Giustizia: l'Italia dei livori... di Luigi Manconi www.abuondiritto.it, 28 agosto 2012 Continuo a essere morbosamente affascinato da ciò che cova nel cuore profondo della nostra società. Nessun moralismo, per l’amor del cielo, ma un qualche sconcerto per come le pulsioni e gli umori più profondi dell’animo umano sembrano, mai come oggi, premere tumultuosamente per venire alla luce. E’ altamente probabile che un secolo fa, ma anche tre decenni addietro, quelle pulsioni e quegli umori fossero significativamente “più neri”. Ovvero più limacciosi e sordidi, più aggressivi e feroci. Si deve presumere, infatti, che i processi di civilizzazione abbiano attivato meccanismi di mediazione e controllo: capaci, cioè, di filtrare, in qualche misura almeno, la parte oscura che abita ciascuno di noi, prima di consentirne la manifestazione, decantata e depurata, nella vita sociale e in quella pubblica. Seppure questo è vero, e se (forse) siamo meno direttamente brutali e meno apertamente violenti, è altrettanto vero che oggi quel nostro fondo torbido ha mezzi per esprimersi incomparabilmente più potenti. Questa incontenibile e incontinente “presa di parola” ha la sua origine recente nella seconda metà degli anni Settanta, grazie ai “telefoni aperti” e ai “fili diretti” delle radio private che nascevano all’epoca. Tra l’85 e l’86, Radio Radicale - al fine di sollecitare la proroga della concessione per la trasmissione dei lavori parlamentari - mandò in onda, per mesi, le decine di migliaia di telefonate registrate dalle segreterie telefoniche dell’emittente. Venne allo scoperto l’Italia dei rancori e dei livori, delle frustrazioni e delle invettive, ma anche l’Italia del cazzeggio e dell’esibizionismo, dei perdigiorno e degli stracciaculo. Gruppi che si riunivano per inondare la cornetta di pernacchie (che, confessiamolo, facevano perfino ridere) e un infinito racconto di ingiustizie patite e di bislacche utopie inseguite, di complotti denunciati e di intrighi indecifrabili; e un flusso maleodorante di odio e disprezzo: verso i meridionali, ma anche verso i settentrionali, verso gli extracomunitari, ma anche verso i tedeschi, verso gli omosessuali e verso i preti, e - fatalmente - verso tutti e tutto. Era saltato il tappo e veniva fuori l’indicibile e l’interdetto, il censurato e il rimosso. Ripeto: si tratta di qualcosa che c’è in ciascuno di noi e che ciascuno di noi sente il bisogno irresistibile di esprimere prima o poi. Il problema è di sapere quanto tutto ciò valga. Vale esattamente ciò che vale: si tratta di secrezioni, liquami, residui, che vanno trattati come tali. Radio Radicale compì allora un’azione situazionista, una sorta di “detournement”, tanto più efficace perché realizzato a metà di quegli anni Ottanta che avevano tutt’altro segno. Ma - ecco il punto - nel frattempo quel materiale grezzo, quella “presa di parola” sacrosanta e selvaggia, ha conosciuto alcune profonde trasformazioni. E’ come se - chiedo scusa per l’irriverenza - la “Merda d’artista” di Piero Manzoni (1961) fosse diventata il logo di una ditta di sanitari. La crisi della democrazia e il Web L’analogia va intesa in senso stretto: perché, per un verso, quella materia, quel Rancore Generale, può manifestarsi oggi attraverso un’infinità di mezzi di comunicazione; e perché è diventata fattore di promozione e di mobilitazione. Si è costituita, così, una platea anonima e potenzialmente illimitata alla quale si rivolgono sia gli imprenditori politici dell’intolleranza, sia i fomentatori del giustizialismo sia, infine, i soggetti politici del populismo. Tutti e tre questi attori si affidano, in primo luogo, a un sentimento di frustrazione: quanto più forte è tale sentimento tanto maggiore sarà la volontà di sottrarvisi attraverso il suo rovesciamento speculare in una strategia della rivalsa. Ecco, la canalizzazione simil politica di questo risentimento diffuso costituisce la terribile novità della fase attuale. Dietro c’è indubbiamente un deficit di democrazia, di partecipazione politica e di protagonismo sociale, che alimenta queste forme subalterne e illusorie di azione pubblica. Il Web ne è stato il micidiale vettore, ben oltre i confini della stessa rete, formando un senso comune che è diventato linguaggio corrente. Due esempi. Qualche settimana fa, come segnalava Michele Serra su Repubblica, “un lettore” così commentava la notizia dell’incidente occorso a Nicoletta Braschi, moglie di Roberto Benigni: “Poteva anche prendersi un’auto più sicura di una Golf, non mi pare un’auto da signori”. Sono convinto che non si tratti di un esercizio mal riuscito di sarcasmo: nelle intenzioni di quel “lettore” è, piuttosto, un atto di “guerra civile” contro “la casta”. Appartiene alla stessa categoria morale, un umore altrettanto diffuso, emerso limpidamente durante la benemerita trasmissione “Tutta la città ne parla” (Radio3 in onda dal lunedì al venerdì dalle dieci, condotta alternativamente da Pietro Del Soldà e da Giorgio Zanchini) si parlava della condanna delle Pussy Riot e un certo numero di ascoltatori denunciava il fatto che, a muoverle, fosse “solo il desiderio di farsi pubblicità”. Certo, tutto ciò può anche essere attribuito al fatto che una percentuale variabile di popolazione sia irrimediabilmente pazzoide: ma resta la sgradevole sensazione che si diffonda una sorta di paranoia luddista e di antagonismo neurologico. Ah, i bei tempi della lotta di classe. Giustizia: bene l’attività riparativa, ma salviamo il diritto al lavoro delle persone detenute di Desi Bruno* Ristretti Orizzonti, 28 agosto 2012 Il tema del lavoro retribuito per le persone detenute “non è oggi abdicabile”, nonostante “i tempi di risorse sempre più precarie per il carcere e di disoccupazione dilagante nella società esterna”, e tantomeno è “sostituibile con l’offerta di lavoro volontario, che deve seguire un percorso diverso e attiene alla scelta individuale delle persone condannate”. Il lavoro è ciò che chiede e di cui ha bisogno la grande maggioranza della popolazione detenuta, che per estrazione sociale è poverissima. La questione del lavoro è un passaggio determinante per il percorso di un detenuto, non semplicemente in termini di occupazione e retribuzione ad esso legati, ma proprio in termini di assunzione di responsabilità e di valore nella ricostruzione di una persona. Il sistema carcere, anche al fine di dare attuazione al dettato costituzionale sulla funzione della pena, deve avere la capacità di accompagnamento al lavoro e di reinserimento nel tessuto sociale e produttivo. Apprendere capacità lavorative è una forma di educazione alla legalità e avere una professionalità da spendere sul mercato del lavoro, una volta fuori dal carcere, sarà la prima forma di protezione dal pericolo di recidiva e quindi anche fonte di sicurezza collettiva. Per questo il diritto al lavoro delle persone detenute va salvaguardato e potenziato, come vuole anche l’art. 20 dell’O.P., che ne fa il fulcro del trattamento penitenziario. E ciò nonostante la drammatica situazione dell’oggi in cui i detenuti che hanno l’opportunità di lavorare sono un numero esiguo. I dati ufficiali forniti dal Dap, aggiornati al 31.12.2011, registrano, a fronte di 66.897 detenuti presenti negli istituti, 11.700 lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria e 2.261 non dipendenti ovverosia lavoratori in proprio o alle dipendenze di imprese e cooperative. Il dato della Regione Emilia Romagna indica, a fronte di 4.000 presenze complessive nelle carceri, 685 detenuti lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria e 108 non dipendenti. Per questo è necessario fare chiarezza e non confondere presupposti, finalità, ambiti di applicazione del lavoro come occupazione retribuita e i lavori socialmente utili o di pubblica utilità, che appartengono all’ambito della cd. “giustizia riparativa”, di cui si è molto parlato anche con riferimento alla possibilità, poi diventata realtà, di impiegare detenuti volontari in attività di aiuto alle popolazioni colpite dal terremoto. Infatti in data 30 luglio 2012 il Ministero di Giustizia, il Dap, il Tribunale di Sorveglianza e la Regione Emilia Romagna hanno sottoscritto un protocollo d’intesa per l’inserimento dei cittadini detenuti in attività di volontariato nelle zone colpite dal terremoto, riconoscendo “che l’attività di volontariato riveste un ruolo nella costruzione di un percorso riabilitativo finalizzato al reinserimento sociale ed alla riqualificazione del detenuto”. In senso analogo, l’anno scorso, era già stato siglato un protocollo d’intesa fra Provincia di Bologna, Tribunale di Sorveglianza di Bologna e Casa Circondariale di Bologna, e con la collaborazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna, attraverso il quale si prevedeva l’attuazione di un progetto volto ad impiegare 8 detenuti del locale carcere in attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato per la pulitura del patrimonio cittadino. Sempre nello stesso senso, a Ravenna, l’anno scorso, alcuni detenuti del locale carcere sono stati impiegati nel lavoro di pulizia e raccolta differenziata delle aree pubbliche tra la pineta e il bordo stradale nei pressi delle località balneari, in quelle zone dove i mezzi meccanici non riescono a svolgere la loro mansione, su iniziativa della Casa Circondariale, del Corpo Forestale dello Stato e dell’Asp. Recenti riforme legislative, come è noto, ed è un terzo profilo di ragionamento, hanno poi introdotto la possibilità di applicare la pena del lavoro di pubblica utilità, consistente nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province o i Comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. Infatti a norma dell’art. n. 54 del D.L.vo 28 agosto 2000 il giudice di pace può applicare, a richiesta dell’imputato, la pena come descritta e il giudice, a