Agosto 2012, fuori l’angoscia della crisi in carcere una bruciante desolazione Il Mattino di Padova, 27 agosto 2012 Questo agosto 2012 la gente “normale” se lo ricorderà per l’angoscia della crisi economica vissuta in un clima fra i più roventi a memoria d’uomo; nelle carceri invece, le persone detenute questo agosto se lo ricorderanno perché le giornate infuocate le hanno dovute affrontare accatastati in condizioni indecenti, in un clima di silenzio rotto ogni tanto da qualche appello al presidente della Repubblica a fare qualcosa. In realtà, non si è fatto quasi niente, neppure, con rare eccezioni, le consuete “visite” dei parlamentari a ferragosto, e adesso si prospetta un autunno disastroso, e rischi maggiori anche per la sicurezza di una società, che se ne frega delle sue carceri e non sa più in alcun modo investire su una giustizia più umana. Intanto è passato un anno e più dal giorno che il Presidente della Repubblica dichiarò pubblicamente che la condizione dei carcerati in Italia era tanto disumana da rasentare la tortura e come tale copriva il nostro Paese di vergogna agli occhi di tutta l’Europa, che la situazione non era più sostenibile e bisognava assolutamente trovare rimedi urgenti. A Padova in un anno da 830 a 916 detenuti È passato un anno e più dal giorno che il Presidente della Repubblica dichiarò pubblicamente che la condizione dei carcerati in Italia era tanto disumana da rasentare la tortura e come tale copriva il nostro Paese di vergogna agli occhi di tutta l’Europa, che la situazione non era più sostenibile e bisognava assolutamente trovare rimedi urgenti. Ebbene, da un anno a questa parte quali rimedi sono stati trovati? Nessuno o quasi, se si esclude la modifica alla legge 26/11/2010 N° 199 che ha allargato la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare, per taluni reati, nella parte finale della pena, da 12 a 18 mesi. Sto parlando di quella legge impropriamente detta “svuota carceri” che in pratica non ha svuotato quasi niente. Ha fatto uscire in detenzione domiciliare delle persone che erano quasi alla fine della pena, ma i posti lasciati liberi sono stati immediatamente riempiti da altri di nuovo ingresso, in quanto il flusso in entrata con le attuali leggi è ben superiore a quello in uscita. Lo confermano i numeri. Nel nostro carcere di Padova, in quei giorni nei quali il Presidente gridava allo scandalo per la situazione vergognosa, noi detenuti eravamo 830, mentre a luglio di quest’anno eravamo 916, e dico eravamo perché nel frattempo tale record è stato superato. Noi prendiamo come esempio il carcere di Padova dove viviamo, ma negli altri istituti la situazione non è certo migliore. A Padova le celle progettate per una persona sola, in origine con una branda e due armadietti, ora sono tutte con tre brande e sei armadietti. Poiché gli armadietti non sono sufficienti a contenere tutti gli effetti personali, le persone si devono arrangiare a sistemare le loro cose come possono, o sotto i letti, o appese a ganci di fortuna o dove si può, tanto che le stanze sono così ingombre che non c’è più spazio per muoverci. Se a Padova in un anno, nonostante le uscite (assai scarse) ad opera della legge “svuota carceri”, si è passati da 830 a 916 detenuti, a quanti si arriverà tra un anno, o due, continuando in questa maniera? A 1000? A 1100? Se si andrà avanti così senza trovare rimedi veramente efficaci, il carcere sarà sempre più ridotto a un luogo di immagazzinamento e basta dove i detenuti devono restare stipati e immobili, costretti nella maggior parte dei casi ad imbottirsi di psicofarmaci per riuscire a sopravvivere in tali condizioni, alla faccia della rieducazione e del reinserimento. I rimedi proposti volta per volta dai ministri di turno sono sempre quegli stessi annunciati da anni, anzi da decenni, ma che però non vedono mai la luce. La riforma della Giustizia, la costruzione di nuove carceri, la depenalizzazione dei reati minori, più chiacchere che fatti. Di amnistia neanche a parlarne perché in Parlamento non ci sono le condizioni politiche per raggiungere quella maggioranza qualificata dei due terzi. Lo dicono il Capo dello Stato, il Presidente del Consiglio e la Ministra della Giustizia. La Ministra della Giustizia ha in mente anche altre soluzioni che secondo lei potrebbero risolvere il problema e tali soluzioni consisterebbero principalmente nel ricorso più frequente alle misure alternative. L’idea in teoria sarebbe anche buona se non si scontrasse con il fatto che per andare in misura alternativa è necessaria una richiesta di lavoro, e dove è questo lavoro? Si sa bene che di questi tempi il lavoro è assai difficile da trovare anche per i cittadini liberi, figuriamoci per i detenuti. I buoni propositi se non realizzati non portano a niente, ma anche nel caso fossero messi in atto non basterebbero lo stesso a risolvere il problema del sovraffollamento, perché è un problema che va risolto prima di tutto a monte, diminuendo il flusso delle entrate, e precisamente cancellando certe leggi scellerate che hanno riempito e stanno continuando a riempire le galere all’inverosimile. La legge ex Cirielli che inasprisce le pene per i recidivi, in fase processuale prima e in fase di esecuzione dopo, escludendoli da tutti i benefici, e i recidivi nella stragrande maggioranza dei casi sono persone tossicodipendenti e non certo feroci criminali. La legge Fini-Giovanardi che mette quasi sullo stesso livello di colpevolezza consumatori e spacciatori e che facendo un mix con la ex Cirielli riempie le carceri proprio di tossicodipendenti. La legge Bossi-Fini che si è inventata reati senza colpa concreta, come quello della semplice clandestinità. Sarebbe sufficiente quantomeno modificare queste tre leggi per trovare il giusto equilibrio tra le entrate e le uscite dal carcere. Questa idea non è sicuramente inedita perché tutti sanno che è così, però lo stesso non si fa niente e i detenuti continuano a vivere in condizioni sempre più vergognose, sempre più disumane e degradanti. Una cosa alla quale non si guarda o si fa a finta di non accorgersi è che la pena scontata in queste condizioni è assai più gravosa di quella irrogata dai giudici in sentenza, in quanto la sofferenza a cui il detenuto è sottoposto è assai più intensa di quella voluta dal giudice. Quando un giudice condanna una persona colpevole di qualche delitto, per stabilire l’entità della pena da infliggere fa approssimativamente questo ragionamento: tu reo hai causato alle tue vittime tanta sofferenza e io ti condanno a scontarne altrettanta. Il giudice, anche se non esplicitamente, misura la sofferenza “a punti”. Sia quella sofferta dalle vittime, sia quella da infliggere al reo. Se mettessimo come unità di misura che un giorno di carcere equivale a 10 punti di sofferenza e che un reo abbia causato alla vittima 1000 punti di sofferenza, la pena da infliggere sarebbe di 100 giorni di carcere. Il giudice, che è rispettoso della legge e dei diritti di tutti, quando stabilisce che un giorno di carcere equivale a 10 punti di sofferenza, immagina che il reo trascorra questo giorno in quelle condizioni dignitose come prevede la legge. E cioè che abbia a disposizione quel tanto di spazio minimo, quell’assistenza sanitaria che la legge gli riconosce, il diritto al lavoro, alla cura degli affetti, al rispetto… Ma se tali diritti vengono ridotti? Se viene ridotto lo spazio, se scarseggia l’alimentazione, se vengono a mancare anche i prodotti di prima necessità, se si vive in condizioni di stress continuo, se è del tutto inadeguata l’assistenza medica? Ebbene, se succede questo l’intensità della sofferenza supera quei 10 punti x giorno messi dal giudice come parametro per l’irrogazione della pena. L’intensità potrebbe arrivare a 15 o anche a 20 o anche più. E allora bisogna rifare i calcoli. Se l’intensità di sofferenza è mettiamo di 15 punti x giorno e i punti da scontare sono 1000, non ci vogliono 100 giorni per scontarli. Ce ne vogliono 66,6. La rimanenza rappresenta pena in eccesso. I legislatori che sono così bravi a fare i conti dovrebbero tenere conto anche di questo. Ovvero, se la sofferenza subita supera di un terzo quella inflitta, anche la lunghezza della pena deve essere di conseguenza diminuita di un terzo. Se no non è giustizia, è vendetta. Antonio Floris Abolire l’ergastolo: raccolte 5.700 firme per la proposta di legge popolare Redattore Sociale, 27 agosto 2012 Lanciata da Carmelo Musumeci, scrittore ergastolano, nel suo sito. Fino a ieri raccolte circa 5.700 firme. Ci sono anche quelle di Margherita Hack, Umberto Veronesi, Erri De Luca, Ascanio Celestini. Margherita Hack, Umberto Veronesi, Giovanni Paolo Ramonda, Maria Agnese Moro, Don Luigi Ciotti, Giuliano Amato. E anche Patrizio Gonnella, Erri De Luca, Barbara Alberti, Franca Rame, Ascanio Celestini. Sono solo alcuni dei nomi celebri che compaiono tra i 90 primi firmatari della proposta di iniziativa popolare per l’abolizione della pena dell’ergastolo lanciata da Carmelo Musumeci - scrittore ergastolano - nel suo sito www.carmelomusumeci.com. Artisti, politici, scrittori, esponenti del volontariato carcerario, giuristi hanno aderito alla proposta, che fino a ieri aveva raccolto circa 5.700 firme. “L’ergastolo è più atroce che qualsiasi altra pena perché ti ammazza lasciandoti