Giustizia: perché la legge “svuota carceri” non ha fatto diminuire il numero dei detenuti? di Ruggiero Capone L’Opinione, 6 luglio 2012 Sono passati sei mesi dall’approvazione della “svuota carceri”, ma gli effetti del provvedimento firmato Paola Severino sembrano per certi versi nulli e per altri deleteri. Prima della “svuota carceri” era più facile che un detenuto con un anno e mezzo di residuo di pena venisse affidato alla famiglia, che tornasse al lavoro. Dopo il pacchetto della Severino, nessun magistrato s’è più assunto la responsabilità di alleviare gli ultimi mesi di detenzione, e tutti i detenuti sono diventati pericolosi. Al 31 maggio 2012 si sono registrati 21mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare: 66.487 (di cui il 36% stranieri) contro 45.743. Lo denuncia l’associazione Antigone, avvertendo che “con l’arrivo del caldo si fa sentire sempre di più la necessità di provvedimenti urgenti, che facciano tornare nella legalità i nostri 206 istituti di pena”. “La legge che prevedeva originariamente la possibilità di scontare l’ultimo anno di pena in detenzione domiciliare, modificata alla fine del 2011 dal decreto Severino, che estendeva questa possibilità agli ultimi 18 mesi - nota Patrizio Gonnella (presidente di Antigone) - ha avuto effetti decisamente inferiori alle aspettative. Al momento poco più di 6.000 i detenuti che ne hanno usufruito: persone che avrebbero altrimenti avuto altre misure alternative alla detenzione o che sarebbero uscite per sopraggiunto fine pena. L’intervento del Governo, dunque, ha fermato ma non invertito la crescita della popolazione detenuta”. Con un tasso di affollamento del 145,3%, ovvero con oltre 145 detenuti ogni 100 posti, l’Italia è il paese più carcerariamente sovraffollato dell’Ue. La regione in condizioni peggiori si riconferma la Puglia (con un tasso del 180,7%), seguita da Lombardia (176,6%) e Liguria (170,8%). La meglio messa è il Trentino Alto Adige (73,8%, ha addirittura 180 posti liberi). Gli imputati in carcere rappresentano il 40% del totale della popolazione detenuta. In Campania vi sono più imputati che persone condannate. Quella con meno imputati è il Molise. Complessivamente due persone su cinque sono dentro pur essendo presunte innocenti. Antigone contesta “il bluff della capienza regolamentare”. “Dal 2007 al 2012 - rileva Antigone - parrebbe che l’Italia abbia aumentato la capienza delle sue carceri di 2.557 posti. I primi effetti del piano carceri del governo? No. Si tratta semplicemente del fatto che si stipano sempre più detenuti, trasformando in celle tutti gli altri spazi, a scapito di spazi comuni, indispensabili per la vivibilità degli istituti. Nelle carceri c’è sempre meno spazio”. Giustizia: Marcenaro (Pd); giusto parlare di tortura, nelle carceri lo Stato viola la legge di Carlo Candiani Tempi, 6 luglio 2012 Intervista a Pietro Marcenaro, senatore Pd e presidente della Commissione diritti umani del Senato: “Il commissario europeo per i diritti umani ci sta chiedendo un atto formale di denuncia”. All’indomani della presentazione del “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattamento per migranti”, votato all’unanimità in Commissione diritti umani del Senato, tempi.it ha intervistato il presidente della commissione, Pietro Marcenaro, senatore Pd. Senatore, le carceri sono sovraffollate e la situazione nei centri di accoglienza è drammatica. È troppo parlare di tortura? No. La Commissione ha presentato questo rapporto sulla situazione dei diritti umani nelle carceri italiane che denuncia esplicitamente una violazione della legge da parte dello Stato. Non bisogna smettere di ricordare che questa denuncia non si basa solo su un principio morale, ma sul fatto che è violata la legge: lo Stato, cioè, cade nell’illegalità. Se lo Stato non è in grado di garantire il rispetto dei diritti fondamentali di dignità delle persone, offrendo carceri decenti, dovrebbe rinunciare a far scontare la pena in prigione. Fatte salve situazioni estreme di sicurezza, bisogna arrivare a capire che ci sono dei limiti, che nessuno può violare la dignità dell’uomo. Lo Stato invece cancella dal suo orizzonte i carcerati e non fornisce spazi adeguati, né una assistenza sanitaria decente, né l’assistenza psicologica, non dà la possibilità di lavorare, né di fare nient’altro. Lei ha denunciato che la pena, in Italia, è sinonimo di carcere. Quando diciamo certezza della pena, in realtà intendiamo certezza del carcere. Da noi il carcere è la norma e le pene alternative sono l’eccezione. Il cambio di rotta è lungo da praticare, ma ci sono forze politiche e personalità che stanno insistendo per una realtà diversa. Questi problemi devono essere sottratti allo scontro politico, dove l’unico obiettivo è acquisire del consenso. Il lavoro della commissione vuole andare in questa direzione. Qual è, quindi, la priorità su cui lavorare? Il nuovo direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si sta muovendo bene: la circolare che ha diramato intende responsabilizzare i detenuti, distinguendo tra chi è veramente pericoloso e la grande maggioranza che è detenuta per reati minori. È urgente una riforma complessiva? Le leggi sui tossicodipendenti, sull’immigrazione, sulla recidiva e sulla custodia cautelare hanno portato al sovraffollamento delle carceri. Bisogna mettere mano a queste leggi e si vedrà che i flussi verso le celle diminuiranno. Puntare sul carcere, infatti, non risolve il problema dell’ordine pubblico. Anche la situazione nei centri di trattamento per i migranti è critica? È più che urgente: il commissario europeo per i diritti umani che ci ha fatto visita nei giorni scorsi ci sta chiedendo un atto formale di denuncia. Il Cie è una struttura pensata per accogliere persone migranti per pochi giorni, invece da noi ci rimangono per diciotto mesi. Almeno nel carcere è prevista una minima forma di attività, la retorica del reinserimento esiste ancora. Una giornata in questi centri è completamente vuota, riempita solo da ansia e insicurezza; c’è una promiscuità inaccettabile nelle stesse stanze tra persone condannate per reati molto gravi, come sfruttamento della prostituzione o traffico di droga, e ragazzini che hanno come unica colpa quella di aver sfidato la morte attraversando il mare per cercare un futuro migliore o di non aver richiesto per ignoranza la cittadinanza. Tutto ciò è assurdo. Quali potrebbero essere i prossimi passi della commissione? Ho scritto al presidente del Consiglio, anche nel suo ruolo di ministro dell’Economia, per firmare al più presto la legge per l’istituzione di un’authority permanente sui diritti umani, presentata e votata in Senato e in discussione alla Camera. Ho solo paura che demagogia e populismo vedano un’authority indipendente dai partiti come uno spreco burocratico. Ma attendiamo con fiducia. Giustizia: rinchiusa in Opg per gli effetti collaterali di un farmaco sbagliato di Antonio Crispino Corriere della Sera, 6 luglio 2012 La storia di Natascia Berardinucci, malata di Parkinson e condannata per stalking. Una bellissima ragazza dagli occhi leonini, i capelli lunghi castani e un fisico statuario. La più bella, la più corteggiata del paese ma anche la più brava. Perché Natascia Berardinucci è anche un’infermiera professionale dell’Asl di Chieti, “una delle più brave”, dicono i colleghi. “Lei sa come prendere i pazienti”. Per la Sanità italiana invece Natascia è una ragazza che ha scoperto presto il dolore sulla propria pelle: un Parkinson precoce che se non curato bene rende difficile ogni movimento. Alcuni luminari le prescrivono un medicinale a base di pramipexolo