seguito dell’emanazione della recente legge in materia di stupefacenti può, ai sensi dell’art. 73 comma V bis l. 21.02.2006 n.49, su richiesta dell’imputato e sentito il pubblico ministero, nel caso di reati di cui all’art. n. 73 comma 5, commessi da persone tossicodipendenti o da assuntori di sostanze stupefacenti e psicotrope, qualora non debba concedere la sospensione condizionale della pena, sostituire pene detentive e pecuniarie con il lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 54 sopra citato. Il D.M. 26 marzo 2001 prevede all’art. n.2 comma 1 che l’attività non retribuita a favore della collettività debba svolgersi sulla base di convenzioni con il Ministero di Giustizia o su delega di questo, con il presidente del tribunale nel cui circondario sono presenti gli enti nominati. Molti enti in questi anni hanno stipulato convenzioni a tal fine. Nel 2010 con l’introduzione di modifiche all’art. 186 (guida in stato di ebbrezza) e all’art. 187 (guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti) del codice della strada si prevede la sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con quella del lavoro di pubblica utilità, se non vi è opposizione da parte dell’imputato, di durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata e della conversione della pena pecuniaria ragguagliando 250 euro ad un giorno di lavoro di pubblica utilità. L’introduzione dei lavori di pubblica utilità nel nostro sistema rappresenta un tentativo, sia pure timido , di introdurre sanzioni che abbiano senso riparatorio e restitutorio, abbinando la finalità rieducativa del singolo al miglioramento del rapporto con la società lesa da un comportamento antisociale, allontanandosi sempre di più da una concezione meramente retributiva della pena, come è anche nei progetti di riforma del codice penale . Ciò ricordato, il favor, del tutto condiviso e condivisibile, anche in prospettiva di riforma della legislazione esistente, per il lavoro volontario, non deve far ritenere che il tema del lavoro retribuito per le persone detenute sia oggi abdicabile, in tempi di risorse sempre più precarie per il carcere, e di disoccupazione dilagante nella società esterna, e sostituibile con l’offerta di lavoro volontario, che deve seguire un percorso diverso e che attiene alla scelta individuale delle persone condannate, sia quando diventa sanzione “altra” sia soprattutto quando indica una volontà di riparazione maturata a seguito di un personale e diverso approccio al proprio vissuto . E del resto la stessa Amministrazione Penitenziaria nella recente convenzione firmata con l’Anci dimostra di avere ben chiara la distinzione e la necessità di mantenerla e di perseguire entrambe le finalità. Infatti nel testo del protocollo d’intesa si conviene la promozione territoriale di un programma sperimentale di attività in favore della comunità locale, per un verso, orientato all’inserimento lavorativo dei detenuti e degli internati, con particolare riguardo ad iniziative di pulizia, manutenzione e restauro di siti di interesse pubblico, in cui il Comune in qualità di datore di lavoro provvederà alla retribuzione dei soggetti impiegati nelle attività lavorative, mediante la corresponsione di buoni lavoro (voucher Inps) ovvero con borse lavoro di importo che dovrà essere previamente stabilito da opportuni accordi con la Direzione dell’istituto penitenziario ove sono ristretti; per un altro, orientato alla promozione di accordi tra l’Amministrazione Comunale e il Tribunale per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, con particolare riguardo a lavori di manutenzione e tutela del patrimonio ambientale e ad attività connesse alla sicurezza e all’educazione stradale presso il Comando di Polizia Municipale, in cui l’attività lavorativa del condannato ha carattere di gratuità trattandosi di sanzione che sostituisce la pena detentiva e pecuniaria nei casi previsti dalla legislazione vigente. In questo contesto, quindi, appare indifferibile il rifinanziamento e potenziamento della legge Smuraglia, che prevede agevolazioni per le imprese e cooperative sociali che favoriscono l’inserimento lavorativo dei detenuti, il cui iter di riforma, previsto da un disegno di legge di cui è relatrice la deputata Alessia Mosca, è in fase avanzata e si potrebbe concludere entro fine anno. Dunque, va mantenuta alta l’attenzione e l’impegno sul fronte del lavoro retribuito, senza il quale anche il più autentico e condiviso percorso riabilitativo rischia di non bastare. *Garante dei diritti dei detenuti della Regione Emilia Romagna Giustizia: detenuti-volontari raccolgono pere per la Scuola di agraria di Finale Emilia Redattore Sociale, 28 agosto 2012 Ventiquattro volontari del Cefa e 3 detenuti della Dozza stanno lavorando nell’azienda agricola dell’Istituto Calvi. I fondi risparmiati saranno utilizzati per ricostruire la scuola. Hussein: “Per la prima volta sento di fare qualcosa di giusto”. Hussein ha 40 anni. È originario del Pakistan e vive a Bologna. Tra 3 anni finirà di scontare la sua pena alla Dozza e potrà uscire, tornare dalla sua famiglia e magari fare il cuoco, un mestiere che ha imparato in carcere. Da due giorni, intanto, Hussein, esce tutte le mattine e con Hamdi e Abdelmajid, parte alla volta di Finale Emilia, uno dei paesi del modenese più colpiti dal terremoto dello scorso maggio, per raccogliere le pere dell’azienda agricola dell’Istituto agrario Ignazio Calvi. I tre si sono uniti al gruppo di 24 volontari del Cefa, una ong che si occupa di progetti agricoli nel Sud del mondo e che ha scelto di aiutare la ricostruzione, sostenendo la scuola di agraria di Finale Emilia. Grazie al lavoro dei volontari, potranno essere risparmiati i fondi utilizzati per il lavoro di raccolta della frutta che saranno invece destinati all’acquisto delle attrezzature danneggiate. L’idea di far partecipare al campo anche dei detenuti è di Giacomo Sarti del Cefal, ente di formazione che lavora dentro alla Dozza. “Sono persone che si stanno ricostruendo e hanno scelto di aiutare a ricostruire un tessuto, un territorio, una scuola - dice Sarti. Non è facile per una persona privata della libertà personale dedicare la propria libertà per aiutare qualcun altro, credo che sia un gesto importante e di esempio”. Il campo di volontariato andrà avanti fino alla prima settimana di settembre, mentre Hussein, Hamdi e Abdelmajid ci saranno fino alla fine di agosto. “Quando esci per i permessi premio, per 1 o 2 giorni, c’è sempre il rischio di fare di nuovo le scelte sbagliate - dice Hussein. Con questo lavoro, invece, è diverso: per la prima volta nei miei 40 anni sento di fare qualcosa di giusto”. Hamdi e Abdelmajid sono originari del Marocco. Hamdi è in Italia da quando aveva 2 anni e tutta la sua famiglia è qui. È alla Dozza da un anno, deve scontare ancora un anno e mezzo e sta seguendo un corso di giardinaggio con il Cefal. Abdelmajid invece si è già fatto 2 anni e uscirà tra 7 mesi. In carcere lavora come aiuto cuoco di Hussein che, invece, fa lo “chef” grazie a un corso del Cefal. Hussein era già uscito un paio di volte con il progetto del teatro. Come racconta Giacomo Sarti “hanno accettato volontariamente di partecipare a questo progetto di solidarietà“ ma sono stati scelti tra quelli che più facilmente potevano uscire e non erano alla prima esperienza di lavoro esterno. Tutti e tre si dicono felici di poter aiutare i terremotati e di poter aiutare se stessi. “L’aria fresca e pura ci mancava” dice Hussein. “È un’esperienza bellissima” gli fa eco Hamdi. Mentre Abdelmajid dice di aver già chiesto “di poter continuare” e non finire il 31 agosto. Hussein, Hamdi e Abdelmajid sono stati accolti nel gruppo di 24 volontari del Cefa. Tra di loro ci sono persone provenienti da tutta Italia. C’è chi come Ermilio che viene da Udine e sa bene cosa significa essere terremotati e doversi rimboccare le maniche per ripartire ed è lì fin dal primo giorno di raccolta. Poi c’è Cristina che ha 20 anni, viene da Medicina (Bologna) e ha deciso di partecipare per dare una mano ai “suoi vicini di casa” e vive come una “gioia” la presenza di ragazzi provenienti dal carcere perché, dice, “l’importante è conoscersi e condividere le proprie esperienze”. Sonia invece lavora per l’azienda agricola da 10 anni ed è contenta del progetto del Cefa perché “da soli non ce l’avremmo mai fatta”. Come precisa Sonia, “i volontari hanno una motivazione in più rispetto al ragazzino che viene a raccogliere le pere perché viene pagato”. Oltre al lavoro, pesante e sotto il sole, non sono mancati momenti di convivialità. “L’esperienza è positiva, anche dal punto di vista umano”, commenta Michele del Cefa. L’Istituto Ignazio Calvi di Finale Emilia comprende la sezione di agraria (attiva da 50 anni) e, da 10 anni, anche la scuola per geometri. In tutto vi studiano 640 ragazzi. Il terremoto dello scorso maggio ha seriamente danneggiato la struttura all’interno e ci vorrà circa un anno per poterla rendere nuovamente agibile. Il progetto del Cefa è stato accolto con entusiasmo perché, come racconta la dirigente scolastica Annalisa Maini, “ci permette di risparmiare circa 15 mila euro che l’istituto sosteneva per la raccolta della frutta e di utilizzarli per ripartire”. L’azienda agricola dell’istituto ha 5 ettari di pereto con pere di 4 qualità diverse che, negli anni scorsi, erano raccolte da stagionali e dagli studenti della scuola. A settembre le lezioni riprenderanno, anche se dentro i moduli prefabbricati forniti dalla Regione. “Speriamo di riuscire a partire in tempo per l’inizio dell’anno scolastico il 17 settembre”, conclude la preside. Bologna: la torrida estate al carcere della Dozza, tre in cella con quaranta gradi di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 28 agosto 2012 Viaggio nell’istituto penitenziario di