Giustizia: nelle carceri emergenza senza fine di Luigi Manconi Il Messaggero, 31 luglio 2012 Giusto un anno fa, Giorgio Napolitano, nel suo intervento a un convegno promosso dai Radicali, definiva le condizioni del sistema penitenziario italiano “una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Tanto è rimasto inascoltato il grido di allarme del capo dello Stato che, a distanza di 12 mesi, quell’urgenza è diventata, se possibile, ancora più drammatica. E i due suicidi nelle carceri di Lecce e Roma, nel corso delle ultime ore, ne sono la più crudele conferma. Fosse accaduta d’inverno, non è che questa tragedia sarebbe stata meno tragedia. È vero, tuttavia, che il particolare periodo, la calura insopportabile e l’idea conseguente di un universo chiuso che si fa sempre più oppressivo e soffocante costituiscono uno scenario fatale. Uno scenario dove la pena della privazione della libertà diventa annichilimento dell’esistenza. A causa delle condizioni disumane in cui - si fa per dire - si vive o a causa - ancora si fa per dire - della scelta di darsi la morte. Il caldo c’entra perché tutto ciò che nella vita delle persone libere costituisce un dato ordinario (il tempo, l’attesa, la fatica...) si trasforma in un tratto parossistico all’interno della struttura carceraria, Dunque, il clima diventa in quelle celle un fattore patogeno e, allo stesso tempo, criminogeno. Ovvero produce malattia e, facendo precipitare le condizioni igienico - sanitarie, riduce gravemente l’assistenza medica e i servizi terapeutici. Ed esalta l’aggressività, rendendo la promiscuità già intollerabile ancora più intollerabile; ed esaspera la penuria di spazio movimento agibilità, ammassando i corpi e addensando i respiri e i sudori. E come può tutto ciò, non tradursi in reciproca sopraffazione, violenza latente, accumulo di tensione e di odio? Come può non riprodurre all’infinito il meccanismo del crimine? I dati fomiti dall’Osservatorio della benemerita associazione Ristretti Orizzonti documentano in maniera tanto inequivocabile quanto straziante, questo scialo di vita e di dignità e questa dissipazione di diritto e di diritti: nel corso del solo mese di luglio dì quest’anno, 5 detenuti impiccati, uno morto nel carcere di Siracusa dopo 25 giorni di digiuno, un internato nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa ucciso dal compagno di cella, un altro in quello di Barcellona Pozzo di Gotto, asfissiato con il gas, altri 5 reclusi deceduti per non meglio precisate “cause naturali”. Dunque, nel corso del 2012, il totale delle morti tra i detenuti sale a 94 (34 per suicidio) e il mese di luglio ha registrato il maggior numero di decessi degli ultimi quindici anni. A ciò si aggiunga che, sempre nel corso di quest’anno, si sono registrati 7 suicidi tra appartenenti alla Polizia Penitenziaria: segno davvero incontrovertibile di una crisi che coinvolge l’intero sistema di esecuzione delia pena, legando custodi e custoditi - pur nell’insuperabile distinzione dei ruoli - al medesimo destino di frustrazione e prostrazione. Ora, se questo è il quadro di una realtà da nessuno contestata, come spiegarsi il fatto che si tolleri il suo perpetuarsi nel tempo? Siamo in presenza, come non si stancano di denunciare i Radicali di Marco Pannella, di una condizione di conclamata illegalità: non porvi riparo e non interromperne il corso equivale - oltre che a perpetuare quelli che la Convenzione dei diritti dell’uomo chiama “trattamenti inumani e degradanti” - a una serie di fattispecie penali. Quali il mancato soccorso, l’omissione di atti d’ufficio e l’omessa vigilanza, l’abuso di potere. Eppure, tutto ciò lascia indifferente la gran parte della classe politica. Il motivo principale è semplice: interessarsi della condizione delle carceri non è remunerativo sul piano politico e può essere gravemente penalizzante sul piano elettorale. Questo spiega perché mai una misura, prevista dalla Costituzione e indispensabile in una condizione di emergenza come quella attuale - mi riferisco all’amnistia - venga censurata quasi fosse un termine scandalosamente impronunciabile. La ragionevolezza di un simile provvedimento, irrinunciabile al fine di introdurre quel minimo di normalità che possa consentire riforme strutturali, viene confermata dal favore mostrato dal Ministro della Giustizia e dallo stesso Capo dello Stato. Entrambi hanno riconosciuto che, se l’amnistia non può essere varata, è perché mancano le “condizioni politiche”: ovvero il consenso di quei partiti che ne temono il contraccolpo elettorale. Eppure, nemmeno questa spiegazione è sufficiente: se vi fosse un’intesa unanime o quasi, anche i possibili effetti negativi di un provvedimento impopolare si distribuirebbero, più o meno equamente, lungo l’intero arco dei partiti. Ma, questo è il punto, alcuni di quegli stessi partiti, preferiscono investire su alle ansie collettive, che il carcere confusamente evoca, e si fanno imprenditori politici della paura. Si pensi al fatto che un provvedimento, certo parziale, quale l’indulto del 2006 è stato presentato come un micidiale attentato alla sicurezza pubblica: e invece, quella misura, oltre ad aver recato sollievo temporaneo a un sistema penitenziario sovraffollato, ha registrato una percentuale dì recidiva (detenuti beneficiari dell’indulto che reiterano il reato) notevolmente bassa. A riprova che la sicurezza collettiva non discende da un surplus di afflizione. (“chiudere la cella e buttare via la chiave”) bensì dalla possibilità di garantire dignità e diritti e un percorso di integrazione sociale, a chi è recluso. Si diceva: l’amnistia può servire a ripristinare condizioni di normalità, che consentano una profonda riforma del sistema penitenziario. La direzione è già stata indicata, oltre che dall’attuale ministro della Giustizia e dal Capo dello Stato, dalle diverse commissioni di riforma del codice penale, istituite nel corso dell’ultimo quindicennio dai governi di centrodestra e di centrosinistra. Si tratta di procedere verso la de - penalizzazione e la de - carcerizzazione: ovvero verso la riduzione dei numero di atti, comportamenti e situazioni definiti come fattispecie penali; e di ridurre il numero dei reati sanzionati in via esclusiva o principale attraverso la detenzione in cella. Questo, e solo questo, può impedire che quella strage silenziosa, che avviene al riparo dal nostro sguardo, si perpetui all’infinito. Giustizia: l’inferno quotidiano delle carceri di Stefano Caselli Il Fatto, 31 luglio 2012 Era detenuto a Regina Coeli da pochi giorni, pare avesse “problemi psichici” e che, per questo motivo, fosse guardato a vista 24 ore su 24 ore. Ma non è bastato: nella notte tra domenica e lunedì è riuscito in qualche modo a sfilare l’elastico degli slip e a impiccarsi. Aveva 25 anni. É il settimo detenuto morto suicida nelle carceri italiane dall’inizio del mese, “il luglio più nero delle carceri italiane degli ultimi 12 anni”, rende noto l’Osservatorio permanente sui morti in carcere. A questi sette, inoltre, vanno aggiunti un detenuto morto nel carcere di Siracusa dopo 25 giorni di sciopero della fame, un sospetto suicidio nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto e cinque decessi per non meglio precisate “cause naturali”. In tutto, dall’inizio dell’anno, i detenuti suicidi sono 35. La disperazione dietro le sbarre non conosce latitudini, differenze di età, reati commessi o entità della pena. Si muore da Torino a Palermo, a 21 o a 58 anni. Si muore a Sollicciano, anche se la pena è di pochi mesi e il reato per cui si è condannati è un furto in appartamento. E ci si toglie la vita a Teramo se - condannati per omicidio - la prospettiva è quella di uscire di prigione a 75 anni. Ma la disperazione del carcere non conosce nemmeno ruoli. Si uccidono con allarmante frequenza anche gli agenti di polizia penitenziaria. Soltanto a luglio sono tre (a Busto Arsizio, Vasto e Augusta) gli agenti di polizia penitenziaria che si sono uccisi con la pistola di ordinanza. Dall’inizio dell’anno sono già sette. I sindacati di polizia giudiziaria denunciano però oltre 90 casi negli ultimi dieci anni. Numeri spaventosi, al pari di quelli dall’altra parte della cella. Dal 1990 a oggi si sono infatti tolte la vita in carcere 1.163 persone (il massimo, 69, nel 2001): italiani, stranieri, uomini ma anche donne, in attesa di giudizio o condannati definitivamente. Numeri che in realtà potrebbero anche essere più gravi: “Il dubbio che abbiamo - affermano i responsabili dell’Osservatorio permanente sui morti in carcere - è che in Italia il numero dei suicidi in carcere sia sottostimato da sempre. Prove certe non ne abbiamo, ma abbiamo individuale almeno un indizio che meriterebbe un approfondimento: negli ultimi 12 anni nelle carceri italiane sono morte più di 2.000 persone (di cui circa 700 per suicidio) e la loro età media (38,5 anni) è di poco superiore a quella dei suicidi (37 anni). Perché muoiono così tanti detenuti giovani e giovanissimi”? Senza contare il fenomeno dei tentati suicidi sventati e degli atti di autolesionismo che, secondo i sindacati di polizia penitenziaria, si contano a decine di migliaia. Le cause - al netto dell’ineliminabile carico di disagio psicologico e fisico intrinseco all’istituto carcerario - sono le solite: sovraffollamento, giustizia farraginosa e carenza di personale. I detenuti in Italia (dati aggiornati al 30 giugno 2012) sono 66.528 (23 mila stranieri) a fronte di una capacità ricettiva di 45.584 posti. Ventiseimila le persone in attesa di giudizio. Nei 206 istituti di pena lavorano circa 40 mila agenti, ma secondo i sindacati mancherebbero almeno 6.500 tra “agenti, ispettori e sovrintendenti”. Una situazione di ciclica catastrofe che ha consigliato ieri il ministro dell’Interno Paola Severino a visitare a sorpresa il carcere di Regina Coeli a Roma. Non un’ispezione ma “un’occasione per verificare la situazione in alcuni reparti problematici”. Come il Centro diagnostico e terapeutico del carcere trasteverino che, come denuncia il garante per i diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, “sta lentamente, ma inesorabilmente, morendo. Da tempo la struttura non garantisce più gli standard minimi previsti dallalegge, nonostante i lavori di manutenzione eseguiti. Su questa struttura si sta addensando una tempesta perfetta, con gravi carenze strutturali e igieniche cui si sommano il sovraffollamento e l’insufficiente dotazione di personale sanitario e penitenziario . É indubbio che per la gestione di una tale struttura occorrono ambienti e personale idonei e risorse adeguate, in mancanza delle quali è difficile garantire