Giustizia: essere condannati al carcere nel carcere di Patrizio Ricci www.laperfettaletizia.com, 26 agosto 2012 Dal Meeting di Rimini ancora una sollecitazione al cambiamento. Chi ha visitato il Meeting negli scorsi anni probabilmente ha avuto modo di visitare la “Pasticceria Bar dei carcerati” dove alcuni detenuti distribuivano caffè, cappuccini e soprattutto confezionavano e vendevano ottimi prodotti dolciari. L’esperienza dello “stand dei carcerati”, ripetuta negli anni, approfondita da convegni, testimonianze e mostre su argomenti legati alla detenzione, ha dimostrato che è possibile intendere in un nuovo modo di scontare la pena nel rispetto della dignità umana. Autrice di questo tentativo è una cooperativa di volontari, la “Giotto”, che da 15 anni è presente nella casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova dove offre lavoro e facilita il recupero e il reinserimento dei detenuti (è una delle cooperative del consorzio “Rebus”). Era il 2008: l’iniziativa al Meeting venne accolta positivamente sia da parte dei detenuti che vi parteciparono sia da parte dei visitatori. Ad applaudire la positività di questa iniziativa, testimoniata da commoventi testimonianze dei carcerati, venne anche il Ministro della Giustizia Alfano, che naturalmente si mostrò entusiasticamente soddisfatto dell’esperienza e la additò come esempio da diffondere. La sensazione di chi , come me, da anni frequenta il Meeting era che di lì a poco finalmente qualcosa sarebbe cambiato. Purtroppo non è stato così: sappiamo che da allora la situazione dei penitenziari, anziché migliorare, è ulteriormente peggiorata. I dati sono noti: i detenuti in Italia sono oggi circa poco più di 70mila, di cui il 50% circa in attesa di giudizio. Mentre la capienza massima dei nostri istituti di pena è di 43mila posti, il sovraffollamento medio è del 150%. Se confrontiamo questi dati con gli altri paesi europei abbiamo il non invidiabile primato del sovraffollamento ed anche quest’anno abbiamo collezionato un’altra condanna della Corte europea dei diritti umani; è l’indice della precarietà della situazione che, oltre a contraddire le finalità della pena, porta a conseguenze gravissime: un dato assai significativo sono i 32 suicidi tra i detenuti e i 7 tra gli agenti di custodia verificatisi dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. Non si capisce perché per la soluzione di questo problema le autorità non imboccano ancora la via giusta. Perciò se ne è parlato ancora qui al Meeting: “Il carcere ti cambia in meglio o in peggio. Cifre e statistiche dicono in peggio. Il dato è che il 90% di chi esce dal carcere commette un nuovo reato” ha detto Nicola Boscoletto, presidente del consorzio Rebus aprendo l’incontro “Vigilando redimere. Quale idea di pena nel XXI secolo?”. Eppure l’esperienza di “Rebus” funziona, ed è interessante capire soprattutto perché: “Chiudere per 22 ore al giorno una persona in cella non basta. Condannarlo per 22 ore al giorno a non fare nulla per anni significa rispondere ad un male con un male più grande. Il lavoro e quindi il rapporto con l’altro offrono invece una dimensione di senso alla pena che stai scontando”, spiega Boscoletto. Allora perché non applicare tale modello su tutto il territorio nazionale? La risposta delle autorità è che non ci sono i soldi, ma sembrerebbe che non sia così: lo Stato recentemente ha stanziato 110 milioni di euro per l’acquisto di braccialetti elettronici da applicare ai detenuti in permesso e di questi ne sono utilizzati solo 14. Per portare educazione e lavoro nelle carceri sono invece riservati solo 18 centesimi a persona al giorno, contro i 250 euro individuali spesi per le spese connesse con il mantenimento. Questi dati rattristano: se non mettiamo la centralità della persona sempre al primo posto ci perdiamo tutti. Lo ha sottolineato Giovanna Maria Pavarin, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, che ha sottolineato che “esiste un’opinione pubblica che pensa che il carcere deve solo ‘contenerè chi ha infranto la legge”. Tuttavia, ha considerato che questa mentalità è molto lontana dal nostro dettato costituzionale, il quale prevede non solo condizioni umane di detenzione, ma indica come fine ultimo della pena il recupero. Al convegno è intervenuto anche il senatore Luciano Violante, per il quale è fondamentale garantire condizioni di detenzione civili e umane: “Noi non possiamo pensare di cambiare il carcere e il concetto di pena se non avviamo un profondo cambiamento culturale nella nostra società. Infatti da voi cattolici ho imparato una cosa: le persone possono cambiare”. Giustizia: sprint estivo per il piano carceri di Luisa Leone Milano Finanza, 26 agosto 2012 Nonostante il taglio di 228 milioni di fondi il nuovo commissario per l’emergenza sovraffollamento, Sinesio, ha già fatto pubblicare cinque gare con procedura d’urgenza. La ricetta: stop ai nuovi complessi e via agli ampliamenti. Sembra proprio che in Italia, per ottenere qualche risultato, ci sia bisogno di un commissario per ogni cosa. Almeno questo pare dimostrare la celerità con cui procede il piano contro l’affollamento delle carceri, con cinque bandi urgenti lanciati dall’insediamento del nuovo responsabile dell’emergenza, il prefetto Angelo Sinesio, che ha preso l’incarico lo scorso gennaio. Per queste gare ci sono in ballo circa 65,5 milioni di lavori per 1.200 nuovi posti. Ma si tratta solo dell’inizio perché, nonostante il Cipe lo scorso gennaio abbia operato un taglio di 228 milioni, su uno stanziamento iniziale di 675 milioni, il piano carceri è passato dagli iniziali 9.300 nuovi posti previsti a ben 11.500. E con il sostegno del ministro della Giustizia Paola Severino e di quello dell’Interno Anna Maria Cancellieri, la macchina procede a tutto gas. Le procedure con cui si affideranno i lavori sono tutte d’urgenza e le prime aggiudicazioni dovrebbero arrivare molto presto. Le opere per cui è ancora possibile presentare un’offerta sono l’ampliamento del carcere di Rebibbia a Roma, per 400 nuovi posti e un corrispettivo di poco più di 23 milioni; la realizzazione di 200 posti in più nella casa circondariale di Caltagirone (Catania) per 11,7 milioni; i nuovi 200 posti per il carcere di Trani con un bando da 10,6 milioni e sempre 200 nuovi posti e 10,5 milioni per Ferrara. Ma le imprese interessate dovranno fare in fretta perché i bandi, pubblicati fra fine luglio e agosto, scadranno tutti entro la prima metà di settembre. Senza contare che in poche settimane dovrebbero essere individuati gli assegnatari delle gare pubblicate nel 2011 e non ancora assegnate, per 1.800 nuovi posti e più di 100 milioni di budget. Una boccata d’ossigeno per le imprese di costruzione e un track record da fa sperare nella nomina di un commissario anche per risolvere l’emergenza disoccupati, per quella della generazione mille euro e per i pensionati che non arrivano a fine mese. Senza nulla togliere, naturalmente, alla piaga del sovraffollamento delle carceri, che vede più di 65 mila detenuti dividere spazi pensati per nemmeno 45 mila. Nel caso delle carceri la chiave di volta per cambiare marcia è stata abbandonare l’idea di costruire nuove case circondariali e concentrarsi invece sull’ampliamento di quelle già esistenti. Questo ha permesso di sopportare i 228 milioni di tagli operati dal Cipe dello scorso gennaio e di risparmiare anche sui costi di gestione dei nuovi posti letto, sfruttando le economie possibili nelle struttura già esistenti. Così si è detto addio ai nuovi istituti previsti a Bari, Nola, Venezia, Mistretta, Sciacca, Marsala