che lei inizia a prendere dal 2005. Ma nel 2007, dopo tre richiami dall’Enea (Ente Europeo del farmaco) la casa farmaceutica che lo produce è indotta a descrivere nel bugiardino anche alcuni effetti collaterali devastanti che interessano una piccola percentuale di pazienti (3-4%) intaccando in loro tutti quelli che sono i sensori dell’appagamento e della felicità. Nessuno però provvede a informare i pazienti che hanno preso quel farmaco dal 2005 al 2007 dei possibili rischi che può arrecare: shopping compulsivo, gioco d’azzardo compulsivo, ipersessualità e iperbulimia. Natascia rientra in quel 3-4% secondo Flavia Valtosta, farmacologa del San Raffaele di Milano. Si sveglia la notte per mangiare e per giocare al gratta e vinci on line. Arriva a perdere circa 40mila euro, diventa bulimica e aggressiva. Il compagno con cui programmava le nozze non capisce o finge di non capire cosa succede. La denuncia per maltrattamenti arriva in seguito a uno schiaffo di troppo: lui l’accusa di stalking, danneggiamento e lesioni. “Erano lesioni reciproche ma per la giustizia Natascia diventa una stalker da condannare. I giudici ignorano che la colpa principale di questi comportamenti violenti è un effetto collaterale del farmaco che lei prendeva” dice il suo avvocato Danielle Mastrangelo. Natascia viene sottoposta a 35 consulenze psichiatriche in 90 giorni, 7 perizie per pericolosità, di cui tre ordinate dal tribunale. Pur risultando tutte a suo favore (e benché incensurata), i giudici le rifiutano la sospensione della pena o gli arresti domiciliari. Cambia tre carceri in tre mesi. Per 23 giorni viene tenuta in isolamento dai parenti. La giustizia italiana decide che tutto questo non basta. Natascia viene trasferita in un Opg, ossia un manicomio criminale, dove le sbagliano la cura anti Parkinson. “Le somministrano un altro medicinale che ha una durata di 21 giorni. Serve solo a tenerla ferma a letto - racconta sbalordito il papà Antonio. Quando sono andato a trovarla ho avuto paura. Nella sala colloqui ci è arrivata sotto braccio a due agenti carcerari, non riusciva a camminare o a portare il bicchiere d’acqua alla bocca”. Mentre lo racconta, il papà ha gli occhi lucidi. Ha solo la forza di biascicare “...sono stati i giorni più brutti della mia vita, i più duri”. Scuote la testa e si copre il volto. Solo dopo 106 giorni di carcere i periti del Tribunale di Sorveglianza accertano l’incompatibilità con il regime carcerario e la scarcerano. La decisione coincide anche con una manifestazione del padre di Natascia: per la disperazione si incatena al tribunale chiedendo giustizia per la figlia. Tuttavia i giudici la condannano anche in Cassazione per stalking. “Natascia viene considerata una persona violenta, diventano irrilevanti del tutto o quasi effetti del medicinale sui suoi comportamenti. Ne esce fuori un’immagine che stride troppo con quella reale” dice l’avvocato difensore. Ma soprattutto i giudici sembrano ignorare il dolore, l’umiliazione e la frustrazione provati da una ragazza che lavora - apprezzata da tutti - come infermiera e d’estate si reca in Africa per aiutare i bambini del Kenya, che fa volontariato presso la Croce Rossa, che “non ha mai fatto mal a una mosca” come la descrive uno dei suoi amici più cari. “All’improvviso si vede dipinta dalla giustizia come una carnefice”. Natascia tuttavia crede nella giustizia, quella con la maiuscola: rifiuta ogni patteggiamento con l’ex fidanzato; ripete “che non deve patteggiare niente perché non ha fatto niente”. La giustizia italiana ritiene che il farmaco abbia solo esasperato uno stato di depressione avanzato. E lei oggi, ancora in piedi - pur di avere un può di giustizia dopo i tre gradi che l’hanno condannata - ha deciso di rivolgersi alla Corte suprema per i diritti dell’Uomo a Strasburgo. Nel frattempo ha in corso anche una maxi causa legale per risarcimento danni con la casa farmaceutica produttrice del farmaco “che mi ha tolto il sorriso per tutta la vita”. Giustizia: processo Diaz; Cassazione conferma le condanne, decapitati vertici della Polizia di Carlo Bonini La Repubblica, 6 luglio 2012 Mentirono e calunniarono sulla notte delle violenze al G8. Ora dovranno lasciare l’incarico. Perché in quel verdetto è la conferma per intero, in fatto, in diritto e nella determinazione delle pene, delle condanne pronunciate sui fatti della Diaz dalla Corte di appello di Genova il 18 maggio del 2010 nei confronti di 25 tra agenti, funzionari e dirigenti. Piangono gli avvocati di parte civile. Piange l’anziano Arnaldo Cestaro, il vecchio con la quinta elementare che non venne risparmiato dalla furia dei tonfa e ora, aggrappato a una sedia di legno dell’aula come un naufrago alla zattera, ha solo la forza di dire “dopo 11 anni da suddito torno ad essere un cittadino”. Piangono alcuni degli avvocati delle difese, che non hanno la forza di avvicinare il cellulare all’orecchio per comunicare con gli imputati che, assenti, aspettano. Osserva impassibile e composto Pietro Gaeta, il sostituto procuratore generale, che questo processo ha difeso con appassionato rigore e infine vinto. Una verità definitiva La verità giudiziaria su quella notte è dunque definitiva. Il 21 luglio del 2001, a Genova, nel “plesso Diaz-Pertini”, gli uomini della Polizia di Stato violarono due volte il giuramento di fedeltà alla Costituzione. Prima abbandonandosi a violenze indicibili su 93 donne e uomini inermi ospiti della scuola. Poi, costruendo consapevolmente sul loro conto la calunnia che, accusandoli da innocenti quali erano, avrebbe dovuto dissimulare le responsabilità dello scempio. E questo, accreditando una “resistenza” che non c’era mai stata con prove farlocche. Una coppia di bottiglie molotov, manici di piccone raccolti alla rinfusa in un cantiere non lontano, intelaiature in alluminio sfilate dalle armature degli zaini di chi in quella scuola voleva solo dormire. Una doppia violenza. “Premeditata all’istante”. Nelle more di una notte maledetta in cui non una sola norma venne osservata. Il prezzo della condanna La Cassazione dice ora che non ci furono innocenti, quella notte. Non lo fu il “braccio” che consumò le violenze, non lo fu la testa che, a posteriori, cercò di coprirle. Ma il conto definitivo - in una singolare nemesi governata dalla prescrizione - lo paga solo la testa. Dei tredici imputati del VII Nucleo speciale della Celere, nove (l’allora vicecomandante Michelangelo Fournier e i capisquadra Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri, Vincenzo Compagnone) vedono estinto il reato di lesioni per “intervenuta prescrizione “ e dunque dissolte le condanne di secondo grado (Fournier era già prescritto) e le pene detentive e accessorie ricevute in primo e secondo grado. Pagano solo in tre. Vincenzo Canterini, che quel Nucleo comandava, vede ridotta la pena da 5 a 3 anni e 6 mesi, per il solo reato “superstite”: il falso aggravato. Lo stesso che condanna gli agenti Massimo Nucera e Maurizio Panzieri responsabili della messa in scena di un’aggressione mai avvenuta con un coltello che si voleva vibrato contro un corpetto di protezione antisommossa (3 anni e 5 mesi). Canterini, che ha lasciato la Polizia e si divide oggi tra l’Italia e santo Domingo, non sconterà né la pena detentiva (coperta pressoché per intero dall’indulto di 3 anni fa), né quella accessoria dell’interdizione. Al contrario, Nucera e Panzieri, che pure non affronteranno il carcere, da ieri sono “interdetti “ e dunque fuori dalla Polizia. Come l’uomo delle molotov: l’enigmatico agente Pietro Troiani, che in 11 anni, si è rifiutato di indicare se e da chi ricevette