Giustizia: spese pazze e rimedi inutili di Dimitri Buffa L’Opinione, 4 luglio 2012 C’è un “non detto” che invece i giornali farebbero bene a “sbattere in faccia” alla pubblica opinione tutti i giorni a proposito del settore giustizia e della relativa spending review: se ci troviamo in questo stato pietoso in cui si dovranno tagliare centinaia di inutili sedi periferiche di tribunali e procure lo dobbiamo quasi esclusivamente alla discutibile riforma del “giudice unico”, voluta e fatta a suo tempo dal grande maestro di Paola Severino, Giovanni Maria Flick. Il quale un bel giorno, tra il 1997 e il 1998, riuscì a convincere il Parlamento (e la sinistra, ancora prima), che la colpa dell’arretrato non fosse di giudici poco inclini allo stakanovismo, ma del fatto che i tribunali giudicanti erano composti di tre persone. Quindi Flick elaborò il seguente teorema: dividiamo per tre ogni collegio e istituiamo il giudice unico penale e civile. Tanto “chi se ne importa delle garanzie per le parti”, l’importante è liberare le pratiche dei magistrati dall’archivio. Detto fatto, i 9 mila magistrati d’Italia, circa il triplo di quelli inglesi e il doppio dei tedeschi, si trovarono a decidere in perfetta solitudine. E si moltiplicarono le sedi decentrate anche nei posti più sperduti: non bastava un tribunale a Monza? Se ne sono creati altri due a Desenzano e a Desio. Poi improvvisamente dopo quindici anni, cioè oggi, nuova folgorazione: le sedi distaccate costano troppo e sono inutili, accorpiamo di nuovo. Nel frattempo però cosa era successo? Che il giudice unico non solo non aveva eliminato l’arretrato ma aveva fatto ingolfare di ricorsi le corti di appello a causa di non poche sentenze di primo grado fatte coi piedi. Totale? Oggi il problema, grazie alla “scorciatoia” furbetta di Flick, si è spostato sulle corti di appello penali e civili. Ed ecco entrare in gioco, la ministra tecnica, l’allieva prediletta di Giovanni Maria, Paola Severino, che sulla scia del maestro non inventa una nuova semplificazione: “troppe persone fanno appello”. Proprio lei, un tempo insoddisfatta dalle sentenze dei giudici unici che spesso lasciavano molto a desiderare (in Italia viene riformato oltre il 50% del contenzioso penale, civile e amministrativo in secondo grado). Quindi costruiamo “nuovi filtri”, anche economici ai ricorsi in appello. Il tutto pur di liberare le scrivanie dei magistrati. Inutile dire che questa furbata non funzionerà, non renderà al cittadino il servizio giustizia per il quale paga tra l’altro anche le tasse e magari sposterà il carico sulla Cassazione. Poi, fra altri dieci o quindici, anni arriverà l’allievo prediletto della Severino, qualche promettente giovane, che diventerà ministro tecnico e si inventerà una maniera di limitare anche il ricorso per Cassazione Se pensate che tutto ciò sia un paradosso o magari una barzelletta di cattivo gusto ricredetevi: in Italia la giustizia funziona proprio così. Cioè non funziona. E ogni qual volta qualcuno vi farà una testa tanto con dichiarazioni roboanti gentilmente veicolate dall’informazione di giornali conformisti o di una tv pubblica che è una delle vergogne di questo paese, non credetegli: la verità è che anche la gran parte dei giudici è “cittadina” di questa burocrazia che non si vuole, non si deve e purtroppo non si può cambiare. Alla faccia di ogni spending review. Naturalmente coloro che semplificano, come Flick e la Severino e tutti gli adulatori mediatici al seguito, sono gli stessi che poi accusano Marco Pannella e i Radicali di essere coloro che suggeriscono soluzioni semplificatorie come l’amnistia. Ma in un paese condannato dall’Europa quasi tutti i giorni per questo denegato servizio pubblico - con la giustizia che non si riesce a rendere ai propri cittadini - non sarebbe meglio ripristinare la legalità costituzionale nelle carceri in questa maniera e sgombrare altresì di scartoffie le scrivanie dei giudici, unici o collegiali che siano? Fra l’altro l’ipotesi suggerita da Pannella ha anche come conditio sine qua non la riparazione del danno per la vittima del reato laddove esista. Esempio: un truffatore ruba i soldi a una povera pensionata con qualche artificio. Poi domanda l’amnistia per il suo reato, che comunque cadrebbe facilmente in prescrizione in sette anni e mezzo, o dieci se è pregiudicato? Prima dovrebbe risarcire la vecchina con gli interessi. Invece cosa accade adesso? Che se il truffatore è un Madoff dei Parioli, tanti per citarne uno di moda, mette i soldi “al pizzo”, fa un anno di carcere preventivo poi va ai domiciliari e infine ,se il processo di Cassazione non arriva entro la data convenuta, magari la fa pure franca. E si tiene i soldi della pensionata. Tra quel truffatore e quella vecchina pensionata, magari vip, chi sarà più favorito dall’amnistia pannelliana? Ma l’Italia di oggi non è un paese per ragionamenti razionali, specie tra i politici, che poi utilizzano lo spauracchio forcaiolo, in maniera rigidamente bipartisan, per fare paura al proprio avversario. O per propagande becere sulla “certezza della pena”. E quindi l’amnistia non si fa e le prescrizioni impazzano a botte di 180 mila l’anno. Magari poi i politici del Pd che vengono intervistati da Radio radicale straparlano di “riforme strutturali”, che invece non vedono mai la luce, proprio perché le legislazioni delle procedure penali e civili che si sono susseguite in questi decenni sono tutte basate sull’emergenza e la scorciatoia come quelle di Flick e della Severino. Il tutto porta a qualche corollario recentemente evidenziato dal dipartimenti per gli affari di giustizia nella propria relazione al ministero di via Arenula e poi trasmessa al Parlamento: le spese di giustizia in Italia, nonostante funzioni poco e male, sono state nell’ordine dei 470 milioni di euro nel 2011, di fronte ai 451 preventivati, con un passivo di oltre 19 milioni di euro. E per il 2012 nel solo primo quadrimestre sono stati spesi 138 milioni di euro con uno stanziamento annuo di 442 e rotti. A questi soldi va aggiunta una cifra spropositata per le intercettazioni telefoniche e ambientali che per il 2011 si è fermata a quota 260 milioni di euro, contro i 250 preventivati e con una nota di allegria perché non si sono raggiunti i 300 milioni circa del 2010. In compenso per il 2012, nel primo quadrimestre sono stati spesi solo 83 milioni di euro in intercettazioni a fronte dei 240 scarsi messi a bilancio. Questa quindi è la condizione generale della giustizia penale e civile. Ci si può meravigliare se, per citare sempre Pannella, siamo diventati il grande paese pregiudicato in Europa? Quello che sta mettendo le basi per un vero e proprio Olocausto dello stato di diritto? Giustizia: disegno legge contro tortura; inaccettabili modifiche proposte dalla Severino di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 4 luglio 2012 Nei giorni scorsi avevamo lanciato dal Manifesto un appello al ministro della Giustizia Paola Severino perché dicesse parole chiare contro la tortura. Purtroppo la ministra ha proposto alcune modifiche al testo di legge che rischiano di rendere evanescente il contenuto del reato e non perseguibile chi lo ha commesso. Modifiche che hanno sollevato forti obiezioni da Amnesty International oltre che da Antigone. Non è facile spiegare perché le istituzioni italiane facciano resistenza ogniqualvolta si tenti di criminalizzare la tortura. Non è facile spiegare in termini giuridici perché non si copi fedelmente una definizione presente in un Trattato dell’Onu firmato e ratificato da mezzo mondo ma si tenti di cambiarne parole, contenuti e senso. L’unica spiegazione che ci si può dare è anche la più triste, ossia che l’intero apparato statale si trasforma in tali circostanze in un grande corpo unitario che punta alla propria invulnerabilità e immunità. Lo spirito di corpo ha impedito e impedisce tuttora che in Italia si persegua un delitto considerato crimine contro l’umanità per il diritto internazionale. A differenza dei suoi predecessori l’attuale Guardasigilli è un giurista. Un giurista sa che esiste una norma costituzionale, l’articolo 117, che subordina il diritto nazionale a quello internazionale. Ogni distonia oggi è sanzionabile dalla Corte Costituzionale. E allora perché non affidarsi alla definizione del crimine di tortura presente nella Convenzione Onu entrata in vigore nel 1987 senza fare troppo i legulei? Dopo l’avvio della campagna “Chiamiamola tortura”, firmata da migliaia di persone, la commissione Giustizia di Palazzo Madama aveva predisposto un testo che riassumeva le varie proposte pendenti. Ci aveva lavorato con determinazione e celerità il senatore Felice Casson. Il testo a noi suscitava delle perplessità. Le avevamo però reputate superabili in vista dell’obiettivo finale di avere finalmente nel nostro codice il crimine di tortura da utilizzare nei processi. La stessa cosa non può però dirsi del nuovo testo, presentato lo scorso 27 giugno, su sollecitazione del ministro della Giustizia. Nella prima parte, ovvero nella descrizione della condotta del torturatore, esso si discosta in modo ampio e ingiustificato rispetto al Trattato Onu contro la tortura. In particolare è inaccettabile che per esservi tortura debbano essere compresenti le sofferenze psichiche e fisiche. Nella definizione Onu affinché si integri il delitto di tortura è sufficiente che siano prodotte le une o le altre, non devono esserci tutti i tipi di sofferenze immaginabili. In questo modo l’umiliazione o l’intimidazione da sole non configurerebbero il reato. Oppure un pestaggio senza ripercussioni psicologiche particolari renderebbe non punibile per tortura il responsabile. Ancora più sorprendente è l’avere aggiunto nella definizione della fattispecie penale la seguente espressione: “non in grado di ricevere aiuto”. Il torturato per ottenere giustizia deve essere “non in grado di ricevere aiuto”. Non è facile spiegare a uno studioso di diritto cosa tale frase significhi. Il torturando deve essere forse muto e solo mentre subisce le violenze? Oppure dove obbligatoriamente urlare? E se soffre in silenzio non c’è tortura? L’aiutante del torturando, che ben può essere un altro detenuto, è quindi legittimato a reagire? È una frase infelice, priva di senso giuridico, è dalla evidente doppiezza morale. Essa rischia di assicurare copertura legale ai comportamenti violenti e legittimi di chi ha compiti di custodia e fa pensare ai tentativi di successivo insabbiamento. Nei giorni scòrsi il ministro della Giustizia, in senato, aveva detto che prima