Se creare il “mostro” è più rassicurante Il Mattino di Padova, 2 luglio 2012 Di recente uno dei giornalisti più esperti di cronaca nera e giudiziaria, Giovanni Bianconi, si è confrontato con i detenuti del carcere Due palazzi su come opera l’informazione sui temi del carcere e della giustizia. Ne è emerso il quadro di una informazione che spesso preferisce creare “il mostro” piuttosto che raccontare davvero come si può arrivare a commettere reati anche partendo da una vita “regolare”. E che descrive il carcere senza andare a fondo dei problemi, preferendo fare scelte più rassicuranti, come quella di far credere alla gente che pene più alte e più galera possano davvero rendere più sicuri i cittadini. Ma è solo un’illusione, come emerge con chiarezza dalla testimonianza di un detenuto e dalla replica di Giovanni Bianconi. I danni prodotti dall’informazione Sicuramente le testimonianze che confermano proprio i danni prodotti da questa cattiva informazione ci arrivano dagli incontri che noi abbiamo con gli studenti delle scuole che ogni settimana entrano in carcere. Dai luoghi comuni che spesso caratterizzano le loro idee sul carcere emerge che loro assorbono messaggi mediatici poco precisi, soprattutto quando tendono a caratterizzare come “mostri” gli autori di reati. Si capisce che c’è un metodo per informare finalizzato a tranquillizzare la società dei benpensanti, inducendoli a credere che esistono i predestinati, i mostri, quelli che non possono sfuggire al carcere. Questo è un messaggio che porta a credere ai più che a loro non capiterà mai di finire in galera. E invece “capita” anche a tanti cittadini comuni, basta pensare che i condannati per reati legati al consumo di sostanze stupefacenti sono circa il 30% dei detenuti, e non sono certo feroci criminali. E che tante persone che vengono sorprese alla guida di una vettura con un tasso alcolico superiore al consentito oggi rischiano il carcere, e se causano incidenti possono essere condannate a pene durissime. E ci sono altri reati che commettono proprio i cittadini comuni, e non solo “i delinquenti”, e sono gli omicidi in famiglia, che da qualche anno risultano più numerosi degli omicidi di criminalità organizzata. Gli studenti dopo aver ascoltato le nostre esperienze, le storie che ci hanno condotto in carcere, ci dicono che ci sono cose che i giornali e le televisioni non gli raccontano nel modo giusto, certe realtà come il carcere sono tenute nascoste, come se davvero fossero lontane dalla vita dei cittadini. Ci dicono che sono entrati in carcere con un’opinione nei confronti dei condannati e ne escono con un’altra. E questo, certamente, non succede perché noi detenuti improvvisamente siamo diventati tutti buoni. In effetti un’informazione poco precisa induce la società ad allontanarsi dal carcere e, quindi, a non occuparsene. Invece la società deve occuparsi di carcere, e deve costringere chi si occupa di carcere a farlo in un’ottica rieducativa, volta al recupero delle persone, solo così può ridurre il numero di persone che vi entreranno. Abbiamo incontrato ultimamente una classe di studenti proveniente da una scuola di Napoli. Ci hanno detto proprio che dopo il nostro incontro hanno capito quanto erano lontani dal conoscere davvero la realtà del crimine e della devianza: loro erano convinti infatti che i criminali reclutati in minore età fossero dei predestinati, che hanno scelto di vivere nell’illegalità e non saranno mai “recuperati”. Ebbene la scelta in questi casi non è poi così libera come si potrebbe credere. Quanto può essere libero in quella scelta un ragazzino nato in un quartiere degradato di Napoli? e perché certa stampa non racconta questi aspetti così complessi della realtà, e preferisce creare sempre “i mostri”? Bruno Turci Illusorio che le prigioni garantiscano sicurezza Il problema, per essere forse un po’ brutali ma credo veritieri, è questo: il carcere in questa fase per i mezzi di informazione si riduce a tre questioni: sovraffollamento, suicidi e carenza di organico. Tra l’altro i suicidi sono divenuti essi stessi quasi routine: un fatto, per diventare una notizia, secondo i canoni di chi fa informazione deve essere una cosa nuova, e per i giornali i suicidi in carcere ormai non lo sono più, purtroppo… Il problema del sovraffollamento viene vissuto con allarmismo nella misura in cui le carceri rischiano di scoppiare, sono possibili delle rivolte o qualche altra clamorosa forma di protesta. A preoccupare non sono le condizioni di vita di chi è costretto a stare nelle celle che ospitano fino al doppio delle persone consentite, ma le possibili ripercussioni all’esterno. Ed è una considerazione che nasce da quella più generale secondo la quale il carcere non è un luogo di “rieducazione” per chi sta dentro, ma di sicurezza per chi ne resta fuori. In ogni caso credo che il carcere non sia vissuto dalla collettività come luogo di rieducazione: in carcere deve stare chi costituisce un pericolo per l’esterno, tutto il resto sono problemi suoi. Derivano da qui, ritengo, tutti i discorsi sulla certezza della pena che troppo spesso capita di ascoltare anche quando sono fatti “a vanvera”, evocati pure quando non c’entrano niente con quello che dovrebbe essere il modo giusto di affrontare i problemi del carcere, cioè di una struttura che dovrebbe tendere al reinserimento del condannato. Allora la cattiva informazione sul carcere, semplicemente (e molto drammaticamente vorrei dire), finisce per riflettere la cattiva percezione che all’esterno si ha del carcere. Che è identificato come qualcosa che serve a rendere più sicura la vita di quelli che stanno fuori. È come se fosse un mondo a parte, come se il carcere fosse ciò che una volta erano i Paesi sottosviluppati. Ricordate? Ogni tanto qualche cittadino del Primo Mondo andava laggiù, tornava e diceva: “…però li ci sono un sacco di problemi che forse riguardano anche noi!”. A me pare che con il carcere scatti un meccanismo simile. Per esempio quando viene arrestato qualche “colletto bianco”, o comunque chi non è abituato ad avere a che fare con situazioni di detenzione: entra in carcere e ne esce come “convertito”. È successo di recente con un deputato arrestato, che è entrato in cella e quando è riuscito a venirne fuori ha detto: “Adesso mi occuperò di carceri!”, come se fosse rimasto folgorato rispetto a un “mondo a parte”, per l’appunto, che non conosceva. Eppure era un legislatore, uno che dovrebbe avere coscienza dei principali problemi che affliggono il nostro Paese. Episodi come questi mi portano a pensare che il rapporto tra il carcere e l’informazione risenta, come accade in tanti altri settori, dei guasti che pure esistono nei rapporti tra l’informazione e la politica, in particolare la politica della giustizia. In molte situazioni e nonostante la sua drammatica realtà, inoltre, il carcere viene addirittura invocato: se ci fate caso, di fronte a problemi di macro o micro criminalità, la soluzione maggiormente suggerita qual è? Più carcere. Che è un modo per guadagnare consenso nella società delle persone cosiddette “perbene”, che si sente tranquilla se ci sono celle abbastanza grandi da contenere quelli che commettono reati, o si presume che li abbiano commessi. Ecco, l’informazione purtroppo risente