Bologna, dove il caldo è insopportabile e si fronteggia con borse termiche e ghiaccio sintetico. Una situazione difficile, anche se qualche detenuto ha fiducia nel ministro della Giustizia Severino: “Se manterrà gli impegni, migliorerà il sistema”. Sezione 2 C, reparto giudiziario, cella 21. Sono in tre - un bolognese, un cinese e un calabrese - a dividersi l’aria e lo spazio, dieci metri quadrati ingombrati da un letto a castello e da uno singolo, un tavolo, tre sgabelli, vettovaglie e santini, scarpe, vestiti. Per 17 - 18 ore al giorno non c’è altro, se non televisione, parole crociate e partite a carte, nelle vite compresse di questi “uomini dentro”. L’umidità fa sudare anche da fermi. La temperatura interna, alla Dozza, sfiora quella esterna, giorni fa arrivata quasi a 40 gradi. Nel corridoio più fresco non ci si schioda da 32 gradi. Non ci sono condizionatori, se non negli uffici. I pochi ventilatori stanno nei posti di guardia. Nel campo da calcio del “penale” e nei passeggi di cemento per le ore d’aria - per gli uomini ferme a quattro e mezzo, come in inverno, nonostante le diverse indicazioni date da Roma - non c’è una pianta, una tettoia. Anche l’acqua fresca può diventare un problema. Gratis c’è solo quella del rubinetto del bagno. Quella in bottiglia il carcere non la passa. Bisogna comprarla al sopravvitto, il supermercato interno gestito da una ditta privata che non dovrebbe speculare sui prezzi. A disposizione c’è appena una marca, diversamente da come indica una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un litro e mezzo costa 0,39 euro. Sembra poco. Fa la differenza per chi non ha nulla, ricordano i detenuti, per chi all’interno non lavora e non guadagna o perché dai parenti non arrivano vaglia. “L’acqua la paghiamo tutta noi - garantiscono i compagni di cella del ragazzo cinese - e così succede coi generi alimentari extra. Dove si beve e si mangia in due, si beve e si mangia in tre”. Chi ha soldi, per conservare le scorte acquista borse termiche da picnic e ghiaccio sintetico. Qualcuno riesce a usare congelatori e frigoriferi di reparto regalati dai volontari. I tre della cella 21 ripiegano su secchi riempiti d’acqua, presa in quantità, con il rischio di abbassare la pressione e bloccare il flusso in altri reparti. Non va meglio con la carta igienica. Grazie a mani generose, è stata messa da parte una riserva. Ma ai detenuti, sono sempre loro a raccontarlo, viene passato un numero contingentato di rotoli. Quando finiscono, la devono comprare. Una confezione da quattro pezzi griffati - il prodotto generico non è disponibile - è in vendita a 1,56 euro. Piccoli grandi problemi di tutti i giorni. Questioni quotidiane che fuori sono inezie e dentro cambiano la qualità della vita. Inferno, disumanità e spersonalizzazione sono termini negati e respinti da chi lavora duro per mandare avanti la struttura, propenso a evidenziare sforzi, iniziative, progetti, attività. Poi circolano le descrizioni del penitenziario norvegese in cui sarà rinchiuso lo stragista di Oslo. E le parole muoiono in bocca. “Nel momento di maggior sovraffollamento eravamo arrivati a quota 1.201. Con i trasferimenti pianificati dopo il terremoto e dopo la visita del ministro Paola Severino - prova a ragionare in positivo il comandante della polizia penitenziaria, Roberto Di Caterino - siamo scesi e di parecchio, con effetti positivi su tutti i servizi”. La capienza regolamentare, svuotato e chiuso un reparto per le perdite dalle tubature, è di 483 posti. La capienza “tollerabile” li fa miracolosamente salire, con un aggettivo, a 882. La conta di mezzanotte certifica la presenza di 821 uomini, un vecchio di 79 anni dentro per omicidio, 53 donne, una ragazza straniera incinta, zero bambini. Non tira aria di amnistia. Ma c’è fiducia nel ministro Severino e nelle scelte annunciate, nella linea della decarcerizzazione. “Se manterrà gli impegni - dice Vito, 38 anni - la situazione non potrà che alleggerirsi, per i singoli, il personale, il sistema”. Lui, fine pena nel 2015, è in attesa di risposte alla richiesta di affidamento in prova ai servizi sociali. Vuole fare il pescivendolo, ha trovato chi gli darebbe impiego e stipendio. Forse anche per questo, appeso alle altrui decisioni, non esce dalle righe. Nessuna critica, nulla da chiedere. Sono invece lodi per il reparto modello in cui si trova, “Pegaso”, sezione B, primo piano. Le porte blindate delle celle sono aperte dalle 9 alle 11.30 e dalle 16 alle 18 per consentire ai detenuti di camminare nei corridoi, usare la saletta della socialità, non essere obbligati a stare in 10 metri quadrati. “Sono un privilegiato - ripete Vito - perché siamo “solo” in due e abbiamo la doccia, usabile quando vogliamo”. In altri raggi, nonostante il Dipartimento suggerisca di aumentare il numero, è ammessa solo una doccia al giorno, nel bagno comune. “Per stare meglio - dice Gabriella, 46 anni e tre mesi da scontare - basterebbe dello spazio in più. Da me hanno tolto il terzo letto, si respira nonostante il caldo”. Lei avrebbe già potuto essere altrove, se avesse chiesto una misura alternativa. Invece è rimasta alla Dozza, per amore. “Anche il mio compagno è detenuto qui. Lo aspetto, da dentro. Abbiamo commesso errori insieme, stiamo facendo un percorso parallelo, con comuni progetti per il futuro”. Taranto: con Rita Bernardini, in visita alla Casa circondariale di Maurizio Bolognetti Notizie Radicali, 28 agosto 2012 Lunedì 20 agosto è un’altra giornata da bollino rosso per la morsa di caldo che attanaglia la penisola. Inevitabile pensare al fatto che con Rita Bernardini stiamo per recarci in visita alla Casa circondariale di Taranto. Una breve ricerca in rete e lo spaccato che ne emerge è quello di una struttura sull’orlo del collasso dove vivono ammassati circa 600 detenuti. La Casa circondariale di Taranto è una delle famigerate e tristemente note “Carceri d’Oro”. Il motore di ricerca vomita titoli preoccupanti. Il 26 giugno sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno si riferisce di un “blackout elettrico” che ha determinato proteste e tensioni. Leggiamo l’articolo e il quadro appare apocalittico: il giornalista scrive di difficoltà nell’erogazione di acqua che perdurano da tempo e del fatto che il blackout ha portato il carcere sull’orlo della rivolta. Sul sito meteoweb.eu, in data 19 giugno, si riferisce di risse tra detenuti esplose nei cortili a causa del gran caldo e della mancanza d’acqua. Nello stesso articolo vengono riportate le dichiarazioni del vicesegretario nazionale dell’Osapp, Domenico Mastrulli, che afferma: “In questi giorni di gran caldo e a causa della mancanza di acqua, per i servizi igienici viene utilizzata acqua minerale, acquistata nel bar dell’istituto di pena da poliziotti penitenziari e detenuti”. Un anno prima, il 20 agosto 2011, sul sito www.20centesimi.it leggiamo di un carcere pronto a scoppiare e di una condizione “che non offre scampo, sia a chi ha commesso un reato e lì dovrebbe rieducarsi, sia a chi ha scelto il carcere come lavoro e missione”. Insomma, a giudicare da quanto riferiscono le cronache, da un anno all’altro la situazione del carcere “Carmelo Magli” di Taranto permane una situazione critica dove la detenzione assurge indubitabilmente a tortura. Arriviamo a Taranto intorno alle 11.45. Il tempo di scambiare qualche parola con la stampa presente e alle 12.30 entriamo nella struttura. A piedi percorriamo il tragitto che porta all’ingresso dell’Istituto e che poche ore prima avevano percorso i familiari di alcuni detenuti. Il sole batte a picco e non c’è possibilità di riparo, quasi che la strada fatta di asfalto rovente e vista su mura rapidamente deterioratesi debba preparaci a quello che di lì a poco troveremo all’interno. Ad accoglierci all’ingresso il comandante e un agente che tiene a raccontarci di aver trattato nel suo esame scritto la questione delle visite ispettive, citando come esempio proprio l’operato dei Radicali. La direttrice del carcere, la dottoressa Stefania Baldassari, ci raggiunge subito dopo e sottolinea immediatamente: “Noi siamo destinatari del piano carceri”. Rita inizia a raccogliere dati e a fare domande. Ci dicono che la struttura è nata nel 1986 e che la capienza regolamentare è di 237 detenuti (in realtà sul sito del Commissario delegato per il piano carceri si parla di 200 posti). Attualmente l’istituto ne ospita 594, ma - sottolineano - si è arrivati ad ospitare anche 700 persone. La pianta organica, come al solito, risulta sottodimensionata: 317 agenti anziché 357. Tra quelli in servizio 53 fanno parte del cosiddetto nucleo traduzioni. I detenuti usciti grazie al decreto Alfano sono circa 200, una sorta di record. Mentre Rita parla con la direttrice uno degli agenti ci racconta che qualche tempo fa è crollato un cornicione e che solo per un caso non ci sono state vittime. La dott.ssa Baldassari sottolinea il buon funzionamento della magistratura di sorveglianza, dicendo “è il nostro fiore all’occhiello”. A ferragosto sono stati concessi 80 permessi e la direttrice ci dice che in passato, fatta eccezione per un paio di casi, i detenuti sono sempre rientrati. Insomma, c’è un giudice a Taranto, il Gip Todisco che ha deciso di tutelare la salute di una popolazione da tempo bombardata da un cocktail di veleni, ma c’è anche un magistrato e una magistratura di sorveglianza guidata dal dott. Massimo Brandimarte che svolge un lavoro che asseconda quanto previsto dalla legge di riforma penitenziaria n. 354 del 26 luglio 1975. La magistratura di sorveglianza come leggiamo sul sito della Corte d’Appello di Milano “ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena nel rispetto dei diritti dei detenuti e degli internati, interviene in materia di applicazione di misure alternative alla detenzione, di esecuzione di sanzioni