vivo ed è una pena molto più lunga, dolorosa e disumana, della normale pena di morte” si legge nel documento. “A una persona puoi levare la libertà, ma non lo puoi fare per sempre, per questo l’ergastolo, La pena di morte Viva, è più atroce e inumana di tutte le altri morti”. Quando si parla, poi, di ergastolo ostativo - che esclude l’accesso alle misure alternative - la pena diventa un effettivo “fine pena mai”: “Ci vuole tanta disumanità e cattiveria per far marcire una persona in cella per sempre, perché quando non si ha nessuna speranza è come non avere più vita” si legge ancora nella proposta di abolizione. “Ogni persona dovrebbe avere diritto ad una speranza e per tutti ce n’è una, ma non per gli uomini ombra”. I firmatari sottoscrivono che un uomo non può essere “considerato cattivo e colpevole per sempre” e che una pena per essere giusta “deve avere un inizio e una fine”. In Italia, invece, ci sono giovani ergastolani arrestati da adolescenti e che “ora invecchieranno e moriranno in carcere, senza nessun’altra possibilità di rimediare al male che hanno fatto”. La convinzione dei firmatari è che “il perdono faccia più male della vendetta, perché il perdono costringe un uomo a non trovare dentro di sé nessuna giustificazione per quello che ha fatto”. Giustizia: l’ennesimo richiamo dell’Europa e le “idee” del ministro Severino di Valter Vecellio Notizie Radicali, 27 agosto 2012 Viviane Reding, vice-presidente della Commissione Europea con deleghe sulla Giustizia, intervistata da Vincenzo Spagnolo di “Avvenire” (25 agosto), ci ricorda che ci sono alcuni “spettri” che si aggirano per l’Europa, che “ci costano un’enormità, oltre un migliaio di miliardi di euro, e si chiamano corruzione, evasione fiscale, frodi all’Iva e al bilancio comunitario”; e trova il modo di aggiungere un qualcosa che dovrebbe costituire non solo materia di riflessione, ma di intervento e tempestiva iniziativa politica: “Un sistema giudiziario efficiente è necessario per garantire i diritti individuali, ma anche il mercato economico: accresce la fiducia dei cittadini e degli investitori. Senza dimenticare la dimensione europea. Un’impresa spagnola può decidere di competere nel mercato italiano o un signore francese di acquistare una casa ad Amalfi: ed entrambi debbono poter nutrire fiducia nell’efficienza del sistema italiano. Nel programma di crescita verso l’Europa 2020”, l’Unione europea ha indirizzato all’Italia una serie di raccomandazioni: riformare la giustizia è fra le più importanti”. Questo passaggio dell’intervista dovrebbe essere scolpita sulle scrivanie del presidente della Repubblica e del Consiglio, dei presidenti del Senato e della Camera, dei ministri, dei leader di partito che da destra a sinistra ciancicano in queste ore di riforme e urgenza del loro varo. Fateci caso: parlano di tutto e su tutto propongono e promettono, auspicano e trescano. Ma “l’impellente urgenza” più di un anno fa indicata dal presidente della Repubblica resta lettera morta. L’occhio, poi, cade su un passaggio dell’intervista al ministro della Giustizia Paola Severino curata da Francesco Grignetti per “La Stampa” (26 agosto). A Grignetti le parole di Viviane Reding non sono sfuggite e ne chiede conto. Per il ministro si tratta di “un forte e costruttivo stimolo”, e riconosce, come potrebbe essere diversamente? che per esempio la situazione della nostra giustizia civile è quella di un malato “al quale abbiamo dedicato già molte cure, ma che ha bisogno di riceverne ancora…”. Sorvoliamo sulle cure già “dedicate”, e di cui non sapremo dire. Vediamo quelle che si annunciano: “Abbiamo già cominciato a ragionare con le categorie interessate, intendo i magistrati e gli avvocati, sulle possibili soluzioni”. Sorvoliamo sulle categorie interessate e sul fatto che i più “interessati” sono i cittadini; vediamo il frutto del ragionamento: “L’idea è creare una task force da dedicare ai fascicoli pendenti da più tempo. Un’ipotesi è formare dei gruppi di lavoro formati da un magistrato e due avvocati. Abbiamo fatto delle simulazioni: se applicassimo 200 persone a smaltire le cause in appello che sono in attesa da oltre tre anni, calcolando 40mila sentenze l’anno, impiegheremmo cinque anni per azzerare l’arretrato complessivo. Con lo stesso metodo, impiegando 30 unità al lavoro in Cassazione, occorrerebbero dieci anni. È chiaro che se aumentiamo le persone disponibili, diminuiscono i tempi…”. “Idea”…”Ipotesi…”; un magistrato e due avvocati… Una settantina di magistrati e centoquaranta avvocati, scelti chissà in base a quale criterio, e comunque in cinque anni è fatta… Ma per favore! E per decenza ed educazione fermiamoci qui. Una lezione, per tutti, ci viene dalla lontana Norvegia. Come ci hanno raccontato televisioni e giornali Anders Behring Breivik, il terrorista responsabile della strage di Utoya, è stato condannato a 21 anni di carcere, che sconterà in confortevoli celle: tre, una per scrivere la sua biografia (al computer); una seconda per gli esercizi fisici per tenersi in forma; la terza per “vivere”. Ma che giustizia è mai questa?, si è domandato qualcuno. Cominciamo dalla condanna. Gli è stato dato il massimo della pena possibile. La Norvegia non prevede nel suo ordinamento l’ergastolo, per una condanna superiore ai 21 anni avrebbero dovuto varare una legge ad personam, i norvegesi hanno preferito non snaturare i loro codici ispirati a un “diritto mite”. Fra 21 anni vedremo se Breivik verrà ritenuto ancora pericoloso, e dunque la pena verrà reiterata; però il principio del no al “fine pena mai” è rispettato. Per quel che riguarda il trattamento carcerario: la punizione in Norvegia consiste nell’essere in carcere, non nel perdere i diritti di cittadino. Una concreta filosofia applicata a tutti. Se viene applicata perfino a Breivik, si può star certi che sarà applicata anche alle persone “normali”. Così i carcerati possono vivere in comunità, coltivano orti, allevano animali, abitano in case senza sbarre, e non si tratta di “piccoli criminali”: tra loro ci sono anche assassini e spietati rapinatori. Secondo i legislatori norvegesi, infatti, per ridurre la criminalità non basta chiudere in cella i criminali, bisogna reintegrarli nella società; così celle con Tv, frigorifero e doccia, sovraffollamento inesistente, arredamenti stile Ikea, cucina, guardie disarmate. Qualche maligno potrebbe insinuare che, alla fine, delinquere conviene. Però, al di là delle considerazioni umanitarie, e per occuparci di quelle “pratiche”, il modello norvegese pare funzioni: solo il 20 per cento dei detenuti è recidivo, contro una percentuale del 60 per cento negli Stati Uniti d’America e del 50 per cento della Gran Bretagna. E gli agenti di custodia? Godono di uno status elevato, e si guadagnano il rispetto dei detenuti non con le armi, ma chiamandoli per nome, mangiando con loro e facendosi coinvolgere nelle loro attività ricreative. Lasciamo la Norvegia, veniamo all’Italia. Un piccolo episodio, se si vuole: Renato Vallanzasca, l’ex bandito della Comasina, quattro ergastoli da scontare per delitti e reati commessi, dopo aver scontato in cella gli anni che la legge prevede, viene ammesso - sempre come legge prevede - al regime che consente di lavorare di giorno e tornare la sera in cella. Vallanzasca viene impiegato come magazziniere, per qualche giorno lavora tranquillo, come riconosce la proprietaria del negozio il suo comportamento è ineccepibile. Scoppia ugualmente un finimondo, addirittura il prefetto si sente in dovere di intervenire, prende carta e penna e scrive al ministero sostenendo “l’esigenza di far cessare immediatamente questa situazione” e “l’inopportunità e l’illogicità della decisione, tenuto conto dei gravissimi fatti compiuti in questo territorio”. Alla fine Vallanzasca viene licenziato e torna così in cella giorno e notte. La “situazione” è cessata, la decisione inopportuna e illogica, revocata. La Costituzione e le leggi della Repubblica di cui anche Bergamo fa ancora parte, prevedono che il detenuto debba e possa, nell’ambito di un percorso preciso e severo, aver la possibilità di essere reinserito. Evidentemente con una deroga: per Vallanzasca. A conferma che l’Italia è il paese del diritto, e del suo rovescio. Giustizia: Emma Bonino (Radicali); Napolitano rifiuta suo ruolo di Garante della legalità Agi, 27 agosto 2012 “Quel che accade nelle carceri, la condizione della giustizia, il peso che il mancato funzionamento della giustizia ha sullo sviluppo umano ed economico del Paese dovrebbero essere chiare a tutti. Per affrontarli noi proponiamo l’amnistia”. Emma Bonino torna a sollevare la questione, chiamando in causa l’inquilino del Colle: “Si dice che non ci sono i numeri in Parlamento, ma non si fa nulla per aprire un dibattito serio, anzi si fa di tutto per negarlo, un dibattito. Tutto questo merita e continuerebbe a meritare un messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica, che - osserva l’esponente Radicale nella consueta intervista del lunedì a Radio Radicale - mi pare invece rifiuti questo suo ruolo di garante della legalità, di rispetto delle leggi nazionali e internazionali del nostro Paese”. “Questo - prosegue la Bonino - mi pare un elemento grave, politicamente parlando, perché vuol dire negare una emergenza del Paese che è davvero sotto gli