il diritto alla salute dei detenuti”. Alla denuncia del Garante è prontamente seguita la visita del ministro Severino, probabilmente - anche - su sollecitazione del presidente della Repubblica. Napolitano, infatti, ha scritto ieri al Corriere della Sera per rispondere a un appello sottoscritto da 100 docenti universitari e dai garanti dei diritti dei detenuti: “Ho interessato il ministro della Giustizia - scrive Napolitano - perché mi fornisca un quadro aggiornato”. Il presidente si è detto “preoccupato” per la “drammatica” situazione del sistema carcerario italiano, e non esclude la necessità di “provvedimenti come amnistia e indulto”, nonché “l’approvazione di disegni di legge in materia di depenalizzazione e de - carcerizzazione”. Giustizia: luglio mese tragico, 18 morti in cella; nel 2012 deceduti 93 reclusi e 7 agenti di Ilaria Sesana Avvenire, 31 luglio 2012 Aveva 26 anni e soffriva di problemi psichici. Per questo motivo era stato trasferito nel centro clinico di “Regina Coeli”. Ma non appena le guardie hanno spento la luce, lui si è tolto la vita, impiccandosi con l’elastico degli slip. Il giovane tunisino morto nella notte tra domenica e lunedì è la 18ma vittima delle carceri italiane nel mese di luglio. “Si tratta il bilancio mensile più pesante dal 2000”, denunciano dalla redazione “Ristretti Orizzonti”, che dal 2000 tiene memoria delle morti in carcere con un dettagliato dossier. Dal 1° gennaio a oggi, il totale delle morti tra i detenuti sale così a 93 (di cui 33 per suicidio). A questi si aggiungono poi i suicidi di sette agenti di polizia penitenziaria (gli ultimi due venerdì scorso) tra cui quello di un Ispettore Capo. E proprio il Centro diagnostico e terapeutico (Cdt) di “Regina Coeli” è stato ieri al centro di una denuncia da parte del Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni che, nei mesi scorsi, aveva chiesto l’intervento dell’Asl. “Sta lentamente morendo. Da tempo la struttura non garantisce più gli standard minimi previsti dalla legge”, spiega Marroni. Rispondendo alle sollecitazioni del Garante, l’Asl ha messo nero su bianco “le gravi criticità del centro”. Una struttura dove sono ricoverati 84 detenuti provenienti da tutta Italia. L’elenco dei lavori da fare è lungo: occorre sostituire le pavimentazioni dei reparti di degenza, le pareti devono essere ritinteggiate, i servizi igienici sono in condizioni critiche e devono essere “integralmente sostituiti”. Bisogna poi intervenire con urgenza per mettere a norma gli impianti elettrici. Infine, l’Asl ha raccomandato la costante igienizzazione e sanificazione degli ambienti. Un’attività che dovrebbe essere svolta da personale qualificato e con appositi prodotti, ma che al Centro clinico di “Regina Coeli” viene affidato ai pazienti e ai piantoni. Per di più il piantone, che non ha qualifiche specifiche, deve occuparsi anche di assistere i reclusi con deficit motori e visivi. “Sono consapevole delle difficoltà in cui versa la finanza pubblica - conclude Marroni. Ma questo è il momento delle decisioni, non si può più temporeggiare. O si interviene oppure il Cdt rischia di chiudere”. A sorpresa, il ministro della Giustizia, Paola Severino, si è presentata ieri nel carcere romano. Accompagnata dal capo del Dap, Giovanni Tamburino, il Guardasigilli ha visitato i tre piani del Centro clinico proprio per valutarne di persona le condizioni e per cercare “misure di alleggerimento” per ridurre il numero dei detenuti ricoverati nell’area sanitaria dell’istituto. I ministro Severino si è poi recata nella rotonda di “Regina Coeli” dove è stata a lungo applaudita dai detenuti affacciati dietro le grate delle finestre delle celle. Attualmente nel penitenziario romano sono rinchiuse 977 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 600 posti. Giustizia: il ministro a Regina Colei accolto dagli applausi… depenalizziamo i reati minori di Massimo Martinelli Il Messaggero, 31 luglio 2012 Che tirava un’aria nuova in via Arenula si era capito immediatamente; i primi a fiutarla erano stati Luca Palamara e Giuseppe Cascini, all’epoca ai vertici dell’Anm, quando nel novembre scorso sulla poltrona che era stata di Roberto Castelli e Angelino Alfano era arrivata Paola Severino, avversaria leale in tanti processi importanti nelle aule di piazzale Clodio ma che stavolta diventava interlocutore istituzionale, ministro Guardasigilli, in grado dì dettare la politica giudiziaria in una stagione che si annunciava piena di riforme. L’esordio fu un libricino semplice: “Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti”, Come se la passavano i carcerati, nei penitenziari italiani, Paola Severino lo sapeva da tempo. E altre testimonianze assolutamente attendibili arrivarono dopo. Per questo nessuno si è stupito, ieri mattina in via Arenula, quando appena saputo dell’ennesimo suicidio il ministro ha stravolto i programmi e si è catapultata nel piazzale di Regina Coeli. Per lanciare un segnale a tutti, operatori carcerari compresi: lo Stato c’è. Se succede qualcosa, un attimo dopo sono qui. Nessuno si è stupito nemmeno degli applausi, che sono arrivati scroscianti dalie finestre, non appena i detenuti l’hanno vista oppure hanno saputo che c’era. “Ormai accade in quasi tutti i penitenziari in cui il ministro va à fare visita - spiega un funzionario del dicastero - il popolo delle carceri ha capito che questo Guardasigilli sia facendo qualcosa di concreto. Ma sono applausi che le provocano amarezza, perché sa che c’è ancora molto da fare”. Per avere conferma, basta chiederlo a lei cosa prova a sentire quei battimani. Paola Severino non si tira indietro: “Quell’applauso così intenso e prolungato che si è levato dai detenuti di tutti i raggi che si affacciano sulla rotonda del carcere mi ha suscitato una grandissima commozione per la spontaneità di un gesto inatteso, cosi come inattesa era la mia visita a Regina Coeli. Tuttavia - aggiunge il Guardasigilli - insieme a questa fortissima emozione, mi ha pervaso anche un senso di impotenza per l’impossibilità di riuscire a trovare .soluzioni strutturali immediate ed efficaci per un problema che meriterebbe l’impegno e il coinvolgimento di tutti”. Colgo quindi l’occasione - in piena assonanza con l’ultimo messaggio del Capo dello Stato sull’emergenza penitenziaria, alla cui stesura aveva contribuito il compianto Loris D’Ambrosio - per tornare a sollecitare il Parlamento affinché sia data una corsia privilegiata ai disegni di legge sulle misure alternative al carcere e sulla depenalizzazione dei reati minori”. Chiede solo coerenza, Paola Severino, L’altro giorno, sull’onda emotiva del caso D’Ambrosio l’hanno sollecitata sull’opportunità di approntare una corsia preferenziale sulla riforma delle intercettazioni. Ma lei ha confermato la sua agenda delle priorità: anticorruzione e piano carceri. Anche se il cuore, molto probabilmente, la portava altrove. Giustizia: signora ministro… dopo la sua “visita” a Regina Coeli cos’ha fatto? cosa intende fare? di Valter Vecellio Notizie Radicali, 31 luglio 2012 Le cronache informano che il ministro della Giustizia, “a sorpresa”, ha visitato il carcere romano di Regina Coeli. Non si sa se, al termine dei tre quarti d’ora di “ispezione” ne abbia ricavato la stessa impressione avuta dopo aver visto i padiglioni del carcere napoletano di Poggioreale. Servizievoli resoconti giornalistici informano che il ministro è stato applaudito dai detenuti. Chi, tuttavia, non ha applaudito è Sarshedin Saidani, venticinquenne detenuto tunisino. Nella notte si è tolto la vita impiccandosi; e doveva ben essere determinato in questo suo estremo proposito, se è vero che non disponendo di altri “strumenti”, per togliersi la vita ha utilizzato l’elastico degli slip; e questo, informa l’agenzia “Dire”, “nonostante fosse controllato a vista dalle guardie”. Perché era controllato a vista? Sarshedin era ricoverato nel centro clinico di Regina Coeli “in quanto malato di mente”, e aveva varcato la soglia del carcere circa una settimana fa, “con l’accusa di rapina aggravata da lesioni e resistenza a pubblico ufficiale”. In una parola: tenta una rapina, viene bloccato, resiste all’arresto; e infatti: “Il detenuto aveva già creato anche problemi piuttosto seri…era aggressivo già appena preso. Ci volevano tre poliziotti per tenerlo”. Dichiarato “malato di mente”, lo psichiatra aveva appunto disposto la sorveglianza a vista, e il giudice della direttissima, aveva fissato la perizia. Perizia ulteriore, par di capire. Una sorveglianza a vista che si è attenuata scesa la notte: “Le guardie hanno spento la luce per farlo dormire, e lui si è ucciso”, spiega il garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni; e il direttore del carcere di Regina Coeli, Mauro Mariani: “Le luci andavano spente, c’è sempre un limite tra il rispetto della dignità delle persone e la prevenzione dei pericoli, soprattutto con una persona già fragile psicologicamente”. Ora l’unica cosa che si dovrebbe scongiurare è che per questo suicidio a pagarne le conseguenze siano gli agenti di custodia, chiamati tutti i giorni, a un compito ingrato e impossibile: a Regina Coeli come in qualunque altro carcere italiano. E infatti, sempre ieri Marroni ha denunciato, in una conferenza stampa, “come anche da rilievi della ASL, le condizioni igieniche e strutturali” in cui versa il carcere, definite semplicemente “catastrofiche”. E per quel che riguarda la “catastrofe”: il centro diagnostico e terapeutico di Regina Coeli, “struttura di rilievo nazionale della medicina penitenziaria”, sempre secondo quanto riferisce Marroni, “rischia la chiusura per gravi carenze di carattere strutturale, igienico e sanitario: servizi igienici in condizioni critiche e precarie, pavimenti sconnessi da sostituire, infissi da sottoporre a revisione, impianti tecnologici non conformi…Il centro clinico di Regina Coeli sta lentamente, ma inesorabilmente morendo. Da tempo la struttura non garantisce più gli standard minimi previsti dalla legge, nonostante i lavori di manutenzione eseguiti. Su questa struttura si sta addensando una tempesta perfetta, con gravi carenze igieniche e strutturali, cui si sommano il sovraffollamento e l’insufficiente dotazione di personale sanitario e penitenziario…”. Una chiara situazione fuorilegge, di cui ora è da credere, il ministro della Giustizia - che a sorpresa ha ispezionato il carcere - è venuta a diretta conoscenza. Si può chiedere, sommessamente, quali urgenti provvedimenti ha disposto, sollecita, promuove? Ha convocato i suoi collaboratori, i responsabili del DAP, il giudice di sorveglianza, si è fatta consegnare il rapporto