di codificare il nuovo reato di tortura bisogna vedere se i reati generici ne “coprono” l’ipotesi per poi andare a cercare eventuali buchi, eventuali ambiti non puniti. Ma ciò, come sostiene, Antonio Marchesi, professore di diritto internazionale all’università di Teramo nonché ex presidente di Amnesty International: “È contrariò al senso complessivo della Convenzione Onu. L’insieme dei reati generici, anche nell’ipotesi che non ci fossero ambiti non coperti, non coglierebbe comunque l’essenza della tortura, che è una cosa diversa e più grave della mera somma delle sue componenti”. Giustizia: il cortile di cemento… e le responsabilità di noi architetti di Guido Incerti www.exibart.com, 4 luglio 2012 È possibile che la bellezza di cui è capace l’architettura tocchi anche edifici tabù, quali sono le carceri? In Italia no. Ma altrove sì. “Tutte le persone private della propria libertà devono essere trattate con umanità e nel rispetto della dignità inerente la persona umana”. Così sta scritto all’ingresso del penitenziario di Leoben, in Austria. Un modello possibile. Da seguire. Alcuni giorni fa, uscito da una libreria del centro di Firenze, sono stato avvicinato da un ragazzo che vendeva “Fuori Binario” il giornale di strada dei senza dimora. Non lo compro spesso, ma quel giorno ho deciso di acquistarlo. Sono rimasto attonito leggendo, lì e solo lì nel piccolo giornale dei clochard fiorentini, l’appello di un gruppo di detenuti della sezione “isolamento” del carcere di Saluzzo. Senza il tramite del filtro giornalistico, dodici uomini - in attesa di giudizio - scrivevano che, pur non dovendo sottostare al regime di isolamento, per motivi di sovraffollamento erano stati destinati, a gruppi di due o tre, entro le sei celle di isolamento di cui il carcere è dotato. Ma, in quanto architetto, ciò che mi ha più colpito, sono state le righe dove gli appellanti descrivevano il rapporto dimensionale dei piccoli cortili, per la permanenza all’aria, di cui ogni singola cella è dotata. Buchi di 6 x 2,80 metri, cintati in tutto il perimetro da un muro in cemento armato alto 6. Dei “cortili” che, a detta dei prigionieri, in autunno, inverno e buona parte della primavera non vedono mai il passaggio di un raggio di sole. L’appello proseguiva con ulteriori descrizioni circa la loro condizione per concludersi con la legittima affermazione sul totale calpestamento dei loro diritti e della loro dignità di uomini. Finita la lettura, ho chiuso gli occhi per qualche istante. Immaginandomi all’interno di uno di quei cortili. Probabilmente un luogo freddo, grigio, scuro. Mi sono sentito immediatamente soffocare. Letteralmente. Non è che non fossi a conoscenza di ciò che sta, e non da oggi, succedendo nelle carceri italiane - rapporti sulla condizione carceraria sono pubblicati praticamente ogni giorno da vari partiti politici e dalle centinaia di associazioni che si occupano di questo. Ma quel cortile di cemento senza coperchio mi aveva dato una scossa. E mi aveva fatto sentire in colpa. Per il fatto di essere un architetto e di non fare nulla. Perché noi architetti, tutti - e non solo le eccezioni, vedi Giovanni Michelucci - dovremmo sempre avere la capacità di progettare scatole spaziali dove fare stare bene tutti gli uomini. E di “lottare” per questo. Invece sembriamo non accorgerci di questi luoghi, totalmente clandestini ai nostri occhi, che sono le carceri italiane. Luoghi che se solo fossero ben progettati potrebbero - credo - renderci ancor più orgogliosi del mestiere che facciamo. Ma ancor più, rendere la vita di alcuni uomini più che dignitosa. Ma la realtà del carcere è, nel nostro Paese, l’equivalente appunto di una città clandestina. Volutamente ignorata. Cosicché ignorati sono coloro che la vivono. Ignorati sono i loro volti e le loro storie. Di criminali - giustamente detenuti - tanto quanto di chi è “solo” prigioniero. Anche ingiustamente. Ché la condizione è assai diversa. Per cui: cosa potrebbe fare l’architettura, o meglio noi architetti, riguardo a tutto ciò? Potremmo riuscire a portare la bellezza lì dove sembra che non possa giungere? Potremmo disegnare progetti sfacciatamente affascinanti? Io penso proprio di sì. E se vi state domandando cosa c’entra tutto questo appena letto con le immagini che vedete a corredo di questo scritto, forse avrete già capito che questa è una prigione. O meglio è il complesso giudiziario di Leoben, in Austria, dove oltre al carcere, è ospitata anche la sede del tribunale cittadino. Progettato da Hohensinn Architektur, è un lampante esempio di cosa può fare l’architettura per la dignità degli uomini. Anche se esseri criminali, corrotti, ladri ed assassini. Ospita duecentocinque detenuti entro uno scrigno trasparente, una chiara allusione a come dovrebbe essere la giustizia, ricreando al suo interno un ciclo di vita casa/lavoro/svago, simile a quello che si potrebbe avere in un regime di totale libertà, così da favorire il reinserimento dei detenuti nella società una volta scontata la pena. Le unità di detenzione sono progettate come spazi di condivisione - per un massimo di quindici persone - e ciascuna di esse è provvista di cucina, servizi igienici, palestra, sala giorno e una piccola loggia. Le strutture lavorative e per il tempo libero sono disegnate in modo da garantire l’obbligatorio controllo e la necessaria sicurezza, ma anche per permettere, ai detenuti, l’accesso indipendente e senza accompagnamento, alleviando così il personale da alcuni compiti ed impedendo la restrizione totale. Per chi reputasse eccessivo un servizio di tale genere per un carcere, lungo la recinzione perimetrale due semplici iscrizioni recitano: “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. “Tutte le persone private della propria libertà devono essere trattate con umanità e nel rispetto della dignità inerente la persona umana”. Il complesso giudiziario di Leuben fa quindi ben comprendere quanto il Ministro della giustizia Paola Severino ha più volte ribadito circa la condizione carceraria italiana: il livello di civiltà di un Paese si misura dallo stato dei suoi penitenziari. E non basta la recente costituzione dell’ARC (Atelier per le problematiche architettoniche penitenziarie), protocollo d’intesa siglato in febbraio tra la Casa circondariale Lorusso e Cutugno e il Dipartimento di architettura e design del Politecnico di Torino, per non farmi sussurrare due semplici parole: Povera patria. Giustizia: Davanzo (Caritas); le carceri sono luoghi di tortura, introdurre pene alternative Tempi, 4 luglio 2012 Don Roberto Davanzo (Caritas Ambrosiana): “Bisogna rendere concreta la strada delle misure alternative, facendosi aiutare dall’associazionismo italiano”. Presentato a Milano il “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per i migranti”. Una realtà sempre più allarmante e i numeri lo confermano: al febbraio 2012, i detenuti presenti nei penitenziari italiani sono 66.632 e vivono in spazi che dovrebbero contenere al massimo 45.000 persone. “La nostra pressante richiesta per risolvere il sovraffollamento nelle carceri italiane sembra sbattere contro un muro di gomma”, dice a tempi.it don Roberto Davanzo, direttore della Caritas Ambrosiana, da sempre in prima linea per le questioni di accoglienza agli emarginati e ai carcerati. Questioni sottolineate anche dal Rapporto, realizzato dalla Commissione Diritti umani del Senato, che è stato votato all’unanimità. “Al di là dell’aspetto umano - dice Davanzo - la Costituzione, e quindi la legge, prevede che a una persona si possa togliere la libertà, ma non la dignità. L’Italia si accolla una spesa importante per il sistema carcerario ma non consegue risultati efficaci. Se oltre il 70 per cento di chi sconta la pena poi torna a delinquere, forse qualcosa non funziona. Per quanto riguarda il sovraffollamento e altre situazioni disumane, lei ha parlato di tortura… Il Rapporto mette in risalto che esistono leggi sovrannazionali sulla densità accettabile in cella che l’Italia ha recepito, ma senza mai tramutarle in norme precise. L’unico reato che la nostra Costituzione persegue esplicitamente è quello di tortura e mi pare che i carcerati italiani possano essere definiti dei “torturati”. Nelle condizioni attuali è impossibile pensare che il nostro sistema detentivo possa assolvere agli scopi di rieducazione e reinserimento. A questo punto, come approcciare concretamente il problema? Con un’amnistia? Con la costruzione di nuove carceri? Con una diversificazione dei luoghi per entità di crimine? Con la possibilità di un lavoro esterno? Sono tutti percorsi a tappe: certamente, in alcuni casi, il carcere non è la soluzione migliore. Basta guardare i dati: la recidiva di chi ha potuto disporre di pene alternative oscilla poco sopra al 12 per cento (rispetto alla media generale, del 70 per cento). La priorità è costruire un percorso penitenziale di correzione, che veda il carcere come “extrema ratio”. La sfida è trovare misure alternative alla cella. Si potrebbero valorizzare il volontariato e l’associazionismo? Sono moltissimi i detenuti che potrebbero usufruire delle pene alternative, ma non hanno una casa. Allora perché non aiutare l’associazionismo che da sempre sul territorio favorisce la rete di appartamenti e di rapporti assistenziali? Questi sono percorsi collaudati che darebbero la possibilità alle amministrazioni di risparmiare. Un detenuto in Italia costa alla collettività 200 euro al giorno, e poi ci ritroviamo con il 70 per cento di recidiva. Basterebbe questo semplice dato - meramente e cinicamente economico - per cercare altre soluzioni. Qual è la priorità sulla quale dovrebbe confrontarsi la politica del governo? È necessario rendere concreta la strada delle misure alternative. Risparmieremmo denaro, si risolverebbe il problema del sovraffollamento e si aiuterebbe il reinserimento in società del detenuto. Questo anche per evitare quell’atto politico un po’ estemporaneo che è l’amnistia, almeno come è stata pensata fino adesso, senza progettualità. I decreti “svuota carceri” sono dei palliativi che lasciano il tempo che trovano. Meglio una riforma complessiva per lo sconto di pena? Assolutamente sì. Spenderemmo sicuramente molto meno di ciò che spendiamo ora. Giustizia: Severino; spending review non toccherà gli stipendi di chi lavora nelle carceri Ansa, 4 luglio 2012 “Le carceri sono fuori dai tagli come lo è tutto ciò che è funzionale all’operatività dei tribunali. Né gli stipendi degli agenti di polizia penitenziaria, né quelli dei funzionari della giustizia, né le strutture dei tribunali e delle carceri saranno toccate”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Paola Severino, durante la visita compiuta questa mattina nella Casa circondariale di Rieti, rispondendo alle domande dei giornalisti e accennando anche al tema spending review. “Tra l’altro - ha aggiunto il ministro - era atteso da tempo lo sblocco di una tantum per gli agenti della penitenziaria, perché era giusto che ricevessero questo riconoscimento. Proprio ieri sono riuscita a ottenere questo risultato, che mi sembra importante, perché se da una parte ci sono gli sforzi pregevoli dei detenuti, per riuscire a reinserirsi nella società, dall’altra - ha concluso il ministro della Giustizia - ci sono gli sforzi degli agenti di polizia penitenziaria per seguire una situazione spesso molto difficile”. Moretti (Ugl): a Guardasigilli nostro plauso se condizioni lavorative miglioreranno “Questa mattina i detenuti della Casa circondariale di Rieti, struttura nuovissima e dotata di avveniristici sistemi si sorveglianza, hanno applaudito il ministro Severino. Anche noi vorremmo farlo, ma per il miglioramento delle condizioni lavorative in tutte le 206 strutture penitenziarie del Paese”. Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, aggiungendo che “se a Rieti la situazione al momento appare rosea, vista la disponibilità di celle accogliente e salubri, la realtà nella maggior parte degli istituti della nazione è ben diversa. Registriamo infatti condizioni pietose per la riduzione costante delle risorse destinate alla manutenzione, suicidi ed aggressioni all’ordine del giorno, proteste continue per le carenze idriche e compressione dei diritti contrattuali del personale con carichi di lavoro disumani”. Per il sindacalista “è un’illusione pensare di poter risolvere quello che è principalmente un problema strutturale con i ‘patti di responsabilità’, che riguardano una netta minoranza di detenuti con reati comuni e/o con pene residue brevi, oppure con la cosiddetta vigilanza dinamica, che fa decadere il contatto costante tra ristretto ed agente, senza il necessario adeguamento dell’organico”. “Temiamo - aggiunge Moretti - che il Guardasigilli possa convincersi che per aprire nuove strutture basti chiedere maggior impegno alla Polizia Penitenziaria, senza tener conto del fatto che le unità in servizio si assottigliano sempre più, che attualmente non esiste un piano per ripianare almeno la pianta organica del 2001, al di sotto di ben 7000 unità, e che occorrerebbero come minimo 9 mila agenti per il corretto funzionamento delle nuove sedi in via di apertura”. “Chiediamo perciò al ministro - conclude il sindacalista - di condividere con le organizzazioni sindacali le scelte per risolvere le criticità del sistema penitenziario e che il Dap tenta invece di far passare senza il preventivo e necessario confronto”. Giustizia: Sappe; 3 detenuti morti suicidi in 3 giorni, rimuovere Capo del Dap inefficiente Redattore Sociale, 4 luglio 2012 Il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, commentando la visita del ministro Severino nel carcere di Rieti, torna a chiedere le dimissioni di Giovanni Tamburino. “Necessarie soluzioni concrete e uomini nuovi per risolvere la crisi penitenziaria”. “La situazione del carcere di Rieti è la prova provata dell’inefficienza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria guidato da Giovanni Tamburino, che pensa a risolvere le criticità del sovraffollamento delle nostre prigioni con soluzioni fantasiose e pericolose. Come, ad esempio, le sezioni detentive sostanzialmente autogestite da detenuti previa sottoscrizione di un patto di responsabilità che determina un depotenziamento del ruolo di sicurezza della Polizia Penitenziaria, relegata ad un servizio di vigilanza dinamica che vuol dire porre in capo ad un solo poliziotto quello che oggi lo fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza e mantenendo la fattispecie penale della colpa del custode (articolo 387 del Codice penale). Tutto questo è fumo negli occhi, e mi auguro che la Ministro della Giustizia Paola Severino non si faccia incantare troppo dalle sirene del Dap. Le chiediamo, invece, se non ritenga sia giunta l’ora di avvicendare l’attuale Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), commentando la visita della ministro della Giustizia Paola Severino nel carcere di Rieti. “La realtà penitenziaria è che nelle carceri ci sono 45 mila posti letto e nelle celle sono invece stipate 67 mila persone, oltre 26 mila dei quali in attesa di un giudizio definitivo; che la Polizia penitenziaria ha 7 mila agenti in meno, che i Baschi Azzurri non fanno formazione ed aggiornamento professionale perché l’Amministrazione evidentemente ha altro a cui pensare, come anche per le conseguenze di quell’effetto burnout dei poliziotti determinato dall’invivibilità di lavorare in sezioni detentive sistematicamente caratterizzate da eventi critici - suicidi, tentati suicidi, aggressioni, risse, atti di autolesionismo, colluttazioni. In soli 3 giorni, si sono suicidati 3 detenuti (2 a Teramo ed uno a Barcellona Pozzo di Gotto) e diversi altri sono stati salvati in tempo dai nostri agenti. Ma per fronteggiare tutto questo il Dap guidato da Giovanni Tamburino non ha fatto nulla e noi ci chiediamo che senso abbia mantenerlo ancora in quell’incarico. Sono necessarie soluzioni concrete e uomini nuovi per risolvere la crisi penitenziaria: non servono filosofi e teorici”. Giustizia: muore suicida un Assistente capo della Polizia penitenziaria, da inizio anno sesto caso Agi, 4 luglio 2012 Un assistente capo della Polizia penitenziaria, Gianfranco Mura di 37 anni, si è suicidato questa mattina sparandosi con la propria pistola di ordinanza. L’uomo prestava servizio presso il Nucleo Traduzioni e Piantonamenti della Casa Circondariale di Busto Arsizio e stava fruendo di un periodo di ferie nella sua regione di origine, la Sardegna. Il cadavere dell’assistente capo è stato rinvenuto a bordo della nave traghetto, che da Genova lo aveva portato ad Olbia. Ne dà notizia Eugenio Sarno, segretario generale della Uil-Pa Penitenziari. “I colleghi di Busto Arsizio sono esterrefatti e costernati. Praticamente increduli. Descrivono Gianfranco come una persona solare, educata, disponibile e dallo stato di servizio irreprensibile. Di certo - sottolinea Sarno - cinque suicidi in sei mesi e circa 90 negli ultimi dieci anni da parte di baschi blu dovrebbero ingenerare profonde riflessioni sul male oscuro che attraversa il Corpo di Polizia Penitenziaria. Per quanto ci riguarda non possiamo che ribadire la nostra motivata preoccupazione degli effetti che producono la solitudine e il senso di abbandono che pervade gran parte del personale”. Sappe: sconvolge nuovo suicidio nella polizia penitenziaria “La notizia di un nuovo suicidio tra gli appartenenti alla polizia penitenziaria ci sconvolge. L’ennesima tragedia tra i Baschi Azzurri dovrebbe fare seriamente riflettere tutti coloro che colpevolmente hanno trascurato e trascurano il disagio lavorativo dei poliziotti penitenziari. Non è più possibile assistere inermi a queste morti assurde”. Lo rileva il Sappe in una nota. “Proprio il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - rileva Donato Capece, segretario generale - accertò che i suicidi di appartenenti alla polizia penitenziaria, benché verosimilmente indotti dalle ragioni più varie e comunque strettamente personali, siano in taluni casi le manifestazioni più drammatiche e dolorose di un disagio derivante da un lavoro difficile e carico di tensioni. Ma non è stato in grado di predisporre alcun intervento concreto risolutivo”. Gianfranco Mura, 37 anni, era un assistente capo del corpo in servizio a Busto Arsizio e si è suicidato durante il viaggio che da Genova lo stava portando nella sua Regione di origine, la Sardegna. Era originario di Samugheo (Oristano). “In pochissimi mesi abbiamo avuto colleghi suicidi a Trapani, Formia, San Vito al Tagliamento, Battipaglia, Torino, Mamone Lodè, Caltagirone e Viterbo. E dal 2000 ad oggi sono stati circa 100 i poliziotti penitenziari che si sono uccisi, un direttore di istituto (Armida Miserere, nel 2003 a Sulmona) e un dirigente regionale (Paolino Quattrone, nel 2010 a Cosenza). Come ci possono sottovalutare queste tragedie?”, chiede Capece. Giustizia: caso Aldrovandi… togliete la divisa di poliziotto a chi viene condannato La Repubblica, 4 luglio 2012 Dopo la pronuncia definitiva della Cassazione sugli imputati per la morte di Federico Aldrovandi nasce una petizione per allontanare chi deve scontare anche a meno di quattro anni. Fra i firmatari anche le famiglie Giuliani, Cucchi, Uva e don Gallo I famigliari di Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e Michele Ferulli, ma anche personalità come don Andrea Gallo, artisti come Valerio Mastandrea, scrittori come Erri De Luca, gli ex sottosegretari alla Giustizia Luigi Manconi e Franco Corleone sono i firmatari di una petizione per allontanare automaticamente dalle forze dell’ordine chi viene condannato in via definitiva anche a meno di quattro anni. Lo spunto nasce dalla vicenda di Federico Aldrovandi, il ragazzo 18enne di Ferrara per la cui morte, ha stabilito la Cassazione, sono responsabili quattro agenti che intervennero all’alba del 25 settembre. Sono stati condannati a tre anni e sei mesi, gran parte dei quali scontati dall’indulto. Nella petizione - lanciata da Patrizia Moretti e Lino Aldrovandi, e il comitato “Verità per Aldro” - viene richiesto che vengano determinate urgentemente modalità di riconoscimento degli appartenenti delle forze dell’ordine in servizio, come avviene peraltro in molti paesi europei. Si chiede pure il rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 contro la tortura e le altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti, ratificata dall’Italia nel 1988, introducendo anche nell’ordinamento italiano il reato di tortura. Il Viminale, nei giorni scorsi, aveva detto di attendere la pubblicazione della sentenza prima di sanzionare i quattro agenti. Gli agenti rimangono in servizio? è incredibile, di Sergio Zavoli (Oggi) È la storia della morte di uno studente ferrarese, Federico Aldrovandi, diciott’anni, affrontato il 6 luglio del 2009 da due poliziotti che lo colgono, dicono, in uno stato di ebbrezza, a pochi passi da casa, appena rientrato da un locale di Bologna. Il ragazzo, secondo la versione dei poliziotti, li avrebbe investiti a colpi di karaté, senza un motivo apparente. Ne nasce una colluttazione. Gli agenti chiedono