occhi di tutti”. “A settembre l’Italia, con il suo governo, sarà chiamata a presentare al Consiglio dei ministri della Corte Europea il piano con cui intende affrontare tutti i rilievi che ci sono stati fatti dalla Corte europea e dalle sue sentenze. Ma a parte noi, con tutti coloro che nelle carceri lavorano, c’è una sostanziale sordità nella classe dirigente, a partire - ribadisce - dal Presidente della Repubblica, che non riesce a sentire questo dovere prioritario di interrompere l’illegalità in cui versano le istituzioni italiane”. Giustizia: Marco Cappato (Radicali); da Napolitano a Grillo, silenzio sull’amnistia Tm News, 27 agosto 2012 “Il caso politico che appassiona il regime italiano sono le divisioni interne alla cosiddetta sinistra sulla questione giustizia. Sul tema si stanno verificando psicodrammi e rotture, lancio d’anatemi e insulti che anche soggetti esterni al campo un tempo definito progressista”. Lo dice in una nota Marco Cappato, presidente dei Radicali - federalisti europei al Comune di Milano. “Eppure - accusa l’ex europarlamentare - c’è una cosa che li accomuna ed unisce tutti, da Napolitano a Grillo, da Bersani a Di Pietro, passando per Scalfari e Travaglio, per Gustavo Zagrebelsy e per Violante: nessuno di loro ha trovato una parola da spendere sulla flagranza criminale dello Stato italiano in materia di giustizia, sul record di condanne della Corte europea dei diritti umani, sulla lettera dei 130 Costituzionalisti che si sono rivolti al capo dello Stato per richiamare la necessità di un provvedimento di amnistia e di un suo messaggio alla Camere sul tema del rientro nella legalità costituzionale”. Secondo l’esponente radicale “costoro, proprio come Berlusconi, Maroni o Casini, non pensano si debba fare nulla, non hanno una proposta, non vogliono che se ne discuta. Il campo resta libero per dibattere su se e come lo Stato trattò con la criminalità mafiosa vent’anni fa e su quali intercettazioni possono essere utilizzate. Silenzio tombale, invece, sullo Stato criminale seriale di oggi, a Strasburgo come nei tribunali e nelle carceri”, conclude Cappato. Giustizia: un esercito di 11mila volontari, per alleviare le sofferenze dei detenuti www.ilvostro.it, 27 agosto 2012 Il loro è un prisma variopinto di attività, ispirazioni, missioni e modo di vivere e vedere il ruolo sociale che svolgono. Dal volontariato cattolico a quello laico, le tante facce dell’associazionismo mettono insieme oltre 9mila persone, la quasi totalità dei volontari impegnati nelle carceri italiane. Lavorano ore e ore con l’unico intento di alleviare le sofferenze e i disagi dei detenuti reclusi nelle patrie galere. Un esercito silenzioso e laborioso di oltre 11mila persone, pari a un quarto della Polizia penitenziaria e un settimo della popolazione carceraria, che ogni giorno si reca in carcere e tenta di aiutare i detenuti nel loro personale percorso di cambiamento. Nonostante le difficoltà dettate dalle rigide regole del carcere. LE ASSOCIAZIONI. “In Italia - si spiega il Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) in uno studio pubblicato nel suo organo ufficiale - la legge prevede due forme di volontariato: la prima consente l’ingresso in carcere, la seconda riguarda i cosiddetti “assistenti volontari”, singole persone o appartenenti a gruppi dediti esclusivamente al volontariato in carcere. Quanto al tipo di impegno e alle attività al servizio dei detenuti, le più comuni sono mirate al sostegno della persona e delle famiglie, oltre alle attività sportive, ricreative e culturali. Riguardano invece una minoranza di volontari la formazione al lavoro e le attività religiose”. Anche quello del volontariato, come quello dei detenuti, è un mondo assai variegato ma quasi sempre legato al Ministero della Giustizia. “La maggior parte delle anime che compongono il volontariato italiano - scrive il Dap - sono organizzate all’interno delle circa 200 associazioni riconosciute dal Ministero della Giustizia. Il loro è un prisma variopinto di attività, ispirazioni, missioni e modo di vivere e vedere il ruolo sociale che svolgono. Dal volontariato cattolico a quello laico, le tante facce dell’associazionismo mettono insieme oltre 9 mila persone, la quasi totalità dei volontari impegnati nelle carceri italiane”. Numeri importanti che riescono a sopperire, in buona parte, alle carenze dello Stato. “Guardando ai numeri - spiega lo studio del Dap - l’ultima analisi realizzata dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ha evidenziato alcune caratteristiche significative che ben spiegano il fenomeno. In media all’interno di ognuna delle strutture penitenziarie operano 32 volontari, con una presenza che tra il 2005 e il 2010 è andata crescendo nell’ordine del 10%. A livello territoriale la presenza maggiore è garantita al Nord da dove provengono quasi il 50% dei civili che offrono il loro sostegno, contro il 30% del Centro e il 20% del Sud. Sul fronte del genere, invece, la presenza delle donne è più massiccia perché queste ultime rappresentano in media il 55% del totale, contro il 45% degli uomini”. Tra le attività svolta all’interno, la più diffusa sembra essere quella dell’ascolto attivo e del sostegno morale e psicologico seguita dal sostegno materiale ma sarebbe forte anche la ricerca del supporto religioso. “Il nostro compito - conferma, Giulia Ronga, 40 anni, da quattro anni direttrice della casa di accoglienza dell’associazione romana Volontari in carcere (VIC) ma da 16 anni (14 dei quali all’interno del carcere di Rebibbia) impegnata nel volontariato - è quello di accompagnare i detenuti in un percorso di cambiamento. Qualcuno di loro ci chiama solo per scambiare quattro chiacchiere, altri per avere sostegno psicologico e per loro abbiamo dei volontari psicologi”. Tra i compiti dei VIC, associazione della Caritas romana operativa dal 1986 e con all’attivo un centinaio di volontari, anche quello dell’assistenza esterna. “Nella casa d’accoglienza - spiega, ancora, Giulia - diamo ospitalità a detenuti in permesso e i semilibertà ma anche a familiari che arrivano in città per i colloqui e non possono permettersi di andare negli alberghi. Detenuti e famiglie disagiate economicamente che a volte lasciano all’associazione un’offerta di 5 euro i primi e di 10 euro i secondi ma sempre a discrezione, secondo le possibilità di ognuno di loro. “Molte volte - chiude Giulia - non lasciano nulla e noi non chiediamo nulla”. Puglia: l’appello di 30 direttori e dirigenti Uepe; si riformi l’esecuzione penale esterna Redattore Sociale, 27 agosto 2012 Dalla Puglia un appello al ministro per le misure alternative alla detenzione e per salvare con un indirizzo chiaro di politiche di decarcerizzazione, il sistema alternativo che da dieci anni langue nel dimenticatoio dei governi. Una lettera sottoscritta da trenta dirigenti e direttori dell’esecuzione penale esterna ed indirizzata al ministro della Giustizia Paola Severino e al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino. È quella che qualche giorno fa è stata inviata dalla Puglia per “salvare e rilanciare l’esecuzione penale esterna e le misure alternative”, un appello già lanciato lo scorso gennaio dalla Puglia per scongiurare lo smantellamento delle strutture non detentive. In tre pagine gli operatori dell’esecuzione penale esterna pugliesi sostengono la scelta del ministro di “dare priorità alle misure alternative” ma si dichiarano altrettanto preoccupati della gestione di tali misure sul territorio in assenza di un forte potenziamento delle strutture e dei servizi territoriali, in assenza di indirizzi chiari. Soprattutto, a preoccupare, sono “gli effetti negativi che potrebbero avere, anche nell’opinione pubblica, gravi défaillance nella gestione delle misure, per i danni all’immagine dell’Amministrazione e al sistema stesso delle alternative alla detenzione”. Del resto, il lavoro compiuto in questi anni dai Dap (Dipartimenti di amministrazione penitenziaria), ha resistito alla tentazione che più governi hanno sollecitato negli ultimi tempi: quello di ridurre la sanzione alla pena detentiva con una scarsa efficacia, anche in termini di contrasto delle recidive. Da dieci anni non vengono assegnate né risorse né personale a questo settore, il che significa una “perdita del 40% del personale”, mentre nel settore della detenzione in sei anni sono stati “assunte circa 3.890 nuove unità”. Eppure il lavoro degli Uffici di esecuzione penale esterna non si è mai interrotto. Nel solo 2011 l’esecuzione penale esterna “ha assicurato 150mila interventi e oltre 52mila giornate di presenza sul territorio ed oggi eseguono un numero di misure alternati (22mila) uguale a quello in corso prima dell’indulto ma hanno il 40% degli operatori in meno”, pur in assenza di un indirizzo chiaro, giacché, come denunciano dalla Puglia, “fino al 2011 il direttore generale dell’esecuzione penale esterna non ha avuto una strategia o, se l’ha avuta, l’ha dimenticata per strada”. Anche questa, quella della nomina del futuro direttore generale, è una questione che dalla Puglia reputano centrale e non più rinviabile. Insomma, per gli operatori pugliesi è giunto il momento di “arrestare lo smantellamento silente di questo settore” per costruire politiche serie di decarcerizzazione, necessarie dal punto di vista non