dell’Asl, ha chiamato Marroni per delucidazioni e chiarimenti? Insomma, uscita dal portone che occorre varcare per potersi dire veramente “romani”, cos’ha fatto, cosa intende fare? Nelle stesse ore della visita a sorpresa del ministro, si registra una presa di posizione della Fp - Cgil: “Due suicidi in carcere, uno a Lecce e l’altro a Roma, e uno all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona di Pozzo di Gotto: sono la testimonianza di una realtà indegna di un paese civile. Mentre in Parlamento si sta discutendo di provvedimenti che tagliano del 10 per cento il già ridotto personale penitenziario/amministrativo, ovvero quello che si occupa del trattamento e dell’esecuzione penale esterna, e bloccano il turn over del personale di polizia penitenziaria, già oggi carente di ben 7mila unità, nelle carceri e negli OPG si continua a morire nell’indifferenza… senza una politica progettuale il grave problema umano che affligge le nostre carceri è irrisolvibile e la ministra, il governo e l’intero Parlamento devono risponderne”. Dunque, signora ministro della Giustizia? Giustizia: l’Ass. Antigone e il Sappe denunciano; gravi lacune nell’assistenza sanitaria ai detenuti Adnkronos, 31 luglio 2012 Sovraffollamento, mancanza di strategie e soprattutto carenza di personale sanitario e di servizi rendono difficile e precaria l’assistenza ai detenuti. Un deficit, l’ennesimo del sistema carcerario italiano, che sconta gli effetti della riforma che ha trasferito la sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale. È la denuncia dell’associazione Antigone, alla quale si unisce il Sindacato di polizia penitenziaria Sappe, che parla di “gravissime lacune”. Sono in tutto 12 in Italia i Centri diagnostico terapeutici (Cdt). Ad oggi i detenuti ricoverati sono 560. I Cdt sono presenti a Bari, Cagliari, Genova Marassi, Messina, Milano Opera, Milano San Vittore, Napoli Poggioreale, Napoli Secondigliano, Parma, Torino Lorusso - Cotugno, Pisa e Roma Regina Coeli. Con la riforma del 2008 - spiega all’Adnkronos Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone - sono le Asl che devono occuparsi della sanità penitenziaria. In realtà se ne fanno pochissimo carico, e quindi non li fanno funzionare come dovrebbero. Ci sono anche luoghi ben attrezzati, come ad esempio Pisa, ma altre realtà sono in completa sofferenza. A Regina Coeli e Bari, le situazioni peggiori. Addirittura - aggiunge il presidente di Antigone - nel carcere romano c’è lo scandalo di una sala operatoria che adesso è chiusa. Ogni volta che un detenuto deve operarsi, anche per un piccolo intervento, deve essere trasportato fuori dalla mura del carcere, aumentando costi e rischi alla salute e utilizzando più personale di quello che servirebbe per una banale operazione interna. Sappe: basta con viaggi della speranza tra penitenziari e ospedali Il caso dei centri clinici è per Antigone anche il paradigma di un sistema al collasso: “Dietro le sbarre - rimarca Gonnella - problemi semplici diventano enormi. Ho personalmente seguito il caso di un ragazzo che ha dovuto aspettare 6 mesi perché gli togliessero un ferro lasciato nel piede dopo l’operazione che aveva subito. Ma questa è storia di sempre. Guardando avanti bisogna risolvere i problemi - insiste il presidente di Antigone - e dunque le Asl devono mettere a punto una strategia precisa per questi centri, utilizzando il personale che hanno all’esterno, nuovi medici e infermieri del servizio territoriale. A condividere l’allarme è anche il segretario generale del Sappe, Donato Capece. Sulla sanità carceraria - denuncia - ci sono gravissime lacune. L’Asl deve intervenire e assicurare il funzionamento di questi centri, altrimenti potrebbero scoppiare rivolte che, complice il caldo infernale, il sovraffollamento e i problemi della promiscuità, rischiano di avere serie conseguenze sulla sicurezza all’interno delle carceri. Senza contare, avverte Capece, che si sono già sviluppate diverse infezioni che hanno colpito sia detenuti sia baschi azzurri addetti alla loro sorveglianza. Ad oggi - ribadisce il leader del Sappe - l’Asl è deficitaria perché non riesce ad assicurare una continua assistenza sanitaria. Ogni giorno gli agenti penitenziari cercano di ottenere il rispetto dei diritti dei detenuti, ma la situazione si può risolvere solo se l’Asl investe in questi settori personale sanitario e medici. In carcere chi soffre sta male due volte. Il Cdt di Regina Coeli ad esempio, andrebbe completamente ristrutturato; ma soprattutto serve un’assistenza sanitaria ai detenuti affetti da patologie particolari. Una seria politica di assistenza sanitaria in carcere servirebbe anche ad evitare i viaggi della speranza tra i penitenziari e l’ospedale di riferimento. Tutto ciò - conclude Capece - oltre a tutelare la salute di detenuti e baschi azzurri, avrebbe una ricaduta positiva anche in termini di costi e di mobilità per il personale. Giustizia: legge su reato tortura ferma al Senato; direttori delle carceri chiedono l’approvazione di Eleonora Martini Il Manifesto, 31 luglio 2012 Se governo e Parlamento non cacciano un ragno dal buco nero e imbarazzante del sistema della giustizia italiano, a dare una scossa ci pensano i direttori dei carceri. Dirigenti penitenziari iscritti e simpatizzanti della Fp-Cgil che - al contrario dei poliziotti del Silp-Cgil - aderiscono all’appello dell’associazione Antigone chiedendo l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento penale. Una notizia in controtendenza in una giornata buia, come ieri, per le galere italiane. Una giornata cominciata con l’arrivo a sorpresa nel carcere romano di Regina Coeli di Paola Severino, che questa volta non ce la fa proprio a dire: “Mi aspettavo di peggio”, come quando uscì una settimana fa da Poggioreale. Poche ore prima della sua visita, un detenuto tunisino di 25 anni si è tolto la vita impiccandosi con quel che ha trovato: un elastico. Il ministro di Giustizia però è lì per altro: per verificare le incredibili condizioni in cui versa - da anni - il centro clinico ma su cui ora pende il rischio di chiusura, dopo che la stessa Asl ha infine rilevato una “situazione insostenibile”. Ma è solo una delle tante giornate nere che dovrebbero mandare sulle furie la Guardasigilli, anche se Paola Severino probabilmente non ne coglie appieno la drammaticità, celata nel lungo, disperato, applauso che i detenuti le dedicano. Da Lecce, infatti, arriva anche la notizia di un altro recluso che si è tolto la vita, e in questo caso i magistrati ipotizzano perfino l’istigazione al suicidio. Mentre Antigone chiede lumi alla stessa ministra per capire come mai uno scrittore - detenuto come Carmelo Musumeci, per una volta ottimo esempio delle buone pratiche di “reinserimento sociale”, debba essere ora trasferito dal carcere di Spoleto dove vive da anni. Una giornata tanto più buia perché l’unico segno di vita che il Parlamento sta dando in materia di giustizia - l’introduzione del reato di tortura - rischia di trasformarsi in uno stato semi - vegetativo, a causa di inspiegabili ritardi e di veti incrociati. Avrebbe potuto infatti essere messo ai voti ieri, in commissione Giustizia del Senato, il testo unificato del ddl messo a punto dal relatore Felice Casson per introdurre la nuova fattispecie di reato. A mezzogiorno, scaduti i termini della presentazione degli emendamenti, il lavoro poteva ritenersi quasi pronto per le votazioni finali. Manca però il parere della commissione Bilancio: “Lo abbiamo sollecitato più volte, anche come gruppo - spiega il Pd Casson - ma inutilmente. Abbiamo anche eliminato, per agevolare l’iter in tempi di crisi, ogni richiesta di risorse finanziarie, necessarie per il risarcimento delle vittime di tortura. Una volta introdotto il reato, si potrà valutare questo aspetto in un secondo momento”. Un parere dirimente, visto che sulla decina di emendamenti presentati che si riducono a un paio di questioni tecniche sulla costruzione della fattispecie di reato, “c’è ampia convergenza”, assicura Casson. Tranne per qualche bizza del centrodestra. Che però non potrà non tenere conto ora dell’appello dei nove direttori dei carceri che considerano la mancanza del reato di tortura “un fatto la cui gravità, in termini democratici e di civiltà giuridica, non può lasciare indifferenti”. Giustizia: Schifani; nelle carceri condizioni incivili, futuri governi intervengano Asca, 31 luglio 2012 “La qualità e l’etica di un paese si misura anche dalla situazione carceraria dei nostri detenuti. Da questo ultimo mio Ventaglio voglio lanciare un appello alle future forze politiche, ai futuri governi, di lavorare perché chi è detenuto possa vivere in condizioni civili e decenti e possa veramente assolvere alla funzione rieducativa della pena”, perché oggi “così non è”. Così Renato Schifani, presidente del Senato, nel corso della cerimonia di consegna del Ventaglio da parte dell’Associazione della stampa parlamentare, a Palazzo Madama, si è espresso sulle condizioni delle carceri italiane. “Il mio saluto - ha detto ancora - vuole essere a loro, a tanta gente che ho avuto modo di incontrare, che si è avvicinata a me con molto garbo, con molta educazione, che mi ha commosso quando entravo nelle loro celle e io, presidente del Senato, mi vergognavo del loro stato di vita. Allora evitiamo di dover ripercorrere questi momenti, è un impegno che mi permetto di lasciare come eredità a chi verrà dopo di me: pensiamo a loro, hanno sbagliato, stanno pagando, ma hanno il diritto di pagare in una logica di civiltà e accoglienza”. Giustizia: Rao (Udc); un intervento sull’emergenza carceri non è più rinviabile Ansa, 31 luglio 2012 “Sono tanti e chiarissimi gli indizi che in questi giorni ci portano a ritenere non più rinviabile un intervento sull’emergenza carceri. Dopo molte importanti prese di posizione e indirizzi di massima, è arrivato il momento dei fatti”. Lo afferma Roberto Rao, deputato dell’Udc e capogruppo centrista in commissione Giustizia. “Ci sono innanzitutto - spiega Rao - le autorevoli parole del presidente Napolitano in risposta all’appello dei costituzionalisti, ispirate peraltro dalla sensibilità di un alto servitore dello Stato come Loris D’Ambrosio. C’è la nota attenzione sul tema da parte del ministro Severino, nelle ultime ore in visita a Regina Coeli dove si è verificato l’ennesimo caso di suicidio nelle carceri italiani. Ad aggravare la situazione c’è il caldo estivo, che rende ancor più intollerabile la condizione dei detenuti nelle celle sovraffollate”. “A questo - prosegue Rao - va aggiunto il lavoro già svolto del Parlamento, che si è espresso con chiarezza