rinforzi e vengono raggiunti da un’altra coppia, di cui fa parte una donna. Lo scontro con il giovane si fa violento, lo testimonia da subito la rottura di due manganelli, e la tragedia è conclusa quando, in manette, steso per terra, con gli agenti che premono sul suo corpo, il ragazzo muore per “asfissia da posizione”, con il torace schiacciato sull’asfalto dalle ginocchia di un agente. La constatazione della morte avviene sul posto per “arresto cardio-respiratorio e trauma cranico facciale”. Poi, l’iter giudiziario. Perizie contraddittorie sull’ingestione di alcol e stupefacenti, che si scoprirà essere irrisoria. Nella ricostruzione del caso si coglieranno “procedure incoerenti”, ma la sentenza finale sarà di omicidio colposo per “avere ecceduto i limiti dell’adempimento di un dovere, aver protratto la violenza anche dopo aver vinto la resistenza del giovane e ritardato l’intervento dell’autoambulanza”. Condanna dei quattro poliziotti a tre anni e sei mesi, non scontati grazie all’indulto del 2006, confermati ora in Cassazione. Dopo la definitiva sentenza uno degli agenti rivolgerà alla madre del ragazzo, via web, parole molto gravi, di cui si pentirà pubblicamente. Adesso, da quel drammatico epilogo emerge la sola richiesta della donna: che venga almeno impedito ai quattro poliziotti di continuare il loro lavoro! È l’invito a privare chi è responsabile di un delitto della facoltà, seppure teorica, di reiterare quella violenza. La richiesta della mamma di Federico è dettata dal dolore, ma si allarga a qualcosa che va oltre la sua personale tragedia. La quale interpella tutti noi sull’iniquità di conservare il posto, o la divisa, o l’incarico a chi è macchiato di una così grave condanna, una soluzione contraria non solo al più naturale senso comune, ma anche, forse principalmente, al diritto e alla sua non di rado inaccettabile certezza. Toscana: Corleone e Margara; nelle carceri sovraffollamento, condizioni invivibili, suicidi Ristretti Orizzonti, 4 luglio 2012 La situazione delle carceri è preoccupante, sia in Toscana, sia a livello nazionale. È questo il messaggio che esce dall’incontro, che si è tenuto questa mattina in Consiglio regionale, dei membri del Coordinamento nazionale dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale. Come ha spiegato il coordinatore nazionale dei Garanti dei detenuti, Franco Corleone, in Italia i detenuti sono attualmente 66 mila. Una cifra che non è cresciuta negli ultimi mesi per una riduzione degli arresti, ma che è comunque alta. “Noi continuiamo a chiedere la modifica della legge sulla droga - ha commentato Corleone - perché il 33% per cento degli arresti è dovuto al possesso di stupefacenti, spesso in piccole quantità. E il carcere appare spesso una soluzione spropositata. Se si sommano altri reati, i tossicodipendenti rappresentano il 50% dei detenuti”. Dalla riunione dei Garanti è emerso un appello a garantire i diritti minimi, come alimentazione adeguata e clima vivibile (a Sollicciano, il carcere fiorentino, in cella in questi giorni ci sono 45 gradi, ha spiegato Corleone), a garantire la salute, a combattere i troppi suicidi. Per quanto riguarda la Toscana, dove i detenuti sono 4mila 200, sarà chiesto un incontro urgente al nuovo assessore al Diritto alla salute Luigi Marroni e all’assessore al Welfare Salvatore Allocca. Come ha sottolineato infatti anche il Garante dei detenuti della Toscana, Alessandro Margara, esiste una situazione di sovraffollamento dovuta alla chiusura delle carceri di Livorno e di Arezzo, una grave carenza di personale, e la questione, ancora da risolvere, dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo. Alessandro Margara ha presentato poche settimane fa la relazione sull’attività svolta nel 2011 alla commissione Affari istituzionali. Ottanta pagine in cui si mettono in luce le difficili condizioni di vita dei detenuti, la scarsa manutenzione degli edifici, la sempre maggiore carenza di risorse con le conseguenti difficoltà organizzative, e in cui si lancia un allarme: senza interventi concreti la situazione è destinata ad aggravarsi ulteriormente. Corleone: nelle celle di Sollicciano ci sono 45 gradi “A Firenze la situazione è tragica: abbiamo avuto molti morti, molti suicidi e abbiamo le celle di Sollicciano che in questi giorni sono a 45 gradi”. Lo ha detto il garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone, a margine della riunione, oggi nel capoluogo toscano, del coordinamento nazionale dei garanti dei detenuti. “A Sollicciano c’è una condizione molto difficile per il caldo - ha osservato Corleone -, ma anche per la situazione di vita. Il personale ha una carenza enorme, del 32%”. Corleone, rispondendo ai giornalisti, ha anche spiegato che il numero dei detenuti a Sollicciano è ormai sempre costantemente sopra i mille, il doppio della capienza regolamentare. “Faremo presto una riunione - ha proseguito - per decidere quali iniziative sono da prendere al più presto”. Sicilia: Fleres; diverse le strutture penitenziarie siciliane che sono ai limiti della legalità Ristretti Orizzonti, 4 luglio 2012 “Sono diverse le strutture penitenziarie siciliane che sono ai limiti della legalità, mentre tutte risentono dei problemi connessi con il sovraffollamento, con la carenza di risorse umane e finanziarie destinate alla rieducazione ed al reinserimento, oltre che alla ristrutturazione degli immobili i quali, soprattutto in questi giorni, risentono dell’eccessivo aumento della temperatura che, inevitabilmente, accentua tutte le problematiche. L’attenzione in questo momento è rivolta, in particolare, alla casa Circondariale di Catania Piazza Lanza anche perché i detenuti di quella struttura, che in questo momento stanno effettuando una protesta pacifica, hanno firmato un ricorso, che io stesso ho sostenuto per l’inoltro al Magistrato di Sorveglianza, mirante ad evidenziare le difficili condizioni di vita all’interno di quel carcere. In tal senso basti un solo dato: rispetto ad una capienza regolamentare pari a circa 170 poti oggi a Piazza Lanza sono presenti quasi 600 detenuti. Il Magistrato di Sorveglianza ha riconosciuto la precarietà della C.C., ha evidenziato lo stato di particolare sovraffollamento ed ha disposto la chiusura, nelle more della sua ristrutturazione, di una sezione. Infine, il medesimo Magistrato ha disposto la trasmissione del ricorso al Ministro per procedere ad ulteriori adempimenti. Tuttavia nessuna delle prescrizioni citate ha prodotto effetti significativi. Questo è quanto ha dichiarato il Sen. Fleres - Garante dei diritti dei detenuti - il quale ha anche aggiunto che di tale vicenda ha dettagliatamente informato anche il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dott. Nils Muiznieks, nel corso di una conversazione avvenuta ieri mattina a margine di una seduta della Commissione Diritti Umani del Senato. Non è pensabile, ha concluso il Sen. Fleres, che tutto quanto appena evidenziato, non abbia avuto alcun seguito e i detenuti continuino a vivere in condizioni di serio disagio nel silenzio delle Istituzioni preposte che preferiscono ignorare le illegalità che esse stesse compiono nell’attività penitenziaria”. Basilicata: Consiglio regionale; ammodernare i tre istituti penitenziari lucani Adnkronos, 4 luglio 2012 Il Consiglio regionale della Basilicata ha approvato all’unanimità un ordine del giorno sulla situazione generale delle carceri lucane (Potenza, Melfi e Matera) di cui più volte sono state lamentate carenze strutturali. Con il provvedimento l’Assise impegna la Giunta “ad assumere le opportune iniziative nei confronti del Ministero di Grazia e Giustizia e del Governo per sollecitare il finanziamento di un programma straordinario di adeguamento funzionale e di ammodernamento anche dei tre istituti penitenziari lucani, di ampliamento degli organici di polizia penitenziaria e degli operatori sanitari ed amministrativi”. L’esecutivo regionale viene impegnato “a formalizzare un atto di indirizzo regionale sul sistema penitenziario in grado di sostenere con continuità quanto avviato nelle linee di intervento mettendo a sistema il fabbisogno delle strutture del territorio in tema di formazione, istruzione, inserimento lavorativo, medicina penitenziaria, genitorialità e affettività, cultura, spettacolo, sport, nonché pari opportunità”. Sassari: la Garante; squallore e sovraffollamento… l’inumana realtà di San Sebastiano di Valentina Guido www.sassarinotizie.com, 4 luglio 2012 Nel carcere di San Sebastiano si vedono cose incredibili, impensabili, indicibili. Ma il garante dei detenuti della casa circondariale di Sassari, Cecilia Sechi, ci ha provato a raccontare ciò che ha visto nel terzo braccio: “Non potevo capacitarmi che esseri umani potessero vivere così, ho sperato per un attimo che fosse un film. Ha detto ieri il garante in apertura del Consiglio comunale. Celle (ma questa parola mi sembra già un eufemismo) che avevano ormai un colore verde dovuto umidità delle pareti che perdevano calcinacci rimasti da tentativi di miglioramento, impossibilità per i detenuti di stare in tre contemporaneamente in piedi per mancanza di spazio, 3 letti a castello, l’ultimo dei quali ad una altezza da brivido, che impedisce al detenuto di stare seduto a letto perché il soffitto glielo impedisce; un piano di cemento dove è poggiato un cucinino con pochi alimenti e attaccato allo stesso piano uno spago dal quale pende un asciugamano o uno straccio che copre la turca; un lavandino vecchio e scrostato dove viene lavato di tutto: indumenti, stoviglie, cibo”. Fortunatamente, Cecilia Sechi ha confermato che il nuovo carcere dovrebbe essere pronto in autunno: un appuntamento non più rinviabile visto che a San Sebastiano “si è rotto tutto ciò che si poteva rompere”. Durante la lettura della lunga relazione del primo anno di attività del garante dei detenuti, i consiglieri del Pdl hanno abbandonato polemicamente l’aula per segnalare che il precedente garante, suor Maddalena Fois, non aveva avuto la stessa possibilità (ma lo staff del sindaco ha fatto sapere che l’iniziativa è partita da Cecilia Sechi, e che chi l’ha preceduta non aveva manifestato lo stesso desiderio di comunicare le iniziative intraprese). Tra le attività maggiormente degne di nota rientra sicuramente il progetto che ha coinvolto il carcere e il Comune di Sassari con l’obiettivo di permettere ai bimbi, costretti alla detenzione insieme alle mamme, di frequentare gli asili nido, grazie alla collaborazione volontaria di sei mamme e al supporto dell’assicurazione Reale