nel riconoscimento delle vittime di tratta e sfruttamento sessuale e aiutarle a entrare nel percorso di protezione previsto dall’articolo 18. Le denunce sono una decina all’anno. Tra le 20 donne attualmente presenti nel Cie 3 hanno fatto denuncia in quanto vittime di tratta. Fuori dal Cie queste donne vengono accolto grazie a convenzioni con la Casa delle donne per non subire violenza e la Papa Giovanni XXIII. Nel 2011 sono state 4 le donne accolte in strutture protette (2 nigeriane, 1 cinese e 1 ucraina). “Si è creata una rete - continua Pilati - Dal 31 luglio però non sappiamo cosa succederà“. Anche perché, va sottolineato, il consorzio che ha vinto l’appalto (con 28,50 euro a persona) è siciliano e, di certo, non avrà una conoscenza diretta del territorio e dei soggetti che vi operano. Fragilità psichica, esperienze di prostituzione o di violenze sessuali fin dall’infanzia, mancanza di punti di riferimento affettivi positivi in Italia e nei loro Paesi, invalidità totale. Sono alcune delle caratteristiche riscontrate nelle persone prese in carico. Tra i 61 uomini, 43 provenivano dalla Tunisia, mentre gran parte delle donne proveniva da Nigeria (16) e Ucraina (8). La maggior parte dei tunisini presi in carico provenivano da Lampedusa ed erano arrivate in Italia all’inizio del 2011. Si trattava in prevalenza di giovani uomini con una limitata conoscenza dell’italiano e la mancanza di punti di riferimento nel Paese di accoglienza. Tra le donne, molte avevano pregresse esperienze di prostituzione e violenza, vittime di tratta, badanti con episodi di violenze fisiche o psicologiche da parte di mariti, conviventi e datori di lavoro, sfruttamento lavorativo. Nel 2011 si è registrato un aumento della presenza di donne maghrebine (prima quasi assenti): si è trattato di persone presenti in Italia da diversi anni, con figli qui o nel Paese di origine, a volte vittime di violenza che hanno lasciato mariti e conviventi connazionali. Cie: alternative ci sono, bisogna renderle effettive La detenzione in un Cie dovrebbe essere l’extrema ratio. Lo dice la direttiva rimpatri del 2008. Dove sono anche contenute le possibili alternative. Meno afflittive. Se ne parla a Bologna nel Trans Europa Festival. Masera (Arci): “I Cie sono inutili”. Partenza volontaria. Obbligo di firma. Obbligo di presentare i documenti. Sono alcune delle alternative possibili alla detenzione in un Centro di identificazione ed espulsione previste dalla stessa normativa (la direttiva rimpatri del 2008). È una delle proposte emerse durante il convegno “Quali alternative al Cie? Prospettive e proposte” promosso dal movimento Primo Marzo nell’ambito della campagna LasciateCientrare e attualmente in corso a Bologna all’interno del Trans Europa Festival organizzato da European Alternatives. “In quella normativa si dice che il Cie deve essere l’extrema ratio - spiega Luca Masera di Arci - e sono indicate misure meno afflittive: non c’è bisogno di fantasia per trovarle ma bisogna renderle effettive”. Inutile e illegittimo. “I Cie andrebbero chiusi indipendentemente dalle alternative” continua Masera. Il giurista e volontario dell’Arci ha, infatti, spiegato che i Cie sono illegittimi sulla base dell’articolo 13 della Costituzione in cui è prevista la restrizione della libertà personale sono in caso straordinari e di urgenza. “La legge deve individuare i casi e i modi di privazione - continua - ma mentre l’articolo 14 del Testo Unico sull’immigrazione prevede i casi non dice niente sui modi”. È per questo che ogni Prefettura si regola come crede. “L’aumento dei tempi di detenzione da 6 a 18 mesi è stato successivo alla decisione europea di vietare il carcere per gli stranieri irregolari - spiega Masera - È evidente dunque che la funzione del Cie è solamente afflittiva e sanzionatoria ed è un succedaneo del carcere”. Israele: sciopero fame detenuti palestinesi, ancora proteste Ansa, 10 maggio 2012 Un picchetto dinanzi alla sede della Croce Rossa Internazionale - Mezzaluna Rossa è stato imposto oggi a Ramallah in Cisgiordania da decine di familiari delle centinaia di detenuti palestinesi impegnati da settimane in uno sciopero della fame a oltranza nelle carceri israeliane. L’iniziativa