ma anche ai nuovi padiglioni a Salerno, Busto Arsizio e Alessandria. Giustizia: Alessia Mosca (Pd); lavoro in carcere, più risorse nella nuova norma Intervista di Ilaria Sesana Avvenire, 26 agosto 2012 “I tempi ci sono. Se riusciamo a chiudere a settembre alla Camera, con una calendarizzazione rapida potremmo concludere l’iter di riforma della legge Smuraglia entro fine anno”. Alessia Mosca, parlamentare del Pd e relatrice del disegno di legge per la revisione del testo della Smuraglia incrocia le dita. Dopo mesi intensi di lavoro, mediazione e limature “il grosso del lavoro di stesura della norma è stato fatto: tutti i gruppi si sono accordati sul testo licenziato dalle commissioni. Resta da superare il problema della copertura finanziaria. Ma su questo sono ottimista. Anche lì la trattativa con i ministeri coinvolti è a buon punto”. Aumenterà la copertura finanziaria per la Smuraglia? Sì, e in maniera importante. Dal 2013 ci potrebbero essere 10 milioni di euro per il lavoro in carcere. Al momento non possiamo dare certezze, ma stiamo lavorando per questo obiettivo. Da dove verranno le risorse aggiuntive? Accanto allo stanziamento già previsto andremo ad aggiungere altri fondi messi a disposizione dal ministero per il Lavoro, che ha stanziato, in maniera sperimentale e per due anni, un budget di 3 milioni di euro. La Smuraglia è datata 2000. Ci saranno modifiche anche sul testo della legge? Sì, ma senza stravolgerla. Faremo qualche aggiustamento per migliorarla. Ad esempio estendendo il credito d’imposta dagli attuali sei mesi a un anno per chi, dopo la scarcerazione, impiega un detenuto. Il momento dell’uscita dal carcere è sempre molto delicato, si rischia di vanificare tutto il lavoro fatto durante gli anni della pena. Per questo è importante sostenere le cooperative e i detenuti in questo passaggio. Perché è importante che lo Stato investa risorse nel lavoro penitenziario? Perché produce un beneficio gigantesco per la società. La recidiva per chi lavora scende sotto il 10%, chi impara un lavoro in carcere non torna a delinquere e questo permette anche di ridurre i costi per la collettività Giustizia: Sappe; oltre 23mila detenuti stranieri, incrementare espulsioni Asca, 26 agosto 2012 “Si deve incrementare il grado di attuazione della norma che prevede l’applicazione della misura alternativa dell’espulsione per i detenuti stranieri i quali debbano scontare una pena, anche residua, inferiore ai due anni; potere che la legge affida alla magistratura di sorveglianza”. Così in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, commenta i dati sul boom di detenuti stranieri nelle carceri italiane. “Oggi abbiamo in Italia oltre 66mila detenuti: ben 23.590 sono stranieri, con una palese accentuazione delle criticità con cui quotidianamente devono confrontarsi le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria”. Il Sappe chiede dunque al Governo Monti di “recuperare il tempo perso su questa significativa criticità penitenziaria e di avviare le trattative con i Paesi esteri da cui provengono i detenuti - a partire da Romania, Tunisia, Marocco, Algeria, Albania, Nigeria - affinché scontino la pena nei Paesi d’origine. Per il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria “è fondamentale trovare accordi affinché gli stranieri scontino la pena nei Paesi d’origine. Questo, oltre a mettere un freno ad una grave emergenza, potrebbe rivelarsi un buon affare anche per le casse dello Stato, con risparmi di centinaia di milioni di euro, nonché per la sicurezza dei cittadini. Un detenuto - ricorda Capece - costa infatti in media oltre 250 euro al giorno allo Stato italiano”. Giustizia: Osapp; pressoché inutilizzabili gli automezzi della per il trasporto dei detenuti Asca, 26 agosto 2012 “Per le carceri e non solo piove sul bagnato, visto che oltre all’aumento della popolazione detenuta e alla diminuzione dei poliziotti penitenziari in servizio (non più rimpiazzabili grazie alla spending review), sono in gran parte inutilizzabili, per vetusta e impiego esasperato nei servizi di traduzione e piantonamento, gli automezzi della polizia penitenziaria per il trasporto dei detenuti.” a darne la notizia in una nota è l’Osapp (Organizzazione Autonoma Polizia Penitenziaria) per voce del segretario generale Leo Beneduci. “Il problema - spiega ancora l’Osapp - non si è reso ancora evidente all’esterno delle carceri, grazie alla diminuita attività, nel periodo estivo, delle aule di giustizia e delle forze di polizia che operano sul territorio, ma si ha la certezza che entro breve la vicenda assumerà le tinte della ulteriore, grave ed insanabile emergenza nel sistema penitenziario italiano”. “Presto, infatti, non sarà più possibile esaudire le esigenze di Giustizia e le richieste delle Autorità Giudiziarie né si potrà procedere ad alcun trasferimento di detenuti da una sede all’altra, mediante veicoli che, se va ben, hanno oltre 500mila chilometri all’attivo, sono senza radio e senza aria condizionata e presentano gravi problemi agli impianti frenanti e alle gomme né, in mancanza di idonei automezzi blindati, si potrà provvedere per gli spostamenti dei detenuti ad alta pericolosità”. Secondo il sindacato: “di fondi per l’acquisto di nuovi automezzi al Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) non ce ne sono più e occorrerebbe reperirli su altre voci di spesa, anch’esse quasi completamente prosciugate, fermo restando che, trattandosi di veicoli particolari, sarebbe prima necessario analizzare le esigenze e sondare la disponibilità del mercato”. “Si tratta dell’ennesima disfunzione che, grazie al progressivo disfacimento del sistema penitenziario italiano, per pluriennale incuria e per assenza di fattive volontà politiche, rischia di paralizzare anche l’intero sistema della giustizia nel Paese - conclude Beneduci - per cui indispensabile che, sulle carceri, la Guardasigilli Severino e i Partiti, soprattutto dell’attuale maggioranza, battano ‘un colpò già da adesso e non a settembre”. Giustizia: chef dietro le sbarre, iniziative in 60 istituti Ansa, 26 agosto 2012 Circa 400 detenuti in 60 carceri italiane, diventati provetti cuochi dietro le sbarre. A questi, vanno aggiunti, in base a dati elaborati dal Gambero Rosso, 220 ospiti delle colonie agricole dalla Sardegna a Gorgona, per arrivare al 4,4% della popolazione carceraria che lavora. A raccontare una storia di successi e riscatto nell’universo della vita in carcere è la rivista del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, “Le due città”. La cucina all’interno degli istituti è dunque trasformata in un percorso di formazione professionale, che spesso ha un riscontro anche all’esterno, e che porta la dimensione del recupero dei detenuti a raggiungere livelli di eccellenza. Sono 60 gli istituti in cui si arriva a una produzione culinaria di qualità, capace di ottenere l’attenzione non solo del pubblico ma anche di aziende interessate a forme di partecipazione, da aziende agricole, a onlus e cooperative, e che sempre si lega al territorio, alle tradizioni e ai prodotti tipici. A cominciare dalla pizza, ma non solo. Gli esempi vanno dalle “Dolci evasioni”, alla “Pausa caffè” alle “Cene galeotte”. Un corso per diventare pizzaioli è stato organizzato nella casa circondariale di Pozzuoli da maestri napoletani: 12 le detenute coinvolte, con la partecipazione di aziende locali che hanno fornito le materie prime: dalla farina, ai pomodori, alla mozzarella di bufala Dop. E per un giovane ospite del carcere minorile di Nisida, a conclusione dell’iniziativa “Finché