approvando mozioni che impegnano il governo a predisporre un complesso di riforme volto a migliorare le condizioni dei detenuti e a riaffermare il principio della rieducazione del condannato: dalla depenalizzazione dei reati minori alla rivalutazione di misure alternative al carcere, dell’uso meno diffuso della custodia cautelare all’adeguamento dell’organico del personale di polizia, dalla riqualificazione delle strutture esistenti alla nuova edilizia carceraria, fino agli accordi internazionali per far scontare ai detenuti stranieri le pene nello Stato di appartenenza”. “Basterebbe insomma - conclude Rao - dare seguito a questi intendimenti per trovare in Parlamento un’ampia maggioranza disponibile a colmare in tempi brevi un grave deficit umanitario che rende il nostro Paese meno civile di tanti altri”. Giustizia: Fleres (Grande Sud); sulle carceri inutile retorica di Ministro e alte cariche dello Stato Ristretti Orizzonti, 31 luglio 2012 “I blitz del ministro della giustizia nelle carceri, così come le retoriche parole delle più alte cariche dello Stato circa le problematiche drammatiche vissute nelle strutture penitenziarie italiane, purtroppo, non cambiano la sostanza della situazione di illegalità che si registra nei penitenziari del nostro Paese”. Così il senatore di Grande Sud Salvo Fleres. “Se proprio si vuol fare qualcosa di utile, in grado di andare oltre il nulla delle affermazioni di circostanza - aggiunge l’esponente del movimento arancione, il ministro il blitz lo faccia in Parlamento, con un decreto in grado di risolvere questioni quali il sovraffollamento, l’adeguamento degli organici del personale, una corretta esecuzione del trattamento rieducativo, la territorialità della pena e altro ancora”. “Sentire, poi, parlare di dignità del detenuto nel corso della cerimonia del Ventaglio, mentre nelle celle italiane vivono il doppio dei reclusi previsti, a temperature oltre i 40 gradi e con l’acqua razionata, rasenta il paradosso”, conclude Fleres. Giustizia: Sappe; “inconcludente” incontro con il Dap su drammatico tema dei suicidi tra agenti Redattore Sociale, 31 luglio 2012 Il segretario generale del Sappe, Capece: “La riunione di oggi è servita solo all’amministrazione penitenziaria per scaricarsi la coscienza su un tema tanto drammatico e delicato che avrebbe avuto necessità di ben altra sensibilità umana ed istituzionale”. “Deludente ed inconcludente”: non usa mezzi termini il segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo polizia Penitenziaria), Donato Capece, per commentare l’incontro che si è tenuto questa mattina al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sul dramma dei suicidi dei poliziotti in carcere. L’incontro era stato convocato ed è stato presieduto dal Capo Dipartimento. Giovanni Tamburino. Afferma Capece: “Ancora una volta abbiamo avuto contezza di come siano distanti i vertici del Dap dalla realtà delle carceri italiane. L’approccio al delicato e drammatico tema, la morte per suicidio di 7 poliziotti penitenziari negli ultimi 7 mesi (più di 100 i casi dall’anno 2000), non ha visto mettere in campo a nostro avviso efficaci azioni per contrastare il disagio lavorativo del personale di Polizia penitenziaria e contestualmente stimolarne la professionalità”. “Le uniche soluzioni proposte oggi dal Dap - continua il segretario del Sappe - sono state la realizzazione di una brochure da diffondere tra il personale e la previsione di un numero verde di ascolto, da contattarsi in caso di necessità”. Questo, secondo il primo sindacato della Polizia Penitenziaria, “significa non affrontare il problema alla radice e appalesa le incapacità di gestione dei poliziotti penitenziari da parte di troppi direttori e comandanti che spesso non conoscono bene neppure le donne e gli uomini posti alle loro dipendenze, le loro fragilità e le loro straordinarie capacità, e usano unicamente lo strumento disciplinare e quello delle classifiche annuali come unico strumento di governo dei poliziotti. Per non parlare delle condizioni decrepite di molte nostre caserme, abitate loro malgrado da tantissimi poliziotti pendolari, strutturalmente non idonee a staccare la spina dalla quotidianità e dalle criticità del nostro duro e difficile lavoro. O dell’assenza di concrete iniziative per garantire e favorire il benessere dei Baschi Azzurri”. “La riunione di oggi - conclude - è servita a nostra avviso solamente all’Amministrazione Penitenziaria per scaricarsi la coscienza su un tema tanto drammatico e delicato che avrebbe avuto necessità di ben altra sensibilità umana ed istituzionale” Giustizia: Ugl; bene visita ministro Severino a Regina Coeli, ma preoccupati per scarse risorse Adnkronos, 31 luglio 2012 “Bene” la visita del ministro Severino a Regina Coeli, “ma preoccupati per la mancanza di risorse”. È quanto dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia penitenziaria, Giuseppe Moretti, dopo la visita di oggi del ministro della Giustizia al carcere romano. “Apprezziamo il fatto che il ministro Severino abbia la volontà di conoscere da vicino i problemi e le difficoltà del sistema carcerario - sottolinea Moretti - tuttavia resta la preoccupazione per il fatto che i fondi stanziati per la ristrutturazione del sistema penitenziario sono irrisori rispetto alle necessità da affrontare”. Il suicidio di due detenuti negli ultimi giorni, e i gesti estremi compiuti da sette agenti di Polizia Penitenziaria dall’inizio del 2012, sono i segnali inequivocabili di uno stato di abbandono e solitudine che non è più tollerabile”. “In particolar modo - conclude il sindacalista - le istituzioni nazionali e locali devono affrontare con urgenza la situazione di Regina Coeli, dove le carenze strutturali si sommano a quelle dell’organico sanitario, che non è nelle condizioni di erogare un servizio adeguato”. Lettere: lavoro a favore della comunità, una valida alternativa al carcere di Sandro Bonvissuto Messaggero Veneto, 31 luglio 2012 “Se c’è una cosa che lascia assolutamente indifferente chi sta fuori, è proprio la sorte di un detenuto. È paradossale, ma gli unici a preoccuparsene sono gli altri detenuti. Un po’ come fanno i poveri, che sono gli unici ad avere pena per gli altri poveri. O i malati con gli altri malati. O i terremotati con gli altri terremotati. Ma in questo modo finisce che a preoccuparsi della condizione di qualcuno è proprio chi non può fare niente”. “Dentro” l’estate, come è intuibile, rappresenta il periodo più critico per chi vive un’esperienza detentiva soprattutto se la struttura penitenziaria in cui è ospitato è sovraffollata. Non poche sono state le riflessioni in questo periodo per affrontare questo “cronico male” del nostro sistema penitenziario: dalla richiesta del provvedimento di amnistia, proposta con forza con una manifestazione a Roma il 25 aprile scorso, a un’applicazione più ampia della detenzione domiciliare. In verità questi provvedimenti, se possono ridurre momentaneamente o parzialmente il sovraffollamento, si ricordi l’indulto del 2006 il cui effetto è stato vanificato in pochi anni, non affrontano il difficile tema del senso e del significato della pena detentiva e quello conseguente dei percorsi di reinserimento sociale. Eppure il nostro ordinamento penitenziario ha come principale finalità, tramite le cosiddette misure alternative e quindi la flessibilità della pena detentiva, di ridurre il fenomeno della recidiva attuando verso la persona detenuta un “patto trattamentale” che dovrebbe sfociare nel possibile ottenimento di una disposizione alternativa alla detenzione. Purtroppo questo è un altro degli aspetti più critici del nostro sistema penitenziario e che dovrebbe essere affrontato con forza e con opportune risorse, prima di costruire nuovi istituti carcerari. Il protocollo di intesa tra l’Associazione nazionale comuni d’Italia e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziario che prevede la “promozione” di un “Programma di attività per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità da parte di soggetti in stato di detenzione in favore della comunità locale” tenta, nelle sue premesse, di fornire una concezione diversa della pena detentiva, non meramente retributiva, ma “utile” sia alla persona che sta espiando la pena che alla comunità esterna. Il fulcro del protocollo, come si può intuire, è la realizzazione, con un’opportuna convenzione tra la direzione dell’istituto penitenziario e l’amministrazione comunale di riferimento, di lavori di pubblica utilità da parte di persone detenute che possono accedere al lavoro esterno utilizzando l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Non mancano ovviamente i limiti di queste convenzioni che possono trovare applicazione solo in base alle “volontà delle parti” e quindi da parte di amministrazioni comunali e di direzioni di carcere che condividono la necessità di superare il paradigma retributivo della pena e che, di conseguenza, intendono avviare politiche sociali orientate al reinserimento sociale delle persone detenute, in quanto possibili risposte che evitano la recidiva e l’aumento della percezione dell’insicurezza sociale. Questo protocollo può rappresentare anche un “test” per capire quali delle cinque amministrazioni comunali, della nostra regione, sede di carcere, sono intenzionate ad avviare un primo confronto con le direzioni carcerarie attuando così il principio della territorializzazione della pena, rimasto quasi sempre sulla carta, e quindi prendere in carico anche le problematiche penitenziarie che rischiano di rimanere sempre in ombra rispetto alle esigenze di un territorio. Le amministrazioni comunali affermerebbero a questo punto che il carcere insiste sulla propria città, ne fa parte, nonostante la rimozione di cui abitualmente è oggetto. L’amministrazione comunale di Udine, assieme alla direzione della Casa circondariale, è disponibile ad attivare questa convenzione in tempi rapidi dando un segnale in controtendenza per cui un’amministrazione locale pubblica, e non il solito privato sociale, assume in prima persona la responsabilità di gestire un programma di reinserimento sociale per persone detenute? L’estate negli istituti penitenziari, come di consueto, sarà difficile, le denunce ferragostane non mancheranno, ma il lavoro in favore della comunità locale sarà un’opzione fattibile? Intanto le persone detenute nel carcere di Udine hanno raccolto dei fondi da inviare alla Protezione civile per la popolazione terremotata dell’Emilia. Lettere: Zaia, basta con i ragionamenti da osteria, meglio il silenzio… di don Marco Pozza Il Mattino di Padova, 31 luglio 2012 La dura presa