di tutte queste situazioni, e quindi finisce per occuparsi (e neanche tanto) di quei due o tre problemi che rendono il carcere insicuro per chi sta fuori, non deleterio per chi sta dentro, ché questo non interessa. C’è stato un episodio che un po’ ha riacceso però qualche speranza, forse, affinché la situazione possa cambiare, e mi riferisco alla vicenda di Stefano Cucchi. In quel caso, che però è stato molto doloroso, una famiglia colpita da un episodio di morte inspiegata avvenuta all’interno di una struttura detentiva, è riuscita a scalfire l’indifferenza generale attraverso l’informazione. Una famiglia che una volta si sarebbe detta “piccolo borghese”, tranquilla, di quelle che tengono il tappetino fuori dalla porta di casa con su scritto “Buongiorno”, che mai avrebbe immaginato di doversi confrontare con la realtà del carcere e invece s’è ritrovata improvvisamente colpita da una tragedia capitata in questo ristretto universo. Ed ha avuto il coraggio e la forza di coinvolgere i mezzi di informazione su questa vicenda. In quel caso l’informazione ha avuto un merito, perché ha acceso i riflettori. Io credo che senza l’interessamento dei mass-media, molto probabilmente Stefano Cucchi sarebbe rimasto uno dei tanti morti in carcere coperti dal silenzio. Certo sarebbe bello vivere in un mondo dove non fosse necessario diffondere le foto del cadavere martoriato del proprio figlio per ottenere un minimo di informazione un po’ più corretta del solito. Però succede. E allora? Oggi l’informazione non è più confinata ai giornali, ai telegiornali o i giornali radio. Attraverso internet si sono aperti moltissimi spazi, e può essere che questi nuovi canali di comunicazione contribuiscano a far sì che l’informazione sul carcere non si limiti a quei due o tre problemi che fanno sentire più sicuri quelli che stanno fuori, ma si cominci a parlare delle reali condizioni, dei reali problemi di chi sta dentro. Giovanni Bianconi, giornalista Giustizia: l’estate dei detenuti, un inferno che nessuno vede di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 luglio 2012 Poco più di un mese fa il Guardian, pubblicando un lavoro di data journalism, faceva il punto sulle carceri italiane: “Come sono morti mille prigionieri in 10 anni?”. “Ci sono importanti indicatori - scrive il quotidiano Gb - della protezione e della cura che un Paese riserva ai propri detenuti, tra cui il numero e le cause di decessi in cella”. Nelle nostre prigioni, “il 56% dei circa mille morti tra gennaio 2002 e maggio 2012 è a causa di suicidio, il 22% per malattia”. Il resto per droga, omicidio o circostanze da chiarire. Ma il giornale inglese dovrà tornare sull’argomento perché è in estate che le carceri italiane possono far impazzire qualsiasi analisi statistica. Quando le celle diventano roventi e la tortura diventa disumana per quei corpi ammassati oltre ogni limite legale, e se può succedere - come in questi giorni - che manca perfino l’acqua, allora la differenza tra morte cercata e morte provocata diventa assai vaga. I sindacati di polizia penitenziaria lanciano il grido d’allarme, e il Dap ammette: “In molti istituti manca l’acqua, perché non è stata completata l’attuazione del regolamento del 2000, che prevedeva l’adeguamento delle strutture. Rete idrica e elettrica sono ottimali, ma se viene triplicato il numero dei detenuti si va in black-out”. Rubinetti a secco da una settimana a Taranto dove, avvertono gli agenti, “la rivolta è dietro l’angolo”. Idem a Sassari, dove “la mancanza dell’acqua corrente dovrebbe indurre l’immediata chiusura della struttura che è ormai al collasso”, e invece a giorni vi dovrebbero essere trasferiti altri cento detenuti in 41 bis. E l’elenco degli istituti con “grave carenza idrica” potrebbe continuare a lungo. Anche a Teramo manca l’acqua, in cella come in città. Non sappiamo però il motivo che ha spinto al suicidio due detenuti nelle ultime 24 ore. Ieri T.L., una donna etiope di 55 anni si è impiccata; il giorno prima stessa sorte è toccata a un uomo di 44 anni. A fine aprile nello stesso carcere si era tolto la vita un giovane tossicodipendente di 34 anni. Secondo l’osservatorio di “Ristretti orizzonti”, salgono così a 28 i suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno; 83 morti, in totale. A Viterbo ieri, un altro recluso di 56 anni ha tentato di morire: è grave. E in questo assolato sabato di fine giugno, dal parlamento arrivano solo flebili voci. Dal governo silenzio assoluto. Giustizia: proposta di legge del Pdl per limitare il ricorso alla custodia cautelare Public Policy, 2 luglio 2012 La custodia cautelare in carcere, in Italia, rappresenta una forma di tortura: bisogna limitarne il ricorso. È quanto chiede il Pdl (primo firmatario Alfonso Papa, lui stesso detenuto 101 giorni in custodia cautelare in merito alla vicenda P4, nel 2011) in una proposta di legge per modificare il codice di procedura penale, presentata alla Camera ma non ancora assegnata alla Commissione di competenza. Sullo stesso tema, in commissione Giustizia, la settimana scorsa è iniziata la discussione di tre testi abbinati, due a firma di Rita Bernardini (radicale, eletta nelle fila del Pd) e uno di tre deputati della Lega nord (primo firmatario Roberto Cota, ora presidente della Regione Piemonte). La situazione attuale nel nostro Paese, afferma Papa, “in strutture fatiscenti e inumane, oltre il 42% dei detenuti è costituito da persone in attesa di giudizio, persone che in base alla Costituzione sono da ritenere non colpevoli”. Sono circa “26 mila i detenuti tra appellanti e ricorrenti in Cassazione: di questi ben 15 mila sono in attesa di giudizio”. Una problematica che incide anche sui conti pubblici, aggiunge Papa: “Si pensi che soltanto nel 2011 lo Stato ha versato 46 milioni di euro a titolo di indennizzo per ingiusta detenzione”. Non solo: in base ai dati della Corte europea dei diritti dell’uomo, citati nella proposta, “nel periodo compreso tra il 1959 e il 2010 l’Italia ha riportato 2.121 condanne, dovute principalmente (1.139) all’eccessiva durata dei processi”. La proposta del Pdl punta sulle misure alternative, e cita i dati emersi da una ricerca del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria secondo cui “il detenuto a cui viene concessa una misura alternativa al carcere ha una recidività minore rispetto a chi sconta la propria pena in cella: trascorsi 7 anni dalla conclusione della pena, la recidiva si colloca infatti intorno al 19% in caso di pena alternativa, mentre raggiunge il 68,4% quando la stessa viene eseguita in carcere”. La conseguenza, secondo il deputato napoletano, che è anche magistrato, è che il carcere italiano “è un’esperienza che abbrutisce e che spesso sforna potenziali criminali”. La proposta di legge: innanzitutto il testo mira a ridurre il ricorso alla custodia cautelare in carcere “unicamente alle ipotesi di reato per le quali appaia indispensabile”, ovvero quando appare “l’unica risposta in termini di sicurezza per la collettività”. L’articolo 3 della proposta prevede l’obbligo, per il pm, di “interrogare sempre l’indagato in stato di custodia alla presenza di un giudice, anche dopo l’interrogatorio di garanzia”. Custodia in carcere che “non potrà superare i sei mesi”. La proposta a firma Papa