c’è pizza c’è speranza” organizzato dal gruppo Fratelli La Bufala, è pronto un contratto di assunzione in uno dei locali della catena. Lettere: delitto senza castigo di Angela Bruno (Avvocato) www.leggioggi.it, 26 agosto 2012 A settembre il parlamento dovrebbe discutere il progetto di riforma delle carceri. Vecchie storie e canti nuovi. Speriamo in canti intonati. La ministra Severino dice di voler agire in nome della “concretezza”: sistema sanitario efficiente; strumenti alternativi alla detenzione in cella, che prevedano anche periodi di prova presso i servizi sociali e, al solito, arresti domiciliari. Per sapere come e quando non ci resta che attendere, ma solo il prossimo mese, entro il quale dovrà essere predisposto e mandato alle camere il disegno di legge promesso e, aggiungo, il cittadino vùoli viriri e tuccari chi manu (il cittadino vuole vedere e toccare con le mani). La nostra Italietta in tema è davvero campionessa di ferocia e la ferocia pretende indignazione e animo furente. Vediamo cosa si dice delle nostre carceri. Don Marco, un prete volontario di Rebibbia, ha raccontato di gironi infernali, di persone dimenticate che ti entrano dentro con le loro storie. E ti sconvolgono. Vediamo cosa dice l’Associazione Antigone, ottavo rapporto nazionale sulle condizioni dei detenuti di fine ottobre 2011: “Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando la sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo”: è un uomo chi è costretto a vivere in una cella per 20 ore al giorno, senza acqua calda, senza riscaldamento, senza luce? È un uomo chi, a due giorni dalla scarcerazione, decide di togliersi la vita perché nessuno gli parla di futuro? È questo un uomo chi non ha spazi in cui camminare, chi può guardare il cielo solo attraverso delle sbarre, chi si vede negato il diritto a salutare il padre un’ultima volta? È questo un uomo chi viene pestato regolarmente, maltrattato, violentato, minacciato? È questo un uomo chi non ha diritto ad andare in Chiesa perché omosessuale? È questo un uomo chi non ha un nome, chi è un numero in attesa di tornare ad essere ancora una volta Uomo? Ed è questo un bambino chi è costretto a nascere e crescere in carcere perché figlio di una detenuta? Meditate che questo non è stato, ma è”. Si dice anche che ai politici non interessi la violazione dell’articolo 27 della Costituzione. Loro non hanno fretta perché possono legiferare anche se condannati in via definitiva. Loro ritengono, guarda guarda, che uno spigolatore, che raccoglie spighe solitarie in una chiana falciata, sia più pericoloso di un ladro in giacca e cravatta che saccheggia il pubblico. Possibile? È più che possibile. È vero. Lettere: Casa circondariale di Padova, 9 detenuti in 24 metri quadri di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 26 agosto 2012 “La Corte Europea dei diritti dell’uomo afferma che è da considerare equivalente alla tortura la detenzione di una persona in uno spazio inferiore ai tre metri e mezzo a testa. Ecco perché ho intenzione di fare ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo per il caso del mio assistito, indagato per tentato furto, senza carichi pendenti o precedenti, da maggio rinchiuso in una cella di 24 metri quadrati con altri otto detenuti nella Casa circondariale di Padova”. La pubblica denuncia del penalista Carlo Augenti richiama l’attenzione sulla drammatica situazione di sovraffollamento e - a causa della torrida estate - di non vivibilità della struttura penitenziaria. A.D., quarantaduenne di Piove di Sacco, era stato arrestato con altre persone per tentato furto e concorso nella detenzione di materiale esplodente in quanto avrebbe partecipato (o almeno aiutato) i componenti di una banda che assaltava bancomat. Il gip vicentino non gli ha concesso misure alternative al carcere. Lo sdegno dell’avvocato Augenti riguarda, appunto, lo scarso uso di misure alternative di fronte a una situazione carceraria oltre ogni limite e a reati punibili (insiste) al massimo con tre anni, grazie al rito abbreviato. Conferma una lettera firmata dalla direttrice del carcere, Antonella Reale, in risposta a un’istanza del legale: “Il suo assistito è ristretto in una stanza di 24 metri quadrati con esclusione dei servizi igienici e della doccia inseriti in un locale separato. Nella stanza, a causa del ben noto stato di sovraffollamento dell’istituto, sono ristrette altre otto, nove persone posizionate su letti a castello”. Giampietro Pegoraro, coordinatore regionale della Fp Cgil polizia penitenziaria, commenta: “La casa circondariale è una struttura ormai in ginocchio con 230 detenuti rispetto a una tollerabilità di 160 ospiti. Le celle da otto, nove persone? Sono la normalità. Non c’è neanche un condizionatore tanto che il blindo (la porta in ferro) è tenuto aperto per consentire il passaggio dell’aria mentre la grata è chiusa, e c’è carenza di docce e servizi igienici”. Si aspetta la consegna di una nuova ala, intanto “in questi mesi ci sono state diverse risse e un collega è rimasto ferito. Perfino il muro di cinta sta crollando. Un pò meglio la situazione al Penale (il carcere per i definitivi), che pure è sovraffollato con 850 presenze su 700 tollerabili”. Pegoraro è preoccupato: “Mancano 30 agenti alla Circondariale e 50 al Penale: potremmo non essere in grado di sedare una rissa. Dai politici? Solo promesse, niente di concreto”. Lettere: “Detenuto in attesa di giudizio”… a 40 anni dal film di Sordi poco è cambiato di Ada Palmonella (Psicologa nella Casa Circondariale di Regina Coeli) Ristretti Orizzonti, 26 agosto 2012 Sono rimasta molto impressionata quando nel 1971 ho visto il film con la regia di Nanni Loy ed interpretato da Alberto Sordi “Detenuto in attesa di giudizio”. Rivedendo oggi lo stesso film, andato in onda la scorsa settimana in prima serata su La 7, a distanza di 40 anni e 23 anni di lavoro come psicologa in un carcere, non ho trovato nulla di diverso da quella grottesca realtà carceraria rappresentata nel film. E’ stato come entrare nel mondo dove lavoro attualmente. La “normalità”. Poche le differenze tra finzione e realtà, tra ieri ed oggi: adesso nelle celle c’è una specie di bagno, da dividere con altri detenuti. Prima tutti avevano una branda. Adesso si dorme anche per terra. Adesso la lingua italiana è molto rara. Si parla rumeno, russo, tunisino, nigeriano, cinese, francese, spagnolo ecc. (attualmente però sono ritornati molti italiani, ridotti sul lastrico per l’attuale sofferenza economica italiana ed europea… ladri improvvisati per mangiare o sopravvivere). Adesso si somministra il metadone. Esiste una apposita sezione per i detenuti tossicodipendenti. Sembra di essere in comunità. Così come entrano e rimangono persone con gravi disturbi mentali. Il suicidio ormai è quotidiano, perché tra i detenuti è diventato l’unico mezzo per fuggire a questa tortura. Sono state fatte varie e complesse riforme per migliorare e tutelare la salute della popolazione detenuta. Ma quello che sono palesemente cambiate sono le uniformi degli “ex secondini”, di allora, adesso polizia penitenziaria. Che sia stata confusa la parola “riforma” con “uniforme”? Ma di uniformi se ne contano davvero poche. E i pochi agenti sono disperatamente stanchi. Molti, troppi i suicidi dei poliziotti penitenziari. I maiali devono avere spazi di vivibilità previsti dalla legge. Anche per i detenuti c’è una legge che dovrebbe tutelare gli spazi dove vivere. Ma se c’è la legge e non si applica, bisognerebbe cancellarla per non incorrere a “spiacevoli” denunce di tortura. L’importante che sia