sostitutive, di applicazione ed esecuzione di misure di sicurezza”. L’azione di vigilanza e la dovuta attenzione nei confronti della popolazione detenuta a Taranto viene onorata e con essa la legge, diversamente da quanto avviene nella quasi totalità dei casi. Il comandante fa eco alle parole della direttrice dicendo che quei magistrati sono disponibili 24 ore su 24 e che è grazie alla loro attenzione che è stato possibile garantire a un detenuto di morire nel suo letto e non nelle quattro mura del carcere. L’area educativa, manco a dirlo, viene definita in sofferenza a causa del sovraffollamento. Carenze si registrano anche sul fronte dell’assistenza psicologica. Quando si arriva al parco automezzi un autentico pianto anche a causa del blocco manutenzioni. A un certo punto il comandante sbotta e ci illustra un provvedimento di “spending review”. La proposta sembra di quelle che nascono dal buon senso di chi da anni osserva sul campo il funzionamento, a volte cervellotico, della macchina amministrativa. Il comandante dice che non ha senso prevedere che i detenuti vengano accompagnati ai domiciliari da una scorta, a volte con viaggi anche di centinaia di chilometri. A ben pensarci ha ragione da vendere: se il detenuto decidesse di evadere, potrebbe farlo una volta arrivato a destinazione. E allora, perché impegnare uomini e mezzi solo per scortarlo al domicilio se “non esiste un’esigenza di sicurezza”? Bella domanda che toccherà girare a chi in questi mesi cerca di far quadrare i disastrati conti pubblici. La direttrice ascolta e poi aggiunge che spesso le scorte sono sottodimensionate e che lei non ha nemmeno la possibilità di rimborsare un buono pasto. Si passa a parlare delle ore trascorse in cella e il dato è sconfortante: 20 ore per chi non fa attività (corsi/scuola). Ci riferiscono che nell’istituto sono attive due associazioni di volontariato, una di queste “Noi e Voi” è gestita dal cappellano del carcere, che ha messo a disposizione una casa famiglia per consentire anche ai detenuti - spesso stranieri - che non hanno un domicilio di poter usufruire dei benefici. Ma se parlando dell’associazionismo emerge il volto positivo di questo Paese, quando arriviamo al rapporto con le istituzioni è un disastro e ci sottolineano l’assoluta mancanza di collaborazione da parte di Provincia e Comune. I detenuti che riescono a lavorare sono 85, più 4 art. 21. Il guadagno medio è di 600/700 euro. La direttrice riferisce che il budget per la manutenzione ordinaria è “assolutamente insufficiente”. Ci guardiamo intorno e non abbiamo difficoltà a crederle. La chiacchierata termina e inizia la visita alla struttura. Prima tappa il terzo piano della caserma agenti chiuso per inagibilità. Se non ci trovassimo a Taranto nel 2012 si potrebbe avere l’impressione di essere capitati in zona di guerra. Scendiamo da questo angolo di Beirut, rappresentativo della realtà tarantina e più in generale delle nostre patrie galere, e ci dirigiamo presso la “pescheria”, che altro non è se non una squallida sala colloqui con il solito muretto divisorio. Intanto, ci riferiscono che il 40% dei detenuti ha problemi di tossicodipendenza e che sono una trentina quelli in terapia metadonica. A quanto pare sul fronte delle tossicodipendenze il carcere di Taranto è stato oggetto di una interessante ricerca condotta da una sociologa. Sono circa le 14.00 e arrivati in prossimità della Sezione A il comandante racconta di un detenuto rumeno suicidatosi con l’elastico degli slip. La brutta storia è stata oggetto di una interrogazione a risposta in Commissione presentata proprio da Rita Bernardini il 16 luglio (atto n. 5/07433). Conoscendo la caparbietà di Rita è certo che la risposta ministeriale non tarderà ad arrivare. Iniziamo a percorrere il corridoio della sezione A, ubicata al primo piano, e la prima cosa che notiamo è che le celle, che arrivano ad ospitare anche 4 detenuti, non superano i 9,6 metri quadrati. Nella cella 23, C.L. ama leggere e ci mostra con orgoglio le sue letture, poi propone una “commissione” che consenta un confronto tra agenti e detenuti sulle cose che all’interno della struttura non funzionano. C.L. è simpatico e la sua idea di carcere deve scontrarsi con il disinteresse di chi il carcere ha voluto eleggerlo a discarica sociale e a luogo dove viene negata la Costituzione e le convenzioni internazionali sui diritti umani. Cella 22: incontriamo un detenuto con problemi psichiatrici. Balbetta e ci racconta che era ospite della comunità terapeutica “Il Delfino”. Tra un mese dovrebbe tornare in comunità ed è stato rimandato in carcere per scontare un residuo di pena di 20 giorni. Inevitabilmente, parlando con i detenuti viene fuori la questione della carenza d’acqua e ci raccontano che nonostante il caldo la doccia è consentita a giorni alterni. La direttrice fa presente che l’amministrazione penitenziaria ha un debito con acquedotto pugliese, quello che a detta di Salvemini avrebbe dato più da mangiare che da bere. Intanto girando per la struttura osserviamo le zone transennate e chiuse perché pericolanti. La visita prosegue e ci dirigiamo presso quello che un tempo era un campo sportivo. Oggi il campo, decisamente messo male, è stato destinato a zona passeggio. Entriamo e immediatamente i detenuti presenti iniziano a chiedere dell’amnistia. Come a Potenza si discute, e osservare Rita mentre spiega e risponde alle domande per un attimo mi fa dimenticare dove mi trovo. Con la direttrice parliamo della lettera del Si.Di.Pe e passati nell’altra ala del fu campo sportivo, come al solito e per fortuna, c’è chi ha voglia di scherzare. Un detenuto, nell’indicarci le condizioni del campo, ci dice che quando piove si trasforma in palude e che mancano solo i coccodrilli. La visita volge al termine e ci dirigiamo presso la sezione femminile, assurta agli onori della cronaca perché ospita le protagoniste del “Caso Scazzi”. Una volta di più viene da pensare alle migliaia di ore dedicate dai media a un caso di cronaca nera e all’assenza di dibattito e informazione sulla questione giustizia-carceri e alle morti di detenuti e agenti che non fanno notizia. La direttrice mentre ci dirigiamo presso la sezione femminile sussurra: “è il carcere che vorrei”. Entriamo e una giovane detenuta scoppia in lacrime, un pianto inarrestabile. Emerge che la ragazza da quasi due mesi non vede il suo cosiddetto difensore d’ufficio. La visita è finita e a me viene da pensare che capisco l’entusiasmo della dott.ssa Baldassari per la sezione femminile, ma penso che quell’entusiasmo nasca dallo sconforto di chi ogni giorno deve confrontarsi con i problemi di una struttura totalmente illegale. Usciamo. Fuori fa ancora caldo, ma nonostante il clima inizio a respirare. Penso a Taranto alle sua storia millenaria, ai veleni e alle bugie, al “carcere d’oro” che ormai ho alle spalle, alle raffinerei Eni, all’Ilva e alla Cementir, alle carni alla diossina e alle cozze con il Pcb e ripeto una volta di più quello che afferma Marco Pannella: “La strage di legalità ha sempre per corollario, nella storia, la strage di popoli”. Trapani: delegazione dei Radicali esegue ispezione al carcere di Castelvetrano La Sicilia, 28 agosto 2012 Visita ispettiva nelle carceri della provincia, sabato, da parte di una delegazione Radicale guidata dall’onorevole Rita Bernardini e composta da Gianmarco Ciccarelli e Donatella Corleo, per la consueta verifica dello stato di detenzione e delle condizioni lavorative dell’intera popolazione penitenziaria, alla luce dell’emergenza sollevata nell’ambito della battaglia portata avanti dai “seguaci” di Marco Pannella. La visita al carcere di Castelvetrano è durata 5 ore. I detenuti presenti sono 97 (di cui 66 in regime di media sicurezza e 31 in sezione protetta) ma la capienza regolamentare è di 38. Ospita 22 tossicodipendenti e 19 stranieri e l’alfabetizzazione concessa è solo quella elementare. Le celle, di 8 metri quadrati, sono pensate per ospitare un detenuto, ma all’interno ve ne sono sempre 2 o 3. Gli agenti di polizia penitenziaria sono 67, ma in servizio di effettivi ce ne sono 55. Ci sono solo docce esterne alle celle e le porte permettono una circolazione ridotta di aria. Il problema maggiore riguarda la carenza di mezzi in forza al personale ma si registrano anche problemi di vestiario e divise, non rinnovati da anni. “Con i miei colleghi - ha detto Rita Bernardini - abbiamo visitato tutte le carceri della Sicilia. Ci mancavano Sciacca, Castelvetrano e Marsala. Per concludere e torneremo al Pagliarelli, a Palermo, dove siamo stati nel 2008. Il problema che denunciamo riguarda tutte le carceri italiane, luoghi di illegalità sia per i detenuti che per il personale che ci lavora: direttore, educatori e agenti, perché a monte non ci sono le leggi affinché venga rispettata la Costituzione e i contratti di chi vi lavora non sono a norma. Il nostro ordinamento penitenziario stabilisce norme che non vengono rispettate in nessuna parte d’Italia, per questo le carceri sono l’ultimo anello di una giustizia che non funziona, con 5 milioni di procedimenti penali pendenti e altrettanti civili. L’Italia è condannata da 30 anni in sede europea per la durata irragionevole dei processi e il comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha chiesto al Governo di fare una calendarizzazione dei provvedimenti che intende prendere sia per questo aspetto che per i trattamenti disumani all’interno delle carceri”. I Radicali propongono l’amnistia e l’indulto per “liberare” la giustizia, per una riforma strutturale che passi, tra le altre, dalla legge Fini-Giovanardi sulle droghe e quella Bossi-Fini sugli immigrati. La delegazione si è poi spostata al carcere di Marsala dove si è trattenuta per due ore e mezza. Voghera (Pv): i detenuti diventano giardinieri, proposta di intesa tra il Comune