di posizione di don Marco Pozza, dopo la sentenza che ha condannato a 17 anni di carcere in Spagna “el Gordo”, l’assassino di Federica. La risposta del governatore: “Caro don, mi ha stupito tanta cattiveria” . Come celle senza chiavi nella serratura: perché l’uomo deve marcire senza possibilità alcuna di riscatto. Nonostante avessero puntato tutto sulla sicurezza e sulla moralità - entrambi ampiamente disattesi - la politica veneta per bocca del suo governatore Luca Zaia s’indispettisce della condanna a “soli” sedici anni per l’assassino di Federica Squarise, tornando a cavalcare l’onda della chiave da gettare nel mare per tentare di riagguantare credito sull’elettorato. C’è un modo di uccidere che è penalmente colpevole, ma c’è anche un modo di uccidere che è doppiamente colpevole: quello di cavalcare una pagina triste di storia per farsi belli di fronte ad una popolazione esausta. Chi si sforza dentro le carceri di comprendere il male senza giustificarlo, percepisce la responsabilità per la memoria di una ragazza violentata e ammazzata e non tenta in nessun modo di alleggerire la responsabilità dell’uccisore. Avverte, però, al tempo stesso il bisogno di recuperare chi del sangue e della violenza ha fatto il suo alfabeto in quegli istanti: è il popolo del volontariato il cui lavoro il governatore veneto sembra giudicare inutile. Forse per questo la “chiave” che Zaia vorrebbe buttare in mare è proprio quella chiave che serve per entrare dentro la cella dell’anima di chi ha ucciso e cercare di comprendere il motivo, di fare luce su un’atrocità, di chiedere tempo per fare spazio all’umano. La chiave nel mare - ennesimo possibile titolo della saga leghista dopo quello dei fucili nelle montagne - mostra un grosso fraintendimento: basta un carcere in una città per rendere tutti più sicuri. E offusca la comprensione di cosa succede spesso dentro il ventre delle galere: la condanna non riesce ad accendere nulla nell’uomo colpevole, il perdono sovente riesce a ribaltare e scombussolare anche il criminale più efferato, facendolo sentire disarmato di fronte alla forza dirompente della bontà. Mesi fa s’era arrabbiato il buon Zaia perché ci sarebbe voluto un ergastolo per l’uccisore: peccato che in Spagna questa pena sia stata cancellata da tempo. In carcere la sua affermazione fece ridere perché denotò mancanza di informazione su un tema delicato e spinoso. Oggi la domanda che lancia ai giudici spagnoli è ancor più scioccante: “se non rimane in carcere dopo aver rapito, ucciso e stuprato una persona, che cosa mai bisogna fare perché si buttino via le chiavi della cella dopo aver arrestato un rapitore, uno stupratore e un assassino”. Come a chiedere lumi sulla modalità più schifosa per far marcire un uomo dopo il suo errore. Eppure quelle radici cristiane alle quali il suo partito cerca invano di appellarsi parlano chiaro: l’uomo non è solo il suo errore e nessuno potrà avvalersi dell’uso dello sbaglio fatto da Caino per scagliarsi contro di lui: sta scritto nelle prime pagine della Bibbia. Gettare la chiave non risolve il problema: solo abbruttisce l’uomo e i suoi simili. È solo rimanendo a contatto con il bene che l’uomo può provare vergogna del male compiuto, prenderne le distanze e ritentare la difficile risalita verso un’umanità diversa. Ha ragione Zaia: in carcere esistono gli uomini malvagi. Forse non sa, però, che gli uomini tristi sono di gran lunga in numero maggiore e sono loro a sovraffollare quelle carceri che il suo governo visita solo in campagna elettorale. Per questo alla domanda posta ai giudici avrebbe fatto più onore un suo silenzio composto e dignitoso, soprattutto dopo la gaffe dell’ergastolo: i ragionamenti di pancia ingrassano solo l’uomo dell’osteria con la sua grammatica zeppa di luogocomunismo. Al Carcere Due Palazzi di Padova lo aspettiamo, anonimo e fuori campagna elettorale: vorremmo offrirgli una prospettiva diversa per leggere la storia dell’uomo dall’altra parte. A celle spalancate e senza paura. Don Marco, lei mi ha stupito con tanta cattiveria, di Luca Zaia Caro don Marco, conosco e apprezzo il suo impegno per i giovani e per quelli che, un pò frettolosamente, vengono definiti “gli ultimi”. Per questo sono rimasto stupito per un intervento tanto bilioso, che male si adatta me lo lasci dire, a un sacerdote, tanto più che i suoi giudizi così sprezzanti si rivolgono a una persona che lei non conosce, e di cui, con ogni evidenza, poco sa e dal punto di vista umano e dal punto di vista culturale. Insomma, quanta cattiveria inutile da un uomo di chiesa. A me pare che la questione di cui si sta discutendo sia semplice e gliela ripropongo tale e quale: se sua madre fosse stata rapita, stuprata e assassinata, Lei avrebbe trovato attenuanti al rapitore, stupratore e assassino di sua madre? Sono certo che, qualsiasi siano le radici religiose e culturali alle quali ci teniamo avvinti, è solo nei cavilli della legge che si possono reperire, come in questo caso, i motivi di assoluzione. La Giustizia, che è cosa assai diversa dalla legge, esige una risposta chiara: quell’uomo è colpevole, e lo è senza attenuanti, perché il suo gesto è stato compiuto in pienezza di coscienza e con premeditazione. Giusta è solo una risposta che sappia prendere le parti di Abele: anche nella Bibbia è chiaro chi è l’assassino. E Abele non ha colpe. Colpa, o per lo meno responsabilità, la porta chi permette che Caino torni libero. E magari uccida ancora. Caro don Marco, contrariamente ai discepoli di Emmaus, la cui limpidezza di sguardo fa da titolo alla sua rubrica, Lei scrive che ho voluto cavalcare una pagina triste di storia per farmi bello davanti al popolo. Commette due errori: innanzitutto quello di pensare a me, e non ci siamo mai né visti né conosciuti, in termini così perentori e offensivi. In secondo luogo, immaginando che io mi comporti strumentalmente quando invece cerco sempre di interpretare la volontà del popolo che mi ha eletto. Popolo che, Le ricordo, rimane sempre il sovrano delle azioni pubbliche. Caro don Marco, Lei è davvero in errore, perché se appena si fosse preso la briga di studiare ciò che da sempre fa da riferimento culturale, politico e personale della mia biografia, saprebbe che sono distante anni luce da certe ipocrisie, così come sono a mio agio solo quando so di interpretare il sentimento autentico del popolo a cui sono orgoglioso di appartenere. Se la sarebbe davvero potuta evitare, questa polemica se, come me, avesse vissuto fin dall’inizio la tragedia di Federica. Avrebbe per esempio scoperto che, fin da Ministro dell’Agricoltura, me ne ero occupato coinvolgendo la rappresentanza diplomatica italiana in Spagna. Altro che strumentalizzazione. Se avesse letto quel che ho scritto commentando una sentenza che ritengo ingiusta, saprebbe che ho manifestato rispetto per una legge, quella spagnola, che ha cancellato l’ergastolo. Ciò, però, non significa che bisogna accettare ogni legge, subendone senza discutere le sue conseguenze. Mi colpisce che nella sua polemica si sia dimenticato di citare i genitori di Federica: evidentemente la sua sensibilità è così offuscata dal comprendere le ragioni di Caino, che non c’è più spazio nel suo cuore per chi, ogni giorno, piange il ricordo della figlia barbaramente trucidata. Facciamo così: celebri una messa nella sua parrocchia in memoria di questa povera ragazza e, davanti a un papà e a una mamma così afflitti, così dilaniati giorno dopo giorno, ripeta la sua omelia in cui invoca celle spalancate e uomini come il Gordo a piede libero. Vedrà, forse, anche a lei mancheranno le parole giuste. Quelle del cuore. Emilia Romagna: più misure alternative, ma il sovraffollamento non cala Dire, 31 luglio 2012 Sono in arrivo nella bassa emiliana colpita dal terremoto i volontari che usciranno dalle carceri della regione grazie a misure alternative. Una soluzione, attuabile da oggi grazie alla sigla di un protocollo da Regione, Amministrazione penitenziaria e Tribunale di sorveglianza, avviata “perché sempre più persone possano fare della propria esperienza in carcere anche un’esperienza di ricostruzione di sé e del proprio rapporto con la società” spiega l’assessore regionale alle Politiche sociali Teresa Marzocchi. Ma come spiega il vice capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Luigi Pagano, le misure alternative alla detenzione rappresentano anche un modo per combattere il sovraffollamento delle carceri, che vede l’Emilia - Romagna tristemente ai primi posti in Italia. Negli anni, i numeri dei detenuti usciti dal carcere grazie a misure alternative sono cresciuti, così come le opportunità di reinserimento e recupero attraverso corsi, stage o opportunità di lavoro. “I detenuti che commettono un reato dopo aver usufruito di una misura alternativa sono meno del 20%, contro circa il 70% di detenuti che tornano a delinquere dopo aver scontato una pena detentiva senza aver avuto accesso a misure alternative”, si legge nella Relazione sulla situazione penitenziaria in Emilia - Romagna stilata dalla Regione, e contenente i dati relativi al 2011. A fine anno l’Emilia - Romagna, con 4 mila detenuti per 2 mila 453 posti (in diminuzione rispetto ai 4.373 del 2010) si conferma come una delle regioni più sovraffollate: ci sono in media 163,06 detenuti ogni 100 posti, 20 in più rispetto alla media nazionale (146,38). Crescono però, rispetto al 2010, gli affidamenti in prova al servizio sociale (da 1.150 a 1.209 detenuti, pari a un incremento del 9%): tra i detenuti affidati ai servizi, 492 sono tossicodipendenti o affetti da Aids. “Un protocollo siglato da Regione, Amministrazione penitenziaria e Tribunale di sorveglianza nel 2009 ha permesso che i detenuti tossicodipendenti che usufruiscono dell’affidamento siano passati dal 40% al 70%”, spiega il presidente del Tribunale di sorveglianza Francesco Maisto. In aumento anche i numeri di detenzione domiciliare (da 857 a 1.300 detenuti) e libertà vigilata (da 270 a 292) mentre diminuiscono le concessioni di semilibertà (da 88 a 66): in totale, le misure alternative riguardano 2.867 detenuti, contro i 2.365 del 2010. I detenuti che lavorano all’esterno delle mura del carcere sono 71: 33 si trovano in semilibertà e sono alle dipendenze di cooperative (28) o in proprio (4). er le stesse misure alternative calano invece le revoche (passando dal 6,01% del 2010 al 4,8% del 2011) e “ciò può essere riferibile - si legge nel rapporto - oltre a una sempre maggiore applicazione degli interventi di prossimità dettati dalle circolari dipartimentali (azione di ‘controllò), anche al mantenimento della rete di collaborazione con le realtà