solo storico e della difesa dei diritti, ma anche organizzativo e gestionale. “Finché l’Amministrazione Penitenziaria si reggerà solo sulla gamba detentiva - sottolinea Eustachio Vincenzo Petralla, direttore dell’Uepe di Bari - sarà un’amministrazione zoppa”. “In periodi di crisi - si legge nella chiosa della lettera invita al ministro - sopravvivono le organizzazioni che sanno immaginare il futuro e prepararsi ai cambiamenti; riteniamo che questo valga anche per l’Amministrazione penitenziaria, bisognosa, oggi, di idee lungimiranti e azioni innovative. Ci sembra giunto il tempo in cui il processo riformatore avviato nel 1975 e interrotto nell’ultimo decennio, sia riavviato e completato con la riforma dell’esecuzione penale esterna”. Lombardia: Cgil; grave carenza di assistenti sociali dell’esecuzione penale esterna Tm News, 27 agosto 2012 “Quando si parla di sicurezza sociale si pensa solo al carcere mentre si dovrebbe pensare anche al territorio, e qui parlano i numeri: 9.374 i detenuti in carcere a fine luglio in Lombardia, 6.711 le persone in misure alternative di detenzione (affidamenti, detenzioni domiciliari, semi libertà, libertà vigilata fra le altre) alle quali fanno fronte 103 assistenti sociali, direttori degli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) compresi”. È quanto ha denunciato Barbara Campagna, coordinatrice regionale Fp Cgil Lombardia - Dap Comparto ministeri. “La carenza di assistenti sociali impegnati nelle attività di esecuzione penale esterna è allarmante in tutto il Paese, dove gli Uepe seguono complessivamente 32.815 misure, ed è la Lombardia (sottodimensionata anche per le altre figure professionali del sistema, dagli educatori ai contabili) a seguire il maggior numero di casi” ha proseguito la funzionaria della Cgil, sottolineando che “seguire significa recarsi presso le famiglie, i datori di lavoro e gli istituti di pena a far colloqui e controlli professionali sulle persone affidate e mantenere contatti con la Magistratura di sorveglianza e gli enti locali”. “Ma come poter operare per favorire efficacemente il reinserimento sociale con questi numeri? Gli assistenti sociali sono già al 50%, come previsto dall’ultimo Dpcm, con l’ultimo concorso che risale al 1999” ha continuato la Campagna, concludendo che “in più si stima che a breve il 20% di loro andrà in pensione, mettendo a rischio chiusura anche qualche Uepe”. Sul tema è intervenuta anche Gloria Baraldi, segretaria Fp Cgil Lombardia, spiegando che “i tagli del Governo a personale e risorse e, ultima, l’invarianza di spesa prevista dalla spending review stanno demolendo un sistema che andrebbe invece consolidato con un approccio organico, concreto e realista al tema dell’esecuzione penale, che non può prescindere da interventi sul territorio”. Secondo la segretaria Fp-Cgil “occorre investire sull’area penale esterna come modalità di rieducazione, anche nella prospettiva di porre rimedio al problema del sovraffollamento carcerario. “Se, per assurdo, gli assistenti sociali smettessero di operare nelle carceri lombarde - ha concluso la Baraldi - ci sarebbero oggi 16.085 detenuti! Così, per rafforzare ruolo e valore del lavoro pubblico, sciopereremo il prossimo 28 settembre”. Sulla grave situazione degli assistenti sociali qualche settimana fa è stato lanciato un appello al ministro della Giustizia Paola Severino, con una petizione on line, “per un reale rilancio dell’esecuzione penale esterna e delle misure alternative al carcere”. Puglia: al via il Piano Carceri, plaude il Sindacato di Polizia penitenziaria Osapp www.traninews.it, 27 agosto 2012 Il Commissario Delegato dal Governo Monti e dal Ministro della Giustizia Paola Severino Prefetto dottor Angelo Sinesio ha pubblicato la gara con procedura d’urgenza per la realizzazione di 200 posti per la Casa circondariale di Trani, pubblicata Gazzetta ufficiale n. 92 dell’8 agosto. Inizia dalla Città Penitenziaria di Trani per la Regione Puglia la costruzione di uno dei nuovi tre padiglioni la cui complessiva capienza dopo Trani con 200 posti, a seguire Taranto e Lecce comporterà una disponibilità ulteriore di posto letto dai 600 agli 800 unità che si andranno ad aggiungere agli attuali 2.450 posti regolamentari. Il Sindacato di Polizia Osapp lo aveva abbondantemente preannunciato fin dalle prime “indiscrezioni “ dopo l’incontro tra Sindacati e Governo a Palazzo Chigi nel luglio 2009 la costruzione di un nuovo padiglione per Trani voluto dallo stesso Sindacato promotore della richiesta, indiscrezione che finalmente oggi trova concreta attuazione nell’interesse della collettività penitenziaria. Trani oggi con due distinti Penitenziari nella città, quello maschile di Via Andria con capienza regolamentare di 220 posti letto ma a quota quasi 400 detenuti e quello Femminile Crf con circa 40 detenute Istituto attaccato alla Chiesa di san Domenico che affaccia sul mare lato Villa Giardini Villa Comunale di cui si è chiesto la chiusura per ovvie ragioni di opportunità, sicurezza e costi economici esosi, potrà contare, tra la ipotesi annunciata costruzione di una nuova Sezione Femminile ed ampliamento reparto detentivo maschile di ulteriori 200/300 posti letto portando così la forza detenuta a circa 600/700 persone quasi un ritorno all’ex Carcere di massima Sicurezza del 1977/1980 che ospitò Toni Negri, Vallanzasca, Piunti, Giannini, Concutelli, Fioravanti e Piccioni e tanti di quei nomi storici del terrorismo di destra e di sinistra che segnarono in negativo l’efferatezza della criminalità organizzata e di quella politica con la Rivolta del dicembre 1980. Se da un lato esprimiamo soddisfazione al progetto Ionta-Alfano e l’attenzione posta alla regione penitenziaria Puglia, dall’altro non nascondiamo la preoccupazione che l’attuale sovraffollamento del 75% con 4.500 detenuti possa diventare ulteriore punto di criticità e fibrillazione in un sistema Carcere sempre maggiormente abbandonato. Con la Costruzione del nuovo Padiglione Trani avrà necessità di almeno 100 poliziotti 80 uomini e 20 donne che potranno essere attinti dalle Graduatorie secondo criteri, principi e tempi dettati nel Pdg sulla Mobilità nazionale esterna. L’auspicio e che dopo la Città di Trani anche la città di Bari possa beneficiare di un nuovo e moderno penitenziario dalla ricettività di 800 posti letto nella già individuata Zona Carbonara Stadio e che tale auspicata realizzazione trovi collocazione nella “Cittadella della Giustizia”. Domenico Mastrulli Vicesegretario Generale Nazionale Osapp Emilia Romagna: Pollastri (Pdl); interrogazione rischio proselitismo islamico tra detenuti Comunicato stampa, 27 agosto 2012 “Conversioni forzate all’islam e reclutamento di terroristi, che dimensioni hanno questi fenomeni tra i detenuti della nostra Regione?” A chiederlo con un’interrogazione è Andrea Pollastri (Pdl). “Dopo quattro anni di indagini - scrive il Consigliere - l’Istituto superiore di studi penitenziari ha pubblicato un fascicolo di 136 pagine relativo alla diffusione del terrorismo islamico all’interno delle carceri italiane, da cui risulterebbe che, come avevano segnalato i Servizi Segreti, sarebbe in corso “un’insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta da “veterani”, condannati per appartenenza a reti terroristiche, nei confronti di connazionali detenuti per spaccio di droga o reati minori”, attraverso lo sfruttamento del particolare stato psicologico di coloro che entrano nel sistema carcerario.” Nelle prigioni, infatti, i reclutatori hanno costruito una poderosa rete di controllo e manipolazione che si basa, in Italia, come nel resto dell’Occidente, su una vera e propria rete che coinvolge alcune tra le principali sigle terroristiche, tra cui Gruppo Salafita per la predicazione ed il combattimento (Algeria), Gruppo islamico combattente marocchino, Ansar al-Islam (Medio Oriente), Hamas (Palestina) e Al Qaeda. Il proselitismo, finalizzato alla ricerca di nuovi mujaheddin da impiegare nelle cellule europee e sui fronti caldi della “guerra santa”, soprattutto in Medio e Vicino Oriente, avviene tramite soggetti che hanno incarichi specifici: ci sono i “detenuti leader”, figure carismatiche e fanatiche che arrivano a proclamarsi “veri e propri imam”, i “promotori”, apparentemente moderati, incaricati di dialogare con le direzioni degli Istituti di pena allo scopo di ottenere spazi comuni “per incontri tra detenuti di fede islamica” ed i cosiddetti “detenuti partecipanti”, assidui frequentatori degli incontri. Altri elementi determinanti che caratterizzano l’attività di reclutamento sono i flussi di corrispondenza epistolare, colloqui visivi e telefonici e le somme di denaro in entrata e in uscita, soprattutto dirette a persone indigenti; I numeri dicono che su oltre 10mila reclusi musulmani, di cui 76 classificati come “terroristi internazionali”, sono stati individuati “57 detenuti nei confronti dei quali è iniziata nell’aprile 2008 una raccolta dati, ancora in corso”. “All’estero il problema sta assumendo dimensioni preoccupanti - spiega Pollastri: in Gran Bretagna e Stati Uniti sono numerosissime ed in costante aumento le conversioni forzate all’islam nelle carceri, in Francia il gran numero di terroristi detenuti ha imposto l’introduzione di un codice di allarme a quattro livelli dove, nei casi più