Mutua. Presto, inoltre, verrà installata una pensilina fuori dal carcere per consentire ai parenti in visita di attendere il proprio turno senza subire le frustate della pioggia e del sole. Sono tanti però i problemi irrisolti, uno su tutti: non c’è nel Nord Sardegna una struttura dedicata ai minori autori di reato, così i circa 20 ragazzi della Provincia di Sassari sono stati spediti nelle altre comunità disseminate nell’Isola. In futuro Cecilia Sechi vorrebbe ospitare a Sassari un convegno specifico e una riunione del coordinamento nazionale dei garanti. Sassari: cinque imputati rinviati a giudizio per omicidio di Marco Erittu, ucciso in cella nel 2007 di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 4 luglio 2012 Pochi minuti per le formalità di rito e il giudice per l’udienza preliminare di Cagliari ha decretato il rinvio a giudizio per cinque dei sei imputati, uno è in abbreviato. Il Gup Giuseppe Pintori non ha avuto alcun dubbio. Il delitto di San Sebastiano del 18 novembre 2007, il caso che ha aperto uno squarcio su un presunto giro di droga tra detenuti e agenti, approda davanti alla Corte d’assise di Sassari. Qui, a pochi passi dalla cella dove si è consumato l’omicidio del detenuto Marco Erittu, accusa e difesa si scontreranno - c’è da giurarci - a partire dal primo ottobre. E nel confronto tra le parti dovrà emergere la verità su una morte in qualche modo legata anche a uno dei misteri sardi: il sequestro del farmacista di Orune Paolo Ruiu (1992) e sulla scomparsa di un muratore di Ossi, Giuseppe Sechi (1993), il cui orecchio fu inviato ai familiari del rapito. Nemmeno i loro corpi sono tornati a casa. Storie di criminalità barbaricina intrecciate con quelle della criminalità “metropolitana” dello spaccio, che si sarebbero incontrate - è il sospetto della Direzione distrettuale antimafia di Cagliari - nella figura di Pino Vandi, 49 anni, boss della droga nel Sassarese. È l’uomo centrale del processo: si dovrà difendere dall’accusa di aver organizzato l’omicidio di Erittu per farlo tacere. Il pm della Dda Gian Carlo Moi, che in Assise sarà affiancato dal collega di Sassari Giovanni Porcheddu, quella presunta esecuzione la motiva così: “Per impedire all’Erittu di parlare con l’autorità giudiziaria e narrare qualcuno dei fatti a sua conoscenza riconducibili al mandante (Vandi, ndr), in particolare il coinvolgimento dello stesso nel sequestro a scopo di estorsione di Paolo Ruiu e nell’omicidio e seppellimento di Giuseppe Sechi”. In base agli elementi raccolti dai carabinieri del Ros di Nuoro e del Nucleo investigativo di Sassari, gli ordini di Vandi sarebbero stati eseguiti da Giuseppe Bigella, sassarese, 36 anni, già condannato per omicidio a scopo di rapina, il quale avrebbe soffocato la vittima con una busta di nylon grazie all’aiuto di un altro detenuto (oggi libero) Nicolino Pinna, 38 anni, imputato e mai arrestato. A farli entrare nella cella “liscia”, quella dove venivano spostati i detenuti autolesionisti o quelli che lo chiedevano, come Erittu, perché temevano di finire male, sarebbe stato l’agente della penitenziaria Mario Sanna, sassarese, 49 anni, come Vandi in custodia cautelare dal giorno degli arresti, metà luglio 2011. Sarebbero stati aiutati, è finora solo il sospetto, da altri due agenti - Gian Franco Faedda, 51 anni di Padria, e Giuseppe Sotgiu, sassarese di 36 anni - imputati di favoreggiamento: tutti assieme avrebbero simulato un suicidio, spostando il corpo e lasciando un lembo di coperta a mo’ di cappio. I poliziotti avrebbero mantenuto quella versione anche nel corso della prima inchiesta, archiviata come suicidio. Dettagli riferiti dallo stesso Bigella, dopo quella che lui ha descritto come una crisi di coscienza. Ha confessato il delitto, ha chiamato in causa presunti mandanti, esecutori, comprimari e individuato pure il supposto movente: il desiderio di Erittu di spifferare ai pm i segreti di Vandi. I riscontri ad alcune dichiarazioni accusatorie sono nelle agende del detenuto. Si sentiva in pericolo. Scriveva a sua madre di non poterne più, di essere vittima di P.V. (per gli inquirenti, Pino Vandi), di volersi liberare di informazioni pesanti come piombo, e andare via da San Sebastiano, prima di uscirci da cadavere. Questo raccontava alla mamma, il 13 settembre, due mesi prima della morte: “Mi costituisco in tutti i carceri meno che qua, che stanno facendo di tutto per rovinarmi, ma questa volta non ce la fanno, l’orgoglio lo metto da parte”. I penalisti Agostinangelo Marras, Pasqualino Federici, Patrizio Rovelli, Gabriele Satta, Luca Sciaccaluga e Gerolamo Pala credono che Bigella menta, che sia un pentito “professionale” che vuole trarre un vantaggio processuale. Il testimone sta scontando 30 anni per omicidio. E il 28 settembre ne beccherà almeno altri 20 (la pena finale resta 30), col rito abbreviato, per aver soffocato Erittu. A quel punto, a processo principale in corso, sarà già stata scritta una sentenza sul delitto di San Sebastiano. Rieti: il ministro Severino in visita al nuovo carcere “ho trovato situazione di grande serenità…” Ansa, 4 luglio 2012 “Ho iniziato oggi un giro nelle carceri, in concomitanza con l’arrivo dell’estate, perché so che è il periodo peggiore. Quindi ho voluto dimostrare con la mia presenza che non siamo indifferenti a questo problema e che faremo tutto il possibile per alleviare la situazione delle carceri”. È quanto ha dichiarato il ministro della Giustizia, Paola Severino, al termine della visita compiuta questa mattina nella Casa circondariale di Rieti. “Oggi - ha aggiunto il Guardasigilli - devo dire che ho trovato, visitando questo complesso, una realtà straordinaria. Una realtà che rappresenta anche una grande novità”, che forse non a tutti è nota. Questo è un carcere di media sicurezza nel quale vi è stato un patto di lealtà tra detenuti e coloro che li custodiscono. Un patto - ha detto ancora il ministro Severino - che funziona, nel senso che qui ciascuno s’impegna a essere protagonista del proprio ruolo. Quindi il detenuto non è più un soggetto passivo, che viene custodito, ma è l’attore della propria custodia, e questo vuol dire tante cose in termini di educazione e di serenità della detenzione. E oggi, qui a Rieti, ho visto una situazione di grande serenità nel carcere”. Visitando la casa circondariale - accompagnata dal direttore Vera Poggetti e dal capo del Dap Giovanni Tamburino - il ministro della Giustizia ha incontrato anche un gruppo di detenuti (al momento la struttura ne ospita 300 circa), che stanno sperimentando un nuovo modello di detenzione a sorveglianza dinamica, che hanno accolto il ministro con un applauso. Rebibbia non è la situazione peggiore, presto andrò a Poggioreale “Sono stata più volte a Rebibbia, a Roma, ed è certamente un carcere nel quale i numeri danno ragione all’espressione sovraffollamento, però ci sono delle realtà che sono peggiori di Rebibbia. È quanto ha dichiarato rispondendo alle domande dei giornalisti il ministro della Giustizia, Paola Severino, nel corso della visita compiuta questa mattina nella casa circondariale di Rieti. “Presto andrò a Poggioreale, dove credo che la situazione sia decisamente peggiore, perché a Rebibbia c’è un numero superiore di detenuti a quello istituzionale però, grazie a sagge politiche di gestione, la situazione è gestibile. Sul tema sovraffollamento - ha aggiunto il Guardasigilli - vorrei che si iniziassero ad apprezzare anche i primi risultati di quello che abbiamo fatto. Abbiamo 3000 entrate in meno in questi ultimi mesi, grazie alla riforma delle cosiddette porte girevoli, altri 2000 in meno grazie alle forme alternative di detenzione domiciliare, e abbiamo 1950 posti in più”. Se facciamo i conti mi sembra che in sette mesi non sia così poco. È un problema che stiamo cominciando ad aggredire alla radice, perché combattere il sovraffollamento nelle carceri - ha concluso - vuol dire creare nuovi posti e ci stiamo riuscendo”. Salerno: emergenza sovraffollamento, a Fuorni detenuti in sciopero della fame La Città di Salerno, 4 luglio 2012 Hanno scritto ad Alfredo Stendardo direttore della carcere di Fuorni, a Bruno De Filippis presidente del tribunale di Sorveglianza, a Paola Severino ministro della Giustizia e alle testate giornalistiche locali, per annunciare l’inizio dello sciopero della fame. Sono i detenuti della casa circondariale di Fuorni i quali hanno annunciato che da lunedì, per tre giorni consecutivi, si asterranno “dal ritirare il vitto che quotidianamente consegna questa amministrazione - è scritto nel documento - si effettueranno tre serie di battiture delle inferriate con cadenza di trenta minuti ciascuna a partire dalle 7 secondo la seguente modalità: 7 - 7.30, 15 - 15.30, 22.30 - 23”. A darne notizia dell’iniziativa intrapresa in carcere dai detenuti sono i Radicali Salerno. La decisione è stata presa al fine di ottenere l’attenzione del tribunale di Sorveglianza, affinché “sia ripristinato l’uso delle misure alternative, applicando e rispettando i contenuti della “famosa” legge Gozzini che è puntualmente disattesa dal nostro tribunale”. I detenuti chiedono l’applicazione della legge 26 novembre 2010 (cosiddetta legge salva-carceri). I principi in essa contenuti, secondo i detenuti non sono presi in considerazione presso l’istituto “nonostante la norma sia stata concepita per far fronte al sovraffollamento, piaga che affligge l’intero “pianeta carcerario” ma che potrebbe in particolar modo risollevare l’istituto in cui ci troviamo ammassati in oltre 500 nonostante la struttura sia in grado di ospitarne meno della metà”. Brescia: Commissari regionali in visita; troveremo soldi per migliorare vita a Canton Mombello Brescia Oggi, 4 luglio 2012 I commissari del Pirellone stanno visitando gli istituti di pena della Lombardia. E fuori dall’ingresso continua il presidio per chiudere della struttura. “Troveremo le risorse per l’emergenza caldo e per la formazione” E su progetto Verziano 2 un appello al Governo: “È una priorità”. La commissione speciale regionale per le carceri finalmente è arrivata a Brescia. Canton Mombello, si sa, rappresenta una della maggiori emergenze in tema di carcerazione, e la commissione non a caso l’ha messa in testa al suo “pellegrinaggio” tra gli istituti di pena lombardi. Perché li sta visitando? Non per un’indagine conoscitiva fine a se stessa, ma per raccogliere i dati necessari a riversare in maniera mirata risorse sull’universo carcerario. Ovvero, mettere dei tamponi ad una situazione che in realtà andrebbe affrontata dal punto di vista sistemico. Il che