locali pubbliche e del privato sociale che ha favorito l’inserimento in percorsi e progetti di inclusione sociale (tirocini e attività di volontariato)”. Non mancano progetti di reinserimento specifici per detenuti o ex detenuti: nel 2011, quelli finanziati attraverso il Fondo sociale europeo sono stati 29 e hanno coinvolto 252 persone per un contributo di 626 mila euro. Tra le possibilità offerte, quella di diventare operatore telefonico facendo uno stage in aziende private o quella di imparare a smaltire i rifiuti elettrici e a rigenerare le biciclette in un percorso sviluppato da Irecoop Emilia - Romagna di Ferrara. Tra i percorsi di recupero, è d’obbligo citare i corsi di formazione professionale, a cui si sono iscritti 218 detenuti di cui oltre la metà stranieri: pulizia, giardinaggio e agricoltura, cucina e ristorazione i percorsi formativi più seguiti. Abruzzo: carceri sovraffollate, è sempre più una vergogna Dire, 31 luglio 2012 Il sistema penitenziario in Abruzzo è sempre più ko. Una beffa dunque, per la Uil penitenziari, la proposta di assegnazione di nuovo organico per le carceri abruzzesi avanzata dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria, (Dap). Secondo la sigla sindacale, si tratta di 18 agenti promessi dal Dap al provveditorato di Pescara per far fronte alle carenze di organico giudicati dal sindacato insufficienti. Di queste, 10 dovrebbero essere trasferite nel carcere di Teramo e 8 in quello di Avezzano. Ma non è tutto. Per i restanti penitenziari della Regione non sarebbe previsto nessun incremento di personale. Ad alzare la voce, il segretario regionale la Uil penitenziari, Mauro Nardella “Le carceri di Sulmona (conosciuto come il ‘carcere dei suicidì ndr), Lanciano e Pescara se la dovranno vedere, secondo il Dap, con il personale che hanno a disposizione sempre più esiguo, stante i pensionamenti nel frattempo intervenuti, e sempre più sotto ‘stress’, considerato il progressivo aumento dell’anzianità media dei poliziotti in servizio, la maggior parte con oltre 25 anni di servizio sulle spalle”. “Se qualcosa non cambierà - conclude il segretario regionale la Uil penitenziari, Mauro Nardella - non sarà facile mantenere quell’equilibrio necessario per fare un lavoro così delicato come il nostro. Per questo motivo invitiamo il Dap a rivedere le decisioni sulle nuove assegnazioni di personale se non vogliamo che la nave affondi”. Un problema quello della carenza del personale, che si aggiunge al drammatico e a quanto pare ineliminabile sovraffollamento degli istituti penitenziari. Sulla situazione i numeri parlano chiaro. Di recente infatti, il Dap nel rapporto mensile sulla popolazione detenuta, ha denunciato il problema del sovraffollamento delle carceri abruzzesi: 66.973 detenuti italiani a fronte di una capienza di 45.688. Un dato, quello del sovraffollamento, che conferma la situazione nazionale. In particolare, nel carcere di Sulmona risultano 433 detenuti (quando la capienza è di 301), in quello di Teramo 414 (rispetto a 231 posti); a Lanciano sono 303 (su 193 posti), a Vasto 278 (su 198), a Chieti 141 (su 83), ad Avezzano 93 (a fronte di 52 posti). Gli unici istituti in cui il numero dei detenuti è inferiore alla portata conforme sono quelli di Pescara, con 201 persone a fronte di una capienza di 268, e dell’Aquila, 145 (205).Nello specifico, dal rapporto emerge che nelle otto carceri abruzzesi sono confinati 1.942 uomini (capienza prevista 1.467) e 66 donne (64). I detenuti stranieri sono 369, di cui 350 uomini e 19 donne. La maggior parte di essi proviene dall’Africa (181) e dal resto d’Europa (159). Nel complesso i detenuti in attesa di giudizio di primo grado sono 246 (su un totale di 574 imputati), mentre quelli condannati a pene definitive sono 1.271 (il dato non include i 163 internati). E nel resto dello stivale, stando agli ultimi dati resi pubblici dal Ministero della Giustizia e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il dilemma del sovraffollamento continua a destare preoccupazione. Nei 206 istituti di pena nazionali, a fronte di una capienza complessiva di 45.742 posti sono recluse 66.632 persone: 20.890 posti in più rispetto al consentito. E non solo. In Lombardia (regione che batte il record di detenuti) la questione è cocente e i numeri sono alle stelle: 5.400 posti per 9.500 con in indice di sovraffollamento pari all’80%. Cifre queste, che danno un’immagine poco edificante del nostro Paese, che detiene il primato europeo per sovraffollamento carcerario, oggi pari al 140 per cento. Lazio: Nieri (Sel); dopo tragedia a Regina Coeli riflettere su inadeguatezza regime carcerario Agenparl, 31 luglio 2012 “La drammatica morte di un giovane detenuto tunisino, avvenuta questa notte all’interno di Regina Coeli, non può non costringere tutti a riflettere sulla inadeguatezza del regime carcerario specie per alcuni soggetti particolarmente svantaggiati. Una condizione resa ancora più disumana e degradante a causa del grave sovraffollamento carcerario e delle dure condizioni di vita che nel periodo estivo diventano ancora più insopportabili”. È quanto dichiara Luigi Nieri, Capogruppo di Sinistra Ecologia Libertà nel Consiglio regionale del Lazio. “Questa tragedia testimonia, inoltre, la drammatica condizione in cui versa la sanità penitenziaria, inadeguata a fronteggiare le emergenze in corso e il reale fabbisogno sanitario dei detenuti. Il centro clinico di Regina Coeli, dove è avvenuto il decesso del giovane tunisino, come dimostrano i rilievi condotti dalla Asl Roma A, è in condizioni catastrofiche. Una struttura nata come centro di eccellenza della sanità penitenziaria ma che oggi versa in condizioni di semi - abbandono - aggiunge Nieri - È evidente che in questo, come in altri istituti, continua ad essere violato un diritto sacrosanto come quello alla salute. Il passaggio della sanità penitenziaria alle regioni non ha ancora prodotto risultati significativi. Su questo aspetto sarebbe importante un intervento della Presidente Polverini, anche alla luce di quanto deciso dal Consiglio regionale un anno fa in occasione del dibattito sul sovraffollamento carcerario”. “In merito alla dinamica del tragico episodio colpisce la grave disattenzione di chi aveva la responsabilità di vigilare sul detenuto. Auspichiamo che sulla vicenda sia fatta la massima chiarezza - conclude Nieri”. Messina: l’ispezione dell’Associazione Antigone “il carcere è una tortura” Live Sicilia, 31 luglio 2012 Sovraffollamento. Una madre detenuta con il bambino. I volontari di Antigone raccontano l’orrore del carcere. Cominciando da Messina. È iniziata dalle carceri di Forlì, Lanciano, Cassino, Genova Marassi, Sulmona, Messina, la tradizionale visita delle carceri nel periodo estivo da parte dell’associazione Antigone. Trenta volontari dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione, autorizzati dal Ministero della giustizia, entreranno negli istituti di pena per tutto il mese di agosto con l’obiettivo di evidenziare le maggiori criticità, monitorare le condizioni di vita, gli spazi a disposizione, lo stato delle strutture. È il carcere di Messina, secondo l’Osservatorio, a rappresentare una delle situazione peggiori: “Le condizioni di molti detenuti possono essere classificate, secondo i parametri della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, tortura”. I dati ufficiali del Ministero fissano la capienza a 330 posti, ma a causa delle molte parti chiuse, a detta della direzione - sottolinea Antigone - la capienza è di 173 posti, per cui con 344 detenuti presenti, il sovraffollamento ammonta a circa il 200%. È inoltre presente nell’istituto una detenuta madre, il cui figlio, di due anni e mezzo, vive da un anno in carcere. Inoltre in 3 celle del centro clinico ai detenuti tocca a testa uno spazio inferiore ai 3 metri quadri: in una 11 detenuti in 19 mq (1,72 mq a testa), in un’altra 8 detenuti in 15,8 mq (1,97 mq a testa), nell’ultima 11 detenuti condividono uno spazio di 19 mq (1,72 mq a testa). “Per stare in piedi - rilevano i volontari dell’associazione - bisogna fare i turni”. Le visite dei volontari di Antigone proseguiranno agli istituti di Augusta, Livorno, Viterbo, Cagliari, Lucca, Savona, Pisa, Gorgona, Barcellona Pozzo di Gotto, Pontedecimo, Chiavari, Ascoli Piceno, Pescara, Catania Bicocca. L’intento è di mantenere alta l’attenzione verso il problema carceri e sollecitare riforme che decongestionino i 206 istituti che oggi contengono 21 mila persone in più rispetto ai posti letto regolamentari. Viterbo: Nieri e Palma dopo visita carcere denunciano “troppi detenuti e in condizioni terribili” www.tusciaweb.eu, 31 luglio 2012 Questa mattina Mauro Palma, vicepresidente del Consiglio europeo per la cooperazione nell’esecuzione penale ed esponente dell’associazione Antigone e Luigi Nieri, capogruppo di Sinistra ecologia libertà nel Consiglio regionale del Lazio, si sono recati in visita al carcere di Mammagialla di Viterbo. “Come, purtroppo, era prevedibile, abbiamo riscontrato a Viterbo gravi condizioni di sovraffollamento: a fronte di una capienza consentita di 444 detenuti, la struttura ospita ben 736 persone che, come è facile immaginare, vivono in condizioni terribili, soprattutto in un periodo di grande caldo come quello attuale. Al nostro arrivo, i detenuti hanno cominciato a gridare in coro “amnistia, amnistia” - dichiara Nieri. Nel reparto di alta sicurezza, in particolare, le condizioni di vita dei detenuti risultano allarmanti. Dalle verifiche effettuate nell’istituto e dal confronto avuto con la direzione del carcere, abbiamo appreso che nella struttura sono presenti numerosi casi critici, fra cui un numero consistente di detenuti con gravi problemi psichiatrici. Ci ha particolarmente colpito la vicenda di un detenuto che vive al buio in cella, per terra, raggomitolato su se stesso - aggiunge Nieri. Abbiamo saputo, inoltre, che c’è un alto numero di detenuti trasferiti da alti istituti di pena per scontare al Mammagialla sanzioni disciplinari per problemi avuti negli istituti di provenienza. È chiaro che si tratta di una situazione esplosiva. È evidente che se in carcere permangono persone, la maggior parte dei detenuti, che scontano pene legate all’infrazione di due pessime leggi, la Fini - Giovanardi sulle droghe e la Bossi - Fini sull’immigrazione, il problema del cronico sovraffollamento delle carceri non potrà mai trovare effettiva soluzione. La visita di stamattina, in sostanza, non fa che rafforzare in me la convinzione che sia necessario e non derogabile un provvedimento di clemenza”. “È necessario seguire con la massima attenzione la situazione del