applicata ai maiali. Le persone in carcere sono “solo detenuti”! Siamo stati più volte condannati da Strasburgo per reati di tortura nelle carceri. Oggi contrariamente a ieri, è previsto anche un supporto psicologico. Abbiamo lavorato tanto e bene come psicologi. Oggi, con la decurtazione dei fondi e quindi del nostro monte ore di lavoro, possiamo prestare il nostro supporto psicologico solo a pochi. Per quasi tutti possiamo solamente ascoltare le loro suppliche di chiamarli a colloquio psicologico e rispondere che non abbiamo il tempo. Tanto siamo stati quasi sostituiti dagli psicofarmaci che li sedano. Così dormono e stanno buoni. Bravo Sordi. E complimenti a chi può fare qualche cosa, perché questo genere di denuncia è molto frequente nella lamentela dei detenuti e in molti eventi antecedenti dei soggetti a rischio che lo psicologo penitenziario (quando c’è) identifica quando e se sono sopravvissuti al trauma psicologico dell’ambiente carcerario. Quando emergono prove sufficienti che le nostre prigioni sono allo sfascio, arrestiamo lo sfascio. Perché non è ancora stato fatto nulla per cambiare realmente le cose? Ma per questa evidenza ci vorrebbe un’altra storia. Possiamo solo sperare nelle nuove riforme del Ministro Severino. Proposte di “concretezza”. Proposte che, oltre ad altre mille soluzioni per gli spazi, il sovraffollamento, l’apprendimento di un lavoro - quando la maggior parte delle persone detenute ha già un lavoro - e ancora e ancora e ancora, valutano anche e soprattutto lo stato depressivo che porta la detenzione, ed il giusto supporto psicologico da parte di chi è preposto a farlo. Rendendo più facile vivere in condizioni di isolamento detentivo. Aiutando a creare un progetto di vita all’interno ed all’esterno delle mura. Un aiuto che tocchi “il dentro” dell’essere umano. Per cambiare. Per evitare di ritornare in carcere. E forse finirà anche la totale confusione che regna negli Istituti penitenziari che lavorano applicando regole e modalità diverse tra istituto ed istituto anche della stessa regione. Povero Garibaldi! Forse il Ministro Severino salverà anche noi psicologi penitenziari del Ministero di Giustizia, che da anni ed anni lavoriamo in condizioni di precariato. Con “accordi” annuali (da 30 anni) capestro che valgono come carta straccia. Pagati 17.00 euro all’ora e senza diritti ma solo con doveri. Forse il Ministro Severino sanerà queste nostre posizioni dando anche un riconoscimento al nostro compito che svolgiamo con passione da tanti anni, anche a queste condizioni. E lo facciamo solo per le persone detenute. Forse e speriamo che finalmente il Ministro di Giustizia faccia giustizia anche per noi, applicando quello che già molti giudici, con sentenza esecutiva, passata anche in appello, hanno sentenziato. Ma che comunque il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed il Ministero di Giustizia non ha ancora onorato. E, personalmente ho vinto la causa nel 2007. Tutt’ora silenzio. Speriamo che il Ministro Severino lo faccia onorare. Altrimenti nemmeno la parola di giudici sarà rispettata. Ma la legge non è “uguale per tutti”? Veneto: stop al nuovo carcere di Venezia ed agli ampliamenti di Verona, Padova e Rovigo di Gloria Bertasi Corriere della Sera, 26 agosto 2012 Stop al nuovo carcere di Mestre e all’ampliamento delle strutture di Montorio a Verona. Niente migliorie al padovano Due Palazzi e sui cantieri della nuova Casa circondariale di Rovigo, aperti tre anni fa, pende l’incognita dei finanziamenti. Unico carcere che si salva dalla scure dei tagli romani sarebbe Vicenza: il bando del suo ampliamento è chiuso e il 26 si aprono le buste. Il commissario per l’emergenza carceri Angelo Sinesio ha mandato in pensione il Piano di sviluppo del sistema detentivo ereditato dall’ex governo. Mancano i soldi per realizzarlo e così Sinesio ha scelto di intervenire solo dove la situazione è così grave da essere ingestibile. I letti a castello da tre piani in spazi di nemmeno 16 metri quadrati di Santa Maria Maggiore a Venezia, le celle da una persona con tre detenuti del Due Palazzi, le carenze igieniche e la mancanza di spazi per la rieducazione non sono evidentemente abbastanza per far sì che Roma intervenga. Altrove, fuori dal Veneto, c’è chi sta peggio e i soldi - ha deciso Sinesio - vanno indirizzati lì. “Nella nostra regione il problema è solo il sovraffollamento, sul fronte strutturale la situazione non è delle peggiori - dice il senatore del Pd Felice Casson, membro della commissione giustizia - le risorse non ci sono più e si interviene dove la condizione è estrema”. Il mandato poi del commissario è di risanare gli immobili. I 916 detenuti che condividono spazi per 400 persone a Padova, i 375 in celle da 160 a Venezia o i 278 invece che 128 a Treviso dipendono dai ministri Anna Maria Cancellieri (Interni) e Paola Severino (Giustizia). “In Veneto c’è un’oggettiva urgenza e proprio per la grave situazione di sovraffollamento si era avuto un occhio di riguardo - tuona Maria Elisabetta Casellati, sottosegretario alla Giustizia ai tempi del governo Berlusconi, non ho visto il nuovo Piano ma mi auguro che non ci siano pericolosi dietrofront”. Che invece ci sono. Il carcere da 450 posti al costo di 40,5 milioni a Mestre non si farà mai, una struttura osteggiata dai residenti del quartiere di Campalto ma caldeggiata da Comune, Provincia e Regione. “Il nuovo carcere è una questione di umanità - è stato il mantra per tutto il 2011 del sindaco - avvocato Giorgo Orsoni. Santa Maria Maggiore è una vergogna per la città”. Non tutti però la pensano come il primo cittadino lagunare. “Il Piano di Alfano era velleitario, non ci ho mai creduto - dice Ornella Favero dell’associazione Ristretti Orizzonti che opera al Due Palazzi, il sovraffollamento si risolve con nuove politiche sulle pene”. Anche per gli agenti penitenziari cambiare le leggi è essenziale per svuotare le carceri e migliorare la qualità della vita dei detenuti. “Oggi la situazione in tutto il Veneto è esplosiva - spiega Giampiero Pegoraro, coordinatore regionale Cgil della polizia penitenziaria, le strutture hanno bisogno di migliorie ma prima di tutto va messo mano alle norme della Fini - Giovanardi e alla Ciriello, sono queste che riempiono le celle”. Chiunque abbia a che fare con il mondo del carcere in questo momento si dice frustrato, in particolare gli agenti di polizia. “Tutti i tagli romani minano il nostro lavoro - sbotta Fausto Fanelli del sindacato Coisp, tra mille difficoltà riusciamo a sventare i crimini ma il laccioli della burocrazia e la situazione delle carceri vanificano gli interventi”. Fanelli dà la colpa allo Stato, “è demagogico sul fronte sicurezza e repressione”. La condanna nei confronti di Roma è davvero bypartisan in Veneto, lasciato da solo ad affrontare l’emergenza sovraffollamento delle carceri. “Vanno svuotate con progetti di lavoro - dice il presidente della cooperativa sociale Il Cerchio Gianni Trevisan, a Venezia i detenuti potrebbero falciare ad esempio il verde delle isole”. Il Comune sta verificando se è possibile ma si tratterebbe comunque di progetti per pochi. Reggio Emilia: intervista a un detenuto “ho sbagliato, ma ho avuto una seconda chance” di Matteo Zanichelli Il Resto del Carlino, 26 agosto 2012 Mario (nome di fantasia) ha 32 anni ed è in prigione dal 2007: “Qui ho studiato e ho preso quattro diplomi professionali che mi aiuteranno quando uscirò. Paura delle discriminazioni? Farò cambiare idea alle persone” “Qui ho una seconda possibilità. Da qui, per me, è ripartita una nuova vita”. Gli si legge