prevede anche modifiche relative alla composizione del tribunale del riesame in caso di “giudizio di secondo grado in sede cautelare”: “Dovrà svolgersi dinanzi a un collegio diverso da quello del primo grado”. L’articolo 5 stabilisce che il pm è tenuto a richiedere entro 30 giorni dall’esecuzione della custodia il giudizio immediato per chiedere “la remissione in libertà”, sempre che la richiesta non pregiudichi “gravemente” le indagini. Infine, i deputati del Pdl chiedono di separare i detenuti in custodia cautelare da quelli condannati in via definitiva: “Se già il condannato in via definitiva vive in una condizione indecente, il carcere, per l’indagato sottoposto a custodia cautelare, diventa una vera e propria forma di tortura, di induzione alla confessione forzata e di svilimento della dignità umana”. Giustizia: una petizione contro i bambini dietro le sbarre di Davide Pelanda www.articolotre.com, 2 luglio 2012 Ogni anno entrano in carcere più di 100.000 bambini in Italia e quasi 1 milione in Europa perché hanno un genitore detenuto (o tutti e due). A ricordarcelo sono quelli della Onlus Bambinisenzasbarre, un’associazione con sede a Milano che da 10 anni è impegnata nel nostro Paese nei processi di sostegno psicopedagogico alla genitorialità in carcere, prestando una particolare attenzione verso i figli colpiti dall’esperienza di detenzione di uno o entrambi i genitori. Ora questa associazione ha lanciato una petizione e raccolta firme da inviare al presidente e vicepresidente del Parlamento Europeo. In essa si ricorda che “nell’autunno 2011, si è tenuta alle Nazioni Unite una giornata di discussione sui figli di genitori detenuti, per aumentare la consapevolezza della comunità internazionale e promuovere una serie di raccomandazioni per tutelare e migliorare i loro diritti. Iniziative analoghe sono necessarie a livello europeo, portate avanti da personalità chiave all’interno delle istituzioni europee”. Sempre nella lettera-appello si ricorda che “questi bambini sono altamente esposti al rischio di discriminazione, esclusione sociale, povertà e all’interruzione dei legami familiari. Per troppi un bambino che ha un genitore in carcere è “associato” al reato commesso dal genitore” e quindi in questo caso “la punizione viene “trasferita” sul bambino che subisce la condanna del genitore e ne soffre, in silenzio, a casa, a scuola e quando si reca in carcere per incontrare il genitore, che dovrebbe incontrare, nonostante tutto, più volte possibile, come ormai confermato da studi e ricerche”. La richiesta è dunque quella di “rendere questi bambini “visibili” alla comunità europea e non vengano lasciati indietro” e di scrivere una futura prima legge sul tema cercando di “migliorare le condizioni di visita in carcere dei bambini, aumentando le ore di incontro per assicurare un regolare e diretto contatto con il genitore detenuto, e incrementare la consapevolezza e la formazione degli operatori penitenziari; organizzare gruppi di monitoraggio a livello nazionale per avere maggiori informazioni su questo gruppo di bambini e mantenere alta la qualità delle visite in carcere”. Giustizia: morì durante l’arresto con 12 costole rotte, ma per il Pm agenti non colpevoli di Michela Allegri Il Messaggero, 2 luglio 2012 Non sono stati i quattro poliziotti che lo immobilizzarono e gli fermarono i polsi con le manette a uccidere Luigi Federico Marinelli, deceduto nel settembre dello scorso anno dopo una lite con la madre. È questo il parere della procura di Roma, che nei giorni scorsi ha chiesto l’archiviazione del procedimento. Perché “l’attività investigativa e quella medico legale svolte non hanno consentito di individuare condotte attribuibili a terzi quali cause che hanno cagionato la morte di Luigi Federico Marinelli”, così scrive il pubblico ministero Luca Tescaroli nella richiesta di archiviazione presentata al gip. I quattro agenti erano indagati per omicidio colposo: Marinelli, 49 anni e affetto da schizofrenia, era deceduto dopo il loro intervento. Era stata la madre di Luigi a chiamare il 113, per placare una discussione scaturita da uria richiesta di denaro. E proprio lei aveva poi raccontato agli inquirenti, insieme al figlio Vittorio, quello che era successo. Erano entrambi testimoni oculari e non avevano scordato nemmeno un dettaglio: la faccia di Luigi schiacciata contro la porta, il suo corpo immobilizzato, il viso che diventava cianotico. Ma soprattutto, ricordavano quelle manette d’acciaio strette intorno ai polsi. Impossibili da aprire, perché gli agenti non avevano una copia delle chiavi. “Questa condotta dovrebbe essere approfondita - ha dichiarato l’avvocato Antonio Paparo, che difende i familiari di Marinelli e ha già presentato opposizione alla richiesta di archiviazione - perché gli hanno messo le manette se non avevano le chiavi per aprirle?” Con i risultati dell’autopsia tra le mani, i familiari avevano denunciato i quattro poliziotti. Il corpo di Marinelli era martoriato: dodici costole spezzate, un’emorragia interna e il fegato spappolato. Tutto questo, insieme al risultato della perizia di parte che confermava la morte per soffocamento, sembrava abbastanza almeno per ottenere una richiesta di rinvio a giudizio. Ma la procura non la pensa così. Perché dalla consulenza disposta dal pm risulta invece che quelle lesioni siano da attribuire “alle manovre di soccorso e rianimazione”: un massaggio cardiaco effettuato con “eccessiva veemenza” e da persone “non addestrate adeguatamente”. I periti nominati dal pm parlano anche di “stato di delirium eccitato (excited delirium)”, uno stato estremo di eccitamento fisico e psichico, provocato dalla patologia psichiatrica e dalle sostanze stupefacenti, ma anche dai farmaci che Marinelli aveva assunto. Sarebbe stata questa condizione a provocare lo scompenso cardio-respiratorio che ha causato il decesso. La condotta dei poliziotti “non risulta aver prodotto soffocamento o eventi traumatici idonei a cagionare la morte”, concludono i consulenti. “È un’assurdità, una follia - commenta invece l’avvocato Paparo - è morto soffocato perché gli sono saliti sulla schiena. E comunque quella deÙ”exci-ted delirium” non è di certo una buona scappatoia: è una patologia ancora discussa, non può esimere dalla colpa di aver agito in modo eccessivo. La stessa giustificazione era stata utilizzata anche dai difensori degli agenti condannati per aver massacrato di botte Federico Aldrovandi”. Lettera aperta al ministro della Giustizia Paola Severino di Igor Boni Notizie Radicali, 2 luglio 2012 Dedico questo spazio alla pubblicazione di una lettera aperta al Ministro della Giustizia che ho ricevuto dal Sig. Sandro Franciosi, detenuto nel carcere di Saluzzo (Cn), nella quale si denunciano fatti gravissimi relativi al Sig Roberto Talarico, che meritano certamente un approfondimento e una risposta. Se tutto quanto denunciato fosse confermato saremmo nuovamente di fronte ad episodi inaccettabili per uno stato di diritto e per una democrazia. Ma come si sa, in Italia lo stato di diritto e la democrazia devono ancora essere conquistati. Partire dalla situazione carceraria e dalle violazioni che giornalmente vi sono è doveroso; i Radicali lo hanno compreso da decenni. Le altre forze politiche purtroppo - a parte le dovute eccezioni di singoli - del tema carcere fondamentalmente se ne disinteressano. “Le scrivo per cercare di offrire un contributo, all’insegna della ricerca di verità e giustizia, con riferimento al gravissimo caso del Sig. Talarico Roberto, che dopo aver trascorso un periodo di detenzione nel carcere di Alba, per parte in regime “d’isolamento” punitivo, è finito in coma e con la salute del tutto compromessa. Stava scontando una condanna a 14 mesi di reclusione per reati, cosiddetti, minori. Una storia difficile alle spalle, tossicodipendente, gravi problemi di salute, evidenti patologie di carattere psicologico: non serviva una perizia psichiatrica per capire; si percepiva, attraverso le sensazioni, a vista d’occhio, come si suole dire. Con esperienze e formazione educativa diverse, non sarebbe certo incorso nella droga e nel carcere. In regime “d’isolamento” nella sezione Transito dell’istituto albese per via d’un litigio con il compagno di cella. Quella maledetta cella, sovraffollata, non regolamentare, che in origine avrebbe dovuto ospitare una sola persona. La comunicazione ufficiale dell’Amministrazione penitenziaria è stata “caso di legionella”. Quella ufficiosa, interna alla prigione: “legionella, era un drogato anche malato!”. Dietro la parvenza di un caso, già per se stesso gravissimo, di legionella, si cela un quadro complesso, all’interno del quale sono palesi delle omissioni, responsabilità, superficialità e, soprattutto, “fretta” di chiudere la questione. All’inizio di gennaio 2012, circa, Roberto fu trovato per caso da un altro detenuto: era riverso a terra, privo di conoscenza, si era addirittura defecato addosso e, particolare molto strano, evidenziava segni di contusioni sul viso che era pieno di sangue. Attualmente è stato scarcerato con provvedimento “veloce” del Magistrato di sorveglianza, è a casa sua, a Rivoli (To), in coma, disteso su un letto senza un polmone (gliel’hanno asportato), sopravvive attraverso una particolare intubazione che lo induce a respirare e nutrirsi artificialmente. Bene, anzitutto inizio con il domandare: da quanto tempo si trovava in quelle condizioni e come mai il sangue e le contusioni sul viso. È stato trasportato all’ospedale solo la notte del giorno dopo a distanza di circa 24 h dal momento in cui fu rinvenuto, perché questo ritardo? All’interno del “Consiglio di disciplina”, l’organismo attraverso il quale s’è disposto l’isolamento coatto, non doveva, per legge, esserci un medico che assicurasse che la salute fisica e mentale gli avrebbero consentito di “reggere” l’isolamento, la dura sanzione coercitiva che si può tradurre in “costrizione nella costrizione”. Ebbene, è stata rispettata la procedura del medico! E se sì, perché è stata eseguita la sanzione dal momento che Roberto era malato? Per legge non doveva anche essere costantemente, adeguatamente monitorato, sia in termini di “sorveglianza” e sia rispetto alla salute? Cos’è successo? Anche perché una persona già malata, sottoposta a forte stress emotivo e fisico va incontro ad un aggravamento e anche, come in questo caso, ad essere più esposta di altre ad infezioni come legionella. Se a ciò aggiungiamo un clima dove qualcuno (legato ad un ruolo di potere) suggestiona, condiziona arbitrariamente e negativamente tutta una serie di persone e iniziative, compreso il consiglio di disciplina, a questo punto al quadro possiamo anche inserire una bella cornice. Concludendo, credo che questa vicenda meriti una riflessione: punire una persona con l’isolamento per via di un litigio con il compagno di cella, dove la promiscuità, le tensioni e l’esasperazione sono la conseguenza dei 3 metri x 2 di spazio calpestabile a testa, che senso ha! Tutto ciò cosa centra con il trattamento rieducativo a cui sono connesse le sanzioni disciplinari; non ci troviamo forse di fronte all’illegittimità di una procedura che viene esercitata solo per cercare di “addomesticare”, suggestionare psicologicamente e attraverso la coercizione esseri umani, piuttosto che rieducarli: alla faccia del senso d’umanità e della civiltà. E Roberto è stato, purtroppo, stritolato da questo sistema fuorilegge”. Lettere: fuori… con il condizionale di Enrico Caria Il Fatto Quotidiano Se Gianfranco Fini, allora vicepresidente del Consiglio, in occasione del G8 si fosse recato alla Questura di Genova per consigliare il manganello garantendo che tanto il Governo Berlusconi avrebbe insabbiato tutto, ci sarebbero stati pestaggi e torture inflitte a cittadini italiani e stranieri per tre giorni, e laddove uomini in divisa fossero stati giudicati colpevoli dalla Magistratura, ora invece di stare in galera sarebbero stati tutti promossi. Se, sempre in occasione del G8 di Genova, l’allora Ministro dell’Interno Claudio Scajola avesse detto alla polizia di sparare sui manifestanti che avessero violato la zona rossa e non, come dice lui, per la sua frase si fosse trattato di “interpretazione impropria sotto il profilo giuridico e approssimativa se estrapolata dal contesto”, allora ci sarebbe un rapporto tra causa ed effetto tra la frase dell’allora Ministro dell’Interno e l’omicidio di Carlo Giuliani. Se Carlo Saturno, minorenne di Manduria finito nel carcere minorile di Lecce nel 2006 (che si racconterebbe esser stato sede di inaudite violenze), non si fosse costituito parte civile contro i presunti torturatori e poi non fosse stato trovato impiccato in una cella di isolamento ed il processo non fosse infine stato prescritto, si potrebbe dedurre che se il reato di tortura fosse stato presente nel nostro codice, gli imputati non sarebbero stati assolti e nessuna Giornata Mondiale contro la tortura sarebbe stata dedicata a Carlo Saturno. Se il disegno di legge n° 3267 (relatori Casson e Balboni) che introdurrebbe in Italia il reato di tortura non arrivasse mai a dibattito si potrebbe ipotizzare che a decidere il calendario dei lavori della Camera... ma fosse mica il Presidente Gianfranco Arieccolo Fini? SE come asserirebbe l’attuale Ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri, fosse tanto difficile introdurre il reato di tortura perché nel codice già abbiamo reati molto simili come il sequestro di persona (che cacchio c’entra? I detenuti mica sono custoditi illegalmente!), il reato di lesioni personali (che cacchio c’entra bis? E le torture psichiche, le minacce, le umiliazioni, le manipolazioni psicologiche, le esposizione a condizioni crudeli, lo stress forzato? Uno studio del King’s College di Londra su 279 persone torturate nella ex Jugoslavia dimostra che le conseguenze sono le stesse delle torture fisiche), la tratta di esseri umani (ma che cacchio c’entra tris? La violenza dei trafficanti mafiosi assolverebbe quella degli uomini in divisa???), nei paesi civili le violenze dalle forze di polizia non sarebbero punite con uno specifico reato di tortura ma finirebbero derubricate a reati comuni come accade in Italia. Se un rifugiato su quattro tra quelli che sbarcano in Italia fosse vittima di tortura e se il Consiglio Italiano per i Rifugiati avesse assistito circa 3.000 persone sopravvissute a torture, se per questo Onu e Amnesty International condannassero l’Italia, Cesare Beccaria si rivolterebbe nella tomba per la figura di merda. Se in riferimento