carcere di Viterbo, dove i detenuti vivono in condizioni di grave difficoltà. Risulta particolarmente preoccupante la situazione relativa ai numerosi detenuti con patologie psichiatriche gravi e gravissime. Bisogna essere estremamente vigili anche in virtù delle altre complesse criticità esistenti all’interno dell’istituto. Un carcere che deve tornare alla normalità - ha concluso Palma - . Insomma, e che deve aprirsi allo sguardo esterno, perché c’è tutta la volontà di rifondarlo, e tale buona volontà va sostenuta e assecondata”. Roma: i Garanti Marroni e Pegorari; chiudere Regina Coeli… non c’è ristrutturazione che tenga Dire, 31 luglio 2012 “La situazione particolarmente difficile di Regina Coeli non è una novità. La capienza regolamentare del carcere è di 600 posti con una presenza di 1.200 detenuti e non sarebbe nulla se mediamente due reparti non fossero chiusi per ristrutturazione. Gli spazi prima dedicati alla socialità ora sono occupati da brande e anche queste si sono rivelate insufficienti, tanto che molti detenuti dormono per terra. È un carcere che andrebbe chiuso, ha ragione completamente il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, non c’è ristrutturazione che tenga”. Così il garante dei detenuti di Roma, Filippo Pegorari, a margine di un evento al Gianicolo. “Il problema del sovraffollamento si risolve intervenendo sulle cause dovute a una normativa recente che prevede la carcerazione anche per reati non gravi - ha aggiunto Pegorari. Quando si ricorre ai lavori socialmente utili la recidiva crolla. È il modo migliore per consentire di recuperarsi a chi ha sbagliato”. Viterbo: al carcere di Mammagialla in arrivo 23 nuovi agenti Dire, 31 luglio 2012 “A vincere è stato il grande lavoro della politica e l’enorme impegno profuso dalle sigle sindacali del territorio. Una forte collaborazione che ha permesso al territorio di ottenere questo importante successo”. È soddisfatto l’assessore alle Politiche sociali della Provincia di Viterbo, Paolo Bianchini per l’assegnazione al penitenziario di Mammagialla di 23, e non 20 come annunciato all’inizio, nuove unità di agenti penitenziari. “Arriva finalmente una boccata d’ossigeno per i lavoratori della casa circondariale viterbese - ha continuato l’assessore - che sono stati costretti a lavorare per lungo tempo sotto organico. Avevamo promesso loro, a inizio mese, che ci saremmo impegnati per far sì che arrivasse a Viterbo nuovo personale, ci siamo riusciti: tra oggi e domani, verranno firmati i provvedimenti di assegnazione per 23 agenti effettivi, quindi non soggetti ad altri tipi di contrattazione. D’altronde, lo dovevamo agli agenti che con il loro impegno, abnegazione e responsabilità hanno sempre garantito un servizio regolare, utile per assicurare massima sicurezza all’interno della casa circondariale”. Una soluzione tanto attesa, ma che secondo l’assessore non deve essere strumentalizzata e politicizzata. “C’è chi ha lavorato nell’ombra come il consigliere regionale Chiara Colosimo, più volte venuta a Viterbo, peraltro senza mai comunicarlo ai media, per cercare di trovare una soluzione e per far sì che si ottenesse questa importante assegnazione - ha aggiunto Bianchini - e c’è poi chi solo oggi, malgrado tanti anni di richieste e di appelli, arriverà a Viterbo per fare una passerella. Credo sia poco edificante farsi pubblicità sulle spalle di lavoratori che per lungo tempo hanno tirato avanti la carretta seppur costretti a lavorare in condizioni massacranti”. “Voglio ringraziare tutte le sigle sindacali del territorio che da sempre si sono battute per questa causa - ha detto Bianchini - il consigliere Colosimo per la grande mano che ci ha dato, il presidente della Provincia Meroi che sin da subito sin da subito ha preso a cuore la causa di Mammagialla e la direttrice del carcere Teresa Mascolo per la sua grande disponibilità nel cercare di risolvere le problematiche che si sono più volte presentate”. E non finisce qui. “Migliorata la situazione relativa agli agenti - ha chiuso Bianchini - passeremo alla questione relativa allo stato dei detenuti. Il sovraffollamento che contraddistingue Mammagialla non è più tollerabile in quanto lede i diritti dei carcerati”. Acireale (Ct): quei sogni di speranza dietro le sbarre, viaggio nei problemi dell’Ipm La Sicilia, 31 luglio 2012 Via Guido Gozzano costeggia una delle zone più popolose della città e lì intorno è disseminata buona parte degli istituti di formazione acesi. Alle spalle del convento di san Biagio, dietro le finestre che si affacciano sulla strada, c’è il “piccolo mondo” dell’istituto penitenziario minorile, dove vivono ragazzi che scontano la propria pena e si riabilitano per inserirsi nella società come i coetanei delle scuole poco lontane. Ci sono 20 detenuti per rapina o spaccio di stupefacenti nell’Ipm maschile di Acireale, hanno da 14 a 21 anni. Quattro di loro stanno sostenendo gli esami di licenza media. “È un dovere garantire la crescita psico-fisica e il diritto allo studio dei detenuti”, dice la direttrice dell’Ipm, Carmela Leo. Aspetto educativo e punitivo convivono. La polizia penitenziaria collabora con i 12 operatori del comparto ministeriale. Un medico, un infermiere, uno psicologo e il cappellano curano i bisogni dei detenuti. Docenti del IV circolo didattico e della Galileo Galilei e l’Ente regionale Cipa - At provvedono all’istruzione e alla formazione professionale. L’Uisp programma le attività sportive e l’associazione Papa Giovanni XXIII organizza momenti ludico - ricreativi. Risorsa preziosa per l’Ipm sono i volontari, che danno vita a laboratori manuali, teatrali, di cucina e scrittura, strumenti indispensabili per raggiungere l’obiettivo propedeutico al reinserimento. “I ragazzi devono avere un’immagine positiva di sé stessi e la consapevolezza di essere capaci non solo di atti delinquenziali. Spesso hanno alle spalle situazioni difficili che non gli consentono di scegliere un percorso”, spiega la dott.ssa Leo. Ma i dati relativi all’uscita definitiva degli ospiti dell’Ipm dal circuito penale sono desolanti. Tornare in un contesto d’origine immutato e privo di prospettive alternative a uno stile di vita deviante rende inevitabile la reiterazione dei reati. “Servono politiche di reinserimento sociale e programmazione con gli Enti del territorio - afferma la direttrice - Le istituzioni ci sostengono con alcune iniziative, ma i ragazzi che escono da qui hanno bisogno di opportunità per ricominciare: apprendistati e borse lavoro”. Una rete inter - istituzionale che abbatta il muro che separa “dentro” e “fuori” coronerebbe il lavoro di riabilitazione dell’istituto penale, che oggi soffre per i tagli. “Quest’anno non sono iniziati i corsi regionali di formazione per aiuto - ebanista e ornatista - lamenta la dott.ssa Leo. Investire nel cambiamento è fondamentale, altrimenti si rischia di accentuare l’aspetto punitivo, snaturando la funzione degli istituti minorili”. Intanto si fa dell’esigenza virtù. Un progetto - lavoro consente la manutenzione, indispensabile per l’edificio dell’800, e ai detenuti di imparare l’attività edilizia e ricevere sussidi. Ma anche nell’area sicurezza non mancano disagi. Nessuna assunzione dopo i pensionamenti. I 15 agenti in organico, (27 le unità previste), faticano a gestire l’ordine tra le attività e le frequenti traduzioni. Necessaria è dunque la sinergia con gli educatori per prevenire eventuali tensioni, ma all’interno dell’Ipm acese la buona volontà non manca. Carmela Leo, ottimista, racconta la storia di “Manuel”: “Tra poco finirà di scontare la pena. Negli anni ha portato avanti il suo progetto e dopo il diploma lavorerà nel settore turistico. In carcere ha sviluppato enormi capacità diventando un punto di riferimento. Un buon esempio da seguire”. Roma: detenuti ripuliscono Gianicolo, progetto per tutela ambiente e reinserimento Dire, 31 luglio 2012 I detenuti al servizio del decoro urbano. È il “Progetto Roma”, realizzato dall’assessorato all’Ambiente in collaborazione col garante dei diritti delle persone private della libertà personale, e finalizzato alla realizzazione di interventi effettuati dai carcerati degli istituti penitenziari della Capitale in siti di grande interesse storico-naturalistico. Per la prima uscita è stato scelto il belvedere del Gianicolo, proprio sopra Regina Coeli, riqualificato da 12 detenuti e 3 detenute, che hanno effettuato il decespugliamento delle due scale che scendono e la pulizia dell’area sottostante, sotto gli occhi del nucleo Pics Decoro. “Il loro intervento - ha sottolineato il garante dei detenuti di Roma, Filippo Pegorari - è a titolo assolutamente gratuito. Vengono perché amano Roma”. “È un intervento che dà un senso di appartenenza alla nostra città - ha sottolineato l’assessore all’Ambiente di Roma Capitale, Marco Visconti. Ogni mese andremo in un posto diverso a fare una bonifica e ai primi di settembre saremo al Pincio. Il decoro urbano a Roma è una cosa che purtroppo ci riguarda quotidianamente. In una città come questa, specie d’estate quando c’è un enorme afflusso di turisti, abbiamo l’esigenza di intervenire massicciamente sui punti più delicati. Il decoro deve entrare non solo in casa nostra ma deve esserci anche fuori dal pianerottolo”. Lo sguardo di Visconti incontra un piccolo cumulo di bottigliette di plastica e questo è lo spunto per lanciare un appello: “A fare diventare il Gianicolo un posto degradato bastano due ore. In un momento in cui ci sono poche risorse ognuno di noi deve metterci del suo”. Il provveditore regionale alle carceri, Maria Di Paolo, plaude “all’iniziativa sottolineandone il significato trattamentale importante. I detenuti sono venuti volontariamente a pulire una delle zone più suggestive di Roma e il fatto che il belvedere del Gianicolo insista proprio sopra Regina Coeli assume un valore ancora più significativo. Il sovraffollamento delle carceri si batte facendo sempre più ricorso balle misure alternative”. Velletri (Rm); Sappe; agente aggredito da un detenuto finisce all’ospedale Ansa, 31 luglio 2012 Ancora un’aggressione nel carcere di Velletri. Un agente è stato aggredito da un detenuto argentino di 49 anni, con reati di violenza sessuale e sequestro di persona, al rientro dall’ora d’aria. Lo comunica il sindacato di Polizia penitenziaria Sappe. L’agente, colpito al volto, è stato portato in ospedale, all’Umberto I di Roma, dove é rimasto fino a tarda sera. “Riteniamo che la misura sia ormai colma - rileva Donato Capece, segretario generale del Sappe - non è più possibile tollerare queste continue aggressioni, ad opera di detenuti che rifiutano le regole