l’ordine di introdurre nel cortile della scuola quei due ordigni sequestrati altrove e custoditi nel bagagliaio di un Land Rover. Decapitata l’anticrimine Ma, appunto, è la “Testa” a pagare per tutti. Francesco Gratteri, direttore della Direzione Centrale Anticrimine (4 anni), Gilberto Caldarozzi, direttore del “Servizio Centrale Operativo” (3 anni e 8 mesi), Giovanni Luperi, capo della direzione analisi dell’Aisi, il Servizio Interno, e con loro quelli che, quella notte del 2001, erano giovani funzionari e oggi dirigono importanti squadre Mobili (Filippo Ferri e Fabio Ciccimarra) o sono diventati questori (Spartaco Mortola). Da ieri sera, la condanna alla pena accessoria di 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e a quel che resta, tolti i 3 anni di indulto, della pena detentiva (per la quale verosimilmente le difese chiederanno la sospensione o la sostituzione con l’affidamento in prova ai servizi sociali) li colloca fuori dalla Polizia. Di cui - è senz’altro il caso di Gratteri, Caldarozzi, Luperi - sono e sono stati la spina dorsale, l’eccellenza investigativa. Senza distinguo Il destino di questi “uomini dello Stato”, per altro assolti in primo grado, giustamente e legittimamente celebrati e apprezzati in questi anni per la cattura di Provenzano, piuttosto che per le indagini sulle nuove Br e la strage di Brindisi, erano la vera posta in gioco di questo processo. L’elemento simbolico capace di dare sostanza o, al contrario, svuotare del tutto il senso e il significato di quella notte e di una vicenda processuale durata 11 anni. In queste settimane, per una ragione legata al lungo rinvio tra la discussione del processo e la camera di consiglio (20 giorni) si era avuta la percezione che troppo era il “carico” sulla Corte per non consigliarle una decisione “articolata”. Dei “distinguo”, insomma. Che rimodulassero le responsabilità di questi uomini in ragione di ciò che fecero o non fecero quella notte. Della circostanza di aver firmato (è il caso di Caldarozzi) o non firmato (Gratteri e Luperi) i falsi verbali di sequestro e arresto che calunniavano i 93 della Diaz. Ebbene, la quinta sezione penale della Cassazione ha deciso - come le aveva chiesto il pg Gaeta che non ci fosse spazio né per i distinguo, né per un azzeramento delle responsabilità della catena di comando. Di più, che la severità nei loro confronti imponesse non solo la conferma della condanna di appello, ma anche il rifiuto di riconoscere a questi imputati le attenuanti generiche (come pure avevano chiesto i loro avvocati ricordando i “crediti” che nei confronti dello Stato questi uomini hanno accumulato nel tempo) che avrebbero fatto scattare nei loro confronti la prescrizione del reato di falso. Insomma, il tradimento del falso e della calunnia, nel giudizio della Corte, ha finito per avere un peso persino maggiore, perché più odioso, della violenza fisica sugli inermi. Uguali davanti alla legge Ezio Menzione, legale di parte civile, usa parole intelligenti e meditate che afferrano il cuore di quest’esito. “Questa sentenza non ci sarebbe stata - dice - se questo Paese non avesse conosciuto i casi Cucchi e Aldrovandi. Se la cultura giuridica e non solo di questo Paese, non fosse cresciuta nella consapevolezza che il principio di uguaglianza davanti alla legge non è e non deve essere una chimera quando imputati sono degli uomini e dei servitori dello Stato che hanno sbagliato”. Che, insomma, il monopolio della forza riconosciuto allo Stato ha il suo imprescindibile reciproco nella forza del rispetto delle leggi, perché ne va della nostra convivenza. È il punto cruciale su cui, da ieri sera, fa i conti il vertice del Dipartimento di Pubblica sicurezza e tutta la Polizia. Attraversata in queste ore da umori cattivi. Dall’idea che non meriti di essere punito “in questo modo” chi allo Stato “ha dato la sua vita”. Che, oggi, paghino “solo alcuni” di una catena di comando inspiegabilmente monca. E, per giunta, paghino più di un qualsiasi colletto bianco. Di quelli che, in questi 11 anni, lo Stato e il Paese lo hanno depredato. Come se, insomma, l’inflessibilità avesse trovato l’occasione sbagliata per manifestarsi. Ma alla fine hanno avuto e hanno ragione le parole del pg Gaeta: “In quest’aula si processano i presenti. Si processano i fatti della Diaz. Nient’altro”. E così è stato. Giustizia: sulla vicenda della Diaz la politica assente di Livio Pepino Il Manifesto, 6 luglio 2012 Dunque la Corte di cassazione ha deciso e ora quel che già sapevamo, nella accezione pasoliniana del termine, è verità giudiziaria Molte sensazioni si rincorrono. Mi tornano alla mente le parole di Sepulveda il giorno dell’arresto del generale Pinochet: “Scrivo queste righe perché non so fare altro. Abbraccio mia moglie e tutti e due piangiamo. Piangiamo il pianto liberatorio di quanti non abbiamo mai dimenticato, di quelli che non hanno mai smesso di credere nel giorno della minima giustizia. Carmen ed io usciremo a fare un passeggiata, e sentiremo che la pioggia sui nostri volti comincia finalmente a lavare le vecchie ferite”. È questo il primo pensiero. La condanna non solo degli esecutori materiali del massacro della Diaz ma anche dei funzionari che hanno coordinato le operazioni e sono ricorsi al falso per giustificare la mattanza è la vittoria delle vittime che non hanno mai smesso di credere che un minimo di giustizia poteva essere assicurato anche in questo disgraziato Paese. Di quelle vittime e di chi le ha assistite e sostenute. Il secondo pensiero va ai pubblici ministeri che - spesso soli, osteggiati, isolati nel loro stesso ufficio - hanno continuato, ostinatamente a cercare la verità. Senza di loro oggi avremmo solo il proscioglimento per prescrizione degli autori materiali. Al pensiero si accompagna una riflessione che dovremmo ricordare sempre. Nella nostra storia i frammenti di verità sulle vicende oscure delle istituzioni del Paese sono emersi sempre grazie all’intervento contrastato di alcuni piccoli giudici o pubblici ministeri, mentre gli apparati depistavano. Il terzo pensiero va al fatto che la decisione dei giudici si è dovuta fermare di fronte alle lesioni per l’intervento della prescrizione. Fatto non casuale ma frutto della scelta della politica di evitare l’introduzione del reato di tortura, pur richiesto dall’Europa e dalle disposizioni internazionali. Si tratta di una responsabilità della politica che non sarà lavata dalle lacrime delle vittime di fronte alla sentenza. Detto questo, va aggiunto che ora tocca al governo fare la sua parte. Le condanne dei funzionari portano con sé la pena accessoria della interdizione dei pubblici uffici. Ciò significa che la catena di comando della polizia sarà decimata o comunque toccata in punti nevralgici. Ciò che la politica non ha voluto fare, pur a fronte delle richieste di tutti i democratici, è ora imposto da una sentenza. Guai se la politica cercasse di ricorrere ad escamotages per evitarlo. Sarebbe un atteggiamento eversivo. Al contrario, i cambiamenti imposti dalle condanne dovranno essere l’occasione per un intervento riformatore della polizia. I fatti della Diaz non sono stati un “incidente” ma l’esito di una strategia e di una concezione dell’ordine pubblico che è tuttora assai radicata. Attendiamo dal Governo un intervento immediato e profondo. Sono in gioco le sorti della nostra democrazia. E, ancora una volta, c’è voluto un giudice per ricordarlo! Giustizia: eppure fu tortura… di Ezio Menzione (Avvocato del Genova Legal Forum) Il Manifesto, 6 luglio 2012 La Cassazione chiude il capitolo Diaz confermando che quella notte fra il 21 e 22 luglio 