gravi, sono segnalate aggressioni, sommosse e distruzione dei locali ad opera dei fondamentalisti, in Spagna, invece, dalle carceri venivano passati informazioni ed ordini agli estremisti all’esterno dei penitenziari. In Italia, come segnalato dal Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, il problema è ancor più grave poiché vi è l’ulteriore rischio di alleanze tra il terrorismo di matrice islamista, con quello più “tradizionale” di natura anarchica e brigatista.” “Di fronte al dilagare del fenomeno - prosegue l’azzurro - chiedo se esso sia presente, e in che misura, anche nelle carceri emiliano-romagnole, se vi sia stata segnala la presenza di terroristi islamici o attività di tipo terroristico, anche di matrice diversa.” “Non si può permettere - chiosa Pollastri - che le nostre case circondariali, già afflitte da mille problemi, diventino la fucina di coloro che vogliono distruggere la nostra società ed utilizzino chi è in stato di necessità per far prevalere la logica della violenza e del sopruso: intendo sollecitare la Regione per conoscere cosa intenda fare per prevenire e contrastare i fenomeni di conversione forzata e reclutamento terroristico.” Potenza: delegazione Radicale in visita al carcere, un primo resoconto di Maurizio Bolognetti Notizie Radicali, 27 agosto 2012 Rita Bernardini da anni visita le carceri del bel paese fotografandone la condizione di degrado e illegalità e raccontando, in lunghi e articolati atti sindacato ispettivo, quanto le patrie galere siano lontane dai precetti dell’art. 27 della Costituzione e luoghi in cui troppo spesso si viola la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. Le carceri, che Marco Pannella ha definito “un consistente e allarmante nucleo di nuova shoah”. Le carceri, luogo di tortura per detenuti e agenti di Polizia penitenziaria. Con Rita Bernardini abbiamo trascorso due giorni sulla rotta Basilicata-Puglia per verificare le condizioni di vita della “comunità penitenziaria” nelle case circondariali di Potenza e Taranto. Domenica 19 agosto, ore 12.10. Dopo aver tenuto una conferenza stampa all’ingresso della casa circondariale di Potenza, finalizzata a spiegare il senso e il significato di una richiesta di amnistia che non a caso abbiamo definito “amnistia per la Repubblica”, varchiamo il cancello ed entriamo in un carcere che visitiamo con regolarità da anni. Ad accoglierci, con un sorriso che contrasta con le condizioni di una struttura che presenta numerose “criticità”, alcuni agenti di Polizia penitenziaria. Mentre ci avviamo nella stanza del comandate per firmare i moduli di rito, nei corridoi captiamo un commento pronunciato da un agente: “Solo questi ci possono salvare”. Sento e penso che dovremmo salvare noi stessi e questa Repubblica interrompendo la flagranza di reato in corso contro i diritti umani e la Costituzione. Pochi minuti dopo, Rita è al telefono con il direttore, il dottor Ferrandina. Chiacchierando con gli agenti, apprendiamo di una soluzione molto italiana ai problemi di sovraffollamento. Sembrerebbe che la capienza regolamentare dell’istituto sia stata portata da 170 a 202 posti e la cosiddetta capienza tollerabile da 230 a 260. Viene in mente la lettera del prof. Andrea Pugiotto in cui si parla di “capienza costituzionale”. Il carcere di Potenza non è Poggioreale, ma in ogni caso il reparto penale - l’unico aperto - capienza regolamentare alla mano fa registrare comunque un sovraffollamento. Iniziamo la visita dalla prima sezione e dalla cella n.1: i metri quadrati a disposizione dei 4 detenuti presenti sono 18 e qualcuno lamenta il fatto che nel bagno in cella non ci sia acqua calda. Un altro detenuto ci racconta dei suoi cinque rigetti. I detenuti stranieri presenti sono 16 su 114. Per tutti 4 ore d’aria e due ore di cosiddetta saletta. Nella cella n.9, un detenuto ci racconta che per aver prestato soccorso alla madre ha perso i benefici degli arresti domiciliari. Il magistrato non gli ha contestato il reato di evasione. Procediamo entrando in ogni cella e ascoltando storie. Nella cella n. 2, Oreste lamenta la distanza dalla famiglia e ci dice che ha 4 bambini e che finalmente tra 110 giorni uscirà. Nella stessa cella, M.R. oggetto di una precedente interrogazione di Rita ha finalmente avuto il trasferimento che aveva chiesto. Entriamo nella cella n. 8 dove convivono 2 definitivi e 3 giudicabili; potrà apparire un paradosso, ma si respira una grande armonia e solidarietà. M.P. fa da piantone a un compagno di cella che ha problemi di salute. I detenuti presenti ci mostrano uno sgabello della cella adattato a forno. Saliamo al primo piano e non possiamo fare a meno di notare che dal finestrone dell’ala si intravede la Sider con i suoi fumi che appestano Potenza. Nella cella n.15 incontriamo un detenuto trasferito da poco dal padiglione Napoli di Poggioreale: dovrà stare in carcere fino al 2018 e il suo sogno è quello di essere trasferito a Gorgona per poter lavorare; è arrivato da 15 giorni a Potenza e di certo, e con buona pace del Ministro Severino, non rimpiange Poggioreale e il padiglione Napoli. Ci racconta dei 45 minuti di visita della Ministra e poi aggiunge che “Poggioreale è un inferno”. Nella stessa cella incontriamo di nuovo M.L. che ci racconta di aver potuto vedere i nipotini solo in foto e che la sua richiesta di trasferimento è stata rigettata. Il detenuto che sogna di andare a Gorgona dice che a Potenza sta bene e che c’è rispetto reciproco tra agenti e detenuti, poi si fa scuro in volto e ci parla della morte di “Zio Gennaro”, stroncato a 45 anni da un infarto in quel di Poggioreale. Su una porta del corridoio noto una locandina, c’è scritto “Cinestate”. Inevitabilmente lo sguardo cade su uno dei titoli in cartellone: “La ricerca della felicità”. Gli agenti mi spiegano che sono riusciti ad organizzare un paio di mesi di cineforum. Con orgoglio mi fanno notare un’altra locandina: “Olimpiadi all’ombra”. Mi spiegano che l’area trattamentale di concerto con l’area sicurezza ha organizzato, nel periodo 6 luglio - 9 agosto, un torneo di calcetto a 8, un corso di basket e poi tornei di battimuro, morra cinese e sprint dei 10 metri(basato sulla lunghezza del passeggio). Altra cella, la numero 15. Troviamo C.L. trasferito da Secondigliano, ci racconta che la moglie e la figlia soffrono di epilessia e che in 3 anni e mezzo ha potuto vederle solo 10 volte. C.L. vorrebbe tornare a Secondigliano e ha presentato domanda di trasferimento. Le ore passano e Rita visita le celle una per volta fermandosi a parlare. Nella cella n.18, T.L. ci racconta che c’è un’azienda pronta ad offrirgli un lavoro e che la Direzione e il Sert hanno dato parere favorevole al trattamento esterno. M.G. è da dicembre a Potenza per un reato commesso nel 2002, dice che gli hanno dato l’art. 80 comma 2 (possesso di ingenti quantitativi di marijuana). Nella cella si apre un dibattito sulla Fini-Giovanardi e sulle disobbedienze civili radicali. I detenuti tossicodipendenti sono 30 su 114. Proseguiamo e come da copione, come ogni anno, come in ogni visita, nelle celle 21-22 e 23 il solito cesso a vista. Continuiamo la nostra visita e nella cella n.3 sono intenti a cucinare zucchine e crostata. B.D., trasferito a Potenza con provenienza Poggioreale, si fa il segno della croce e con un sorriso a 32 denti dice: “Qua sto in paradiso”. Gli occhi sono quelli di chi ha visto l’inferno e non posso fare a meno di pensare al paradosso di chi può arrivare a definire paradiso una condizione di detenzione dopo aver vissuto in una delle carceri con il maggior indice di sovraffollamento e con una popolazione che è pari ad un piccolo comune della Basilicata. Entriamo nella sala socialità e 17 detenuti in circolo ascoltano Rita che illustra lo stato dell’arte e parla della Fini-Giovanardi, della ex Cirielli. Mi metto in un angolo e ascolto. Accanto a me un detenuto che indossa una maglietta con la scritta Napoli a caratteri cubitali inizia a porre domande sull’interlocuzione di Pannella con il Presidente Napolitano: è informatissimo. Rita chiede della spesa ed esplode un dibattito sui prezzi. Si inizia a parlare del caffè Kimbo, quotatissimo per forza o per amore, e di batterie. Si scatena una discussione sul caro vita e sulla crisi. Eccoci nella sala colloqui: il muretto è ancora lì. Certo, niente a che vedere con quella che a Taranto, con ironia, definiscono “pescheria”. Gli agenti ci informano dell’assenza di un servizio di prima accoglienza. Ci guardiamo attorno e nel complesso la struttura è migliorata rispetto all’ultima visita e all’interrogazione presentata da Rita, ma permangono di certo alcune delle illegalità che abbiamo sottoposto all’attenzione della Procura della Repubblica di Potenza. Lasciamo il reparto maschile e ci dirigiamo verso il femminile. Nella cella n.7 ci raccontano che l’intera sezione(17 detenute) ha aderito ai 4 giorni di iniziativa nonviolenta. Rita parla con le detenute e c’è chi lamenta il fatto che si possono fare poche docce. Nella cella n. 1, R.C. è da due mesi in lista di attesa per un intervento chirurgico. Sono le 17.30 circa e la visita volge al termine. Domani si va a Taranto che come Melfi è una delle famigerate “Carceri d’oro”. Nell’avviarmi verso l’uscita una volta di più penso al sorriso del detenuto che ha definito il carcere di