negli occhi vispi (e nelle parole) la voglia di ricominciare. Di riscattarsi, dopo aver pagato il suo debito con la giustizia. Mario (questo è il nome di fantasia col quale chiameremo uno dei detenuti della casa circondariale che ha accettato di farsi intervistare) ha 32 anni, è di origine marocchina, ed è in carcere dal 2007 per spaccio. Da qualche tempo è in condizione di semilibertà. E a marzo 2013 sarà di nuovo libero. Per riprendersi la vita che qualche anno fa ha gettato alle ortiche. “So di aver sbagliato - ammette Mario, ma qui in carcere ho avuto la chance di mettere la testa a posto e di cambiare vita. Sono arrivato in Italia dal Marocco nel 1996, accasandomi a Milano, dove adesso vivono i miei tre fratelli. Lì facevo il cameriere. Ma per colpa di amicizie sbagliate ho iniziato a spacciare droga. L’ho fatto per 5 anni. Poi sono finito dentro. Mi hanno rinchiuso a Modena e poi sono stato trasferito a Reggio. Durante questi anni trascorsi in prigione ho frequentato vari corsi professionali, conseguendo quattro diplomi: di disegno meccanico, di cuoco, di giardiniere e di elettricista. A Modena, avevo addirittura costruito pannelli industriali e antifurto per le abitazioni. Ora sto frequentando le lezioni serali del liceo socio-pedagogico. Sono all’ultimo anno, poi vorrei iscrivermi all’università. Intanto, ho fatto uno stage alla Canalina, dove aiutavo gli anziani. Davo loro una mano a lavarsi e li accompagnavo a fare la spesa. Alla casa circondariale ho lavorato come cuoco, faccio pulizie e mi occupo dell’area verde. Per questi servizi riesco a stare fuori dalla cella dalle 7 alle 11 di mattina, e a volte dalle 13 alle 14.30, e percepisco 300 - 400 euro al mese. Ma, quando uscirò di qui, mi piacerebbe lavorare come giardiniere”. “So di aver sbagliato - ripete ancora Mario - ma devo ringraziare il direttore Paolo Madonna, che sia a Modena, sia a Reggio, mi ha concesso l’opportunità di svoltare. ‘Ti do una sola possibilità’, mi ha detto. E io l’ho colta subito. Se ho paura di essere discriminato quando sarò fuori? Beh, immagino che succederà. Ma capisco la gente, hanno ragione. Anche io quando ero in Marocco e incontravo un ex detenuto pensavo male. Però mi impegnerò per far cambiare idea agli altri. Già quando sono andato a fare il volontario a Festa Reggio ho notato che mi trattavano come una persona normale. E, soprattutto, con tutte queste qualifiche che ho preso in carcere, adesso potrò davvero rifarmi una vita”. Reggio Emilia: il Pd recluta i detenuti per la Festa nazionale dell’Unità, faranno i cuochi di Martina Castigliani Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2012 Dalla cella ai tavoli della festa democratica del Pd, in un programma di reinserimento che vede coinvolti 12 detenuti della casa circondariale di Reggio Emilia. Tra i quasi 7.000 volontari che animeranno la Festa Nazionale del Partito Democratico al Campovolo ci saranno anche 12 partecipanti del piano di reinserimento del carcere reggiano che, insieme al Centro Studio e Lavoro “La Cremeria”, insegna a detenuti sul finire della pena mestieri nel campo della gastronomia che possano permettere un facile inserimento lavorativo. “Abbiamo cominciato tre anni fa - dice Ermete Fiaccadori, direttore di Festa Reggio e principale responsabile del progetto, - e da subito siamo stati molto entusiasti dell’esperienza. In accordo con il direttore del carcere reggiano facciamo richiesta perché alcuni detenuti vengano mandati a lavorare con noi, poi è lo staff della casa circondariale che, in collaborazione con le assistenti sociali, sceglie chi inviare”. I detenuti sono remunerati con un compenso stabilito insieme alla direzione del carcere e sono impegnati nelle cucine della festa, come ricorda il direttore di Festa Reggio: “Quest’anno i dodici ragazzi lavoreranno come cuochi o aiuto cuochi all’interno delle cucine dei nostri ristoranti. Hanno grandi capacità e sanno fare il loro mestiere e da subito sono riusciti ad integrarsi con gli altri volontari”. Un progetto partito da alcuni anni, proprio per iniziativa del direttore di Festa Reggio, ma che volutamente è sempre rimasto sotto tono per non puntare il dito su volontari “speciali” che, una volta entrati al Campovolo, sono considerati esattamente come gli altri. “La regola - continua Fiaccadori - è che nessuno chieda loro qual è la pena che devono scontare e neppure che vengano presentati agli altri come detenuti in carcere. Ad esempio quando vengono i politici, tutti sono presentati come volontari e non con altre etichette. Per noi è molto importante, perché chi viene qui a dare il suo tempo per la festa è considerato un lavoratore come gli altri”. Un’esperienza umana di grande valore, così come raccontano i protagonisti, anche se sono tanti gli ostacoli che hanno dovuto affrontare. Tre anni fa infatti, all’inizio della collaborazione, due dei detenuti impegnati nel progetto, proprio in seguito al periodo di lavoro tra gli stand della Festa dell’Unità, sono evasi, mettendo in discussione tutto il programma. “I mesi che sono seguiti a quell’episodio - ammette Fiaccadori - sono stati molto difficili per noi, perché siamo stati subito accusati come responsabili dell’evasione dei detenuti. In realtà i due sono scappati nel giorno premio che avevano ricevuto dopo la buona esperienza alla Festa dell’Unità. I nostri volontari non potevano crederci perché non avevano avuto problemi durante l’orario di lavoro. È stata una ferita anche per noi”. Un caso isolato che, malgrado le tante polemiche, non ha impedito al Partito Democratico di Reggio Emilia e allo stesso Ermete Fiaccadori di continuare a promuovere il progetto, perché, dicono, “non era giusto penalizzare tutti per un’esperienza che comunque aveva dato grandissimi risultati”. L’iniziativa si inserisce all’interno di un più ampio piano di rinserimento lavorativo ad opera della Casa Circondariale di Reggio Emilia che prevede corsi di formazione per i detenuti che stanno terminando di scontare la loro pena e che hanno così la possibilità di imparare un mestiere e prepararsi al reintegro nella vita lavorativa. Ventisette i carcerati di Reggio Emilia attualmente impegnati in lavori o corsi di formazione, a cui si aggiungono i dodici della Festa dell’Unità. “Il progetto - conclude Fiaccadori - ha avuto talmente successo che quest’anno per la prima volta abbiamo fatto richiesta di questi lavoratori “speciali” anche per le feste del partito democratico in provincia come Novellara, Montecavolo e tante altre. Il nostro obiettivo è quello di mantenere vivo il programma e rafforzarlo sempre di più”. Si apre quindi con una buona notizia la Festa Nazionale del Pd a Reggio Emilia, dove il clima pre elettorale sarà molto delicato fin dai primi giorni, con politici di vari schieramenti invitati a parlare e prove di campagna elettorale. Ad aprire le danze domani il segretario Pierluigi Bersani che verso le 18 farà la sua prima comparsa post vacanze estive proprio tra gli stand di Reggio Emilia. Alle 17 l’apertura con alcuni esponenti del Pd emiliano: Stefano Bonaccini, Ermete Fiaccadori, Andrea Rossi, Stefano Di Traglia. Poi l’arrivo del segretario che tra proclami e strette di mano darà il via alla manifestazione. Bergamo: troppe polemiche sulla semilibertà a Vallanzasca, il datore di lavoro lo licenzia L’Eco di Bergamo, 26 agosto 2012 Renato Vallanzasca non si è presentato nel negozio di abbigliamento di Sarnico dove lavorava dall’inizio di agosto, con la possibilità di uscire dal carcere milanese di Bollate dove si trova rinchiuso per scontare i quattro ergastoli ai