2001, a Genova, a G8 ormai concluso, l’irruzione nella scuola fu deliberatamente programmata per giungere ad un bel numero di arresti di dimostranti, indipendentemente dal fatto che nessuno di loro avesse commesso delitti, ma solo per “riscattare” l’immagine del loro corpo. La mattanza che ne seguì, il sangue e la violenza, furono un di più forse all’inizio non intenzionale, ma alla fin fine necessario per giustificare l’irruzione. Intenzionali furono sicuramente i falsi posti in essere per “coprire” le violenze perpetrate nei confronti di giovani inermi, non certo black block: le bottiglie molotov portate da fuori dalla polizia stessa, picconi e sbarre di un attiguo cantiere, una presunta aggressione all’arma bianca contro un singolo poliziotto. Tutto inventato per giustificare l’irruzione e il macello. Tutto firmato e controfirmato dai funzionari, come i verbali di arresto (non uno, ma ben 93!) basati su quelle false prove costruite dalla polizia stessa. Così la Cassazione ha deciso: in linea con quanto aveva deciso la Corte d’Appello di Genova con una sentenza che, dunque, non era affatto figlia di una teoria del complotto contro i bravi servitori dello Stato, come essi dicevano, ma era invece una ricostruzione solida, provata e inattaccabile. Lontana mille miglia dalla sentenza di primo grado, tutta attenuazioni e dubbi, pur di salvare i gradi intermedi della polizia che diressero l’operazione e addossare ogni responsabilità ad una squadretta di semplici poliziotti esaltati. Nemmeno le generiche meritano questi funzionari che mai hanno riconosciuto le proprie responsabilità, con un comportamento processuale ben oltre i limiti della decenza; soggetti che avrebbero dovuto tenere, proprio per il loro status, comportamenti che dovrebbero essere ancor più specchiati di quelli dei semplici cittadini. Ora molti funzionari di polizia che all’epoca erano quadri intermedi ed ora ne sono ai vertici dovranno lasciare il servizio perché le condanne confermate implicano per legge la interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Compreso quel potente Gratteri in odore di assurgere al vertice della polizia stessa e che ora dovrà rimanere al palo. La legge con questa sentenza realizza ciò che i governi in 11 anni non avevano inteso fare: rimuovere, invece che promuovere, funzionari indegni, falsari e infedeli al loro stesso compito: non possono continuare ad agire come rappresentanti dello Stato. Abbiamo un unico rimpianto: se in Italia vi fosse il reato di tortura, imprescrittibile, anche il comportamento materiale di questi poliziotti sarebbe stato duramente sancito, mentre, nonostante la bestialità, è andato prescritto. La Cassazione, comunque, ha fatto giustizia di uno Stato che non ha mai inteso nemmeno chiedere scusa o fare un gesto di pentimento e riconciliazione nei confronti delle vittime di quella notte atroce, quando ogni diritto dei suoi cittadini fu sospeso e calpestato. Giustizia: sulla scuola Diaz sentenza tardiva… quando anche in Italia il reato di tortura? di Valter Vecellio Notizie Radicali, 6 luglio 2012 La Quinta sezione penale della Cassazione ha dunque confermato le condanne d’appello per i vertici della polizia, e prescritto le lesioni per gli altri agenti coinvolti nei pestaggi alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001. Il pronunciamento della sentenza significa la sospensione dal servizio di tutti i funzionari già condannati in appello. “Rispetteremo la sentenza”, ha detto il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri. “La sentenza della Corte di Cassazione va rispettata come tutte le decisioni della Magistratura”. Identiche le parole del Capo della Polizia Antonio Manganelli: La Polizia “accoglie la sentenza della magistratura con il massimo rispetto”. E ci mancherebbe! Che cosa possono e devono fare il ministro dell’Interno e il capo della polizia, se non rispettare una sentenza della Cassazione? Ma non è questo il punto. Il fatto è che per mettere la parola fine a questa pagina vergognosa (“macelleria messicana”, la definì un poliziotto nel corso di un’udienza del processo) s’è dovuto attendere ben undici anni. Undici anni per riconoscere che quella notte alla scuola Diaz, e il giorno successivo a Bolzaneto, avvenne qualcosa di simile a quello che accadeva in Argentina negli anni della dittatura di Videla o nel Cile di Pinochet. La Cassazione ha posto il suo timbro a quello che già era ampiamente emerso e si sapeva: il G8 a Genova, la sua scriteriata e scellerata gestione è una macchia intollerabile nella storia dei diritti umani in Italia. E ancora le autorità italiane non hanno pubblicamente condannato e chiesto scusa per i maltrattamenti e le sevizie patiti dai manifestanti. Una considerevole quantità di prove ha messo in luce che i manifestanti vennero sottoposti a maltrattamenti sia durante le manifestazioni che all’interno della scuola Diaz, adibita a dormitorio, e del carcere provvisorio di Bolzaneto. Non solo. Poiché il codice penale italiano non prevede il reato di tortura, i pubblici ufficiali accusati di aver torturato i manifestanti non sono stati incriminati per tale reato ma per altri che, sottoposti alla prescrizione, hanno portato sostanziale impunità. Le autorità italiane inoltre non hanno predisposto meccanismi efficaci per prevenire l’uso arbitrario della forza da parte delle forze di polizia e non hanno adottato alcuna misura concreta per garantire procedimenti giudiziari nei confronti di tutti i rappresentanti delle forze di polizia sospettati di tortura, uso eccessivo o non necessario della forza e altre violazioni dei diritti umani. Per quel che riguarda i diritti umani, l’Italia, secondo l’Unione Europea è in quella situazione che si riassume con la definizione di “maglia nera”. Secondo il rapporto sull’Esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2011 l’Italia è al 7° posto nella graduatoria dei Paesi dell’Ue per violazione dei diritti umani. Prima di noi Turchia, Russia, Polonia, Romania, Ucraina e Bulgaria; e insomma non è cosa di cui menar vanto. Secondo la relazione, i ricorsi pendenti alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo contro l’Italia sono oltre diecimila con un incremento del 30 per cento rispetto gli anni precedenti. Invece di migliorare peggioriamo sempre di più. Nel 2010, la Corte Europea ha emesso 98 sentenze contro l’Italia, di cui 61 per violazione di almeno un articolo della Convenzione europea. In 44 casi per eccessiva durata dei processi. L’Italia è stata condannata a sborsare quasi 8 milioni di euro a titolo di equa soddisfazione nei confronti dei cittadini italiani che hanno fatto ricorso a Strasburgo per la malagiustizia nel nostro Paese. Nel 2009, l’importo era decisamente inferiore: 3 milioni e trecentomila euro circa. E neppure paghiamo per il malfatto, visto che il ministero dell’Economia e delle Finanze ha liquidato, per ora circa quattro milioni di euro per le 54 condanne emesse nel 2009 e due milioni e seicentomila euro per le 28 sentenze del 2010. Lombardia: Carugo (Pdl); in carceri situazione insostenibile, valutare amnistia e indulto La Repubblica, 6 luglio 2012 Del carcere si occupano in pochi. Ma non sono solo i Radicali a battersi per l’amnistia come indispensabile premessa a una complessiva riforma del sistema giustizia. In Regione, ad esempio, funziona una Commissione sulla situazione delle carceri. La presiede Stefano Carugo, del Pdl che con i consiglieri regionali Chiara Cremonesi (Sel), Fabrizio Santantonio (Pd), Alessandro Marelli (Lega) e il garante regionale per i detenuti, Donato Giordano, hanno visitato il carcere