significherebbe non solo costruire nuove strutture ma prima di tutto riformare la giustizia, in modo che non succeda che anche dopo che si sono costruite nuove carceri il sovraffollamento torni e renda pure queste invivibili. E infatti il comitato di detenuti di Canton Mombello nella lettera che ha consegnato ieri alla commissione ha trattato i problemi dal punto di vista generale della giustizia e delle soluzioni globali, caldeggiando, ad esempio, amnistia e indulto per venirne a capo. Un approccio che non è contro il carcere di Canton Mombello ma vola più alto, come ha riconosciuto il garante regionale dei diritti dei detenuti, Donato Giordano: “La lettera dei detenuti bresciani può essere l’inizio di una rivendicazione su larga scala nelle carceri italiane”. Anche allo sciopero della fame che hanno proclamato da ieri sera, i detenuti assegnano una valenza generale. Una valenza che i membri della commissione hanno riconosciuto e condiviso, pur invitando i prigionieri della casa circondariale cittadina a desistere “e ad aver fiducia in quello che la politica può fare per loro”. Quel che può fare è intanto trasformare la lettera dei carcerati in mozione da presentare in Consiglio regionale entro fine luglio. L’altra mossa sarà di formulare un ordine del giorno volto a individuare nel bilancio della Lombardia delle risorse da destinare a interventi nelle carceri regionali. “Canton Mombello non è una pecora nera, non è afflitto da problemi unici. Non è il lager che dicono coloro che presidiano l’ingresso”, sottolinea il presidente della commissione Stefano Carugo. “Non chiamatelo lager: qui tutti si impegnano per rendere questo luogo il più vivibile possibile, compatibilmente con le risorse scarse e la struttura che è il vero limite e la fonte della grandissima parte dei problemi”, dice la direttrice Francesca Gioieni. Ma se a Pavia inaugurano una nuova prigione, questo vecchio edificio ottocentesco continua a riempirsi di persone, molte in attesa di giudizio, molte straniere alle quali non si può applicare neppure il decreto svuota carceri perché privi di un domicilio, molte tossicodipendenti. “Che la Loggia abbia individuato nel Pgt un’area a Verziano è un passo decisivo: se fino ad ora Brescia è stata trascurata dall’edilizia carceraria è perché mancava una previsione urbanistica”, sottolinea Giorgio Maione, assessore comunale. Il che fa dire a Carugo che “adesso che c’è il terreno arriverà certamente anche il carcere, Il consiglio regionale solleciterà il Governo”. Fuori, il comitato per la chiusura di Canton Mombello continua imperterrito la sua protesta. Scandisce sugli striscioni la parola “lager”, incurante degli auspici che arrivano dalla biblioteca dove la commissione ha incontrato i rappresentanti dei detenuti e quella parola non la si vuol sentire: “Ci ha intristito”, ha detto la direttrice, le sembra contraria a tutto quello che si sta facendo lì dentro per mitigare l’afflizione dello stare in otto in una cella invece che quattro. Il comitato fuori richiama al rispetto dell’articolo 27 della Costituzione che parla di rieducazione, ai diritti umani, al Capo dello Stato; richiama l’Asl “ai suoi doveri” di controllo delle condizioni igienico-sanitarie, la Regione per la sua parte di responsabilità. “Per noi l’articolo 27 è valido in tutti e tre i suoi commi” è la replica di Gioieni perché “qui ci occupiamo di persone, non gettiamo le chiavi, non calpestiamo i diritti umani”. Ma certo senza soldi e con un terreno a Verziano che per ora è l’attesa di un carcere non un carcere, non si possono fare miracoli. “Però - dice Gioieni - senza i 146mila euro del fondo doti regionale non sapremmo come fare”. E se ne arriveranno altri, di euro, se li troveranno nelle pieghe del bilancio regionale - come hanno annunciato i commissari arrivati dal Pirellone - si potrà continuare sulla strada tracciata: “quella dell’implementazione di corsi di formazione lavoro grazie ai quali i detenuti hanno costruito una doccia per ogni cella (non c’erano e non ci sono ad esempio a San Vittore) e tinteggiato le pareti. Si potrà rifinanziare il corso per bibliotecari, l’agente di rete, il sostegno psicologico, l’housing sociale per chi esce di prigione. E contro il caldo? “Compreremo i ventilatori”. Presto una mozione in Regione Ci sarà presto una mozione in Consiglio regionale che accolga la richiesta di aiuto dei detenuti del carcere di Canton Mombello di Brescia, perché ci sia una riforma della giustizia e del sistema penitenziario che migliori le condizioni di detenzione. Lo hanno assicurato i membri della commissione speciale sulle carceri del Consiglio regionale della Lombardia, una cui delegazione ha visitato la struttura di Brescia anche per scongiurare l’avvio di uno sciopero della fame. “Condividiamo i contenuti del documento che ci è stato consegnato dai detenuti e abbiamo deciso di impegnarci affinché le loro istanze diventino patrimonio di tutti noi”, ha detto il presidente Stefano Carugo. Carugo ha ricordato che “in carcere si vive una situazione insostenibile” e ha sostenuto che “il carcere preventivo è una forma di tortura: il comitato ha anche aggiunto, e noi siamo d’accordo - ha proseguito -, che per favorire il decongestionamento occorre esaminare la possibilità di provvedimenti di amnistia e di indulto”. La delegazione era composta, oltre che da Carugo (Pdl) e dal garante dei detenuti Donato Giordano, anche dai consiglieri regionali Chiara Cremonesi (Sel), Fabrizio Santantonio (Pd) e Alessandro Marelli (Lega). Fra gli impegni presi infine quello di sostenere la costruzione del nuovo carcere di Brescia. Nuoro: pestaggio di un detenuto, in aula parlano gli agenti La Nuova Sardegna, 4 luglio 2012 Quattro anni fa, in una giornata di caldo insistente, in una cella di Badu e Carros era scoppiato l’inferno. Una rissa tra detenuti, materassi buttati all’aria, indumenti intimi fatti volare oltre le sbarre, e gli agenti di polizia penitenziaria che accorrono per cercare di fermare tutto. Ieri mattina, davanti al giudice monocratico, è andata in onda un’altra puntata di quella vicenda che poi sarebbe finita a processo. L’unico imputato, per “lesioni personali” è un detenuto di Gavoi, Fabrizio Pirisi. Nell’estate del 2008 era in carcere per detenzione di esplosivo. In cella con lui, pigiati come sardine, c’erano altri sette detenuti, e il caldo e la convivenza evidentemente li stava sfiancando tutti. La situazione era precipitata quando Pirisi, secondo l’accusa, aveva apostrofato con frasi a sfondo razzista uno dei compagni di cella, un giovane del Senegal. E poi, sempre secondo l’accusa, lo aveva picchiato buttando fuori dalla cella i suoi indumenti. “Io non voglio negri in cella. Sono sardo e voglio stare con i sardi” era stata una delle frasi pronunciate. Ieri mattina, in aula, è stato sentito un altro agente di polizia penitenziaria. Parma: Sappe; detenuto riceve un pacco in via Burla… fra i vestiti, 20 grammi di cocaina Parma Sera, 4 luglio 2012 Ieri a un detenuto rinchiuso nel carcere di Parma è arrivato un pacco di vestiti. Dai controlli degli agenti è emerso che nel pacco non c’era solo vestiario ma anche oltre 20 grammi di cocaina. Lo ha reso noto il sindacato di polizia penitenziaria Sappe, con un comunicato firmato dal vicepresidente regionale Errico Maiorisi. Maiorisi ricorda che nelle carceri regionali c’è “un numero altissimo di detenuti tossicodipendenti” e dice che “sembra inverosimile” che non sia stato ancora attivato un servizio di attività cinofila. Servizio che sarebbe utile per la lotta all’entrata di droga in carcere. Ma che non è stato attivato “per carenza di fondi nazionali”. Anche in via Burla manca personale: “Oltre 120 unità”, dice Maiorisi. Ecco il comunicato del Sappe: “Il sindacato della polizia penitenziaria Sappe, esprime il più convinto e sincero apprezzamento per l’importante attività di Polizia Giudiziaria dei baschi azzurri degli Istituti Penitenziari di Parma, i quali in data 3 luglio dopo attenti controlli su alcuni detenuti, riscontravano la presenza di oltre 20 grammi di cocaina celati in modo accurato all’interno di un pacco contenente vestiario, proveniente dall’esterno per un detenuto magrebino, di fatto evitando l’eventuale spaccio di stupefacenti all’interno dell’istituto. Da tale attività una pattuglia della polizia penitenziaria ha eseguito una perquisizione nell’abitazione dei presunti spedizionieri del pacco, di esito per il momento ancora non conosciuto. Sembra davvero inverosimile come negli istituti penitenziari di Parma così come in tutti quelli della Regione Emilia, che vanta un numero altissimo di detenuti tossicodipendenti, non sia stato ancora attivato, per carenza di fondi nazionali, il servizio regionale di attività cinofila, compito istituzionale della Polizia Penitenziaria, già presente in molte altre regioni d’Italia, valido aiuto ai contrasto dell’eventuale spaccio di sostanze stupefacenti nel carceri della Regione Emilia Romagna. Infine voglio ribadire la nostra più totale vicinanza, come Sappe, primo sindacato del Corpo, ai colleghi interessati dalla vicenda, per il loro costante impegno, in un istituto penitenziario come quello di Parma, costantemente sovraffollato e con una carenza dl personale di oltre 120 unità”. Pordenone: Radicali; il primo cittadino sbaglia a dirsi contrario all’indulto Messaggero Veneto, 4 luglio 2012 Il dissenso del sindaco di Pordenone a ogni forma di indulto, anche tenendo conto del sovraffollamento del castello, è contestato da Stefano Santarossa, presidente dei Radicali friulani. “È certo - afferma l’esponente politico - che il nuovo carcere non si farà né oggi, né tra 10 anni. Con leggerezza e non conoscenza della situazione, Pedrotti si è detto contrario ad atti di clemenza affermando che “pensare di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri con un indulto equivale a sperare di curare la tubercolosi con l’aspirina. Invito il sindaco a visitare il carcere, parlare con i detenuti e con il personale della polizia penitenziaria, prima di liquidare il problema con una battuta e gli ricordo come il suo predecessore Sergio Bolzonello chiese all’Ass 6 di chiudere la struttura per la grave situazione di invivibilità presente nel carcere cittadino” L’unica soluzione, per Santarossa, è l’amnistia. “Liquidare - continua - come ha fatto Pedrotti la proposta di amnistia con una battuta è segno di voler far finta di non vedere qual è lo stato di flagranza di reato dello Stato italiano incapace di rispettare i temi dei processi, di costringere i detenuti in celle