quali è stato condannato. Dopo che venerdì sera la titolare del punto vendita lo ha in pratica licenziato a seguito dei clamori suscitati dalla sua presenza, sabato è subito entrata in vigore la sospensione dell’incarico fuori dal carcere. Anche ai carabinieri di Bergamo risulta che Vallanzasca da oggi non lavora più nel paese del Sebino. “Mi scuso con Sarnico per tutto questo cancan. Per rispetto della sua gente, ho preso la mia decisione: venerdì 24 agosto ho inviato un fax al carcere di Bollate, chiedendo di interrompere il progetto. Da sabato Renato non verrà più nel negozio di Sarnico”. La frase era uscita tutta d’un fiato venerdì sera. Maria Fiore Testa si sentiva ormai sotto assedio nel suo negozio di abbigliamento a due passi dal municipio di Sarnico. Per uscirne ha spedito il fax: “L’ho inviato al carcere - spiega al telefono - e agli organi competenti per chiedere che il contratto di prova venga revocato”. Così è stato. “Tengo a sottolineare - aveva sottolineato la titolare del negozio - che Renato non c’entra niente con questa decisione, lui si è sempre comportato bene, sono io che forse non avevo ben misurato che il suo nome, purtroppo, si porta dietro troppo dolore e una notorietà che non gli dà scampo”. Per rispetto di Sarnico ho licenziato Vallanzasca “Mi scuso con Sarnico per tutto questo cancan. Per rispetto della sua gente, ho preso la mia decisione: venerdì 24 agosto ho inviato un fax al carcere di Bollate, chiedendo di interrompere il progetto. Da sabato Renato non verrà più nel negozio di Sarnico”. La frase esce tutta d’un fiato. Maria Fiore Testa si sente sotto assedio nel suo negozio di abbigliamento a due passi dal municipio di Sarnico. Per uscirne ha spedito il fax: “L’ho inviato al carcere - spiega al telefono - e agli organi competenti per chiedere che il contratto di prova venga revocato”. La donna parla lentamente, come a pesare le parole: “L’ho fatto per rispetto di Sarnico” aggiunge chiedendo di sottolineare il suo “grazie al sindaco, alle forze dell’ordine che da quando si è alzato tutto questo clamore mi sono sempre state accanto. A loro e a tutti dico che ho accolto il progetto per puro spirito di volontariato, come avevo già fatto in passato, dando lavoro a persone detenute”. Ora, però, basta assedio mediatico fuori dal negozio, stop ai commenti di chi veniva a ricordare come, con tutti i disoccupati che ci ritroviamo nei nostri paesi, Maria Fiore avesse assunto proprio un uomo con quattro ergastoli da scontare. Il rapporto lavorativo con l’ex boss della Comasina, dunque, sarebbe finito: così ha chiesto la titolare del negozio d’abbigliamento finito nell’occhio del ciclone. “Vallanzasca lavorava qui con un contratto di prova, che prevede la revoca - aggiunge Maria Fiore: abbiamo deciso di interromperlo”. Con, pare, un gesto fulmineo e nemmeno troppo annunciato al diretto interessato: “Vallanzasca lo saprà al suo rientro in carcere” aggiungeva Testa nel ribadire come “tutto questo clamore non fa per me, non riesco più a lavorare, anzi, stiamo subendo un grave danno, anche in termini economici”. Di qui la decisione, drastica, di darci un taglio. A chi le contesta che quello di Renato Vallanzasca fosse un nome ingombrante fin dal primo giorno del suo lavoro da commesso (per di più nella Bergamasca dove aveva lasciato ferite aperte), lei risponde: “Beata ignoranza mia di non aver capito quanto clamore poteva suscitare. Volevo solo fare del bene, non ho pensato ad altro quando ho firmato questo contratto con il ministero della Giustizia - aggiunge la donna che per un paio d’anni è stata anche la segretaria dell’Asd Omero disabili visivi di Bergamo. Ma ora non posso più vedere che fuori dalla vetrina arrivano i ragazzini a cercare Vallanzasca: gli si sta dando troppa importanza. E poi va bene pensare al volontariato, ma ora devo pensare alla mia famiglia e alla mia azienda”. “Tengo a sottolineare che Renato non c’entra niente con questa decisione, lui si è sempre comportato bene, sono io che forse non avevo ben misurato che il suo nome, purtroppo, si porta dietro troppo dolore e una notorietà che non gli dà scampo. Mi dispiace per tutto, adesso ho preso la mia decisione, che ho comunicato agli organi competenti, ovvero al responsabile del progetto reinserimento di Bollate”. Bergamo: la moglie di Vallanzasca "troppo odio, allora tanto vale la pena di morte" Bergamo News, 26 agosto 2012 La voce è delicata, dolce. Ma le parole sono di fuoco. Antonella D’Agostino, moglie di Renato Vallanzasca, è arrabbiatissima per la fine del rapporto di lavoro da commesso del bel Renè in un negozio di Sarnico. “Per quasi un mese mio marito è andato avanti e indietro da Bollate a Sarnico. La sera tornava in carcere e di giorno lavorava. Nel pieno anonimato. Chi aveva convenienze a far sapere questa cosa?” Signora D’Agostino sta accusando qualcuno? “No. Faccio domande ad alta voce, in una giornata per me tristissima. Sono molto arrabbiata”. Oggi ha sentito o visto Renato? “Purtroppo non posso rispondere a questa domanda”. Che cosa la fa arrabbiare di questa vicenda? “Nei giorni in cui infuria questa polemica in Norvegia hanno condannato uno che ha ammazzato 77 giovani a 21 anni di carcere e lo hanno pure considerato sano di mente. Mio marito ha scontato vent’anni di carcere duro, in isolamento. Renato è entrato in carcere nel 1972, sono passati 40 anni e da due anni può uscire di giorno per lavorare. Ripeto lavorare, non andare a divertirsi e la sera torna dietro le sbarre. Non ha pagato abbastanza? Non può avere un po’ di normalità?”. Crede che c’è ci sia qualcuno che si accanisca contro Vallanzasca? “Sì. E sono in molti. Vedendo tutto questo clamore è chiaro che c’è una vendetta. L’Italia è un Paese vendicativo, spietato. E questo credo sia la cosa più vergognosa”. Che messaggio vorrebbe lanciare per suo marito? “Vorrei che l’Italia fosse finalmente un Paese civile. Guardi, anche se non fosse mio marito direi queste cose: un detenuto dopo che ha scontato la sua pena deve poter tornare ad una vita. Altrimenti…” Altrimenti? “Con questo odio, troppo odio, tanto vale la pena di morte. Non mi faccia dire altro, ma lo scriva per Renato, per tutti i detenuti che ci sono nelle carceri italiane. Alla fine, dopo aver scontato la pena, deve esserci una vita”. Livorno: a Pianosa aperti un hotel e un ristorante gestiti da 18 detenuti di Sara Ficocelli La Repubblica, 26 agosto 2012 La rinascita del piccolo eden dell’Arcipelago Toscano, dopo la chiusura del carcere di sicurezza. Con un hotel e un ristorante gestiti da 18 detenuti. Immaginate un paradiso naturale di 10 km quadrati di superficie, con scogli a picco sul mare che profumano di rosmarino e ginepro. Tutto intorno acque cristalline, protette dalla pesca da almeno 150 anni, e nell’entroterra boschi ricchi di ricci e lepri, fagiani e pernici rosse, berte e tanti rarissimi gabbiani corsi, i più belli e solitari della specie. Il paradiso che avete dipinto col pensiero è quello dell’isola di Pianosa, che così si chiama perché tutta in pianura, con la “vetta” più alta che non supera i 29 metri. Questo puntino del Mediterraneo fa parte del Comune di Campo nell’Elba, è interamente compreso nel Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, e da 14 anni è combattuta tra il desiderio di spalancare le braccia al turismo e il timore di perdere quella bellezza incontaminata che la rende così speciale. Fino alla fine degli anni 90, il nome di Pianosa era infatti legato più che altro alla presenza dell’omonimo istituto penitenziario. Di lei non si parlava né come di una località