bresciano di Canton Mombello. Quello che hanno visto è, purtroppo, quello che si può vedere in ogni carcere italiano. E, infatti, al termine della sua visita, Carugo, a nome dell’intera delegazione, ha sottolineato che “in carcere si vive una situazione insostenibile. Siamo perciò tutti d’accordo con le richieste avanzate e cioè la necessità di una riforma carceraria e di una riforma della giustizia. Non è accettabile che le detenzioni in attesa di giudizio si protraggano per mesi e mesi: il carcere preventivo è una forma di tortura. Per favorire il decongestionamento occorre esaminare la possibilità di provvedimenti di amnistia e indulto”. Parole che lasciano poco spazio agli equivoci e che la Commissione vuole tradurre in una mozione da sottoporre al voto del Consiglio regionale”. Ma Carugo non ha tenuto conto delle “sensibilità” della sua maggioranza esponendosi alla reazione di Alessandro Marelli, che pure faceva parte della delegazione, che si è subito dissociato chiarendo che “sulla possibilità di concessione di provvedimenti d’indulto o amnistia è opportuno precisare che il Presidente parla a titolo esclusivamente personale e non a nome della Commissione, né tanto meno a nome della maggioranza che governa Regione Lombardia. Carugo inoltre dice di condividere tutte le richieste provenienti dalle associazioni di carcerati, fra queste però c’è anche l’abolizione della legge Bossi-Fini; vogliamo ricordare al collega consigliere che questa legge è stata fatta con l’ausilio del partito in cui è stato eletto”. “Più in generale - argomenta Marelli - la Lega Nord è assolutamente contraria a provvedimenti scellerati svuota-carceri e non ha nessuna intenzione di avallare iniziative “all’italiana” che vanno contro il buon senso comune. Già una volta è passato il messaggio che, a causa delle carenze strutturali del sistema carcerario, è legittimo riversare sulle strade orde di delinquenti. Si trattò di uno sbaglio colossale che non dovrà più ripetersi. La soluzione a questo genere di problemi passa unicamente da una riforma ragionevole della giustizia, ma soprattutto dal potenziamento delle strutture carcerarie esistenti e, se necessario, dalla costruzione di nuovi penitenziari”. Niente amnistia, niente indulto, una riforma “ragionevole” e più carcere: esattamente il contrario di quanto sostiene il suo collega Carugo. Nel giorno di questo singolare battibecco, Roberto Davanzo, direttore della Caritas Ambrosiana presentava il “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per i migranti” sottolineando che “esistono leggi sovrannazionali sulla densità accettabile in cella che l’Italia ha recepito, ma senza mai tramutarle in norme precise. L’unico reato che la nostra Costituzione persegue esplicitamente è quello di tortura e mi pare che i carcerati italiani possano essere definiti dei “torturati”. Nelle condizioni attuali è impossibile pensare che il nostro sistema detentivo possa assolvere agli scopi di rieducazione e reinserimento”. Prima ancora che un problema politico, ci si trova di fronte a un problema fisico: al febbraio 2012, i detenuti presenti nei penitenziari italiani erano 66.632 e vivevano in spazi progettati per 45.000. Ma, purtroppo, perfino Davanzo parlando di “tortura” tralascia un dettaglio che Carugo potrebbe utilmente inserire nell’annunciata mozione, lasciando perdere le orde di delinquenti e le altre suggestioni care alle “tricoteuses” padane. L’Italia, da 24 anni, non riesce, a approvare una legge che incrimini i responsabili del reato di “tortura”. Questo dopo aver aderito alla Convenzione Onu i cui obblighi consapevolmente e continuativamente viola. Obblighi che fissa anche la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e lo Statuto della Corte Penale Internazionale che, in Italia, non è stato mai attuato. La Convenzione, cui aderiamo si direbbe a nostra insaputa, chiarisce in maniera inequivocabile cosa sia la tortura: “Qualsiasi atto commesso da un pubblico ufficiale con il quale si infliggano intenzionalmente ad una persona dolore e sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine di ottenere informazioni, di punirla, intimorirla o a fini discriminatori”. Questa, ci dice la relazione della Commissione, malgrado i distinguo di Marelli, è la situazione nelle carceri italiane. E questa è la motivazione delle reiterate e sempre più frequenti sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte europea. Per evitarle basterà costruire più carceri? Emilia Romagna: sisma; dai cuochi ai muratori entro fine mese sessanta detenuti al lavoro di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 6 luglio 2012 Entro fine mese saranno mandati nelle zone terremotate. Nessuna retribuzione ma un rimborso spese. Il garante dei detenuti: “Ma il volontariato non diventi la regola. Un geometra, un cuoco, autisti, muratori. Ci sono anche loro, uomini con esperienze professionali adeguate alle necessità concrete, tra i 60 detenuti disponibili a operare gratuitamente nelle zone terremotate, persone con i requisiti per essere ammesse al lavoro esterno e alla fruizione di permessi premio. Entro fine mese, dopo la firma di protocolli ad hoc e i nulla osta del Tribunale di sorveglianza, saranno operativi i primi 33. Non avranno retribuzione, verranno assicurati, ci sarà un rimborso delle spese di trasporto. Il progetto promosso dal ministro di Giustizia Paola Severino, seguito in Regione dall’assessore alle Politiche sociali Teresa Marzocchi, sta prendendo corpo. Ieri, al tavolo riunito in città, i Comitati carcere delle province di Ferrara, Reggio Emilia, Modena e Bologna hanno dato il via libera all’utilizzo dei detenuti-volontari. “Il rapporto con la comunità - evidenzia da Roma Giovanni Tamburino, dirigente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - è fondamentale se si vuole dare completezza al principio di reinserimento e declinarlo in un’ottica di sicurezza sociale”. Desi Bruno, garante regionale delle persone private della libertà, spende parole positive per l’iniziativa. E ricorda: “Il nostro ordinamento ha un caposaldo: il lavoro dei detenuti va retribuito. Qui c’è l’eccezionalità del caso, legato al sisma. Bisogna fare in modo che il “volontariato” non diventi la regola o un escamotage”. Intanto emerge un’altra questione spinosa: “La casa di lavoro di Saliceta - denuncia la garante, esigendo rimedi - è stata dichiarata inagibile, ma gli internati, anziché essere collocati in una struttura simile, sono stati chiusi in carcere. Un paradosso”. Alghero: dà fuoco alla cella e poi tenta di sgozzarsi, detenuto semina il panico in carcere di Andrea Massidda La Nuova Sardegna, 6 luglio 2012 Prima ha dato fuoco alla cella scatenando il terrore tra gli altri detenuti e costringendo la polizia penitenziaria a evacuare un’intera sezione. Poi, utilizzando a mò di manganello la gamba di un tavolino, ha minacciato gli agenti che gli andavano incontro con l’estintore. E infine, pur di non essere bloccato nel suo fare delirante, si è provocato un taglio sul collo sfiorando la giugulare. Vivo per miracolo. Quella di ieri è stata una giornata di altissima tensione nel carcere di San Giovanni. L’ennesima. Solo che stavolta a dare in escandescenze non è stato un ospite qualsiasi dell’istituto di pena, ma un personaggio piuttosto noto per via di un fatto di cronaca nera che, esattamente due anni fa, aveva destato molto scalpore. Si tratta di Luigi Salaris, 57 anni, di Usini, un ex agente della polizia penitenziaria condannato a due anni e sei mesi di reclusione per atti persecutori e lesioni personali aggravate nei confronti di alcuni familiari. Per la