all’omicidio di Federico Aldrovandi, uno che passa usasse il condizionale e ignorando una sentenza definitiva dichiarasse “Se ci sono stati degli abusi gravi è giusto che vengano colpiti”... sti cazzi! Se invece, ad usare il condizionale fosse stato l’attuale Ministro degli Interni Anna Maria Arieccola Cancellieri... allora si dovrebbe dimettere! Emilia Romagna: detenuti per ricostruzione post terremoto, oggi un incontro in Regione www.marketpress.info, 2 luglio 2012 La proposta del ministro della giustizia Paola Severino di accogliere la disponibilità dei detenuti a svolgere attività di volontariato nelle zone colpite dal sisma è stata al centro di un incontro svoltosi il 28 giugno a Bologna tra l’assessore regionale alle politiche sociali Teresa Marzocchi, il vice capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Luigi Pagano e gli assessori comunali alle politiche sociali Matteo Sassi di Reggio Emilia, Chiara Sapigni di Ferrara e Francesca Maletti di Modena. All’incontro hanno partecipato anche il presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna Francesco Maisto e il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria regionale Felice Bocchino. Secondo una prima ricognizione compiuta dall’Amministrazione penitenziaria, potrebbero essere circa quaranta i detenuti ospitati negli istituti di pena dell’Emilia-Romagna con i requisiti per svolgere un’attività di pubblica utilità nelle aree terremotate. Si tratta di persone non pericolose e che già hanno intrapreso un percorso di reinserimento sociale. Spetterà ora ai Comitati locali carcere delle quattro province interessate verificare sui rispettivi territori le possibilità di incrociare domande e offerta, così come è stato fatto fino ad ora per tutte le altre attività di volontariato che vengono prestate nelle aree terremotate. “È un’iniziativa importante - ha sottolineato l’assessore Marzocchi - che offrirà ai detenuti l’opportunità di uscire dal carcere e di sentirsi utili, mettendo una parte del proprio tempo a disposizione della collettività. Come Regione la sosteniamo perché siamo convinti che vadano valorizzare tutte le possibili misure alternative alla detenzione. Anche in questa occasione ci attiveremo in stretto raccordo con l’Amministrazione penitenziaria, gli Enti locali, il mondo del volontariato seguendo necessariamente le indicazioni della Protezione civile e della struttura commissariale del sisma”. Luigi Pagano ha parlato “di un’ esperienza di rilievo sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, un’esperienza pilota che potrà rappresentare un utile punto di riferimento per future analoghe iniziative anche al di là dell’emergenza terremoto”. Da parte del magistrato di sorveglianza Maisto è stata espressa “la massima disponibilità a selezionare le proposte in vista di decisioni socialmente apprezzabili”. Messina: internato di 43 anni si è suicidato nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto Agi, 2 luglio 2012 Antonio Sanfilippo, 43 anni, si è suicidato questa mattina all’alba nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Lo rende noto Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe. I recluso, che era accusato di aver tentato di uccidere la moglie, si è impiccato alla finestra della cella. Capece parla di “una vera e propria ecatombe” nelle carceri e ricorda che a Teramo si sono suicidati due detenuti in 24 ore. “Bisogna darsi concretamente da fare -sostiene il sindacalista- per un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. Serve un carcere nuovo e diverso perché quello attuale è un fallimento”. Il Sappe chiede un incontro al ministro della Giustizia “per definire adeguate e concrete strategie di intervento”. Comunicato del Comitato “Stop Opg” A Barcellona Pozzo di Gotto si è consumata l’ennesima tragedia all’interno di un Ospedale Psichiatrico Giudiziario: un internato (vengono chiamate proprio così le persone richiuse) si è impiccato. Si aggiorna così il triste bollettino dei suicidi negli Opg italiani. L’uomo, nonostante potesse rientrare tra le persone che anche l’ultima legge sugli Opg (la n. 9 del 2012) dichiara “dimissibili senza indugio”, aveva subìto due proroghe della misura di sicurezza. In molti casi ciò accade quando la Magistratura di sorveglianza non riceve una proposta di reinserimento da parte dell’Asl di appartenenza. Così anziché essere liberato e assistito, com’era suo diritto, quell’uomo è rimasto rinchiuso fino alla morte. E allora innanzitutto bisogna accertare perché sono state disposte ben due proroghe. Stop Opg denuncia i ritardi con cui si procede nella chiusura degli Opg e nella costruzione di percorsi davvero alternativi: in particolare bisogna che le Asl (Dipartimenti di Salute Mentale) organizzino la presa in carico delle persone internate, anche per consentirne le dimissioni dentro progetti terapeutico riabilitativi individuali. E per questo è inconcepibile che non sia ancora avvenuto il riparto tra le regioni dei finanziamenti che proprio a questo scopo l’ultima legge aveva stanziato (38 milioni disponibili già nel 2012 e 55 milioni dal 2013). Gli Opg si confermano luoghi di morte, di sofferenza e di privazioni: non è più possibile rinviare interventi risolutivi. Elvira Morana e Stefano Cecconi Teramo: sventato dalla Polizia penitenziaria un nuovo tentativo di suicidio Ansa, 2 luglio 2012 Dopo i due definitivi atti autolesionistici registrati al carcere di Castrogno a Teramo nello spazio di un giorno, anche oggi, verso le ore 12.30, un detenuto italiano M.D.G. di 43 anni, ha tentato di impiccarsi con le lenzuola all’interno della cella. Questa volta pero’ il personale di polizia penitenziaria, intervenuto tempestivamente, è riuscito a salvarlo. Dopo le prime cure da parte dei sanitari del carcere, è stato trasferito in un altro reparto e sottoposto a sorveglianza a vista. “Al momento non si conoscono le cause del gesto, certo però, che questa escalation di episodi gravissimi preoccupa non poco, anche perché, al momento nessuno ha delle soluzioni”, denuncia il sindacato della polizia penitenziaria Sappe di Teramo. “Probabilmente, in attesa d’interventi strutturali dell’intero sistema carcerario, trasferire un centinaio di detenuti in altri istituti, solleverebbe dal disagio quello teramano”, afferma infine il Sappe. Catania: carcere di Piazza Lanza, i detenuti protestano con lo sciopero della fame www.cataniatoday.it, 2 luglio 2012 Da oggi, nel carcere catanese di Piazza Lanza, i detenuti dei reparti Amenano e Nicito cominceranno lo sciopero della fame per protestare contro le condizioni in cui sono costretti a vivere dentro le celle. Sovraffollamento, condizioni igieniche disastrose, mancanza di spazi per le attività fisiche e di occasioni lavorative. Nei mesi invernali, devono fare a meno dell’acqua calda e del riscaldamento. E in estate, quando le temperature diventano insopportabili, si ritrovano stipati anche in 10 dentro una cella e con poca acqua a disposizione. L’Osapp, l’organizzazione sindacale della polizia penitenziaria, lancia l’ennesimo allarme: nelle carceri siciliane i detenuti sono troppi, la situazione è al limite. Chiediamo “l’intervento delle prefetture per l’utilizzo di 150 agenti della polizia penitenziaria in forza alla scuola di San