turistica né come di un paradiso naturale: dal 1863 al 1998, Pianosa per tutti è stata l’isola-carcere, un luogo inaccessibile ai cittadini “liberi” che per default rievocava pensieri claustrofobici e tristi, usato prima come colonia agricola, poi come sanatorio per i detenuti malati di tubercolosi, poi come laboratorio batteriologico, poi come carcere per i perseguitati politici durante il fascismo e infine come istituto di massima sicurezza per i condannati al 41 bis. Eppure, quei “150 anni di prigionia” per Pianosa sono stati felici, equilibrati, ben organizzati. Tra carcere, ufficio postale, ostetrica, sede della Croce Rossa, farmacia, casa dell’agronomo, sala da ballo e circolo ricreativo, l’isola in quegli anni è arrivata ad ospitare anche 2000 persone. I terreni venivano coltivati con cura da una colonia agricola di detenuti nata nella seconda metà dell’Ottocento, un progetto che ha funzionato fino al 1997 e che per anni ha rappresentato un modello di efficienza e riabilitazione invidiato da tutti. Il momento difficile è paradossalmente arrivato dopo, con la chiusura del carcere: dopo il 1998 le strutture sono state abbandonate, e molte lo sono ancora oggi. Le competenze sono ripartite tra ministero della cultura, dell’ambiente, della giustizia e del patrimonio; poi vi è la custodia affidata al parco e le aspettative di riconoscimento degli usi civici da parte del Comune. Tutto questo ha impedito e impedisce di fatto qualunque opera di ristrutturazione necessaria, come la costruzione di un nuovo impianto fognario. Tanta bellezza data in pasto ad altrettanta burocrazia, insomma. Ma è impossibile che un’isola che ha alimentato il dolore e la speranza di migliaia di persone (tra gli ospiti “diversamente illustri” Agrippa Postumo, il nipote di Augusto, primo - forse - grande esiliato nell’isola, Sandro Pertini e Renato Curcio) si lasci andare. E infatti, trascinata dalla stessa energia che per quasi due secoli l’ha caratterizzata, Pianosa da circa un anno ha cominciato a rivivere. E sempre grazie all’impegno dei detenuti. Utilizzando le strutture dismesse, nel luglio 2011 la Cooperativa sociale San Giacomo di Porto Azzurro ha aperto un albergo con 20 camere doppie e due singole e un ristorante dove, a quanto pare, si mangia benissimo, dalla colazione con crostate e marmellate fatte in casa e briosce calde, al pranzo e la cena con menù prevalentemente di mare. Per raggiungere l’isola si può partire da Piombino con sosta a Rio Marina ogni martedì o prendere il traghetto giornaliero da Marina di Campo. Le visite sono solo guidate (a piedi, in bici, in calesse e in bus) e il bagno si può fare solo nella splendida spiaggia di Cala Giovanna, ma col programma di snorkeling è permesso anche a Cala dei Turchi. Sui fondali crescono intere praterie di Posidonia oceanica, “il polmone del Mediterraneo” che dà riparo a pesci di tutte le specie. La sera basta fare una passeggiata al porto vecchio per vedere i barracuda mangiare. Pianosa è insomma un paradiso perfettamente conservato e quindi unico nel suo genere. Tanto è ampia l’offerta in termini di biodiversità quanto sono poche le persone con cui scambiare due parole. E questo, se si ha voglia di rilassarsi davvero, è un bene. Senza contare che dappertutto si respira un’aria accogliente, da grande famiglia: tutti parlano con tutti, i pochi turisti, i carabinieri, la guardia forestale, i ragazzi della cooperativa e gli ex pianosini, figli delle vecchie guardie carcerarie che ritornano sull’isola. Le poche persone che vi abitano si conoscono, il tempo scorre lento, l’atmosfera concilia il relax fisico e mentale. Nel 2011 l’albergo ha registrato un discreto successo ma mancano alcune ristrutturazioni di base. Le case che un tempo furono delle guardie carcerarie cadono a pezzi, così come la struttura del carcere, e l’acquedotto ha bisogno di manutenzione. Senza un intervento mirato, il rilancio in termini turistici non avverrà mai come si deve. “Nessuno può pensare Pianosa con il frastuono delle discoteche! Forse è stato un bene che il patrimonio immobiliare sia rimasto allo Stato - spiega il direttore dell’Ente Parco Arcipelago Toscano Franca Zanichelli - perché, se lo Stato avesse deciso di riaprire il carcere duro o di vendere tutto, la suggestiva Pianosa sarebbe scomparsa. L’ideale è che il turismo qui si mantenga leggero, che le risorse non vengano sfruttate oltre un certo limite. Solo così riusciremo a preservare la sua bellezza e il suo equilibrio ambientale. Poi certo, vorremmo che certe opere di ristrutturazione venissero fatte, che i contenzioni venissero messi da parte. Diciamo che nel frattempo guardiamo al lato positivo della faccenda e pensiamo: almeno lo stile resta minimalista e l’isola non si riempie troppo di gente!”. A lavorare al progetto sono 18 carcerati in semilibertà, 12 a tempo indeterminato e sei stagionali. “Quest’anno abbiamo avuto il problema dell’acquedotto - spiega Brunello De Batte, presidente della cooperativa - che a Pianosa andrebbe rifatto, visto che l’acqua è inquinata. Noi ci siamo attrezzati con due cloratori, uno all’albergo e uno al ristorante, e la Asl non ci ha più creato problemi. Certo, mi auguro che con la crisi che avanza noi tutti si possa continuare a portare avanti la nostra attività anche nei prossimi anni”. De Batte sogna di far nascere sull’isola una scuola permanente di formazione per insegnare ai detenuti a lavorare nel settore del turismo una volta tornati in libertà. “Per loro è un’esperienza importantissima - spiega - perché in questo modo imparano una professione e riprendono a poco a poco contatto con la società. Con noi lavorano detenuti che hanno già scontato metà della pena: noi li accompagniamo fino alla fine e poi loro sono in grado di andare avanti con le proprie gambe”. Entrare a far parte del progetto non è semplice: dei 500 del carcere di Porto Azzurro, solo i più specializzati nelle mansioni che servono sull’isola vengono chiamati a lavorare nel paradiso di Pianosa. Un’isola che, malgrado un passato di isolamento e un presente controverso, è sinonimo di libertà. I prezzi per il pernottamento all’Hotel sono di 50 euro a persona con prima colazione oppure di 90 a persona con la pensione completa. I bambini fino a 12 anni hanno uno sconto del 30%. Per ulteriori informazioni contattare la Cooperativa San Giacomo tel e fax: 05695444. Ivrea (To): la testimonianza di un ex detenuto “pregiudizi su don Piovanelli” La Sentinella, 26 agosto 2012 Paolo Colzani ha 39 anni, impieghi saltuari, ma continuativi che gli hanno permesso di affittare una casa a Ivrea, e mettere su famiglia. Il prossimo novembre, lui e la sua compagna, diventeranno genitori di Angelica. Fin qui niente di strano, a parte la difficoltà di arrivare a fine mese, situazione che ormai riguarda un sempre maggior numero di persone. Ma Paolo, ex detenuto, una svolta alla sua vita l’ha data solo due anni fa, dopo aver conosciuto il cappellano del carcere di Ivrea, don Severino Piovanelli, ed essere entrato nella comunità fondata dal religioso nella parrocchia di Torre Balfredo. Ora, con le dimissioni di Don Severino, legate all’impossibilità di continuare la gestione della comunità a causa dell’ostracismo di buona parte della popolazione di Torre Balfredo, la struttura rischia di chiudere. “Sarebbe un errore davvero grave - spiega Paolo Colzani - perché si tratta di un progetto valido e io ne sono una testimonianza diretta. Se non avessi avuto la possibilità di essere sostenuto da una comunità che mi ha aiutato a cercare casa e lavoro, e che soprattutto mi ha dato