precisione, il 19 luglio del 2010 l’uomo aveva affrontato l’ex moglie che tornava a casa, sfregiandola con una taglierina. Una scena drammatica ripetuta più volte sino a quando la figlia, nel tentativo di mettere fine a quel massacro, si era anche lei ferita. Tutto era poi terminato con uno scontro fisico con il figlio più piccolo e con la fuga di Salaris, rintracciato ben presto dai carabinieri. In congedo anticipato per problemi di salute, l’uomo non era nuovo a episodi del genere. Cinque anni fa, di ritorno dall’udienza di separazione in tribunale, aveva aggredito con calci e pugni sempre l’ex moglie, in mezzo alla strada. Poi l’aveva afferrata per la gola e ancora una volta la figlia, lì presente, si era messa a difesa della madre colpendo il padre alla testa sino a fargli mollare la presa.. Ieri mattina alle 11 Salaris ha purtroppo dato una nuova prova della sua instabilità. Pare che a suscitare la sua ira sia stata la notizia di un’udienza saltata a causa dello sciopero degli avvocati. “Ci dispiace, oggi non ci sarà nessuna traduzione in tribunale”, gli hanno detto gli ex colleghi. E subito dopo lui ha preso un accendino cominciando a dar fuoco a tutto ciò che aveva attorno. Immediato l’intervento della polizia penitenziaria, che da una parte utilizzava gli estintori, dall’altra trasferiva il resto dei detenuti perché l’aria si stava facendo irrespirabile. Una volta entrati dentro la cella in fiamme, gli agenti si sono trovati un uomo che voleva farla finita tagliandosi la vena del collo con una lametta. Fortunatamente non ci è riuscito. “Siamo in piena emergenza - commenta Antonio Cannas, segretario provinciale del Sappe -, dateci subito altre forze perché la situazione qui a San Giovanni non è più sostenibile”. Trapani: Uil-Pa; se Roma non chiude il carcere di Marsala… chi ne vuole la soppressione? a.marsala.it, 6 luglio 2012 “Se i tagli non riguarderanno le strutture delle carceri come ha precisato la Guardasigilli Paola Severino ieri in occasione della visita al carcere di Rieti, allora vogliamo sapere chi vuole la chiusura di un presidio di legalità così importante in una delle zone ad altissimo tasso di penetrazione mafiosa…”. Queste sono le parole di Gioacchino Venezioano, leader siciliano del sindacato di categoria dei lavoratori delle carceri, rispetto le dichiarazioni rese dal Ministro della Giustizia, che hanno chiarito che i presidi di sicurezza come carceri e tribunali non sarebbero intaccate dal Governo Monti. “Eppure - dichiara il Coordinatore della Uil-Pa Penitenziari Siciliano - dalle parole del capo delle carceri siciliane, nei due incontri mai ha pronunciato la frase che la chiusura del penitenziario Lilibetano, fosse generata solo per le cattive condizioni igieniche sanitarie, ma è stato chiaro che la soppressione è determinata solo per fare la spending review. Noi della Uil-Pa, infatti, non abbiamo firmato nessun accordo con il Provveditore Regionale rispetto la Sua proposta di mobilità pilotata, anzi abbiamo ribadito la nostra netta contrarietà, e quindi ci batteremo con ogni mezzo, ogni presidio di legalità che chiude è una sconfitta per lo Stato, quindi siamo convinti che qualcuno al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a Roma, oppure al Provveditorato Regionale delle carceri Siciliane abbia informato male la Ministra della Giustizia Paola Severino, infatti siamo sicuri che bastava passare dall’Ucciardone per fare scoprire che il Carcere di Capo Boeo poteva rimanere ancora funzionante, e teniamo a precisare che per quanto riguarda al “presunto” risparmio sempre ricordato dal Provveditore, ci andrei molto cauto perché - continua Veneziano - il peso di tutti gli spostamenti inerenti l’attività giudiziaria e penitenziaria verrà trasferita di ben 64 km, quindi alla lunga tutta questa economia, sarà solo fittizia, determinando paradossalmente un maggiore sovraffollamento dei detenuti nelle strutture limitrofe” (Favignana, Trapani, Castelvetrano). “La verità per noi della Uil - continua Veneziano - è solo una: cioè che con un piccione si volevano prendere due fave, quindi chiusura del carcere di Marsala serve solo a rimpinguare gli organici carenti nelle carceri che interessavano all’Amministrazione Penitenziaria, e tutto questo dovrebbe avvenire calpestando il diritto dei lavoratori di scegliersi la sede”. “Noi - conclude Veneziano, - rinnoveremo il nostro appello al Procuratore della Repubblica di Marsala, al Presidente del Tribunale di Marsala, al Presidente della Camera Penale di Marsala, dell’Ordine degli avvocati, ai parlamentari Nazionali e Regionali, al Presidente del Consiglio Provinciale di Trapani, al Sindaco di Marsala, di Trapani e di Erice, e ai consiglieri provinciali e comunali, perché anch’essi perorino la nostra causa”. Massa: Cassinelli (Pdl); manca il personale, rinviate il trasferimento di altri 100 detenuti Il Tirreno, 6 luglio 2012 A due giorni dalla sua visita a Massa, il parlamentare Pdl Roberto Cassinelli, membro della Commissione giustizia della camera dei deputati, ha presentato ieri due interpellanze ai ministri della giustizia e delle infrastrutture e trasporti sulla condizione del carcere di Massa. “La condizione delle carceri in Italia è sempre più preoccupante - si legge nelle interpellanze - i detenuti negli istituti penitenziari sono infatti 66.487 a fronte di una capienza regolamentare di 45.743 unità. Notizie di stampa, confermate da fonti della polizia penitenziaria, attestano il pesante sovraffollamento nel carcere Massa Carrara: i detenuti dovrebbero essere 175 a fronte di 260 e, con l’apertura del nuovo reparto, si procederà all’assegnazione di ulteriori 100 unità, senza alcun incremento di agenti della polizia penitenziaria”. La prospettiva preoccupa sia per le condizioni in cui sono costretti a lavorare gli agenti, sia per la qualità della vita dei detenuti. “La sezione in questione - spiega Cassinelli - presenta gravi carenze logistico-operative che potrebbero ripercuotersi sull’incolumità dei detenuti e degli agenti. Inoltre, nel carcere di Massa Carrara si manifesta una grave carenza di personale, diventata ormai insostenibile: 120 unità, a fronte di un organico minimo di 159 unità per garantire la sicurezza e il funzionamento della struttura”. Nonostante questo quadro d’insieme, la situazione non è degenerata “solo grazie alla grande professionalità dimostrata dagli agenti di polizia penitenziaria”, spiega il deputato. Per questo Cassinelli chiede quali iniziative il governo intende assumere per far sì che la situazione della casa di reclusione di Massa, che da tempo si manifesta come palesemente critica, venga ripristinata ai livelli di tollerabilità e sicurezza”. Chiede inoltre di rinviare l’apertura del nuovo reparto a dopo l’estate, “dopo aver risolto le carenze funzionali e pensando di spostare una parte dei detenuti già presenti nel nuovo padiglione, per limitare il grave problema del sovraffollamento”. Terza richiesta è di “incrementare l’organico della polizia penitenziaria, usufruendo dei corsi di formazione per agenti che stanno volgendo al termine”. Soddisfazione è stata espressa dalla segreteria provinciale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), che invita la classe politica e gli amministratori locali a “un maggiore interessamento sulle vere problematiche del personale di polizia penitenziaria, baluardo irrinunciabile a difesa di legalità, libertà e democrazia. Messina: progetto “Luce è Libertà”; impianti fotovoltaici per autonomia ex internati Opg Redattore Sociale, 6 luglio 2012 Il progetto “Luce è Libertà” vede tra i destinatari 56 ex internati in regime