e spazi ridottissimi e nello stesso tempo di bon consentire al cittadino di ottenere giustizia vista la lunghezza dei processi e la pratica diffusa della prescrizione, quale amnistia di classe che premia solo coloro che riescono a pagarsi i migliori avvocati e lasciano invece marcire detenuti ancora in attesa di giudizio definitivo in galera”. Da qui la richiesta al sindaco “di accettare il confronto su questo tema magari invitando Marco Pannella a Pordenone affinché sia ristabilito quel dibattito sulla giustizia e amnistia negato ai cittadini”. Macomer (Nu): non rientra in carcere dopo il permesso, omicida ricercato La Nuova Sardegna, 4 luglio 2012 Condannato a 20 anni per l’omicidio Serra, il cui corpo fu fatto a pezzi e buttato in un cassonetto, Giuseppe Atzeni, 43 anni, era uscito in permesso dal carcere di Macomer e sarebbe dovuto rientrare ieri sera alle 20. Scattate le ricerche Giuseppe Atzeni, di 43 anni, di Mogoro, condannato per l’omicidio di Giorgio Serra, ieri sera non è rientrato nel carcere di Macomer dove è detenuto. L’uomo era uscito in permesso e alle 20 e sarebbe dovuto tornare nel penitenziario di Bonu Trau. Atzeni venne condannato il 20 aprile 2006 a 20 anni per l’omicidio del barista Giorgio Serra, di 27, avvenuto a Mogoro la notte del 30 marzo 2001. Il processo aveva accertato che Serra la sera del 29 marzo entrò nel circolo gestito da Bernardino Atzeni, fratello di Giuseppe. Il giovane assunse una dose di droga e poi perse i sensi. Ai due fratelli Giorgio Serra sembrò morto e per liberarsi del suo corpo i due lo fecero a pezzi, infilarono i resti in buste di plastica e le gettarono in un cassonetto della spazzatura. Cagliari: incontro per illustrare ricerca su disturbi mentali e rischio di suicidio tra i detenuti Ristretti Orizzonti, 4 luglio 2012 Il giorno 26 giugno 2012, in un incontro organizzato all’interno della Casa Circondariale di Buoncammino a Cagliari, le Dott.sse Annalisa Macciò e Francesca Romana Meloni, psicologhe e ricercatrici presso l’Università di Cagliari con la supervisione della Dott.ssa Donatella Petretto, hanno illustrato i risultati di una ricerca da loro condotta nel carcere cagliaritano. Lo studio “REDiMe: Rilevazione Epidemiologica dei Disturbi Mentali e del rischio di suicidio nella popolazione carceraria”, finanziato e promosso dal Centro regionale di programmazione, Legge regionale 7 agosto 2007, n. 7 della Regione Sardegna, è un progetto di ricerca che si è posto come obiettivo principale quello di fornire una accurata valutazione del rischio suicidario in ambito carcerario, attraverso un approfondito accertamento del rischio psicopatologico nella popolazione detenuta, e di tutti quegli indicatori che sono emersi come particolarmente sensibili in relazione a tale rischio. Erano presenti all’incontro anche il Direttore dell’istituto e dei rappresentanti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Droghe: mafia, droghe e ipocrisia di Susanna Ronconi Il Manifesto, 4 luglio 2012 Colosseo, Mole Antonelliana, Maschio Angioino, San Marco, Torre di San Niccolò, Torre dell’Elefante: la geografia degli edifici storici d’Italia si veste “a festa” per il 26 giugno, Giornata mondiale contro l’abuso e il traffico di droga indetta ogni anno dall’Onu. Lo slogan che campeggia per tre giorni sui monumenti è Chi compra droghe finanzia le mafie, le loro violenze e il terrorismo. E quando si tratta di lotta alla mafia, in Italia, chi mai si sottrarrebbe? Non certo un sindaco. Ed è così che ogni traccia di pensiero critico, razionale analisi della realtà e persino buon senso si perdono nel paradosso di un moralismo ipocrita che trova il colpevole di tutti i mali nel consumatore di droghe illegali. Con uno strabiliante rovesciamento, si arriva senza vergogna a biasimare la vittima di un sistema globale perverso: oltre ad affollare le Prefetture, i tribunali e le car ceri per un comportamento individuale, oltre alla clandestinità, e ai rischi ad essa correlati, oltre a dover acquistare sostanze pessime, ignote e dannose sul mercato nero, ecco che i consumatori portano sulle loro spalle anche la colpa di nutrire le mafie internazionali. Ignorando che le mafie sono nutrite dal sistema globale della “guerra alla droga”, che ha costruito un mercato illegale dalle proporzioni smisurate, trasformando lo stile di vita di centinaia di milioni di persone che usano sostanze in tutto il mondo in crimine, consegnandole alla violenza e ai profitti della criminalità organizzata. Un sistema che attacca i diritti umani e la salute delle popolazioni, come vanno evidenziando ormai da tempo alcune delle agenzie della stessa Onu, come quelle che si occupano appunto di diritti o di Aids. L’equivalenza droghe = mafie è un prodotto del sistema globale creato dalle Convenzioni internazionali, una responsabilità della politica, e i consumatori ne sono le prime vittime. È bene ricordare che sono i consumatori più consapevoli - e ce ne sono tanti, anche in Italia - a volersi sottrarre alle mafie, mentre sono coloro che stendono striscioni indecenti sui monumenti ad impedirlo: quando un consumatore coltiva tre piantine di canapa sul terrazzo per non rischiare sul mercato nero e per non pagare profitti a chi specula, la risposta è la galera, l’accusa è di spaccio. E in galera qualcuno ci lascia anche la vita (ci ricordiamo di Aldo Bianzino?). Le litanie sulla legalità, allora, sono insopportabili, quando legalità non fa rima con giustizia: giustizia vuol dire mettere fine a questo massacro di vite, di dignità, di sofferenze inutili. Giustizia è metter mano a un riforma globale che superi repressione, stigma, rischio, sfruttamento. Giustizia è legalizzazione. Che Alemanno oppure Tosi abbiano aderito alla campagna del Dipartimento nazionale antidroga, ancora oggi diretto da Serpelloni, ci sta: questa politica è farina del sacco dei loro governi. Ma che lo stendardo indecente sia stato esposto in città governate da sindaci del centrosinistra (con l’eccezione di Milano, che pure ha aderito alla giornata), magari a suo tempo attenti o, non esageriamo...., sensibili, a politiche meno repressive sulle droghe, dice di uno spappolamento del pensiero critico, di una superficialità, di un disinteresse irresponsabili e colpevoli che lascia interdetti. Basta uno slogan antimafia di facciata, per azzerare la capacità di pensare? Libia: Amnesty International; legge poco rispettata, diritti umani a rischio Agi, 4 luglio 2012 In Libia rischieranno di ripetersi le stesse violazioni dei diritti umani che diedero vita alla “rivoluzione del 17 febbraio”, se chi vincerà le elezioni previste il 7 luglio 2012 non porrà in cima alle priorità il primato della legge e il rispetto dei diritti umani. È questa la denuncia di Amnesty International contenuta nel nuovo rapporto intitolato “Libia: primato della legge o primato delle milizie?”. “È assai triste che dopo così tanti mesi, le autorità non siano state complessivamente in grado di allentare la stretta mortale delle milizie sulla sicurezza del paese, con conseguenze drammatiche per la popolazione” - ha affermato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty. “Furono soprattutto le richieste di porre fine alla repressione e all’ingiustizia a condurre alla ‘rivoluzione del 17 febbraio”. Senza un’azione immediata per fermare le violazioni e porre rimedio all’assenza di legge, la Libia rischia concretamente di riprodurre e rafforzare quel sistema di violazioni dei diritti umani che abbiamo già visto in opera negli ultimi quattro decenni” - ha aggiunto Sahraoui. Trascorso poco meno di un anno dalla caduta di Tripoli nelle mani dei i combattenti rivoluzionari, le continue violazioni dei diritti umani - tra cui arresti e imprigionamenti arbitrari, torture con conseguenze anche mortali, omicidi illegali e sfollamenti forzati di popolazioni eseguiti con impunità - stanno gettando un’ombra negativa sulle prime elezioni nazionali dalla caduta del regime di Muammar Gheddafi. Durante la visita in Libia a maggio e giugno, Amnesty ha verificato che centinaia di milizie armate, continuano ad agire al di sopra della legge, molte delle quali rifiutando di disarmare o di arruolarsi nell’esercito e nelle forze di polizia. Il ministero dell’Interno ha dichiarato all’organizzazione per i diritti umani di essere riuscito a smantellare quattro milizie della capitale, poco considerato l’alto numero delle milizie. Le milizie continuano ad arrestare persone e a trattenerle in strutture detentive segrete e non ufficiali. Nonostante alcuni progressi nel sottoporre a controllo centrale i luoghi di detenzione, sarebbero 4000 i prigionieri fuori dal controllo delle autorità nazionali, alcuni anche da più di un anno. Amnesty ha anche visto i segni di recenti pestaggi e di altre violenze - in alcuni casi equiparabili a torture - in 12 dei 15 centri di detenzione dove ha potuto incontrare in privato i prigionieri. Tra i metodi di tortura usati regolarmente, figurano la sospensione in posizioni contorte, le scariche elettriche e i pestaggi prolungati con svariati oggetti, come sbarre e catene di metallo, cavi elettrici, bastoni di legno, tubi di plastica, cannelle dell’acqua e calci dei fucili. Amnesty ha ricevuto inoltre informazioni dettagliate su almeno 20 casi di morte in custodia a seguito della tortura da parte delle milizie a partire dalla fine di agosto 2011. Continuano anche gli scontri tra le milizie armate, col ricorso sconsiderato a mitragliatrici, lanciagranate e altre armi contro le aree abitate, come nella città meridionale di Kufra, dove vive la minoranza tabu, teatro di una serie di scontri tra febbraio e giugno 2012. Amnesty ha criticato duramente le autorità libiche per non aver risolto la situazione di intere comunità sfollate con la forza durante il conflitto dello scorso anno e non ancora in grado di fare rientro nelle loro case, saccheggiate e poi distrutte dalle milizie armate. A tutta la popolazione di Tawargha, circa 35.000 persone, viene negata la possibilità di tornare a casa. Libia: voci dalle carceri libiche "qui è l'inferno, aiutateci" La Repubblica, 4 luglio 2012 Storie raccontate clandestinamente al telefono, poi trascritte dalla Fondazione IntegrA/Azione 1, dai detenuti rinchiusi nelle celle delle carceri libiche dove si trovano persone fuggite dai paesi dell'Africa sud sahariana e del Corno d'Africa per raggiungere l'Europa via mare. Vivono in condizioni animalesche nei centri di detenzioni (alcuni dei quali costruiti con soldi pubblici italiani) assiepati come polli da batteria. Queste che leggete