Potenza un paradiso. Un paradiso con i cessi a vista, il muro di cinta che crolla, il muretto divisorio nella sala colloqui, la carenza di personale che dovrebbe occuparsi della rieducazione e del reinserimento sociale dei detenuti… Sì, in questo paese stretto nella morsa di una illegalità sistemica, la piccola casa circondariale di Potenza appare un paradiso agli occhi di chi ha visto l’inferno. Noi intanto continuiamo a snocciolare cifre e a raccontare di detenuti e agenti di Polizia penitenziaria che si suicidano, vittime silenziose e silenziate dell’assenza di legalità e Stato di diritto. Continuiamo a riferire - nell’attesa che il dibattito negato prima o poi possa esplodere - delle condanne ultra trentennali inflitteci dalla Corte di Giustizia europea, della irragionevole durata dei processi e di carceri indegne di un paese civile. La prepotente urgenza, dov’è signor Presidente? Con l’intera comunità penitenziaria e con Pannella noi continuiamo a ripetere che occorre interrompere la flagranza di reato contro i diritti umani e la costituzione. La riforma strutturale per poter affrontare la bancarotta della giustizia e il suo putrido percolato carcerario si chiama amnistia e noi vorremmo poter raccontare al paese perché essa è “amnistia per la Repubblica”, per uno Stato che da troppo tempo veste i panni del delinquente professionale. Bari: Sappe; fondi per il nuovo carcere dirottati a Pordenone, responsabilità di Vendola www.leccenews24.it, 27 agosto 2012 Il Sappe denuncia che, a causa del No della Regione Puglia, i fondi che sarebbero stati destinati a Bari andranno a Pordenone per la costruzione del nuovo istituto Era previsto nel “piano carceri” la costruzione di un nuovo istituto penitenziario a Bari per cui, in data 15 Settembre 2011, fu dato anche incarico ad un architetto in servizio presso l’Ufficio del Commissario Delegato, da parte dell’allora Commissario straordinario nonché Capo del Dap Franco Ionta. L’incarico prevedeva la predisposizione di un progetto preliminare per la realizzazione di un nuovo Istituto Penitenziario a Bari. Proprio per questo nei primi mesi del 2012 alti funzionari dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma e di Bari, incontrarono nel capoluogo di regione sia il sindaco della Città che il Presidente della Regione. Il nuovo carcere che sarebbe costato circa 45 milioni di euro, avrebbe potuto ospitare circa 700-800 detenuti. Questo è il racconto del Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria che ricorda anche, da quegli incontri, emersero un parere positivo del Sindaco di Bari ed alcune contrarietà da parte del Governatore della Puglia. “Purtroppo la contrarietà del presidente Vendola ha avuto un peso tanto determinante che la città di Bari, alla fine del mese di Maggio 2012, è stata esclusa dal “piano carceri” , ed i circa 45 milioni di euro sono stati riassegnati a Pordenone prendendo la via del Friuli Venezia Giulia” afferma Federico Pilagatti del Sappe. Fortunatamente i finanziamenti per la costruzione di nuovi padiglioni detentivi all’interno delle carceri di Lecce(12,7 milioni di euro), Taranto(12,7 milioni di euro) e Trani(11.8 milioni di euro), per un totale di 600 posti (che potrebbero arrivare ad 800-1000) sono stati confermati e presto, se non ci saranno ulteriori intoppi, potrebbero partire i lavori. Ma l’amaro in bocca per il carcere “mancato” di Bari c’è tutto. Il Sappe non ci sta, “poiché l’occasione persa è una sconfitta per tutti, a partire proprio da quei politici regionali che tanto si indignano per la situazione delle carceri pugliesi e che a parole, si dimostrano solidali anche con provvedimenti che poi risultano essere solo carta straccia” conclude Pilagatti. Nuoro: Sdr; detenuto a Badu e Carros denuncia “dormo sulla rete di ferro” Ristretti Orizzonti, 27 agosto 2012 “La informo che fino ad oggi sto dormendo senza materasso, cuscino, coperta e lenzuola”. Lo ha scritto Biagio Campailla, detenuto nel carcere di Badu e Carros, alla presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” Maria Grazia Caligaris. L’uomo, ergastolano, in regime di Alta Sicurezza, protesta pervicacemente in quanto ritiene di avere diritto a una cella singola essendo peraltro affetto da diverse patologie e da una grave allergia agli acari accertata dai Medici dell’Asl di Nuoro. “Nessuno prende provvedimenti - ha scritto nella missiva - per farmi ottenere la cella singola pertanto ho informato la Procura di Nuoro. Sono persino arrivato a formulare una finta minaccia al Dirigente Sanitario in modo da essere denunciato per poter chiarire la condizione in cui mi trovo ma ancora non ho avuto risposta”. L’uomo, che precedentemente aveva ottenuto la cella singola, sostiene di essere stato costretto a ospitare, sebbene in momenti diversi, altri due detenuti, uno dei quali è ancora con lui. “Il problema del sovraffollamento - afferma la presidente di Sdr - sta creando serie difficoltà con i cittadini privati della libertà affetti da pesanti patologie. Il caso Campailla è emblematico delle tensioni che nascono quando determinate condizioni, seppure previste dall’ordinamento penitenziario o da disposizioni mediche, non possono essere soddisfatte. È evidente infatti che il detenuto interpreta negativamente, considerandolo un atteggiamento volutamente lesivo nei suoi confronti, qualunque atto seppure necessitato da impedimenti contingenti. Del resto l’ammodernamento delle celle di Badu e Carros e la realizzazione del nuovo reparto, hanno migliorato le condizioni strutturali ma hanno ridotto gli spazi disponibili per i detenuti”. “Piuttosto che continuare a stipare le celle, determinando situazioni ingestibili per i Direttori degli Istituti di Pena e per gli Agenti, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe - sottolinea Caligaris - effettuare un monitoraggio in modo da assegnare i detenuti con gravi patologie in apposite strutture sanitarie. Nel caso specifico Campailla è in attesa di effettuare una Risonanza Magnetica cervicale e lombare e uno studio neurofisiologico per valutare i necessari interventi relativamente a problemi della colonna vertebrale. L’uomo infine chiede di scontare la pena detentiva in Belgio dove vivono l’anziana madre e la figlioletta in modo da poter effettuare regolari colloqui”. Bologna: tre detenuti del carcere della Dozza raccoglieranno frutta a Finale Emilia di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 27 agosto 2012 Lavoreranno gratuitamente nel paese terremotato, per raccogliere le pere dell’Istituto Calvi che altrimenti rischiano di marcire. Dalla Dozza a Finale Emilia. Tre detenuti del carcere di Bologna - grazie all’interessamento e al supporto logistico del Cefal, consorzio bolognese per la formazione - da lunedì e venerdì lavoreranno gratuitamente nel paese terremotato. Raccoglieranno le pere cresciute nel frutteto dell’Istituto superiore Ignazio Calvi, uno dei tanti plessi scolastici lesionati dalle scosse e dichiarati inagibili. I frutti, che altrimenti rischiano di marcire, saranno poi venduti e il ricavato servirà per finanziare un progetto di ristrutturazione. L’iniziativa, non pubblicizzata dalla direzione del carcere, per timore di resistenze e ostilità, servirà anche per tentate di scalfire pregiudizi e paure. La nuova iniziativa si va ad aggiungere al progetto strutturato promosso dal ministro di Giustizia Paola Severino, quello che già consente ad altri detenuti di prestare la loro opera in paesi del Modenese. Salerno: detenuti con i cellulari in cella, trasferiti in quindici La Città di Salerno, 27 agosto 2012 Una quindicina di detenuti del carcere di Fuorni sono stati trasferiti presso altre strutture di massima sicurezza in altre regioni d’Italia. Sono fuori dalla casa circondariale di Salerno detenuti di varie zone del territorio provinciale, incluso alcuni che risiedono nella Valle dell’Irno e a Pontecagnano. Detenuti che nonostante fossero rinchiusi in una cella continuavano a tenere contatti con l’esterno utilizzando cellulari. Dopo la scoperta fatta a metà agosto dagli agenti della polizia penitenziaria di due cellulari custoditi in una cella di alta sicurezza del carcere, insieme al caricabatteria, perfettamente funzionanti, è stato aperto un fascicolo d’indagine. Sembra, infatti, che vi fossero più detenuti che, grazie ai telefonini, mantenevano contatti fuori dal carcere. Gli inquirenti intendono vederci chiaro e nel mirino degli investigatori sono finiti i detenuti che avevano tra loro maggiore confidenza e che forse nell’ora d’aria non intrattenevano discorsi di vari genere, ma mettevano a punto il sistema migliore per pianificare l’entrata in carcere dei cellulare e per studiare come e quando utilizzarli. Si indaga per capire, oltre ai parenti e amici, chi li abbia aiutati e soprattutto quali siano stati i contatti con l’esterno. Sono coinvolti nell’inchiesta personaggi legati al mondo dell’usura e del riciclaggio, di spaccio di stupefacenti e commercio clandestino di armi. Dunque esponenti della criminalità, anche organizzata, che per mesi potrebbero aver continuato a impartire direttive dal carcere. Sul fronte dei contatti dei detenuti avrebbero già raccolto informazioni preziose. Al vaglio degli inquirenti in questi giorni ci sono state, infatti, le registrazioni di intercettazioni e soprattutto