di proroga dell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto. Abbattuti i costi per il reinserimento sociale. In Sicilia, l’energia pulita abbatte i costi e sostiene percorsi di autonomia di 56 ex internati dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. È quanto stanno realizzando la Fondazione con il sud e la Fondazione di comunità di Messina (Fdcm) nella regione grazie al progetto “Luce è Libertà”, uno dei progetti presentati questa mattina a Roma dalle due organizzazioni durante l’incontro “Messina, Italia. La Fondazione di comunità di Messina, un distretto sociale evoluto”. Il progetto punta a sostenere percorsi di autonomia per ben 20 anni e i destinatari sono i soggetti in regime di proroga, cioè quelli per cui la misura di sicurezza è scaduta, ma vengono prorogati periodicamente dal giudice per la mancanza di canali di fuoriuscita. Un progetto che abbatte anche i costi, spiegano le Fondazioni. “Con la medesima cifra sostenuta dallo Stato per il ricovero in comunità terapeutica di un ex internato (70mila euro l’anno), Luce è Libertà sostiene il suo reinserimento sociale per 20 anni per un “costo” di 3.500 euro l’anno”. Le risorse, raccolte grazie al contributi della Cassa delle Ammende del ministero della Giustizia e della Azienda sanitaria provinciale di Messina, vengono impiegate in parte nell’avvio immediato dei servizi che consentono agli ex internati una fuoriuscita protetta dall’ospedale psichiatrico giudiziario (dai servizi diretti alla persona come il supporto infermieristico e notturno o come la casa alloggio fino alla formazione lavoro per l’inserimento nelle cooperative), in parte nella realizzazione del parco fotovoltaico “il cui rendimento consente di mantenere i servizi alla persona e di supportare la progressiva crescita di autonomia e l’inserimento sociale e lavorativo all’interno delle cooperative del sistema Fdcm, nelle quali vengono impiegate anche persone non problematiche”. Il percorso di ognuno dei 56 ex internati è progettato con gli psichiatri della Asp di Messina. Impianti fotovoltaici grandi e medi sono stati realizzati anche nell’area dello Stretto di Messina per alimentare gratuitamente scuole, parrocchie, cooperative, edifici pubblici o che svolgono servizi per la comunità. “La Fondazione di Comunità di Messina trattiene unicamente il contributo del conto energia per finanziare i programmi e i progetti di sviluppo del territorio”. Altri centosettanta piccoli impianti sono stati realizzati su edifici privati destinati alle famiglie che hanno aderito ai Gruppi di acquisto solidale promossi dalla Fondazione, anche in questo caso la fornitura è gratuita e la Fdcm trattiene solo il conto energia. Ma il sole non produce solo energia elettrica. A Barcellona Pozzo di Gotto sono state realizzate anche alcune serre su terreni abbandonati, tra cui uno di proprietà del ministero della Giustizia fuori dall’ospedale psichiatrico giudiziario. Le serre sono affidate alla cooperativa sociale Fuori Onda nella quale lavorano anche tre ex internati dell’ospedale psichiatrico giudiziario e producono piante ornamentali, frutta e verdura messi in vendita attraverso i Gruppi di acquisto solidale promossi dalla Fondazione di comunità di Messina con la collaborazione dello Slow Food. Roma: “Ricrea” e “Rebibbia Recicla” insieme per recupero imballaggi acciaio Adnkronos, 6 luglio 2012 Il recupero degli imballaggi in acciaio passa per il carcere di Rebibbia e indossa i panni del sociale. Ricrea il Consorzio nazionale per il riciclo e recupero degli imballaggi in Acciaio, ha, infatti, promosso una convenzione finalizzata al recupero ed al riciclo gli imballaggi in acciaio (ovvero barattoli, lattine, bombolette, tappi corona, fusti e scatolette), con la cooperativa sociale ‘Rebibbia Reciclà, realtà che opera all’interno della casa circondariale della Capitale per conto del Consorzio Rolando innocenti, azienda specializzata nel settore della raccolta, trasporto e recupero di rifiuti speciali, pericolosi e non pericolosi, nel bacino est della regione Lazio. Grazie a uno speciale impianto di selezione e cernita installato all’interno del penitenziario romano, i dipendenti della cooperativa, formata da un gruppo di undici detenuti coordinati da un tecnico esterno, si occupano di separare manualmente gli imballaggi in acciaio, alluminio e plastica, estraendoli dal materiale multi leggero raccolto da più Comuni della provincia di Roma e quindi trasferito nella struttura. Tra i rifiuti trattati figurano anche quelli prodotti direttamente nella casa circondariale. Imballaggi cosiddetti a “chilometro zero”. Che non escono, cioè, dal carcere. Una volta recuperato, l’acciaio viene assemblato, pressato e inviato in acciaieria dove viene fuso e riconsegnato a nuova vita. Ricrea riconosce un contributo alla cooperativa Rebibbia Recicla ed alla Innocenti Srl per il tipo di lavoro svolto ed il quantitativo di imballaggi raccolto. Il progetto, oltre ai vantaggi ambientali, ha un risvolto positivo anche in un’ottica sociale ai fini del reinserimento occupazionale dei detenuti. Così facendo, infatti, il lavoro sbarca direttamente all’interno di un penitenziario come quello di Rebibbia. È qui che i lavoratori vengono assunti e possono svolgere la propria attività percependo un regolare stipendio, ma soprattutto acquisendo una formazione sul campo che poi possono spendere sul mercato del lavoro una volta finita di scontare la pena. I contenitori in acciaio recuperati all’interno della casa circondariale della Capitale, spiega Federico Fusari, direttore di Ricrea, “vanno, così, ad aggiungersi all’enorme mole di imballaggi strappati alle discariche e avviati al riciclo grazie all’azione del Consorziò. Nel 2011 sono state immesse al consumo 465.000 tonnellate di imballaggi in acciaio, pari al peso di 65 Tour Eiffel e di queste ne sono state raccolte quasi 385.000 tonnellate, pari al peso di 9.625 vagoni Frecciarossa, e ne sono state riciclate oltre 352.000 tonnellate pari ad oltre 22.000 Km di binari ferroviari, ovvero l’equivalente di una ipotetica linea ferroviaria Lisbona - Mumbay (andata e ritorno). Foggia: topi nel carcere di Lucera, lettera shock dei detenuti a Radio Radicale www.foggiatoday.it, 6 luglio 2012 Luigi, detenuto del carcere di Lucera: “I maiali nelle gabbie stanno meglio di noi che abbiamo certamente commesso un reato. Abbiamo trovato tre topi morti sotto a uno dei banconi che usiamo per cucinare”. Che nel carcere di Lucera le condizioni igienico-sanitarie fossero preoccupanti, lo si sapeva già. Che però la struttura circondariale fosse invasa dai topi, questo no. Sarà perché una notizia così rilevante non era stata ancora divulgata dagli organi di stampa o perché nessuno finora si era preoccupato di segnalarla. A denunciare però la presenza di ratti nella casa circondariale della città federiciana ci ha pensato Luigi, detenuto che a nome suo e dei suoi colleghi, ha inviato una lettera a Radio Radicale, commentata da Riccardo Arena nel corso del noto programma radiofonico. Caro Arena, ti racconto l’ultima che è accaduta nel vecchio carcere di Lucera. Devi sapere infatti che la branda dove dormo è attaccata alla finestra. Ebbene, quindi, l’altra mattina verso le 5 mi sono svegliato all’improvviso perché sentivo accanto a me degli strani rumori. Vuoi sapere cosa era? Un topo, già, un topo che mi sono ritrovato accanto al letto. Come se non bastasse, lo stesso giorno, nella cucina del carcere di Lucera c’era una puzza incredibile. Noi non capivamo cosa fosse questa puzza. Poi ci siamo messi a cercare e a un certo punto abbiamo trovato tre topi, tre