Pietro Clarenza” dice Mimmo Nicotra, vicepresidente dell’Osapp. “La situazione è davvero al limite - precisa Nicotra - per la mancanza dell’acqua culminata con la protesta dei detenuti, poco più di 500, che hanno sbattuto le gavette contro le sbarre della cella. Grazie all’intervento dei vigili del fuoco la situazione è stata fronteggiata con l’invio di una cisterna d’acqua”. Cagliari: Sdr; a Buoncammino si soffre per caldo e sovraffollamento Agenparl, 2 luglio 2012 “L’afa e il caldo non danno tregua generando una condizione di difficile convivenza soprattutto nel sovraffollato carcere cagliaritano di Buoncammino anche per la presenza di diversi detenuti anziani, con problemi cardiaci, sieropositivi, disabili e con disturbi psichici”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, richiamando l’attenzione “sulle necessità delle persone private della libertà costrette a condividere spazi angusti e trascorrere le giornate prevalentemente in ozio”. “La stagione estiva - sottolinea - rende la convivenza dentro gli Istituti di Pena particolarmente difficile. Nel carcere cagliaritano, dove sono ristretti mediamente 530 persone a fronte di 380 posti, la scarsa disponibilità di alternative alla branda determina maggiori rischi di conflittualità. Ai problemi di tutto l’anno, quali l’assenza di lavoro intramurario che costringe la maggior parte dei detenuti all’inattività, si aggiungono la maggiore irritabilità e l’insofferenza che rendono ancora più pesante la condivisione degli spazi comuni. In queste condizioni nell’operato degli Agenti di Polizia Penitenziaria diventa fondamentale il livello di controllo mentre per i medici e gli infermieri si pone la necessità di un costante monitoraggio per evitare situazioni pericolose”. “Il bassissimo livello di sopportazione - conclude l’ex consigliera regionale socialista - rende più frequenti i conflitti per futili motivi e favorisce gli atti di autolesionismo con l’indispensabile ricorso ai medici e/o addirittura nei casi più gravi al ricovero in ospedale. Insomma anche l’estate del 2012 si presenta particolarmente difficile per i detenuti e per chi deve garantire la loro incolumità e riabilitazione”. Milano: direttore della Caritas Ambrosiana; sì a introduzione reato tortura Ansa, 2 luglio 2012 Il direttore di Caritas Ambrosiana, don Roberto Davanzo, lancia un appello per l’introduzione del reato di tortura e per un sistema carcerario più civile a seguito della presentazione del Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti da parte dell’apposita Commissione del Senato. “Come denunciato autorevolmente dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato - afferma don Davanzo - le condizioni di sovraffollamento di alcuni penitenziari italiani configurano questi luoghi di reclusione come luoghi, in effetti, di tortura. Per questa ragione - spiega il sacerdote - non è solo una battaglia per addetti ai lavori, ma un’affermazione di civiltà, chiedere che l’Italia introduca finalmente nel proprio ordinamento un reato specifico, per altro già previsto dalla nostra Costituzione. Il direttore di Caritas ambrosiana spiega anche che sono diverse le proposte di legge già depositate e mi auguro che, tra le tante emergenze che il Paese deve affrontare, il mondo della politica trovi anche il tempo entro la fine della legislatura di compiere questo decisivo passo verso un sistema di reclusione più rispettoso della dignità umana. Dai dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 29 febbraio 2012, si evince che i detenuti in Italia sono 66.632, mentre la capienza regolamentare dei 206 istituti di pena che è di 45.742 posti. Secondo il Rapporto il sovraffollamento costituisce l’elemento centrale di un disagio umano, psicologico. Le conseguenze del sovraffollamento si ripercuotono sul piano sanitario, sulla socialità interna, sulle attività lavorative e via dicendo. Per questa ragione, si sottolinea nel documento la Commissione del Senato, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura che opera presso il Consiglio d’Europa e che utilizza il parametro della Corte europea dei diritti umani, stabilisce che ogni detenuto deve avere a disposizione quattro metri quadrati in cella multipla e sette metri quadrati in cella singola, mentre se si ha a disposizione meno di tre metri quadrati, si è in presenza di tortura. Marcenaro: i Cie sono peggio delle carceri Il presidente della commissione Diritti umani del Senato: “Sono progettati per trattenere le persone per poche settimane, non per 18 mesi. Favorire altre soluzioni come il rimpatrio volontario”. “I Cie sono peggio delle carceri. Sono progettati per trattenere le persone per poche settimane, non per 18 mesi”. A denunciarlo è Pietro Marcenaro, presidente della commissione Diritti umani del Senato, in occasione della presentazione del Rapporto sullo stato dei diritti nelle carceri e nei centri di identificazione ed espulsione italiani organizzata da Caritas Ambrosiana. Secondo Marcenaro, nei centri visitati dalla commissione nel corso del 2011 e dei primi mesi di quest’anno, “i trattenuti vivono in una situazione di promiscuità terribile. Ragazzi fermati senza documenti vivono accanto a persone che provengono dal carcere”. È necessario, afferma il senatore, “far sì che i Cie siano la soluzione estrema, favorendo altre soluzioni, come il rimpatrio volontario”. Situazione così grave da introdurre reato tortura Nei Cie c’è una situazione dei reclusi così grave che bisogna introdurre in Italia il reato di tortura. La proposta viene da don Roberto D’Avanzo, direttore di Caritas Ambrosiana, in occasione della presentazione del Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei Cie (centri di identificazione ed espulsione) della penisola. “Chi è trattenuto nei Cie - afferma il sacerdote, ha commesso reati amministrativi che paga con una reclusione a volte peggiore di quella dei detenuti, perché vissuta nella più totale inedia, in giornate vuote senza senso, senza capire perché sono lì e come faranno a uscirne”. Un’equipe di Caritas Ambrosiana dal 2004 opera all’interno del Cie di via Corelli a Milano per offrire assistenza legale ed educativa. “Diciotto mesi (il periodo massimo di trattenimento secondo la normativa europea, ndr), vissuti lì dentro sono alienanti, annichiliscono le persone e fanno perdere la percezione della propria identità”. Pordenone: carcere tra risse e celle torride Messaggero Veneto, 2 luglio 2012 A fronte di un numero di 72 detenuti che supera di poco la capienza massima, pari a 68 unità, non mancano i problemi nel carcere di Pordenone, in particolar modo in questo periodo, in cui il caldo insopportabile porta reclusi di nazionalità diverse a rendersi protagonisti di risse e pestaggi. Lavoro non facile, quello della polizia penitenziaria, che ieri ha festeggiato il patrono con una messa nella chiesa del Cristo celebrata dal vescovo, monsignor Giuseppe Pellegrini. La ricorrenza è stata l’occasione per fare il punto della situazione con il direttore della struttura, Alberto Quagliotto, che ha individuato nella nuova normativa relativa alle camere di sicurezza il motivo del parziale miglioramento della situazione rispetto allo scorso anno. “Possiamo dirci soddisfatti: la presenza di un numero di detenuti, in