è stata decisa nel quadro delle manifestazioni popolari di protesta organizzate a ritmo quotidiano in solidarietà con i reclusi, che rivendicano fra l’altro migliori condizioni detentive e l’abolizione degli arresti amministrativi prolungati (misura preventiva che Israele talora adotta nei Territori occupati senza contestare alcuna imputazione formale). I dimostranti denunciano la grave prostrazione fisica dei veterani dello sciopero (la cui vita sarebbe ormai in concreto pericolo, secondo medici e avvocati) e chiedono alle istituzioni internazionali d’intervenire con maggiore fermezza per fare opera di mediazione. Un analogo picchetto era stato promosso ieri per bloccare gli ingressi degli uffici Onu a Ramallah. A destare allarme è soprattutto lo stato di salute dei sette detenuti che per primi hanno cominciato a rifiutare il rancio oltre due mesi fa e a cui si sono più tardi associati - con richieste in parte diverse - almeno altre 1.600 persone appartenenti a diverse fazioni palestinesi. In particolare sono già stati costretti al ricovero coatto in ospedale i due pionieri assoluti della protesta: Taher Halahla e Bilal Diab, seguaci della Jihad Islamica tenuti rispettivamente agli “arresti amministrativi” (in assenza di processo) da oltre un anno e da quasi due. Halahla e Diab hanno entrambi raggiunto il 75° giorno di sciopero della fame. Israele: l’Intifada della fame… il digiuno dei detenuti palestinesi diventa una bandiera di Fabio Scuto La Repubblica, 10 maggio 2012 È stato un altro lungo giorno di digiuno per Taher Halahla e Bilal Diab, i due detenuti palestinesi arrivati al settantaduesimo giorno senza cibo. Non sono soli, altri sette detenuti da qualche giorno si sono uniti a loro. Sono pronti ad andare avanti a oltranza fino alle estreme conseguenze, lasciarsi morire di inedia dietro le mura grigie del famigerato carcere di Ofer, l’Incarceration Facility 385 secondo il linguaggio burocratico dell’Amministrazione penitenziaria israeliana. Altri 1600 li stanno seguendo ormai da quasi un mese. Perché lo sciopero della fame è l’unico mezzo che i detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane senza accuse formali - qui li chiamano “arresti amministrativi”, si tratta dell’equivalente di una detenzione preventiva - hanno per ottenere la liberazione. Come i ragazzi dell’Iraa Belfast nel penitenziario di Maze nel 1981, Taher, Diab e gli altri hanno intenzione di andare avanti fino alla fine, come gli otto che seguirono il destino di Bobby Sands, il primo che si lasciò morire scuotendo le coscienze nel maggio del 1981 dopo 66 giorni di digiuno. Se dovesse morire uno di loro questa “Intifada della fame” dietro le sbarre potrebbe scatenare violenze in tutti i Territori palestinesi occupati, dove questa protesta è sentita, sostenuta e appoggiata. Ieri la Croce rossa internazionale ha chiesto per sei di questi detenuti il ricovero in ospedale per le loro gravi condizioni e ha chiesto anche, per ora invano, che sia consentito loro di ricevere le visite dei parenti in carcere. Dopo la rivolta della rete, le denunce su Facebook e Twitter, sono decine le manifestazioni anche nei paesi più piccoli della Cisgiordania e le marce di sostegno, con la gente che mostra le foto dei parenti incarcerati che partecipano alla protesta nelle celle. Lo scorso 17 aprile in occasione della “giornata del detenuto” tre quarti dei 4700 prigionieri palestinesi hanno rifiutato il cibo. Non è il primo grande sciopero nelle carceri israeliane - nel 2004 diecimila detenuti rifiutarono il cibo per 17 giorni - ma è la prima volta che un gruppo ha deciso di portare avanti fino alla fine. L’iniziatore di questa protesta è stato un fornaio di 34 anni, Khadnan Adnan, militante della Jihad islamica, che aveva iniziato lo sciopero della fame dopo essere finito in cella lo scorso anno senza imputazioni. In carcere per un “arresto amministrativo” - e senza essere mai stato portato davanti a un giudice - Adnan ha rifiutato il cibo per 73 giorni prima di vincere la sua battaglia ed essere rilasciato. L’avvocato Jawad Boulos, che rappresenta l’Associazione dei palestinesi detenuti in Israele, spiega a Repubblica che lo sciopero della fame a oltranza