topi morti sotto a uno dei banconi che usiamo per cucinare. Tu ti stupirai per quello che è successo, ma vedi, qui è ormai la normalità, in quanto questo carcere è veramente invivibile. Caro Arena, credimi se ti dico che i maiali nelle gabbie stanno meglio di noi che abbiamo commesso certamente un reato ma che vogliamo pagare il nostro debito con la giustizia in modo dignitoso e non in modo disumano. Ti mando i saluti da tutti i detenuti del carcere di Lucera. Nuoro: “I miei diritti negati”, sciopero della fame di un detenuto a Badu ‘e Carros La Nuova Sardegna, 6 luglio 2012 Dal 22 maggio sta facendo lo sciopero della fame e da lunedì ha cominciato anche quello della sete. Una protesta che Antonio Luigi Casu, 56 anni, un detenuto sassarese che sta scontando una lunghissima pena per reati legati alla droga, è deciso a portare fino alle estreme conseguenze. Non pretende particolari facilitazioni, ma siccome dovrà restare in carcere per almeno un’altra decina d’anni, chiede che vengano rispettati i diritti minimi per una convivenza civile in un istituto di pena e, soprattutto, di poter restare in Sardegna. Perché ha problemi di salute, provocati al momento del suo ultimo arresto, nel settembre del 2007, dalle manette troppe strette intorno al polsi che gli hanno causato una lesione permanente al braccio sinistro, e quindi bisognoso di assistenza anche da parte dei parenti. “Ora sono a Badu ‘e Carros, ma non vedono l’ora di rispedirmi a Porto Azzurro - ha scritto Antonio Luigi Casu in una lettera inviata a la Nuova Sardegna -. Perché dopo aver denunciato le violenze che noi detenuti eravamo costretti a sopportare nelle carceri di Macomer e di Sassari, culminate con il pestaggio di San Sebastiano dell’aprile 2000, sono considerato un indesiderato. Ma come faccio a sopportare la carcerazione in celle indecorose con altri cinque, sei, sette detenuti, senza possibilità di poterci muovere e vivendo in una promiscuità a dir poco vergognosa? Da anni sto subendo ogni tipo di vessazione psicologica - ha continuato Antonio Luigi Casu, ora ho detto basta. Sono pronto a mettere a repentaglio anche la mia vita pur di vedere riconosciuti i miei diritti. Sono ormai allo stremo, ma non mollo. Non mi fido più delle promesse, che poi non sono mai state mantenute. Chiedo solo di poter scontare la mia pena in maniera umana e in un carcere vicino ai miei cari”. Salerno: detenuti in protesta, il Giudice di sorveglianza oggi in visita a Fuorni La Città di Salerno, 6 luglio 2012 Le mogli dei detenuti erano pronte a digiunare, aderendo alla tre giorni di protesta dei propri mariti, per rivendicare l’applicazione delle misure attenuate. Nel mirino, la “linea dura” del presidente del Tribunale di sorveglianza facente funzioni, Bruno De Filippis, a cui si addebita il rigetto delle richieste di domiciliari, presentate in base alla legge “svuota carceri” e un giro di vite sui permessi molto spesso negati. Oggi, grazie anche alle sollecitazioni dei Radicali, con in testa Donato Salzano che a sua volta ha aderito allo sciopero della fame dei detenuti, il giudice del Tribunale di sorveglianza effettuerà una visita nella casa circondariale di Fuorni, dove le condizioni dei detenuti sono ormai particolarmente critiche a causa del sovraffollamento che li porta a dover condividere una cella in otto. Domani sarà invece il turno di Anna Paola Gentile, responsabile provinciale donne di Fli che, insieme a Pakj Memoli, consigliere comunale e responsabile provinciale donne Udc, si recherà presso la casa circondariale a fare visita alle detenute e a partecipare all’incontro di lettura di testi della biblioteca penitenziaria di recente istituzione. L’iniziativa si inserisce nel più ampio contesto tracciato a livello istituzionale e politico per la vivibilità delle carceri ed in particolare per la condizione femminile, nell’ambito del progetto di reinserimento sociale dei detenuti. L’obiettivo è quello di offrire la possibilità del riscatto attraverso la rieducazione sociale: “dobbiamo contribuire a non far dimenticare loro di essere innanzitutto persone”, ha infatti chiarito in una nota Anna Paola Gentile. Dopo la visita di venerdì, “seguiranno ulteriori iniziative ora allo studio, tra cui una leva teatrale interna all’istituto penitenziario”. Egitto: Consigliere Mursi, grazia per detenuti politici entro due settimane Aki, 6 luglio 2012 “Entro le prossime due settimane il presidente Muhammad Mursi emanerà il decreto di grazia per tutti i detenuti politici ancora in carcere”. È quanto ha rivelato un consigliere del presidente egiziano, Muhammad Jadallah, alla tv locale Ontv. “È prevista la grazia per tutti i detenuti politici e in particolare per quelli che sono stati processati da una corte militare - ha spiegato - e per quelli che sono stati arrestati dopo la rivoluzione”. Jadallah, che si occupa proprio delle questioni legali e costituzionali ha garantito che “tutto l’iter si completerà entro le prossime due settimane”. Argentina: 50 anni di condanna per ex dittatore Videla, “rubò” bambini ai desaparecidos L’Unità, 6 luglio 2012 Gli ex dittatori argentini Rafael Videla e Reynaldo Bignone sono stati condannati oggi rispettivamente a 50 e 15 anni di carcere nella causa giudiziaria per il piano sistematico di furto dei figli di detenuti “desaparecidos” durante l’ultima dittatura militare nel paese sudamericano (1976-1983). Altri tre responsabili della dittatura militare hanno ricevuto condanne fra i 20 e i 40 anni di carcere, accolte con sonori applausi da figli di “desaparecidos” che hanno recuperato la loro identità e da rappresentanti delle Madri e le Nonne della Plaza de Mayo, le associazioni nate appunto per difendere i diritti dei detenuti e delle loro famiglie e dei militanti per i diritti umani. Videla, capo della prima giunta militare che prese il potere a Buenos Aores dopo il golpe del 24 marzo 1976, è stato condannato a 50 anni per venti casi di bambini sottratti a “desaparecidos” e consegnati ad altre persone, che hanno cambiato la loro identità. Bignone, ultimo presidente della dittatura (da metà del 1982 fino al dicembre del 1983) è stato condannato a 15 anni perché ritenuto colpevole in 15 casi analoghi. Libia: avvocato Tpi; impossibile giusti processo in patria per Saif-Al-Islam Aki, 6 luglio 2012 Saif al-Islam Gheddafi, figlio del defunto leader libico Muammar Gheddafi, non potrà avere un giusto processo in Libia. Se ne e' detta certa Melinda Taylor, avvocatessa del Tribunale penale internazionale, che è stata in prigione in Libia per quattro settimane con l'accusa di aver compromesso la sicurezza nazionale, in seguito a un incontro in carcere con il delfino di Gheddafi. In una conferenza stampa all'Aja, l'avvocatessa ha affermato che, a suo giudizio, la possibilità che Saif al-Islam abbia in patria un giusto processo è "irrimediabilmente compromessa". L'avvocatessa australiana si è difesa dalle accuse rivoltele in Libia, affermando che il suo comportamento è stato "conforme agli obblighi legali". "A prescindere da ogni questione relativa alla mia condotta personale, i diritti del mio cliente, Saif al-Islam Gheddafi, sono stati irrimediabilmente compromessi durante la mia visita", ha detto. Saif al-Islam è detenuto in un carcere di Zintan e il Tribunale penale internazionale chiede di processarlo all'Aja per crimini contro l'umanità. Ma le autorità libiche hanno deciso di processarlo in patria, assicurando che gli sarà riservato un trattamento equo. La Taylor è stata arrestata a giugno per aver consegnato al figlio di Gheddafi, durante una visita in carcere, documenti e altro materiale non autorizzato.