e il carcere di Nicoletta Pisanu Il Giorno, 28 agosto 2012 Discussa martedì mattina in giunta a Voghera la proposta di un’intesa tra il Comune e il carcere, per dare un’opportunità di lavoro ai detenuti. Fuori dalle celle, per dare una mano alla città pulendo le aree verdi. Viene discussa stamattina in giunta a Voghera la proposta di un protocollo d’intesa tra il Comune e il carcere, per dare un’opportunità di lavoro all’aria aperta ai detenuti. L’idea è quella di impiegare i carcerati per la pulizia e la manutenzione delle aree verdi usate dal Comune per eventi e manifestazioni, in diverse occasioni. Si occuperà della remunerazione e dell’assicurazione una cooperativa sociale (classificata di tipo B, che ha quindi lo scopo di inserire nel mondo del lavoro i detenuti), la quale verrà scelta dal Comune per l’affidamento dei servizi. Spetterà invece alla casa circondariale individuare, tra i tanti reclusi, quelli che hanno le caratteristiche per lavorare al di fuori delle mura del carcere in sicurezza. Durante l’anno sono state organizzate diverse iniziative di questo tipo. A maggio, ad esempio, quattro detenuti sono stati accompagnati dagli agenti di polizia penitenziaria lungo il greto del torrente Staffora, intorno a via Corridoni, dove si sono adoperati per ripulire la zona dalle erbacce e dai detriti. I lavoratori si erano poi detti molto soddisfatti dell’esperienza. Durante la giornata erano stati visitati dalla direttrice del carcere, Maria Gabriella Lusi, e dal presidente del consiglio comunale Nicola Affronti. Invece, in occasione della Sensia, la storica fiera di Voghera che viene organizzata ogni anno, era stata inaugurata la mostra “Libera Pittura”, un’esposizione di quadri dipinti da un gruppo di 19 detenuti. E durante tutto l’anno, i reclusi si sono occupati della pulizia dei reperti storici del museo cittadino. Sono idee che, insieme agli eventi musicali e artistici organizzati proprio dentro alla casa circondariale, come i concerti, il cineforum e gli spettacoli, possono essere utili oltre che per migliorare le condizioni dei detenuti, anche per allentare la tensione causata dai problemi che in Italia assillano molte carceri, tra cui quello vogherese. Tra le altre difficoltà, il sovraffollamento dei detenuti e la carenza di personale tra gli agenti, situazione denunciata più volte dai sindacati di categoria e che a Voghera l’estate scorsa aveva portato un gruppo di reclusi a protestare, colpendo rumorosamente le sbarre delle celle con le stoviglie per giorni interi. Ma anche, tra i problemi più drammatici, i tentativi di suicidio e i gesti dimostrativi, che da gennaio 2012 nell’istituto vogherese purtroppo non sono mancati. Treviso: il carcere apre le porte alla cittadinanza di Samanta Di Persio wordpress.com, 28 agosto 2012 Il 24 agosto ho pubblicato il messaggio che mi è stato inviato sulla situazione della casa circondariale di Treviso, mi è stata segnalata un’accusa al direttore perché ostacolava la presenza dei volontari. Quest’ultimo mi ha scritto dicendomi che è stato fatto un primo ciclo di incontri aperti alla cittadinanza per promuovere l’attività di volontariato. Ben vengano queste iniziative perché è proprio di questo che c’è bisogno per migliorare la detenzione, soprattutto quando c’è una condizione difficile come a Treviso dove l’ultimo rapporto di Antigone, contava 258 presenze (ci sono stati anche picchi di 320), a fronte di una capienza di 128 detenuti e se la situazione non è cambiata: la sezione per i semiliberi è un unico stanzone male illuminato, male aerato e sovraffollato, disagevole a dire degli stesi operatori dove c’è carenza di personale: mancano 64 agenti - assistenti, 5 ispettori, 4 vice - sovrintendenti; mancano gli infermieri. Questa è una condizione che non agevola il lavoro degli operatori, tanto meno la permanenza dei reclusi, infatti ci sono stati tentati suicidi e forme di protesta violente in passato, nel dicembre del 2009 c’è stata una vera e propria rivolta. Sempre in base a quanto riportato da Antigone ci sono circa venti volontari e la loro attività si esplica con forme di assistenza individuale, attraverso lo svolgimento di colloqui, quanto con attività collettive, attraverso l’attivazione di gruppi di intrattenimento o di hobbistica (cineforum, educazione fisica, pittura, giardinaggio, cucina, musica, coro, ecc.). Solo un quarto dei reclusi può lavorare all’interno delle mura quindi credo che anche su quest’aspetto si possa tentare di incidere di più. Certo, a fronte dei tagli che vengono fatti all’Amministrazione Penitenziaria le cose non possono cambiare dall’oggi al domani, però si può sempre tentare di migliorare e le critiche, che non volevano essere diffamatorie, devono servire da stimolo. Spero che l’iniziativa di apertura al carcere sia la prima di una lunga serie e possa davvero tendere ad umanizzare l’ambiente per chi lavora, per i volontari, ma anche per chi deve pagare un debito con la giustizia. Sanremo: il direttore; rissa tra detenuti… per ottenere il trasferimento in un altro carcere Ansa, 28 agosto 2012 “Non è stata una rissa tra decine di persone, si sono affrontati 5-6 detenuti, tra i quali un solo italiano, un genovese e non escludo che ciò sia avvenuto appositamente per cercare di essere allontanati da Sanremo”. Francesco Frontirré, il direttore del carcere, ha commentato la notizia diffusa dalla Uilpa che parlava di una rissa tra 40 detenuti. Il direttore riferisce che proprio il detenuto genovese aveva fatto domanda di trasferimento al carcere di Marassi. Il bilancio è di due feriti lievi: un agente della polizia penitenziaria e un detenuto. Anche il segretario del Sappe, Roberto Martinelli, parla di rissa tra sette detenuti e di un agente ferito alla testa e aggiunge “Cosa altro dovrà accadere a Sanremo, dove mancano 90 tra agenti, sovrintendenti e ispettori e dove il sovraffollamento è pesante, perché ci si decida a intervenire? Uil-Pa: rissa tra detenuti, ferito un agente “Questa mattina, intorno alle 9.30 - riferisce il segretario regionale della Uil Pa Penitenziari Liguria, Fabio Pagani - durante l’ora d’aria con accesso al campo sportivo, è scoppiata una rissa tra una quarantina di detenuti di nazionalità italiana e magrebina. Nella concitazione del momento, ad avere la peggio anche l’agente addetto alla sorveglianza, raggiunto da alcuni colpi che gli sono stati inferti con un piede di un tavolino”. L’agente, prosegue Pagani, “è in Pronto Soccorso per ricevere le cure del caso. Al collega esprimiamo la più viva solidarietà e la nostra sincera vicinanza”. “Il carcere di Sanremo rischia di collassare da un momento all’altro - denuncia la Uil-Pa Penitenziari - oggi ha raggiunto una quota di 337 presenze detentive rispetto a una capienza regolamentare di 209. Quindi con una percentuale di sovraffollamento che supera il 53%”. “Purtroppo - fa notare Pagani - ad aumentare le difficoltà interviene la scopertura dell’organico dei baschi azzurri di circa 80 unità. Questo determina per il personale la mancata fruizione dei diritti elementari quali congedi e riposi oltreché determinare carichi di lavoro insostenibili e turni di servizio massacranti”. “Più volte - sottolinea il segretario regionale della Uil Pa Penitenziari - abbiamo chiesto al provveditore e al direttore di calendarizzare incontri con le organizzazioni sindacali per verificare un percorso condiviso di soluzioni possibili”. “Purtroppo - fa notare Pagani - la nota idiosincrasia dell’amministrazione regionale al confronto sindacale finisce per aggravare le condizioni di lavoro del personale con gli effetti di cui siamo costretti a raccontare”. “Evidentemente - conclude - gli impegni del Capo del Dap a sollecitare il provveditorato della Liguria a maggiori e migliori rapporti con il sindacato sono caduti nel vuoto. Sempre che quelle sollecitazioni siano state effettivamente poste in essere”. Torino: Osapp; nuova notte di tensioni all’Istituto penale per minorenni Ferrante Aporti Asca, 28 agosto 2012 “Riguardo alle disastrose condizioni dell’istituto penale per minorenni Ferrante Aporti di Torino, invano la settimana scorsa avevamo invocato la sensibilità dei vertici romani della giustizia minorile a partire dalla neo - capo dipartimento Caterina Chinnici, ma nessuno si è fatto vedere o sentire e ieri tra le ore 1,30 e le ore 4,00 la struttura è stata teatro di una nuova notte di passione” a darne notizia è l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) in una nota a firma del segretario generale Leo Beneduci. “Dopo i gravi fatti della scorsa settimana e forse proprio in ragione di tale esempio non adeguatamente perseguito - prosegue il sindacato - questa volta due detenuti extracomunitari, di cui 1 maggiorenne, allocati nella struttura, hanno devastato completante la propria cella arrivando persino a distruggere i neon del soffitto e a fare a pezzi i sanitari nel bagno per poi lanciarli contro il personale di polizia penitenziaria che stava intervenendo”. “Per rendersi conto di quello che è accaduto e di quale clima contraddistingue il ‘Ferrante Aportì - indica ancora il leader dell’Osapp - basti pensare che, nella circostanza, oltre agli agenti liberi dal servizio e richiamati dalle proprie abitazioni, sono dovuti intervenire il 118, la guardia medica e il Sup (Servizio Urgente Psichiatrico) mentre, assenti Vice Direttore e Comandante, le operazioni venivano coordinate da un appartenente al ruolo degli ispettori”. “Abbiamo già parlato di una situazione pessima in tutti gli istituti di pena per minori sull’intero territorio nazionale, mente per l’istituto di Torino le celle completamente inagibili in pochi giorni e il cui ripristino sarà posto a carico della collettività, sono diventate 3 - conclude Beneduci - ci auguriamo che i danni e i gravi rischi per il personale non debbano