linea con la capienza massima, incide positivamente sul benessere di chi lavora in castello ma anche degli stessi carcerati” ha spiegato il dirigente. Le criticità, tuttavia, restano: l’alta percentuale di stranieri, circa il 75%, e gli spazi angusti favoriscono i momenti di tensione, accentuati dal gran caldo di questi giorni e dall’assenza di aria condizionata nell’intera struttura, sia per le guardie che per i detenuti. “L’unica cosa positiva sono i muri di pietra molto grossi, che in qualche modo contengono gli effetti più pesanti delle alte temperature. In ogni caso, non si vive di certo bene” ha evidenziato Quagliotto. Rispetto all’ipotesi nuovo carcere il direttore ha un’idea ben chiara: “Discuterne va bene se è funzionale a trovare una soluzione, altrimenti resta un esercizio sofistico”. Pavia: gli studenti entrano in carcere per ridurre le distanze La Provincia Pavese, 2 luglio 2012 I giovani varcano le porte del carcere per accorciare le distanze tra chi è recluso e il mondo che sta fuori. Un’esperienza di tre giorni, un percorso di conoscenza della Casa Circondariale di Pavia, offerto agli studenti universitari legati ad alcune parrocchie della città e organizzato dalla Caritas diocesana di Pavia, diretta da don Dario Crotti, in collaborazione con l’Area Trattamentale dell’istituto di pena. Oggi la messa del vescovo monsignor Giovanni Giudici nella cappella dell’istituto concluderà il viaggio all’interno di Torre del Gallo, al termine di tre giorni intensi. Giovedì si è svolto un primo momento di incontro e presentazione tra i giovani e il direttore della struttura, Iolanda Vitale, accompagnata dal personale dell’istituto. Insieme hanno visitato le sezioni, gli spazi di vita comune in cui si svolge una giornata tipo del detenuto. I giovani hanno avuto la possibilità di riunirsi in un momento di riflessione con un gruppo scelto di detenuti, che in rappresentanza dell’intera popolazione carceraria si sono confrontati con loro sul senso della detenzione e sulla progettualità futura; sono stati svolti anche laboratori in cui gli studenti si sono cimentati in prima persona nelle attività dei detenuti, dal lavoro nell’orto, alla catalogazione del materiale librario in biblioteca. Venerdì il professor Luciano Eusebi, docente di diritto penale all’università Cattolica è intervenuto sull’applicazione di una giustizia riparativa, ispirata al recupero del senso di responsabilità, più che a una giustizia dettata dall’aspetto punitivo. Milano: da San Vittore si evade… ma con un libro di Alessandro D’Avenia La Stampa, 2 luglio 2012 Sono stato in prigione. In prigione ho conosciuto la libertà. Non è l’inizio di un racconto, ma solo un pezzo di bruciante verità. Sono stato invitato a incontrare i giovani detenuti del carcere di San Vittore di Milano, quelli confinati nel Primo Raggio (Reparto penale giovani adulti). Le volontarie (Ilaria, che mi aveva cercato e inseguito per un po’, e Daniela, del Gruppo Carcere Cuminetti), in collaborazione con le educatrici dei ragazzi, avevano organizzato un ciclo di incontri con scrittori. Quando mi sono presentato davanti al carcere avevo paura. Cosa avrei mai potuto dire a un gruppo di ragazzi tra i 18 e i 25, condannati per reati di ogni tipo? Che cosa avevamo in comune loro ed io? E poi magari erano anche pericolosi... Ad aumentare la mia paura e il mio senso di inadeguatezza porte automatiche e ferrate si sono aperte troppo lentamente davanti a me. Dopo, i controlli: non puoi portare nulla dentro, neanche il cellulare. Avevo in tasca un’aspirina dimenticata nel blister e mi hanno fatto lasciare anche quella. Solo libri. Potevo portare solo me e la mia anima là dentro. E magari qualche libro che volevo regalare ai ragazzi (sempre d’anima si tratta). Superata l’occhiuta sequela di controlli e permessi, mi sono ritrovato al centro del carcere, nell’atrio dal quale si dipartivano tutti i raggi, una specie di ruota del destino, con opzioni tutte cieche. Era una stanza circolare dalla volta a cupola alta e screpolata, per metà di un colore che un tempo doveva essere più luminoso e marezzata di umidità. Al centro un altare con un crocifisso, per la celebrazione della Messa domenicale. Su un lato, in una nicchia, la statua di una Madonna o di un Cristo, non ricordo, dalla superficie screpolata tanto da sembrar lebbrosa. La luce attutita entrava nei corridoi di sbieco, quasi a forza, attraverso alti portoni di sbarre che immettevano in ogni raggio. Tutti erano rintanati nelle loro celle. Pochi metri quadrati per sei o otto persone. Solo i detenuti tossicodipendenti possono stare in corridoio oltre l’ora d’aria. Per il resto solo quelle quattro mura troppo strette anche per un riparo di animali in campagna. In quel momento ho capito. Non sappiamo di avere qualcosa finché non la perdiamo o finché non vediamo qualcuno che l’ha persa. Mi era già capitato leggendo libri e facendo assistenza agli handicappati o i senzatetto: avevo imparato che non posso dare per scontato di avere una mente che funziona, un corpo che si muove, mani che scrivono... avevo imparato che non posso dare per scontato di avere una casa e una cena tutte le sere. Ma una cosa non avevo mai saputo di averla - non l’ho mai persa o non ho mai visto nessuno che l’aveva persa a quel modo - perché è talmente incollata a me con la vedo mai, neanche allo specchio. La libertà. In carcere ho saputo di essere libero. Ho saputo che io posso scegliere se alzarmi o no la mattina, posso scegliere se uscire o no, e dove andare. Dove andare. Ho sentito la collocazione esatta della libertà nel mio corpo. Si trova all’altezza del diaframma e si alza e abbassa, assecondando o determinando il movimento respiratorio, come sa chi deve fare una scelta da cui dipende la propria felicità e trattiene il respiro o lo sputa fuori. Poi però la paura mi ha abbandonato. Di che cosa potevo mai avere paura? Io avevo tutto, anche se avevo dovuto lasciare tutto nell’armadietto di ferro. Io mi portavo tutto con me, dentro di me. Quel tutto era la mia libertà. Così sono entrato nel Primo Raggio e mi hanno accompagnato nella “nuova” stanza-biblioteca con i libri accatastati e in via di catalogazione. Una stanza di pochi metri quadri con scaffali in ferro e una ventina di ragazzi seduti o in piedi ad aspettarmi. Abbiamo parlato di loro e di me, delle loro vite e della mia. Forse loro avevano più paura di me, temevano che io li giudicassi. Ma mentre parlavo e li fissavo negli occhi qualcosa lentamente si è sciolto: il nodo della paura o del giudizio. Non avevo niente di più di loro, non ero migliore di loro, i corpi che avevo di fronte potevano essere il mio, magari con qualche tatuaggio in meno. Mentre parlavo, Omar, occhi azzurri e da bambino, si è commosso. Qualcosa dentro di lui si liberava, così come stava accadendo a me. Non era la superficiale emozione del momento, né u n a troppo rapida e ingiustificata reazione pietistica. Era l’incontro di due storie al crocevia delle loro scelte e del caso. Omar alla fine dell’incontro ha chiesto alla sua educatrice di incontrarmi a tu per tu per raccontarmi la sua storia. Non l’ha mai fatto prima, se non per confessare davanti ai giudici. Così qualche giorno dopo sono tornato in carcere per parlare solo con lui. Mi ha raccontato la sua terribile e tortuosa vicenda. Quello stesso giorno hanno inaugurato la biblioteca del Primo Raggio, che Omar, insieme a Vito (detenuto nello stesso raggio anche se più anziano, e con il volto di un padre che aiuta suo figlio a crescere), hanno costituito catalogando più di 3.000 volumi, frutto di raccolte e donazioni. Omar mi ha raccontato che dopo un anno di carcere era disperato. La noia, la rabbia, l’odio lo divoravano. Così ha afferrato un libro, anzi un altro detenuto gliel’ha prestato. Da lì è cominciato tutto: “Leggendo quelle pagine dimenticavo di avere intorno altre sette persone e magari la televisione accesa in pochi metri quadrati. Leggendo quel libro a poco a poco mi impadronivo nuovamente dei miei pensieri e ritornavo in me. Che vita è questa?”