nelle prigioni israeliane viene condotto da due gruppi distinti, che hanno obiettivi diversi. Il primo gruppo di sette carcerati ha iniziato lo sciopero della fame circa due mesi fa. Alcuni, come appunto Diab e Halahla, vogliono l’annullamento degli arresti amministrativi decretati da un tribunale militare. Un altro, Muhammed Taj, chiede di essere riconosciuto “prigioniero di guerra”. Un altro ancora, catturato a Gaza, chiede di tornare libero nella Striscia. Il secondo gruppo - che conta circa 1.600 prigionieri - lotta per un miglioramento delle condizioni di reclusione. Fra le richieste, l’abolizione dell’isolamento e l’accesso a siti accademici online. Poi ci sono settecento detenuti originari di Gaza - sempre secondo l’avvocato Boulos - che non ricevono visite dei loro congiunti da cinque anni, come ritorsione per il rapimento del caporale israeliano Gilad Shalit, che però nel frattempo ha riacquistato la libertà. Il trattamento dei detenuti in Israele è uno dei temi più sentiti tra i palestinesi. I crimini per cui vengono arrestati sono dei più vari, dal semplice lancio di pietre all’organizzazione di attacchi terroristici. Trai 4700 palestinesi detenuti nelle carceri 302 sono in regime di detenzione amministrativa. Una misura usata prevalentemente nei casi in cui gli indizi disponibili consistono in informazioni ottenute dai servizi segreti (come lo Shin Bet), e nei casi in cui un processo pubblico potrebbe rilevare informazioni ritenute di sicurezza dalle forze israeliane. Ogni comandante dell’esercito locale può diramare un ordine di detenzione amministrativa, che può essere appellato presso la locale Corte militare e, se negato, alla Corte Suprema. Anche in questo caso, l’ordine è valido per sei mesi, ma può essere rinnovato a tempo indefinito dall’autorità. Nel territorio palestinese questa forma di detenzione extra giudiziale esisteva sin dal mandato britannico del 1945. L’ordine militare che legifera la detenzione amministrativa è il n. 1651 del 1970 che nel 1979 è stato ribadito, nonostante il Parlamento israeliano avesse stabilito già nel 1951 che questa misura andava abolita. Dietro le quinte i contatti fra la direzione del Servizio carcerario israeliano e una rappresentanza di reclusi per trovare uno sbocco alla crisi si sono fatti febbrili. Ieri sera il governo palestinese ha chiesto alle Nazioni Unite e all’Europa di intervenire, ammonendo che “riterrà Israele responsabile della vita dei prigionieri palestinesi”. Nessuno vuole un Bobby Sands palestinese. Canada: detenuti dovranno pagare di più per i posti-letto Corriere Canadese, 10 maggio 2012 Nuovo giro di vite del governo nelle carceri canadesi. Ad annunciarlo è stato ieri Vic Toews, che ha ribadito come l’esecutivo sia intenzionato a eliminare “i privilegi” di cui godono gli incarcerati canadesi rispetto a quelli di altri Paesi. Tra le misure previste dell’amministrazione Harper - provvedimenti che, secondo la tabella di marcia del ministro della Giustizia dovrebbero essere approvati entro il 2012 - l’aumento del costo dei “posti letto” nelle prigioni e l’eliminazione degli incentivi pagati dai penitenziari ai detenuti che lavorano nelle “prison canteen”, negozietti all’interno delle carceri dove i detenuti possono acquistare beni di prima necessità. Attualmente i prigionieri devono pagare fino a 25 dollari alla settimana per il loro posto letto, una cifra che comunque varia a seconda dei punteggio raggiunti nei vari programmi all’interno delle prigioni: gli aumenti potranno raggiungere anche il 30 per cento. Ma non solo. La gestione delle “canteen” passerà completamente agli stessi detenuti. “Questo - ha dichiarato il ministro della Giustizia - determinerà un risparmio dei soldi dei contribuenti e allo stesso tempo permetterà la creazione di altri posti di lavoro tra i detenuti dei penitenziari”. Si cambia anche per l’acquisto di beni non disponibili nei piccoli negozi all’interno delle carceri. Fino a questo momento era compito dello staff comprare prodotti per i detenuti su base volontaria. In futuro invece gli acquisti saranno calendarizzati e i prigionieri dovranno aspettare il proprio turno per poter compare qualcosa al di fuori della prigione.