l’analisi dei tabulati relativi al traffico delle due schede telefoniche sequestrate lo scorso 8 agosto. Gli investigatori avrebbero individuato già alcune persone con le quali i detenuti erano in contatto e sarebbero risaliti alla loro identità. Di qui i provvedimenti di trasferimento di alcuni detenuti. I due cellulari sono stati scoperti in una cella condivisa da cinque persone, dopo una complessa attività di indagine. Non si sa chi e quanti di loro si siano serviti della doppia utenza telefonica, nè da quanto tempo erano riusciti ad eludere i controlli. Verona: continua il progetto “Libera dal carcere la mia vita” L’Arena di Verona, 27 agosto 2012 Continua il progetto “Libera dal carcere la mia vita” curato dalle associazioni di volontariato “Ripresa responsabile”, “Vivere con dignità” e “Giustizia e Pace”, con il sostegno della Fondazione San Zeno di Verona. In questo progetto, indirizzato alle persone detenute nella Casa circondariale di Montorio, di Padova e Biella, l’aspetto più significativo riguarda gli inserimenti lavorativi che rappresentano il recupero pieno dell’individuo alla legalità. Spiega Paolo Bottura che opera in questo ambito come volontario: “Crediamo di poter riconoscere una lenta ma tangibile crescita della sensibilità verso i temi della responsabilità sociale di fronte alle complesse questioni del crescente disagio, della devianza, dell’esecuzione penale e della giustizia nella concretezza dei suoi compiti. A settembre partirà un nuovo inserimento lavorativo presso una importante azienda del territorio. La persona coinvolta, per un comportamento particolarmente positivo durante la detenzione, dopo anni di carcere potrà, in misura alternativa alla carcerazione rientrare in famiglia. Accanto al lavoro, mettendo a disposizione le proprie capacità professionali, sarà impegnato, a fine pena, in un progetto di volontariato con un organismo che si prende cura di varie forme di handicap”. Altro aspetto non marginale del progetto sono le attività di sensibilizzazione, di informazione e dialogo. Continua Bottura: “Anche quest’anno saremo presenti alla tradizionale Festa della parrocchia di Cristo Risorto a Bussolengo. Per tutta la durata della Festa, venderemo libri e artigianato etnico come attività di autofinanziamento; organizzeremo una raccolta di prodotti per l’igiene personale dei detenuti nel carcere di Montorio”. Un momento significativo della Festa sarà l’incontro dibattito con don Virgilio Balducchi, responsabile nazionale dei cappellani delle carceri italiane, giovedì 6 settembre alle 20.45 nel salone don Bosco. Venezia: “Il Gemello”, di Vincenzo Marra; il Festival del Cinema… ha i suoi carcerati di Fulvia Caprara La Stampa, 27 agosto 2012 Raffaele ha una sua teoria: “Il carcere o ti fa diventare scemo, o criminale, oppure ti fa uscire ancora più arrabbiato di prima”. Le giornate, lì dentro, scorrono lente come tartarughe, pesanti come macigni. Ogni mattina si ricomincia, ma è sempre tutto uguale, come i passi nel cortile dell’ora d’aria, come il ritornello della canzone neo-melodica preferita. I dolori, però, sono diversi, e non bruciano di meno, anzi: “Con me - dice Raffaele - la vita è stata dura”. Ventinove anni, napoletano, due fratelli gemelli (da cui il suo nomignolo che dà il nome al film, Il Gemello), Raffaele Costagliola è il protagonista del documentario che Vincenzo Marra ha girato nel Centro Penitenziario di Secondigliano. Un’altra, bellissima faccia, scolpita di ingegno e di sofferenza, nella galleria di detenuti attori che il cinema italiano sta regalando al pubblico di quest’ultimo anno. Prima i Taviani con i carcerati che recitano Shakespeare in Cesare deve morire, poi Matteo Garrone con l’ergastolano Aniello Arena protagonista di Reality, premiato a Cannes e in uscita alla fine di settembre, ora Marra con il film (prodotto da Gianluca Arcopinto e Angelo Russo Russelli) in cartellone a Venezia, alle “Giornate degli Autori”. Linguaggi, obiettivi e risultati sono naturalmente diversissimi, ma il fascino per le esistenze degli ultimi, dei reietti, di quelli per cui vivere significa scontare una condanna, è simile: “Sono dodici anni che faccio questo tipo di cinema - dice Marra - e rivendico un metodo che mi permette, evitando la finzione, di carpire il senso del mondo che vado a raccontare. I film dei Taviani e di Garrone non li ho visti, ma sono operazioni differenti. I primi hanno preso un gruppo di detenuti e gli hanno fatto recitare uno spettacolo teatrale, il secondo ha usato un non-professionista per girare una storia sui reality, un vecchio metodo di lavoro neo-realista”. Il gemello è un’altra cosa, c’il “pedinamento zavattiniano” della realtà, ma c’è soprattutto, spiega Marra, il desiderio di condivisione: “Il carcere è tutto un set, ho girato con l’idea di chiudermici dentro, insieme a quelli che ci vivono sul serio. I detenuti sono stati tutti avvertiti, ho lavorato con una piccola troupe, volevo catapultare lo spettatore dentro quegli spazi angusti”. Non c’è sceneggiatura, ma la storia del Gemello è forte e appassionante come potrebbe esserlo quella di un qualsiasi film carcerario. Racconta la vita spezzata di Raffaele, in galera per la prima volta a 15 anni dopo aver rapinato una banca, di Gennaro, suo compagno di stanza, coetaneo, condannato all’ergastolo, di Niko cioè Domenico Manzi, 40 anni, ispettore capo del reparto Adriatico del carcere di Secondigliano, specializzato in scienze socio-penitenziarie, degli altri detenuti e dei poliziotti che si specchiano ogni giorno nei loro destini incrociati. Intorno a quei percorsi, scanditi dagli stessi appuntamenti, l’ispezione, l’incontro con i parenti in parlatorio, il lavoro dietro le sbarre nel settore del riciclaggio, le pulizie nelle celle, la preparazione dei pasti, aleggia una nube di domande. La prima, osserva il regista, è “perché un’intelligenza superiore come quella di Raffaele finisce buttata via in quel modo”, le altre riguardano “la mia terra, il momento storico che stiamo attraversando, e poi chi sta in carcere e chi invece non ci sta, perché Raffaele deve scontare, giustamente, 18 anni, ma certi dubbi alla fine ti vengono...”. Nei colloqui con Niko il “gemello” si auto-psicanalizza con una lucidità che dà i brividi: “Io una vera possibilità non l’ho mai avuta... sono cresciuto qui, la mia vita è la galera, mamma e papà sono i muri”. È impossibile, aggiunge Marra, “scendere a compromessi” davanti a confessioni come queste. L’unica strada sta nel filmare la verità dei fatti. Gli spazi angusti dove l’ordine dev’essere maniacale perché altrimenti non ci si può più muovere (“‘sta stanza l’avete trasformata, pare ‘na suite”), le letture porno consumate con una certa malinconia, la foto del cugino ucciso a 24 anni, la pasta per la pizza lavorata con passione, gli incontri con l’avvocato e le notizie brutte che filtrano come luce tagliente da serrande abbassate. Potrebbe essere solo inferno, invece non lo è, perché finché c’è scambio tra esseri umani, la speranza non è perduta: “Io non ho mai voluto aspettare niente”, ammette Raffaele. Niko lo guarda negli occhi e dice: “Leggiti un libro, si chiama Siddartha , l’ha scritto Herman Hesse, parla di attesa e di ascolto”. Libri: “41 bis, il carcere di cui non si parla”; intervista all’autrice Maria Rita Prette di Davide Pelanda www.articolotre.com, 27 agosto 2012 È appena uscito un interessante libro sul carcere che farà certamente discutere. Si tratta di “41 bis: il carcere di cui non si parla” scritto da Maria Rita Prette ed edito da Sensibili alle foglie, dove si narra sia l’escursus storico del carcere e degli articolati di legge che lo supportano “seguendo la traccia delle emergenze che di volta in volta ne hanno determinato - o pretestuosamente consentito - l’evoluzione” si legge nella quarta di copertina del volumetto. Articolotre incontrato l’autrice. Maria Rita Prette perché ha sentito la necessità di scrivere questo libro proprio sullo specifico sistema del regime carcerario del 41 bis? “Il 41 bis non riguarda soltanto quel migliaio di persone recluse in quel regime, riguarda prima di tutto i cittadini di questo Paese, ed è a loro che il libro si rivolge. Si vuole portare l’attenzione su una misura di stampo autoritario che consente di colpire dei gruppi sociali considerati “pericolosi socialmente”. Il 41 bis è preoccupante per la società italiana in quanto misura “eccezionale”, che sospende i diritti delle persone, e colpisce realtà associative. Mi sembrano elementi più che sufficienti per allarmare la coscienza civile di un Paese. Come curatrice del “Progetto memoria” ho scelto per questo lavoro sul 41 bis di utilizzare come analizzatore le misure “eccezionali” adottate per affrontare “l’emergenza terrorismo”. Soprattutto perché il 41 bis è in pratica l’art. 90, che venne allora utilizzato per sospendere i diritti dei reclusi per banda armata e associazione sovversiva. Nel libretto si ripercorre la storia di questi dispositivi per mostrare che si possono denominare in molti modi i fenomeni sociali che di volta in volta si usano per giustificare misure autoritarie. Il nazismo, per esempio, criminalizzava i pacifisti perché non giovavano al disegno della Grande Germania che aveva invece bisogno di chiamare alla guerra i suoi cittadini. Non mi sembra perciò di alcuna utilità, ai fini di questo lavoro, portare l’attenzione sul gruppo sociale colpito. Sembra invece decisivo che ciascun cittadino si assuma la responsabilità di affermare che sia legittimo torturare una persona, se questa persona rientra in una categoria disapprovata socialmente. Questo discorso ci porterebbe molto lontano, perché significa valutare con parametri diversi ciò che ci sembra accettabile in base a chi lo subisce. I forni di Mauthausen sono ancora lì, a dirci che per una società intera bruciare i portatori di handicap, gli avversari politici come gli zingari e gli ebrei, era accettabile, anche quando bruciare un ariano sarebbe apparso raccapricciante. Metteremmo noi stessi o i nostri cari in 41 bis?”