aumentare ulteriormente prima di un concreto e risolutivo intervento della Guardasigilli Severino e della Capo Dipartimento Caterina Chinnici”. Bergamo: viaggio a Sarnico, il paese che ha cacciato Vallanzasca di Lidia Baratta e Dario Ronzoni www.linkiesta.it, 28 agosto 2012 Il famoso ex bandito Vallanzasca, arrivato a Sarnico come commesso in un programma di lavoro per carcerati, si è trovato subito al centro dell’attenzione. Curiosi e giornalisti lo seguivano tutto il giorno. In paese la sua presenza non era gradita. Persino il ministro Paola Severino era intervenuto sul caso. Una serie di pressioni ha così spinto la proprietaria del negozio di abbigliamento ad arrendersi e licenziarlo. Renato Vallanzasca se ne va, espulso da una provincia dove, 40 anni prima, aveva ucciso due uomini. È tornata la pace, a Sarnico. L’invasione di giornalisti è finita, e così la processione dei curiosi. Ora il paese di seimila anime (ma ben ventimila in estate, dicono) può tornare all’oziosa quiete della vita di lago - il lago d’Iseo, tra Bergamo e Brescia - degli ultimi giorni d’agosto (che la vedono svuotarsi di turisti e abitanti di seconde case). Il tran tran dell’estate è stato ristabilito, ma per farlo è stato necessario allontanare lo scomodo ospite: Renato Vallanzasca. Era finito laggiù perché seguiva un programma (segreto e anonimo) di reinserimento al lavoro. Il suo impiego era in un negozio di abbigliamento, il Lord, nel centro del paese, dove imparava a fare il commesso. E, a quanto dicono, era anche bravo. Però, a Sarnico, non poteva restare. “Una questione di incompatibilità ambientale”, spiega a Linkiesta il sindaco Franco Dometti. Due parole che ha ripetuto fin dall’inizio, da quando è scoppiato il caso. “Vallanzasca si è reso responsabile di fatti di sangue, gravissimi, nella provincia di Bergamo, a Dalmine. E la moglie di uno dei poliziotti uccisi abita a pochi chilometri da qui”, spiega. Una cosa che a molti, in paese, è apparsa insopportabile. Eppure lavorava bene, dicono i suoi due colleghi al negozio. “Lui ha un grande carisma, è intelligentissimo, sapeva coinvolgere tutti, e vendeva molto. Sia ai grandi che ai piccoli”, spiega Alex, uno dei due (intanto, la proprietaria, Fiore Testa, annuisce). Aveva scelto quel mestiere, quando è stato inserito nel programma di lavoro per detenuti, perché gli era familiare, visto che “sua madre aveva un negozio di abbigliamento, a Milano, in via Porpora”. Parlare di lui significa, per i commessi, fare il ritratto di una persona “del tutto normale”, tranquilla, pacifica. Feroce criminale? No. Almeno, non più. “Sapesse le risate”, racconta Claudio, “il più bravo commesso del mondo”, se si vuol credere a quanto dicono le clienti. “Era anche molto serio”, aggiunge. “Del resto, sono passati 40 anni, la gente cambia, le persone cambiano”. Le colpe restano, però: Vallanzasca è detenuto a vita, per gli omicidi e le rapine. E insieme alle colpe, ci sono i ricordi. Vallanzasca invecchia, ma per tutti resta sempre Vallanzasca. E così, lavorava sette ore al giorno. Dal carcere di Bollate a Sarnico doveva seguire un percorso stabilito, che faceva in pullman. “Quando si faceva tardi e doveva tornare a Milano, si metteva a correre. Sembrava un bambino”, dicono entrambi. E se gli si chiede se avesse parlato degli anni “da bandito”, la risposta è unanime: mai. “Faccio un esempio. Una volta ho fatto una battuta. Qui vicino c’è una banca e ho detto: “andiamo a rapinarla”. Bè, non l’ha presa gran bene”, scherza Alex. Però, normale o meno, era pur sempre Vallanzasca. E da quando è girata la voce (ed è finita sui giornali), una folla di curiosi e giornalisti si è assiepata davanti al negozio. “Un disastro”. Si rompe la tranquillità: tutti i giorni, Vallanzasca era circondato, inseguito, osservato. “Doveva perfino nascondersi”. Il negozio ha tolto l’insegna per evitare di essere riconosciuto da chi veniva da fuori. Il caso è arrivato a coinvolgere anche il ministero. Maria Fiore Testa, la proprietaria del negozio, non ha resistito e ha deciso di mollare. Inviando un fax di licenziamento al carcere di Bollate (“giusto due righe, senza motivazione”). Non ne poteva più di giornalisti, curiosi, poliziotti in borghese e in divisa intorno alle vetrine. E gli affari hanno cominciato ad andare male. “Prima che venisse Vallanzasca, l’incasso era di circa mille euro al giorno. Ora sono cento, se va bene”. I fornitori e i clienti non hanno gradito la mossa. “Camicie da 69 euro adesso devono essere vendute a 29”, dice, ripiegandone una. Altrimenti non vanno. E poi anche gli amici: Fiore “è stata cancellata da un invito a un matrimonio”, da quando è girata la storia di Vallanzasca. A vederla, si vede che è provata. “Sono stanchissima”, sorride. Solo la Chiesa del luogo li appoggiava, ma in silenzio. Renato era diventato una maledizione. Eppure, il progetto di lavoro per detenuti non è certo una mostruosità. “Avevo fatto domanda perché il mio negozio fosse inserito in queste liste. Poi mi hanno fatto un colloquio, per stabilire se fossi idonea”. Il detenuto, che il proprietario non conosce e non può scegliere prima, (“è come un’adozione”), viene sul posto per imparare un lavoro, “in prova”. Viene pagato come un commesso normale, “poco più di mille euro”. Soldi che finiscono allo Stato, per pagare il suo mantenimento. Le agevolazioni per i negozianti che aderiscono, anche di tipo fiscale, non ci sono più. “Se lo faccio, è per volontariato”, e non è la prima volta, visto che qualche anno prima Maria Fiore aveva lavorato per un centro per ciechi, a Bergamo. Ora, è da quasi un anno che ha rilevato il negozio, e ha pensato di aderire all’iniziativa. Ma il detenuto che le è stato affidato si è rivelato un caso troppo complicato. In ultima analisi, per il suo commercio, un danno. “Passate tra un mese: e vedrete che qui sarà tutto chiuso”, dice Alex. “Il territorio non era pronto”, spiega il sindaco, infastidito, tra le altre cose, di non esser stato contattato prima che Vallanzasca fosse mandato a Sarnico. “Certo, il programma prevede segretezza, ma lui non è come gli altri”. Un detenuto preceduto dalla sua fama e dai suoi delitti terribili, anche se compiuti trent’anni fa, richiede sempre una buona dose di cautela. “Sia per rispetto dei parenti delle vittime, sia per questioni di ordine pubblico”, e indica, dalla finestra, la strada dove si assiepavano i curiosi. “L’avessero mandato qui a novembre, sarebbe stato più facile: ad agosto c’è il boom di turisti, e così il numero di persone che andava al negozio per curiosare aumentava. Certo, scoprirlo dai giornali non mi è piaciuto. Forse era il caso di avvertirmi prima”. Ma, in tutta onestà, il sindaco di Sarnico lo avrebbe accettato, Vallanzasca, se fosse stato avvisato prima? “Non lo so”, risponde. “Ma uno come lui, con gli ergastoli che ha, può essere recuperato alla società?” Chissà. C’è da dire che Renato Vallanzasca, nelle sue nuove vesti da commesso, all’inizio si era confuso tra gli abitanti e i turisti di Sarnico. Un signore di 62 anni come altri, difficile da riconoscere. “È cambiato molto rispetto alle immagini storiche”, dicono di lui in paese. Meno capelli di quando muoveva i primi passi negli ambienti criminali del Giambellino. “Non lo avevo riconosciuto: pensi che ho neanche visto il film su di lui”, racconta da dietro il bancone la proprietaria del bar di via Vittorio Veneto. “È un signore molto simpatico”, dice. “Di solito veniva qui a mangiare un ghiacciolo al limone”. Ma non a pranzo. Vallanzasca a pranzo “ci andava con i colleghi, come tutti gli altri. Più giù, verso il lungolago”. La sua normalità, però, è durata poco più di due settimane. Qualcuno “ha avuto l’occhio più lungo, ha cercato le foto recenti su Internet e ha scoperto chi era”, racconta. Ma l’afflusso di curiosi a lei, non ha fatto un gran danno: “Per noi è stato solo lavoro in più”, scherza, nel suo primo giorno del dopo - Vallanzasca, “Venivano qui a prendere il caffè e a fare due chiacchiere”. Poi torna seria e, senza saperlo, ripete le parole del sindaco: “Questi programmi di reinserimento li possono fare quelli che hanno una pena di pochi anni, non chi ha quattro ergastoli da scontare come lui. Cosa vuoi recuperare?”. In questa cornice da cartolina, tra le montagne bergamasche e l’acqua piatta del lago di Iseo, l’arrivo di Renato Vallanzasca è stato “come una bomba a orologeria”. Se si va sul lungolago, tra le siepi appena potate e le piante fiorite, all’ora di pranzo non c’è quasi nessuno. Nel silenzio, le tapparelle colorate delle seconde case di milanesi e bergamaschi sono quasi tutte abbassate. Qualcuno dà da mangiare ai cigni. Qualcun altro sistema le barche ormeggiate al porticciolo. Molti bar sono chiusi. Un signore in costume sta passando l’aspirapolvere tra i tavoli bianchi del suo locale. “Vallanzasca non l’ho visto”, dice, “non poteva arrivare fin qui”. Nei giorni scorsi, “c’è stata molta confusione, c’era gente che veniva apposta da fuori con la macchina fotografica solo per vederlo”. E poi aggiunge: “È giusto che se ne sia andato, qui vicino abita il cugino di uno degli agenti che ha ucciso”. E così si scopre che Vallanzasca, a Sarnico, non lo voleva nessuno. Lo conferma anche uno degli ultimi vacanzieri abbronzati rimasti in paese. “Ah sì? L’hanno licenziato?”, chiede mentre lega il suo scafo al pontile. “Finalmente. Se ne doveva andare. Dobbiamo smetterla di mantenere gente come lui”. E aggiunge: “Sì, l’ho visto, sono andato anch’io vicino al negozio dove lavorava”. Il parere di turisti e sarnichesi è unanime: l’antico nemico di Francis Turatello da Sarnico doveva andarsene. “E adesso? Dopo Renato Vallanzasca e George Clooney, ora ci manderanno pure Totò Riina?”, dice una delle clienti di un bar, confondendo celebrità e celebrità. Ma c’è chi è più duro. “Perché dobbiamo pagargli l’ergastolo? Una cartuccia costa molto di meno, no?”