. I libri ti ricordano cosa ti manca o hai perso. Da quel momento Omar non ha più smesso di leggere e ha coinvolto altri nella sua folle avventura di aprire la biblioteca del Primo Raggio, inaugurata con un discorso pronunciato da Cristian, un altro dei ragazzi detenuti e amico di Omar. Erano presenti tutti i detenuti del raggio, di nazionalità diverse, ma tutti eleganti per l’occasione. A seguire c’è stato il buffet, interamente preparato da quelli di loro che in cella sono diventati anche ottimi cuochi. Omar mi ha scritto una lettera a mano ed è iniziata una corrispondenza. Mi ha raccontato che i suoi libri preferiti sono quelli della saga di re Artù. Odia Lancillotto per la sua mancanza di lealtà. Ama Re Artù perché è un re rispettato da tutti, e non perché temuto, ma perché amato dal popolo che lui ama. Omar ha sempre cercato il rispetto nella violenza, nei soldi e nel potere, ma poi ha perso tutti gli amici che stavano con lui per pura convenienza e ha capito che il rispetto è un’altra cosa, passa più che dal dominare e controllare, dall’amare e dal darsi. E così hanno sempre fatto sua nonna che lo ha cresciuto e sua sorella con lui: le uniche che sono andate a trovarlo in prigione. E infatti Omar ama anche il personaggio di Galaad, colui che va alla ricerca del santo Graal, perché è coraggioso, puro e innocente. Omar lo ama perché vorrebbe essere come lui. E non dimenticherò mai quando mi ha detto, con gli occhi di un bambino sincero, scoperto con il dito nel barattolo di marmellata: “Io lo so di non essere cattivo”. Lo dimostrano quei tremila libri con la loro fascetta e il catalogo ben ordinato per autore e genere, con in copertina l’immagine realizzata da uno dei detenuti: due mani le cui manette si spezzano grazie ad un libro e sotto la scritta “Vuoi evadere? Leggi un libro...”. Immigrazione: Cie di Modena; contratti confermati per quaranta lavoratori impiegati La Gazzetta di Modena, 2 luglio 2012 Contratto firmato per i quaranta lavoratori impiegati al Cie. Si chiude così, almeno per ora, la questione sorta dopo l’annunciato cambio di gestione della struttura che passa nelle mani della cooperativa “Oasi” di Siracusa, già al centro di polemiche nei giorni scorsi dopo un intervento del senatore Carlo Giovanardi. Intorno alle 16 di ieri i sindacati sono riusciti a raggiungere un accordo con la ditta, in base al quale quest’ultima “prende in carico” tutti i lavoratori dell’associazione Misericoria, guidata dal fratello del senatore Pdl, Daniele. Non solo: mantengono il posto anche le addette alla pulizia, 5 dipendenti della ditta “Linda”. Ma soprattutto sono arrivati i contratti perfino per i lavoratori a progetto, come i mediatori culturali e gli infermieri, che pur svolgendo un compito fondamentale correvano i rischi maggiori. A tempo indeterminato e non, a seconda dell’anzianità. Grande soddisfazione tra i dipendenti, anche se restano alcune preoccupazioni: “Con un ribasso del genere delle rette pagate dallo Stato per ogni detenuto, che passano da 75 a 28 euro a persona, rimangono alcuni timori per la tenuta occupazionale della struttura”. Cgil e Cisl erano in fermento da giorni sull’argomento, tanto che ieri mattina si è svolto un presidio di protesta proprio davanti al Cie, al quale hanno partecipato tutti gli impiegati nel centro. Un contratto firmato in extremis: “fra 12 ore avverrà il cambio di gestione, e non sappiamo ancora cosa succederà nel nostro futuro. Sono giorni che viviamo nell’incertezza, dall’Oasi non abbiamo avuto praticamente nessuna notizia, addirittura abbiamo appreso del cambio di gestione solo grazie alla Prefettura”, commentava uno dei manifestanti ieri mattina. Al presidio hanno partecipato anche membri della rete 1° marzo, associazione attiva nel campo dei diritti per gli immigrati, che esprime “seri dubbi sul taglio di oltre il 60% delle risorse. Questo provvedimento mette a rischio le condizioni degli ospiti e della cittadinanza, se non verrà garantita la trasparenza necessaria ad evitare i molteplici rischi che la situazione può scatenare”. La Rete intende inoltre lanciare un appello a Prefettura e Comune per un intensificazione delle attività di controllo per prevenire eventuali infiltrazioni mafiose e per l’attivazione di un tavolo di controllo sui Cie da estendere a tutta la Regione. Libia: rilasciati i 4 funzionari del Tribunale dell’Aja, tra loro un’avvocatessa australiana Adnkronos, 2 luglio 2012 Sono stati rilasciati i quattro funzionari del Tribunale penale internazionale (Tpi) arrestati il 7 giugno in Libia, con l’accusa di spionaggio. Lo ha confermato alla Bbc la procura generale libica, spiegando che i quattro, tra cui l’avvocatessa australiana Melinda Taylor, lasceranno presto il paese. La Taylor e la sua interprete erano state arrestate dopo avere incontrato in carcere il figlio dell’ex rais Muammar Gheddafi, Saif al-Islam. Gli altri due rappresentanti del Tpi sono rimasti in Libia spontaneamente. Brasile: pena più breve per detenuti che pedalano per produrre energia elettrica Adnkronos, 2 luglio 2012 I detenuti della prigione di Santa Rita do Sapucai, a 40 Km da Belo Horizonte, nello stato brasiliano di Minas Gerais, possono ridurre la loro pena pedalando per produrre energia destinata a illuminare un’importante Avenida della città. Lo riportano i media online brasiliani, precisando che per ogni tre giorni di esercizio in bicicletta, i gruppi di detenuti che si alternano, riducono la loro pena di un giorno. L’iniziativa, chiamata Projeto Luminar, è iniziata 90 giorni fa e si è ispirata alle palestre che impiegano l’energia prodotta dall’uso di biciclette ergonomiche per illuminare gli ambienti. Gilson Rafael Silva, direttore generale della struttura detentiva, afferma: “I detenuti, a gruppi di tre, escono dalle loro celle alle 7.30 e pedalano fino alle 17.30, con un’ora e mezzo di pausa per pranzare e riposarsi. Sono otto ore di attività al giorno, dal lunedì al venerdì”. Il progetto ha coinvolto 130 carceri, dando la precedenza a quei detenuti che hanno già scontato metà della loro pena e che sono stati segnalati per buona condotta. Il direttore generale del penitenziario di Santa Rita ha sottolineato come l’iniziativa stia riscuotendo successo e sia possibile estenderla a tutto lo stato di Minas Gerais, poiché è già al centro di un progetto di legge. L’intento, infatti, è quello di incrementare ulteriormente l’illuminazione dell’Avenida Beira Rio e di aumentare il numero di biciclette da quattro a dieci.