di seguito sono le storie e le testimonianze raccontate clandestinamente al telefono, e poi trascritte, di detenuti rinchiusi nelle celle delle carceri libiche dove vengono rinchiuse le persone che fuggono dai paesi dell'Africa sud sahariana e del Corno d'Africa. Vivono in condizioni animalesche nei centri di detenzioni (alcuni dei quali costruiti con soldi pubblici italiani) assiepati come polli da batteria, ma dove in qualche modo riescono a tenere accesi alcuni cellulari, con i quali appena possono chiamano per denunciare quanto sta loro accadendo. Queste che seguono sono i racconti raccolti dalla Fondazione IntegrA/Azione 2. Una speranza che sta svanendo (Debesay, eritreo) "Mi hanno arrestato mentre camminavo in città a Benghazi - racconta Debesay, detenuto da più di due mesi nel carcere di Ganfuda - cercavo una barca insieme ad altri ragazzi per tentare di raggiungere l'Italia dove già è rifugiata mia madre. Qui in carcere siamo disperati, frustrati, abbiamo provato ad uscire in tutti i modi, ma non ci siamo riusciti, neanche pagando le guardie". Debesay è riuscito a far arrivare a un trafficante 400 dollari per corrompere i militari libici per la sua liberazione. Un pagamento anticipato senza alcuna garanzia, "un tentativo fallito: sono ancora qui. Scappare non è possibile, se provi a evadere vieni punito, picchiato sotto le piante dei piedi, un dolore atroce". Le condizioni della detenzione sono disumane, con umiliazioni e vessazioni continue da parte dei libici. "Nella cella di trenta metri quadri siamo accalcati più di 60, dormiamo per terra, non ci sono reti ma solo materassi, sporchi o stuoie sul pavimento. Ci danno da mangiare tre volte al giorno, il più delle volte pane secco e acqua. Per il resto, un'attesa infinita. Se stai male non ci sono medici e medicine: il tuo destino è l'abbandono e la morte. Non so veramente che dirti - conclude Debesay - non so cosa faccio, non so che pensare, la speranza sta svanendo..." A 17 anni nell'inferno di Ganfuda (Mogos, eritreo) Mogos viveva ad Asmara in Eritrea, è scappato dal campo di addestramento dell'esercito eritreo di Saua per non trovarsi costretto ad andare al fronte a soli 15 anni. Una fuga lunga, durissima. Passato il confine è stato quasi due anni in Sudan, per trovare il giusto trafficante di esseri umani e reperire il denaro per riprendere il viaggio sino alle coste libiche, per tentare di raggiungere l'Italia. Come per tutti passare il deserto è stato un'odissea. Un lungo viaggio senza ritorno andato "male, molto male. Come ti spiego - dice Mogos al nostro mediatore culturale - tu lo sai bene, hai già passato questo deserto, abbiamo viaggiato per 12 giorni, eravamo 50 persone ammassate su un camion". Ad un passo dal mare, quando sembrava finito l'incubo, "mi hanno beccato con i ragazzi che viaggiavano con me. Camminavo verso Tripoli, per trovare il modo per attraversare il mare, sicuro di avercela fatta, quando i militari libici mi hanno preso e arrestato nel corso di una retata. Per due giorni mi hanno tenuto nel centro di Ijdabiyah, poi mi hanno trasferito qui a Ganfuda. Sono da quattro cinque giorni qui a Gandufa, si sopravvive tirando avanti giorno per giorno. La cosa più dura è non vedere un futuro, un'uscita da questo viaggio infinito. I pochi che escono dalle prigioni lo fanno per lavorare". Alcuni prigionieri vengono scelti per lavorare da ricchi libici, che comprano i detenuti per poi usarli come forza lavoro a costo zero nelle proprie aziende o fattorie nel deserto. Questa uscita dal carcere, per trasformarsi da detenuti a schiavi è possibile solo per le persone con il passaporto, che viene sequestrato in modo da scongiurare la fuga del lavoratore comprato. "Tutti quelli che hanno il passaporto possono uscire, ma anche per questo ci vuole molta fortuna - spiega Magos - noi eritrei siamo tutti senza passaporto, per noi non c'è soluzione, non c'è futuro. A 17 anni sono bloccato qui, all'inferno". Io scomparso dal mondo (Samuel, eritreo) Samuel è un ragazzo di 23 anni che viene della periferia di Asmara. "Sono fuggito perché non volevo fare la guerra, sono scappato in fretta e furia, senza poter neanche salutare la mia famiglia". Da cinque giorni è anche lui nel carcere libico di Ganfuda: "Ci hanno preso durante il lungo viaggio dal Sudan e dal deserto ci hanno portati qui in questa prigione. Tutte le donne e i bambini che erano con noi - ci spiega Samuel - sono stati presi e trasferiti al centro della Croce Rossa a Benghazi, da allora non ne sappiamo più nulla". Le comunicazioni con l'esterno sono difficili, anche per il nostro mediatore è stato molto complicato contattare i detenuti nelle carceri. "In 60 abbiamo un solo telefono cellulare nascosto in cella, è l'unico contatto con la famiglia, i connazionali, i trafficanti: l'unico contatto con il mondo. Io non sono riuscito ancora a sentire la mia famiglia, non sanno nulla di me e io non so più nulla di loro. Qui la vita è dura e faticosa - racconta Samuel - siamo sempre chiusi in cella, possiamo uscire solo quando ci danno il pane. Siamo frustrati, siamo stanchi della prigione, ma non c'è alcuna possibilità d'uscita, non c'è nessuna speranza". Siamo tantissimi detenuti qui (Aroon, eritreo) Aroon ha 24 anni e viene anche lui dalla periferia di Asmara, ha condiviso il viaggio di fuga dall'Eritrea con Samuel, compreso l'epilogo di prigionia. "Qui siamo divisi per nazionalità - spiega Samuel - somali, sudanesi ed eritrei, ognuno nella propria cella. Viviamo in ansia continua. Stiamo resistendo, siamo costretti, per forza. Prima il viaggio nel deserto, ora la prigione, trattati come delinquenti, non ce la facciamo più". La speranza nel futuro tende ad allontanarsi velocemente. "Non riusciamo a corrompere le guardie per uscire, quando paghiamo qualcuno ruba i soldi e non ci fa uscire, Evadere è difficile, in pochi ci riescono e se ti prendono ti torturano. La croce rossa non può fare nulla per noi perché questo paese non ha un governo, tutto è caotico". "Siamo tantissimi detenuti qui - conclude Aroon - e altre persone stanno arrivando attraverso il Sudan verso la Libia, molti miei amici sono partiti. Come faranno a tenerci tutti qui"? Dalla prigione al mare (Anwar, etiope) Nascosto in una stanza con diversi altri connazionali, Anwar è un giovane etiope dell'etnia Oromo, perseguitata nella propria terra e soggetta a vessazioni di ogni genere. "Sono uscito dalla prigione di Ganfuda da quasi un mese, mi ha riscattato un libico che aveva bisogno di manodopera. Così poi pagando sono riuscito a continuare il viaggio verso il mare. Ora sto raccogliendo gli ultimi soldi per arrivare a Tripoli e imbarcarmi per l'Italia". Nascosto in una casa sulla strada per Tripoli è in balìa del trafficante che dovrebbe condurlo alla costa e che irrompe più volte durante la telefonata con il mediatore della Fondazione IntegrA/Azione 3. "Sono stato prigioniero in tante carceri qui in Libia. Prima sono stato a Kufrah poi a Ganfuda - ci spiega Anwar - La prigionia era terribile, bruttissima: ci picchiavano regolarmente e puntualmente ogni sera, non avevamo il cibo, non c'erano medicine né dottori. Ho passato tutte queste sofferenze e adesso sono diretto finalmente verso il vostro paese. In Libia non ci sono diritti, non c'è un governo. Per loro se tu mangi o non mangi, ti ammali o stai bene non cambia nulla. Voi siete in un paese dove c'è un governo". Ai lavori forzati (Meron, eritreo) A gennaio Meron era rinchiuso nel carcere di Kufrah, sotto la supervisione dell'UNHCR 4. "A marzo la prigione è tornata sotto il controllo dei militari del nuovo governo libico e noi siamo tornati ad essere prigionieri - spiega Meron - ci costringevano ai lavori forzati pulendo carri armati ed armi". Poprio da questi lavori forzati ha avuto inizio uno sciopero della fame e una manifestazione repressa duramente dai militari. "Da Kufrah ci hanno portato in aereo a Ganfuda, dove sono rimasto quasi due mesi. Ora con un po' di fortuna e molta fatica sono riuscito ad uscire; lavoro in una fattoria di un padrone libico, nell'attesa di trovare il denaro sufficiente e il momento giusto per cercare di raggiungere mio fratello in Italia". Aspettando di salpare verso la speranza (Salua, somala) "Sono stata in carcere a Ganfuda per due mesi - racconta la giovane Salua - la vita era molto difficile. Finalmente sono uscita, ora mi trovo a Tripoli nascosta in una casa". L'appartamento è di un trafficante che sta organizzando la traversate del Mare Nostrum. "Uscire dall'appartamento non è possibile, ci portano ogni giorno beni di prima necessità". Così si passa il tempo nell'attesa delle giuste condizioni meteo per la partenza. "Vengo in Italia la prossima settimana, mi sto preparando". Mentre scriviamo Salua dovrebbe essere in procinto di partire verso l'Italia, non ci resta che augurarle ancora una volta buona fortuna. Un ringraziamento particolare. Le interviste sono state realizzate con l'insostituibile aiuto di un mediatore culturale di origine eritrea e collaboratore della Fondazione IntegrA/Azione, Mahamed Aman, cui va il ringraziamento più grande, per aver permesso un'indagine altrimenti impossibile, fornendo chiavi di lettura, informazioni fondamentali nella comprensione del contesto e decodifiche dei messaggi veicolati dai ragazzi intervistati. Una collaborazione che nasce dalla volontà, da parte di Mahamed, di restituire speranza ai giovani nelle carceri e cercare di far conoscere le loro storie nel nostro Paese, che di quelle vicende è spesso complice. Mahamed ha un fratello che sta ancora in Libia, nell'attesa dopo mesi di carcere di trovare il denaro sufficiente e il momento giusto per cercare di raggiungerlo in Italia. Arabia Saudita: giustiziato trafficante droga, 48 condanne eseguite da inizio anno Aki, 4 luglio 2012 Un trafficante di droga è stato giustiziato tramite decapitazione nella regione di Jawf, nel nord dell’Arabia Saudita. Lo ha riferito una nota del ministero dell’Interno, citata dall’agenzia d’informazione ‘Spà, secondo cui il detenuto condannato era un cittadino saudita di nome Ali al-Muzayyan ed è stato giustiziato per il contrabbando di una “grande quantità di anfetamine. Salgono così a 48, stando ai dati ufficiali, le condanna a morte eseguite nel Paese di re Abdullah da inizio anno. Nella monarchia del Golfo viene applicata la pena di morte per una serie di reati, dall’omicidio allo stupro, dal narcotraffico all’apostasia. Lo scorso anno nel regno, secondo dati di Amnesty International, sono state eseguite le condanne a morte comminate a 79 persone.