. Cinquanta centesimi, precisa. “Ma anche se fosse cento euro, sarebbe comunque più vantaggioso” continua. “L’hanno mandato a fare il commesso in un bel negozio con l’aria condizionata. Perché invece non l’hanno spedito a spaccare pietre o a lavorare nelle fogne?”, si chiede la proprietaria di uno dei pochi bar rimasti aperti. “Invece di far lavorare i giovani disoccupati, fanno lavorare i detenuti”, le risponde una delle cameriere tra i tavoli. La polemica tocca più livelli. Prima i parenti delle vittime, il territorio, la confusione provocata dai curiosi. Poi i disoccupati che si vedono scippare il lavoro dai criminali. “Guardi che se ci pensa, a me conviene di più andare dentro - continua il barista della pallottola - Cosa ci perdo? Lì avrei tutto: cibo, letto, donne ogni tanto. Qui devo sgobbare tutto il giorno. Chi è il condannato? Io o lui?” Sui giovani disoccupati, Fiore respinge ogni accusa. Lei, a far lavorare i giovani di Sarnico nel suo negozio, ci aveva provato. “Ma c’era chi non voleva lavorare nel fine settimana, o chi chiedeva di fare solo alcuni orari”, racconta. E alla fine, “lo sa quanti anni ha la commessa che ho dovuto assumere perché non aveva troppe pretese? Settantadue!”. Sull’onda, si inserisce anche Alex: “Proviamo a mettere un cartello “cercasi personale” e vediamo quanti giovani si presenteranno qui a fare il commesso. Nessuno. È come in Franciacorta, senza i lavoratori africani l’uva sarebbe andata tutta a male”, spiega. Ma questi sono altri problemi, altre storie, anche lontane. Ora, a Sarnico, si dovrà tornare alla vita di tutti i giorni, con la quiete da ripristinare, e con i conti da pagare. Qualcuno, anche non i suoi. Non c’è più Vallanzasca, e agosto è alla fine. Sulla calma del lago, la pace è tornata. Il direttore del carcere di Opera: Vallanzasca avrà una nuova chance “Gli daremo una nuova chance” Lo assicura al Corriere della Sera Massimo Parisi, il direttore del carcere di Bollate, parlando del percorso di Renato Vallanzasca, licenziato dal negozio dove era stato assunto da solo un mese per via del clamore suscitato dalla notizia. “Le problematiche emerse a Sarnico non sono state causate dalla sua condotta”. Parisi ripete più volte che questi progetti dipendono da “segnali di cambiamento” da parte dei detenuti, e si capisce che sono proprio quelli che l’ex bandito ha dato. Lo aveva confermato anche Maria Fiore Testa, la negoziante di Sarnico: “Lui si è comportato bene. La cosa si e però rivelata più grande di noi. Per questo ho deciso di non proseguire su questa strada”. Una scelta, quella di assumere Vallanzasca con contratto di prova come magazziniere - commesso, fatta “come torma di volontariato. L’avevamo già fatto in passato”. Contratto avviato il 3 agosto, la spugna gettata il 24. Salerno: la nipote del boss scrive al ministro “basta con il carcere duro per mio zio” La Città di Salerno, 28 agosto 2012 Citofono, vetro divisorio e lunghi viaggi, una volta ogni due mesi. Dalla provincia di Salerno all’Aquila per salutare lo zio, Luigi Iannaco, boss dell’omonimo clan di Sant’Egidio Monte Albino, detenuto in regime di 41 bis. Tutto in una lettera inviata alle autorità competenti e al governo da sua nipote, Valentina Buontempo, ventitreenne, che dopo tre anni di massima sicurezza chiede umanità per il suo parente, “rinchiuso nella casa circondariale dell’Aquila dove in un unico giorno io e mia madre, ci alziamo alle 4 del mattino per prepararci a tre ore e mezza di viaggio”, per salutarlo, “per dare a mio zio quell’ora di felicità al mese che può permettersi, un’ora che vola in un attimo, il tempo di chiedergli come sta”. È Valentina a raccontare le parole di Iannaco. “Come volete che sto? Rinchiuso… in 4 mura… non posso fare niente… la vita è sempre quella”. La speranza è un trattamento più umano. “Con quel vetro che ci divide e quell’orrendo citofono, non possiamo nemmeno più inviargli dei libri nuovi, perché mai? Non basta già quanto viene controllato? Oggi ci ha detto che sta aspettando da 5 mesi per fare una radiografia alla spalla. Chi è lo Stato per togliere addirittura anche il diritto di socialità ad un essere umano?”. Il discorso entra nell’eccezionalità del 41 bis, riservato ai criminali di massima pericolosità, norma nata in un momento di emergenza e rimasta lì. “La dignità di un uomo, anche se criminale, non può essere calpestata da una normativa contraria al principio di uno Stato democratico come il nostro, istituzionalmente contrario alla pena di morte. Il 41 bis non è poi così lontano dalla pena di morte. È un regime finalizzato al pentimento, alla collaborazione, fa parte del nostro ordinamento giudiziario, ma, sinceramente, chiedo ai parlamentari di informarsi maggiormente, perché gli unici che sanno cos’è il regime 41 bis sono i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria”. “Di questo 41 bis non se ne può davvero più. Quando mio zio avrà scontato 20/30 anni, e se Dio vuole uscirà vivo da lì, qual è il futuro che lo aspetta? - si chiede Valentina. Nessuno direi”. Iannaco, “Ò zi maisto”, è stato condannato come mandante dell’omicidio Fulgido ed è coinvolto nell’omicidio Vaccaro. È accusato di estorsione e spaccio. Nel 2005 avviò il programma di collaborazione ma poi fuggì. Bologna: domani presentazione del Rapporto semestrale Ausl sulle carceri Ristretti Orizzonti, 28 agosto 2012 Mercoledì 29 agosto ore 12 presso Legambiente Bologna Cassero di Porta Galliera, presentazione delle osservazioni al rapporto semestrale Ausl sulle carceri di Bologna. Punti essenziali: permane una situazione di inagibilità igienico sanitaria della struttura e dunque di illegalità ed “abuso di mezzi di correzione”; motivazioni della contrarietà assoluta alla realizzazione di ulteriori edifici carcerari; reiterazione della esigenza di includere nel rapporto semestrale anche il Cie; reiterazione delle proposte di riforma e di cambiamento avanzate dal 2004 dal circolo “Chico” Mendes. La conferenza stampa sarà occasione per il rilancio annuale della Campagna permanente “Dona un libro ad una persona detenuta”. Saranno presenti alla conferenza stampa: Vito Totire e Davide Fabbri. Caserta: letteratura e teatro… quando chi è “dentro” si prepara ad “uscire” di Maria Valentino www.quicaserta.it, 28 agosto 2012 I detenuti del carcere di Arienzo hanno presentato il testo scritto di proprio pugno dopo le esperienze di re-inserimento intraprese all'interno della struttura penitenziaria casertana. Ha riscosso un ottimo successo la presentazione del libro scritto dai detenuti della casa circondariale di Arienzo "Storie. Racconti dall'interno", Edizioni Melagrana, evento tenutosi presso la stessa casa circondariale. Nel volume i detenuti/scrittori raccontano le storie, i momenti, le emozioni che hanno vissuto durante e dopo un percorso formativo che l'associazione Melagrana ha intrapreso da circa due anni all'interno della struttura, con laboratori di lettura e di scrittura creativa. Si tratta di racconti e di osservazioni che spiegano il percorso di recupero di questi uomini che si sono trovati a coltivare la lettura e la scrittura quale "ancora di salvezza" e speranza per il futuro, soprattutto in vista dell'uscita dall'istituto di pena. Come in "Cesare deve morire" dei fratelli Taviani, (che con questo lavoro hanno conquistato l'Orso d'Oro al Festival del Cinema di Berlino 2012) in cui, nel teatro all'interno del carcere romano di Rebibbia, si conclude la rappresentazione del "Giulio Cesare" di Shakespeare. I detenuti/attori fanno rientro nelle loro celle. Il direttore del carcere sei mesi prima, aveva esposto il progetto teatrale dell'anno ai detenuti che intendono partecipare. Seguono i provini nel corso dei quali si chiede ad ogni aspirante attore di declinare le proprie generalità con due modalità emotive diverse. Completata la selezione si procede con l'assegnazione dei ruoli chiedendo ad ognuno di imparare la parte nel proprio dialetto di origine. Progressivamente il "Giulio Cesare" shakespeariano prende corpo. Come il teatro rappresenti un strumento principe per il percorso di reinserimento del detenuto, così la scrittura all'interno del casertano carcere di Arienzo sembra rappresentare un punto di riferimento per chi ha intrapreso un percorso di recupero e si prepara all'uscita dall'istituto di pena più piccolo della Campania. Roma: “Evasione musicali” al carcere di Velletri, con Franco Califano e Mario Zamma Il Tempo, 28 agosto 2012 “Un binomio d’eccezione ha allietato, oggi, lo scorcio dell’estate 2012 dei detenuti della Casa circondariale di Velletri: Franco Califano e Mario Zamma. Il Califfo e il famoso comico del bagaglino hanno chiuso, con la loro esibizione, il programma di agosto di “Evasioni Musicali”, la manifestazione progettata dalla Giunta Polverini che fino a settembre porterà musica e cabaret negli istituti penitenziari del Lazio. Fortemente voluta dalla Presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, la manifestazione ha confermato, al pari delle altre rassegne di musica e cabaret già organizzate nelle carceri laziali fin dal dicembre del 2010, la buona riuscita del progetto, messa in risalto ed evidenziata dall’apprezzamento da parte di tutto il mondo penitenziario sia per i concerti che per i comici”. Così in una nota l’assessorato regionale ai Rapporti con gli Enti Locali e Politiche per la sicurezza. “Il successo della musica del Califfo - ha detto l’Assessore regionale agli enti locali e politiche per la sicurezza, Giuseppe Cangemi - era fuori discussione, così come la carica emotiva trasmessa dalle esilaranti battute di Zamma. Sono soddisfatto dell’intero progetto di “Evasioni Musicali”. Se siamo riusciti ad allietare e a far sorridere, almeno per un momento, un solo detenuto, abbiamo raggiunto lo scopo che ci eravamo