minime di sicurezza ed ordine”. Capece annuncia che tornerà a chiedere al ministro della Giustizia, Paola Severino, di stoppare sul nascere un provvedimento tanto pericoloso quanto inutile come la circolare voluta da Giovanni Tamburino, Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, con cui si propongono ai provveditori regionali una serie di misure per alleggerire l’emergenza carceraria. Il Sappe giudica infatti fumo negli occhi alcune ipotesi previste dalla circolare: un regime penitenziario aperto; sezioni detentive sostanzialmente autogestite da detenuti previa sottoscrizione di un patto di responsabilità favorendo un depotenziamento del ruolo di vigilanza della Polizia Penitenziaria, relegata ad un servizio di vigilanza dinamica, che vuol dire porre in capo ad un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza e mantenendo la fattispecie penale della colpa del custode. La realtà penitenziaria, ricorda Capece, è che nelle carceri ci sono 45mila posti letto e nelle celle sono invece stipate 67mila persone; che la Polizia penitenziaria ha settemila agenti in meno, che non fa formazione e aggiornamento professionale perché l’Amministrazione evidentemente ha altro a cui pensare; che le aggressioni ai poliziotti, le risse, i suicidi ed i tentati suicidi, gli atti di autolesionismo sono ormai la costante quotidianità. Sala Consilina (Sa): “Dal buio alla luce …”, un progetto di laboratorio teatrale rivolto ai detenuti La Città di Salerno, 31 luglio 2012 Presentato il progetto “Dal buio alla luce …” dedicato ai detenuti del carcere di Sala Consilina e curato dalla cooperativa “La Cantina delle Arti”. Abbiamo subito creduto in questa iniziativa - ha dichiarato il sindaco Gaetano Ferrari - che vedrà i detenuti impegnati nei laboratori teatrali curati dal maestro Enzo D’Arco. Laboratori che si concluderanno a settembre con uno spettacolo. Il progetto è promosso dalla presidenza del consiglio comunale, dalla direzione della casa circondariale e da “La Cantina delle Arti”, con il coinvolgimento della BCC di Sassano - Fondazione della comunità salernitana onlus, della Caritas diocesana e del Piano di Zona S/4. Hanno preso parte alla presentazione del progetto, tra gli altri, il sindaco di Sala Consilina, Gaetano Ferrari, il presidente del consiglio comunale, Maria Stabile, la direttrice della casa circondariale, Concetta Feleco, il presidente della BCC di Sassano, Antonio Calandriello e il direttore della Caritas diocesana, don Vincenzo Federico. Venezia: “Le jardin des merveilles”, di Anush Hamzehian; il carcere della Giudecca diventa film La Nuova Venezia, 31 luglio 2012 Un orto “meraviglioso”, in un carcere diverso dagli altri, e una storia, a intreccio, di donne e di ortaggi. Siamo alla Giudecca e il film è “Le jardin des merveilles” di Anush Hamzehian, scelto per inaugurare lunedì 3 settembre la nona edizione del Venice Film Meeting, appuntamento con le produzioni d’ispirazione veneziana in concomitanza con la Mostra del Cinema. Premiato al Festival Filmer le travail 2012 e prodotto dalle società francese Point du jour, con parecchi passaggi televisivi già acquisiti in Francia, il film ha per protagoniste le detenute del carcere femminile, che interagiscono e si raccontano durante le pause del loro quotidiano lavoro. Per associazione di ambientazioni, il pensiero va al più rinomato “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, autentica rivelazione della scorsa stagione, premiato a Berlino e girato a Rebibbia, con i detenuti impegnati ad “inscenare” il dramma, e comune infatti è l’intento di dar conto di un’umanità - lì tutta al maschile, qui tutta al femminile - restituita con onestà intellettuale per immagini e frammenti di vissuto, anche se in questo caso lo stile si mantiene rigorosamente documentario nel raccontare questa esperienza detentiva per più versi originale e innovativa. Il film è firmato dal regista Anush Hamzehian, 32 anni, nato a Padova da madre italiana e padre iraniano, cameraman e giornalista a Bologna, poi conduttore radiofonico in Spagna, sceneggiatore per Next media Lab a Milano e attualmente regista di documentari a Parigi. Direttore della fotografia è il friulano Alessandro Comodin, anch’egli di stanza fra Parigi e Bruxelles, attualmente sugli schermi con “L’estate di Giacomo”, suo esordio registico nel lungometraggio, distribuito dalla Tucker di Udine. In prima nazionale per l’Italia, il film sarà proiettato nei giorni della Mostra al cinema Astra del Lido alla presenza del regista e di alcune protagoniste con la direttrice della casa di reclusione Gabriella Straffi. Sono poco più di un centinaio le recluse nella struttura penitenziaria della Giudecca, e 40 di loro sono impegnate in attività lavorative. Cinque sono impegnate nella sartoria e oltre dieci nella lavanderia industriale. Altre detenute hanno invece scelto di dedicarsi proprio alla coltivazione dell’orto che rifornisce il carcere e che produce soltanto verdure e frutta bio. Una volta all’anno, l’Orto delle Meraviglie viene aperto alla città, perché chiunque possa vedere il lavoro delle detenute e i risultati che produce. Mali: Amnesty International accusa la giunta militare di torture, sparizioni e omicidi Tm News, 31 luglio 2012 In un rapporto sul Mali, diffuso oggi dopo aver svolto, a luglio, una missione di 10 giorni nel paese, Amnesty International ha documentato decine di sparizioni, uccisioni extragiudiziali e torture commesse dalla giunta militare nei confronti di soldati e poliziotti fedeli all’ex presidente Tourè, coinvolti nel tentativo di contro - colpo di stato del 30 aprile. Nei giorni successivi al fallito tentativo di rovesciare la giunta militare del capitano Sanogo, numerosi soldati vennero arrestati e portati alla base militare di Kati, 20 chilometri a nord della capitale Bamako, quartier generale della giunta. Almeno 21 detenuti vennero prelevati nottetempo dalle loro celle e di loro non si è più saputo nulla. Gli altri furono trattenuti in condizioni terribili e sottoposti a torture e abusi sessuali per oltre 40 giorni. Le autorità del Mali hanno il dovere di indagare su tutti i casi che abbiamo documentato. I responsabili delle brutali vendette contro i promotori del tentato contro-colpo di stato devono essere chiamati a rispondere delle loro azioni - ha dichiarato Gaetan Mootoo, ricercatore sull’Africa occidentale di Amnesty International. Nel 2009, il Mali ha ratificato la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata. Pertanto, ha sottolineato Amnesty International, le autorità del paese hanno l’obbligo di rendere noto dove si trovino tutti i poliziotti e i soldati scomparsi all’inizio di maggio. Lapidazioni,divieto di musica e torture. Un inferno che si chiama Mali, di Monica Ricci Sargentini (Corriere della Sera) Lapidazioni, divieto di ascoltare musica eccetto quella religiosa, rigide regole per il comportamento di uomini e donne che non possono sedere uno accanto all’altro sugli autobus all’altro o camminare insieme se non sono sposati. E’ questa l’orribile situazione in cui versa il Mali del Nord, dopo la rivolta armata che ha portato al potere gli indipendentisti tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) e le milizie islamiste di Ansar Eddin, di al-Qaeda nel Maghreb Islamico e del Movimento per l’unione e il jihad nell’Africa occidentale. Ieri è stata uccisa a colpi di pietre una coppia. Si è trattato della prima lapidazione dopo l’entrata in vigore della sharia nei territori “liberati”. “I combattenti che controllano la zona – spiega Paule Rigaud, vice direttrice di Amnesty International per l’Africa – hanno instaurato un clima di paura e compiono innumerevoli violazioni dei diritti umani. Chi non è vestito nel modo giusto viene fermato e punito”. Ma anche nel resto del Paese la situazione non è rosea. Oggi Amnesty International ha diffuso un rapporto sul Mali dopo aver compiuto una missione di dieci giorni nella capitale Bamako, sotto il controllo della giunta che ha preso il potere il 21 marzo. Sono state documentate decine di sparizioni, uccisioni extragiudiziali e torture commesse dalla giunta militare nei confronti di soldati e poliziotti fedeli all’ex presidente Touré e coinvolti in un tentativo di contro-colpo di Stato il 30 aprile. “Le autorita’ del Mali hanno il dovere di indagare su tutti i casi che abbiamo documentato. I responsabili delle brutali vendette contro i promotori del tentato contro-colpo di stato devono essere chiamati a rispondere delle loro azioni” ha dichiarato Gaetan Mootoo, ricercatore sull’Africa occidentale di Amnesty International. I soldati arrestati all’indomani del tentato contro-colpo di stato del 30 aprile sono stati detenuti nella base militare di Kati in condizioni disumane e degradanti: 80 persone stipate in una cella di cinque metri quadrati, in mutande, costretti a fare i bisogni in buste di plastica e privati del cibo durante i primi giorni di prigionia. Un ex detenuto ha denunciato i metodi di tortura usati per estorcere le confessioni: “Ci hanno detto di ammettere che volevamo fare il colpo di stato. Ci hanno fatti sdraiare, faccia in giu’, con le mani dietro la schiena legate ai piedi. Uno di loro ci ha infilato uno straccio in bocca spingendolo giu’ con un bastone. Non riuscivamo neanche a urlare. Ci hanno spento le sigarette addosso, uno di loro me l’ha spenta dentro un orecchio”. . Un agente di polizia, che faceva parte del gruppo dei detenuti, ha descritto gli abusi sessuali: “Eravamo in quattro. Ci hanno ordinato di spogliarci completamente e di sodomizzarci gli uni con gli altri, altrimenti ci avrebbero ucciso. Mentre eravamo costretti a compiere quegli atti, le guardie ci urlavano di farlo più velocemente”. Amnesty International ha raccolto i nomi di 21 detenuti scomparsi nella notte tra il 2 e il 3 maggio. Uno dei loro compagni di prigionia ha raccontato: “Alle 2 del mattino, hanno aperto la cella. Le guardie hanno iniziato a leggere una lista di nomi. A mano a mano, le persone chiamate uscivano fuori. Non abbiamo saputo più nulla di loro”. Il Mali ha ratificato ha ratificato la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata nel 2009. Ma già lo scorso maggio avevamo denunciato in questo post come negli ultimi mesi nel Paese stesse avvenendo la peggiore crisi dei diritti umani dall’anno di indipendenza, il 1960. La mancanza di cibo, la rivolta armata nel Nord e il colpo di Stato militare stanno uccidendo il Paese. Cinque mesi maledetti, tra penuria alimentare, rivolta armata e colpo di stato militare, stanno producendo la peggiore crisi dei diritti umani in Mali dall’anno dell’indipendenza, il 1960.