. Le carceri oggi scoppiano con la risaputa cifra dei 67 mila detenuti contro una capienza di 45 mila posti circa. Ma chi c’è oggi recluso nelle strutture penitenziarie italiane? “Esistono ottime associazioni che lavorano, elaborando i dati forniti dal Ministero, per dare risposte a queste domande. Mi vengono in mente Antigone, Ristretti Orizzonti, per fare degli esempi”. Lei è favorevole all’amnistia? “Non mi sono mai interessata a questo problema, di cui periodicamente si parla da una trentina di anni, e francamente mi sembra un giochetto demagogico”. Nel volumetto che ha scritto lei critica duramente il sistema della pressione verso i detenuti “per indurli alla collaborazione con la giustizia” che ritiene “essere lesiva - cito testualmente dal libro - del principio della difesa, della facoltà di non rispondere durante un interrogatorio”. Pensa che la concezione italiana della collaborazione con la giustizia forzatamente legata al premio sia da ritenersi corretta? “L’idea di risolvere i problemi delle indagini giudiziarie attraverso l’induzione alla collaborazione dei primi malcapitati in quell’indagine non è solo italiana. Tutta la produzione di fiction poliziesche, negli ultimi trent’anni, sembra affermare che il miglior giudice o il miglior poliziotto riduce le sue capacità lavorative a questo punto: ottenere che l’indagato collabori. Alcuni lo fanno prendendoli a botte, altri torturandoli, altri ancora offrendo in cambio sconti di pena. L’immaginario è ormai bloccato su queste alternative, che nella realtà sono sempre mescolate fra loro. Sembra un po’ infantile e anche poco serio”. Sempre nel suo testo lei parla dei reati associativi della militanza politica degli anni Settanta come quella delle Brigate Rosse che ha vissuto sulla sua pelle. Ma il 41 bis oggi viene usato per la criminalità organizzata e per sconfiggere la mafia, la ‘ndrangheta ecc. Non le sembra un po’ eccessivo paragonare quel regime del 41bis alla tortura? “Il regime del 41 bis è stato assimilato alla tortura da voci ben più autorevoli della mia. Si tratta di chiedersi se spogliare una persona dei suoi diritti fondamentali (mangiare, vestirsi, lavarsi, ecc.) sia accettabile o meno. Di qualsiasi reato sia accusata una persona, la domanda che riguarda la società civile è se sia lecito infliggerle sofferenza, dal momento che la nozione di giustizia non coincide con quella di vendetta. Sono due cose separate e diverse fra loro, quale che sia il giudizio che se ne dà. Se poi questa sofferenza viene inflitta con lo scopo di distruggere l’identità di quella persona e sostituirla con una più compiacente e utile ai propri scopi, universalmente questa è riconosciuta come tortura. Quale sia l’esito di questa pratica è sotto gli occhi di tutti: narrazioni sostitutive inventate da persone sottoposte a pressione possono rafforzare i fenomeni che si vorrebbero “combattere” con questi mezzi, ben lungi dallo “sconfiggerli”. Un’ultima domanda: nel libro mi pare manchi però una sua proposta alternativa all’attuale sistema carcerario. Le chiedo dunque se ha in mente un progetto, una proposta seria e concreta da avanzare per il recupero di chi delinque e uccide? Quale situazione il delinquente dovrebbe vivere secondo la sua idea? “Dal punto di vista storico, le misure “eccezionali” che comprendono punizioni collettive, oltre ad essere normalmente considerate crimini, sono risultate efficaci per instaurare regimi basati sul terrore e sull’autoritarismo. I cittadini devono chiedersi in che tipo di società vogliono vivere. Il carcere non è sempre esistito e non esisterà per sempre. È un’istituzione nata con l’industrializzazione e poco ha a che vedere con il fatto che delle persone, nell’arco della loro vita, possano commettere dei reati o uccidere senza autorizzazione altri esseri umani (cosa che viene considerata legittima se lo si fa indossando una divisa). Poiché non esiste un solo cittadino che possa essere certo di non finire mai in un carcere, in un momento o nell’altro della sua vita, sarebbe interessante girare questa domanda ai cittadini di questo Paese. E magari sollecitare l’immaginario collettivo a pensarsi capace di costruire una società in cui i problemi della convivenza e delle differenze sia affrontato in maniera un pò più seria che non affibbiando etichette alle persone che non ci piacciono”. Marocco: cortei per chiedere la liberazione di tutti i detenuti politici Ansa, 27 agosto 2012 Centinaia di attivisti del Movimento del 20 febbraio hanno manifestato pacificamente a Rabat e Casablanca, le due città principali del Marocco, per chiedere “la liberazione di tutti i detenuti politici”. Lo hanno constatato alcuni giornalisti della France Presse. I manifestanti erano per la maggior parte attivisti del Movimento del 20 febbraio, nato durante la Primavera araba e che rivendica riforma politiche profonde e una maggiore giustizia sociale. A Casablanca, la capitale economica del regno, almeno 400 manifestanti hanno sfilato per le vie del quartiere Bernoussi. Circa 200 persone hanno fatto la stessa cosa a Rabat. ‘Stiamo dimostrando per chiedere la liberazione dei nostri compagni detenuti in prigione e condannati ingiustamente dal regnò, ha detto Younis Fikri, uno dei membri del Movimento. Secondo l’associazione marocchina dei diritti umani, almeno 70 giovani del Movimento sono detenuti in diverse città del Paese. Le due manifestazioni di oggi avvengono un paio di giorni dopo il corteo a Rabat contro la cerimonia annuale di fedeltà al re, dispersa in modo brutale dalle forze dell’ordine. Afghanistan: aumentano le donne condannate per “crimini contro la morale” di Luca Pistone www.atlasweb.it, 27 agosto 2012 Sono almeno 70 le detenute del carcere di Badam Bagh, a Kabul, condannate per aver commesso i cosiddetti “crimini morali”, che comprendono, tra gli altri, la fuga da casa e il reato di “zina”, e cioè rapporti sessuali pre o extra-matrimoniali. Secondo Human Rights Watch (Hrw), in tutto il paese sarebbero circa 400 le donne “colpevoli” di simili reati. Badam Bagh, che significa “giardino delle mandorle”, è la più grande prigione femminile dell’Afghanistan e la meglio attrezzata, assicurano i funzionari Unodoc (United Nations Office on Drugs and Crime). “Difficilmente le famiglie accettano una donna passata da una prigione (…) In molte minacciano di suicidarsi, e molte lo fanno”, spiegano gli operatori della Ong Women for Afghan Women, che segue le donne afghane dal momento della loro uscita dal carcere fino al loro difficilissimo, se non impossibile, reinserimento familiare. L’organizzazione gestisce due case-famiglia, una a Kabul e l’altra a Mazar-i-Sharif. Lo scorso febbraio Human Rights Watch ha pubblicato il dossier “I had to run away”, che riporta 58 interviste a condannate per delitti morali in 24 carceri e centri di riabilitazione per minori in Afghanistan. Più della metà delle donne (52%) affermano di aver subito violenze domestiche, il 39% nell’ultimo anno. Nonostante alcuni cambiamenti apparenti - il 29% del Parlamento afghano è composto da donne, grazie alla quota rosa approvata nel 2005 - continua lo studio, “l’Afghanistan rimane uno dei peggiori paesi del mondo dove essere donna”. Grazie all’Accordo di Bonn del 5 dicembre del 2001 “per un nuovo Afghanistan”, firmato dai quattro principali gruppi etnici del paese - pashtun, tagiki, uzbeki e hazara - alcuni passi in avanti sono stati fatti: il Ministero per gli Affari delle Donne, nato nel 2004; la nuova Costituzione che garantisce l’uguaglianza dei diritti; l’adozione, nel 2009, della Legge per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne. Ma né le mille donne poliziotto né il 20% dei funzionari pubblici costituito da donne riescono a mascherare la situazione di forte disparità tra i due sessi. Secondo lo United Nations Development Programme (Undp), dal 2008 la stragrande maggioranza dei matrimoni celebrati in Afghanistan sono stati forzati (tra il 70% e l’80%) e in molti casi la contraente è minorenne; nonostante l’apertura di scuole femminili, meno del 15% delle afghane è alfabetizzato; la speranza di vita delle donne non arriva ai 45 anni; gli abusi sessuali sono ancora diffusi e le carceri sono pieni di vittime di abusi in fuga dai loro carnefici. Nel 2010 la Corte Suprema afghana ha sentenziato la “vulnerabilità” delle donne che fuggono dalla propria casa, che “potrebbero commettere reati come l’adulterio o la prostituzione, contro i i principi della shariah (la legge islamica)”. La shariah non consente alla donna di uscire di case senza il permesso del marito, in nessun caso.