prefissati: rendere meno pesante l’atmosfera carceraria, soprattutto durante il periodo estivo, tra i periodi dell’anno più difficili per chi è costretto a vivere in regime di privazione della libertà personale e lontano dai propri affetti più cari. Voglio rivolgere il mio personale ringraziamento a tutti i cantanti e ai comici famosi che hanno aderito all’iniziativa, a cominciare da Franco Califano e Mario Zamma per finire con Manuela Villa, Martufello, Marcello Cirillo e Tom Sinatra, Luisa Corna e Marco Masini. Li ringrazio tutti di cuore, così come mi preme ringraziare tutti gli operatori di polizia penitenziaria che hanno fattivamente permesso lo svolgimento della manifestazione in completa sicurezza. Un ultimo ringraziamento, infine, ai direttori delle carceri che ci hanno ospitato: le dottoresse Zainaghi, Pesante, Giambartolomei, Bravetti, Sergi e, oggi, Donata Iannantuono direttrice della casa circondariale di Velletri. Una curiosità: sono tutte donne. Forse anche per questo hanno immediatamente parteggiato per “Evasioni Musicali”. Libri: “Urla a bassa voce, dal buio del 41 bis e finepenamai”; edizioni Stampalternativa Ristretti Orizzonti, 28 agosto 2012 “Urla a bassa voce, con le sue voci dal buio, è un libro importante e necessario. Ci costringe ad aprire gli occhi di fronte a una realtà che non ci piace. Ci obbliga a conoscere ciò che non vorremmo sapere, realtà che vorremmo tenere distanti dalla nostra vita e che - di fatto - ci riguardano” così Don Luigi Ciotti nella prefazione al libro. Si tratta di una raccolta di interventi di 36 ergastolani ostativi, quasi tutti passati per il 41 bis, sparsi un po’ in tutte le carceri italiane, nei circuiti AS1. Per loro, dopo le leggi emergenziali in vigore a partire dagli anni 90, e per via del meccanismo che ne deriva, scatta quello che viene chiamato “ergastolo ostativo”, perché non sono collaboratori di giustizia: la loro situazione, insomma “osta” a che , anche dopo lunghi anni di carcere ( e c’è chi ne ha trascorsi in carcere trenta), possano ottenere benefici normalmente previsti dalla legge. In pratica dal carcere non escono né usciranno mai. In questo libro parlano della loro condizione, di quello che pensano, di quello che chiedono. Parole che aprono uno squarcio su un mondo complesso e contraddittorio e pongono un interrogativo: è giusto, qualsiasi cosa sia stata commessa ( e qualcuno comunque qui si dichiara innocente) essere “condannati” per sempre? Perché, almeno in teoria, per chiunque è ammessa “la redenzione” e per loro no? E non è questo in contrasto evidente con il principio, contenuto nella nostra Costituzione, del fine rieducativo della pena? Si tratta delle stesse persone che hanno provocatoriamente chiesto a Napolitano di tramutare la loro condanna in pena di morte perché, dicono, “di morte viva si tratta”. Il libro, a distanza di vent’anni dall’inasprimento delle leggi introdotte per combattere la criminalità organizzata, pone una questione di diritto e di diritti, e apre a molti interrogativi sul senso della pena. Una questione forse da non accantonare, pur in un momento di tante polemiche a proposito di 41 bis e dintorni, o forse proprio per questo. È un tema di cui si parla grazie ad organizzazioni che si occupano di diritti umani, della condizione dei carcerati, all’interno del mondo carcerario, ma che trova una grande chiusura nella società. E a questa nostra società tutta che si rivolge Don Luigi Ciotti quando nella prefazione dice: “Le ragioni ( sacrosante e legittime) di chi dal delitto è stato ferito nella vita e negli affetti non possono essere negate, così come non può essere dimenticato che ci è chiesto di muoverci nella direzione di una giustizia che sappia riparare, essendo impossibilitata a risarcire davvero, perché alla perdita di un bene supremo qual è la vita non c’è rimedio possibile. Impedire alla giustizia di diventare vendetta è la vera sfida a cui siamo chiamati. Impedire che la giustizia “chiuda” chi ha sbagliato nel suo errore (e gli neghi la possibilità del cambiamento) è l’altra faccia della stessa medaglia. Giudicare insensato il carcere senza fine non è, del resto, asserzione ideologica o radicalismo astratto, ma semplice constatazione. Tenere una persona imprigionata significa, letteralmente, tenerla in cattività. Non c’è positività, non c’è il buono possibile nell’uomo in catene; c’è la sua mortificazione e semmai una spinta a essere peggiore. (…) Urla a bassa voce ci ricorda che siamo tutti chiamati in causa, nella società e davanti alle nostre coscienze”. Don Luigi Ciotti è firmatario dell’appello contro l’ergastolo, iniziativa di Carmelo Musumeci, che dal carcere di Spoleto, due anni fa, aveva lanciato l’idea da cui è poi nato “Urla a bassa voce”. Fra gli aderenti alla campagna contro l’ergastolo, anche Umberto Veronesi che, sostenitore dell’origine ambientale del male, afferma che “l’ergastolo equivale alla morte cerebrale”, mentre oggi sappiamo che il nostro cervello può rinnovarsi, premessa che può avere forti implicazioni sul piano della giustizia. “Urla a bassa voce, dal buio del 41 bis e finepenamai”, edito da Stampalternativa, e curato da Francesca de Carolis, con prefazione di Don Luigi Ciotti. Immigrazione: gli negano il permesso di soggiorno, un ventenne marocchino si suicida di Giulia Gentile L’Unità, 28 agosto 2012 Aveva ricevuto un no. No al permesso di soggiorno e l’obbligo di lasciare l’Italia entro 15 giorni. Abdellaziz Tobi, marocchino di vent’anni con qualche piccolo guaio con la giustizia, si è sentito perso. Si è impiccato nel centro ricreativo di Castel del Rio, sulle colline imolesi, dove aveva appena finito di dare una mano alla festa del paese. “Faceva spesso il volontario, anche alle feste dell’Unità”, ricordano commossi i suoi amici. “Ci ha dato una mano tutto il weekend alla “Sagra del porcino”: la notte dormiva negli stand a fare da guardia con altri ragazzi, e di giorno aiutava in cucina. Sabato mattina, mentre pulivamo l’aglio, gli avevo chiesto: “Domenica la festa finisce, dove andrai da lunedì? Come farai?”. Mi aveva detto che stava pensando di spostarsi a Milano, e poi di emigrare in Francia. Parlava meno del solito, ma io avevo cercato di farlo ragionare. Di dirgli che in Francia sarebbe stato peggio che qui, che era meglio che cercasse un posto dove aveva degli amici. Invece, domenica sera si è lavato e cambiato nel bagno della “Sala Coop”, e poi si è tolto la vita. Siamo tutti sconvolti”. Preferisce restare anonimo, ma la voce si rompe in gola all’amico dell’associazione culturale “alidosiana” di Castel del Rio (Bo), sulle colline imolesi, nel raccontare la tragica fine di Abdellaziz Tobi, ventenne di origini marocchine che, domenica sera alle 23, è stato trovato impiccato nel centro ricreativo del paese. Venerdì il “no” al rinnovo Solo quattro giorni fa al giovane, arrivato in Italia da minore abbandonato e alle spalle qualche guaio con la giustizia che l’aveva portato ad essere ospite della comunità di recupero “Il veliero”, era stato notificato il “no” al rinnovo del permesso di soggiorno, con l’obbligo di lasciare l’Italia entro 15 giorni. Impossibile vedersi prorogare i documenti senza un lavoro, né un tetto. E da quando, a 18 anni, Abdellaziz aveva dovuto lasciare la comunità di minori di Castel del Rio, nella sua vita si erano alternati solo lavoretti saltuari. In mezzo, il ragazzo aveva sommato qualche denuncia per droga e furto, una multa per un biglietto non pagato sul treno, e un arresto per spaccio a luglio 2011 a Massa, in Toscana. Abdellaziz era senza fissa dimora. E dall’Imole - se andava e veniva, come unica scadenza le feste organizzate in paese. “Veniva ad aiutarci ad ogni appuntamento, compresa la Festa de L’Unità - racconta l’amico - : ormai conosceva il calendario. E infatti, venerdì scorso era ricomparso. E noi gli davamo una mano, ogni volta”. Quattro giorni fa, ricorda commosso l’uomo, “Aziz ci aveva detto dei documenti, ma credevo che sarebbe stato facile ottenerne il rinnovo. Invece, aveva già in tasca l’obbligo di lasciare il Paese. È un’ingiustizia”. A trovare il corpo del ventenne, e a dare l’allarme ai Carabinieri, domenica sera è stato un altro amico di Abdellaziz, e volontario alla Sagra. “Gli aveva suggerito di usare il bagno della sala, invece dei wc della festa - ricostruisce l’uomo: ma il tempo passava, e lui non tornava”. A quel punto, “siamo andati a cercarlo ovunque in paese - chiosa amaro il volontario. Finché il mio amico non ha visto la luce accesa nella sala. Ha aperto la porta e lì c’era Aziz, già morto”. Il giovane era impiccato ad un tubo, a tre metri da terra: si era servito di una corda e di una scaletta per salire. Aperta un’inchiesta in Procura Nessun dubbio sul fatto che si sia trattato di un suicidio. E dopo un primo sopralluogo sul posto, i Carabinieri hanno trasferito la salma all’obitorio di Imola. In Procura intanto, il Pm Antonello Gusta - pane ha aperto un fascicolo per, istigazione al suicidio, espediente tecnico che permetterà ulteriori accertamenti. Nel 2007, Aziz doveva essere trasferito da un centro milariese ad una comunità in Romagna. Ma non c’era posto, e così era finito a Castel del Rio, dove ancora tutti lo conoscevano. “Si sarà sentito braccato”, dice un altro amico, chiedendo di non essere citato. “Gli volevamo bene. Aveva tentato di lavorare in una fabbrica ma era allergico ad una vernice. Per un pò ha vissuto a Imola con un amico, ma ora era fuori casa”. “Lo conoscevo, ma non lo vedevo da mesi - ricorda il sindaco di Castel del Rio, Alberto Baldazzi. Voglio solo esprimere i dolore di tutta la comunità per questa drammatica vicenda”. Mentre Massimo Marchignoli, deputato Pd e sindaco di Castel del Rio nel 1991, ricorda di conoscere Aziz di vista. “Il paese è piccolo - dice - della tragedia mi ha avvisato mia madre”.