fiducia, sarei finito in mezzo ad una strada. E sicuramente sarei tornato a fare il delinquente. E non sono io a dirlo, ma le statistiche che parlano chiaro: su 10 ex detenuti, almeno 8 se non vengono aiutati ritornano nel giro della criminalità. Invece, se anche alle persone che hanno sbagliato viene data fiducia, quel mondo te lo lasci alle spalle. Il carcere, dov’è giusto pagare per gli errori commessi, non ti aiuta a venirne fuori, nonostante la normativa inviti al recupero. Ancora oggi la prigione è scuola di formazione per i delinquenti. Il problema dell’ex detenuto è una questione sociale che deve essere affrontata con serietà”. Allora a Torre Balfredo cosa è andato storto? “Il problema - spiega Paolo - è stato la diffidenza di uno zoccolo duro di persone che hanno influenzato altri residenti che non hanno mai avuto il coraggio di prendere una posizione chiara. Persone che, come ha già detto don Severino, non raccontano la verità. Non è vero che il parroco pensa solo agli ex detenuti. Anzi, sono stato proprio io con alcuni volontari a ristrutturare completamente la parrocchia, a ritinteggiare tutta la chiesa, affinchè i residenti ne potessero fruire. Con don Severino abbiamo organizzato diversi incontri per valorizzare l’oratorio, per fare del giardino dell’ex bocciofila un parco. Ma nessuno partecipava. Mi ricordo benissimo di una persona che ha detto al parroco “noi ti aiutiamo solo se la smetti di seguire gli ex detenuti”. Capisco che un ex detenuto possa suscitare diffidenza, ma prima di giudicare occorre dialogare, capire”. Bologna: progetto di teatro al Pratello; il Comune non farà mancare il sostegno economico Dire, 26 agosto 2012 La cassa è ancora vuota ma almeno la volontà di riempirla c’è. Matteo Lepore, coordinatore della Giunta comunale di Bologna, prova a tranquillizzare così il regista Paolo Billi, che oggi ha lanciato l’allarme sulla possibile cancellazione della stazione del Teatro del Pratello, realizzata con il coinvolgimento dei giovani detenuti del carcere minorile. “Nell’ultima Giunta (a fine luglio, ndr) abbiamo rinnovato la convenzione e trattato l’argomento - ricorda Lepore - dalla discussione è emerso che il Comune non farà mancare il proprio sostegno, anche economico, alla compagnia”. Questa mattina, presentando la quinta edizione della rassegna “Pratello. Teatro musica”, Billi sottolineava che, nonostante la convenzione che proroga fino al 2013 la collaborazione tra il Comune e l’associazione, ad oggi “non ho ancora nessuna cifra da mettere nel bilancio alla voce entrate. Dovrei cominciare il lavoro dentro l’istituto il 9 settembre e finire a dicembre dopo 15 repliche. Ma per adesso sono in sospeso”. Roma: ruba merendine in ospedale, vigilante spara e lo uccide Ansa, 26 agosto 2012 Stava cercando di scassinare il distributore di merendine, probabilmente per racimolare qualche soldo per la serata. Non certo una rapina milionaria quella che è costata la vita a Massimiliano Andreoli, il pregiudicato 48enne di Nettuno ucciso ieri sera dai colpi di pistola esplosi dal vigilante dell’ospedale di Anzio, sul litorale laziale. Un furto di qualche euro finito nel sangue, probabilmente per errore, secondo quanto raccontato dalla stessa guardia giurata subito dopo essere stato arrestato con l’accusa di omicidio. “Non volevo sparare, il colpo è partito accidentalmente”, avrebbe detto agli inquirenti. Sono da poco passate le 23 quando nel padiglione Faina, un vasto poliambulatorio distaccato dal corpo centrale degli Ospedali Riuniti Anzio-Nettuno, un uomo sta cercando di aprire i tre distributori di bevande ed alimenti nell’androne del piano terra, una zona non visibile né dalla vetrata dell’ingresso né dalle altre finestre dell’edificio. Ad allertare il vigilante è stato l’allarme che - come da prassi - era stato inserito alle 21 dal turno smontante. All’alt della guardia giurata, però, Andreoli si è dato alla fuga imboccando un corridoio che termina con una porta antipanico che dà su una terrazza. Durante l’inseguimento, l’uomo ha minacciato il vigilante con la spranga di ferro che stava usando per scassinare i distributori. È a quel punto - stando al racconto della guardia giurata - che sarebbe esploso accidentalmente il colpo di pistola. Un colpo che ha preso prima il braccio sinistro e poi l’emitorace forando il cuore di Andreoli che ha continuato però la sua fuga. Dalla terrazza è sceso dalla scaletta di emergenza dove ha abbandonato il piede di porco ed ha scavalcato la recinzione dell’ospedale. Mentre si allontanava è stramazzato al suolo esanime. Trasportato al vicinissimo pronto soccorso, il pregiudicato è poi morto pochi minuti dopo. La guardia giurata, 46 anni sposato e padre di due figli, è stata portata in commissariato per essere interrogata e sono stati sentiti anche altri testimoni che a quell’ora si trovavano sia al pronto soccorso - dove c’è sempre un notevole viavai di gente - sia all’esterno dell’ospedale. Sotto shock i colleghi ed i conoscenti del vigilante descritto come “una persona tranquilla, un bravo padre di famiglia”. In ospedale stentano ancora a credere a quanto accaduto, all’inseguimento, alla sparatoria e al tragico epilogo. “Le guardie giurate in servizio qui sono tutte persone posate, non abbiamo mai avuto sentore di gesti avventati - raccontano i medici. Ma l’ospedale e un riferimento per tante situazioni problematiche e, di notte, è stato necessario un controllo assiduo”. Lunedì intanto è stato fissato l’interrogatorio con il gip al carcere di Velletri, in cui sarà probabilmente definita l’ipotesi di reato che al momento è solo di omicidio, senza specifiche. India: il ministro Terzi; i marò detenuti torneranno rapidamente in patria Reuters, 26 agosto 2012 I due Marò italiani detenuti in India da alcuni mesi torneranno a casa rapidamente. Lo ha detto il ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata nel corso di una conferenza stampa al Meeting dell’amicizia di Rimini. “È un dossier molto difficile, ma l’obbiettivo è certo: i ragazzi torneranno a casa. Abbiamo straragione. I nostri ragazzi devono venire a casa rapidamente: c’è un impegno collegiale del governo, e lavoriamo tutti in questa direzione”, ha detto Terzi rispondendo a una domanda. Svizzera: cinque detenuti in fuga… grazie alle mucche Ansa, 26 agosto 2012 I cinque detenuti fuggiti dal carcere di Orbe (Vaud) alla fine di luglio sono potuti scappare poiché il detettore di movimenti era stato parzialmente disattivato a causa dei falsi allarmi provocati delle mucche presenti nel prato adiacente. La notizia, pubblicata stamane dal quotidiano “24 Heures”, è stata confermata all’ats dalla consigliera di stato vodese Béatrice Métraux. I cinque detenuti, cittadini albanesi e kosovari “alloggiati” all’ultimo piano dello stabile risalente al 1930, avevano scavato un buco nel soffitto della loro cella con i coltelli utilizzati durante i pasti. Sono quindi giunti in soffitta dove non ci sono sistemi di rilevamento. Dopo aver rimosso le tegole, sono saliti sul tetto e poi sono saltati su edifici più bassi e sono giunti sul parcheggio del personale della prigione. Qui hanno scavalcato la recinzione che separa il carcere dal prato. Secondo Métraux, gli evasi sarebbero forse passati inosservati anche se il sistema di rilevamento fosse stato acceso dato che esiste un punto cieco. I cinque uomini, che non sono considerati pericolosi, sono ancora in fuga. Lavori sono invece stati eseguiti sullo stabile che ospita la prigione per evitare il ripetersi di un caso simile. Israele: proteste e sciopero della fame dei detenuti politici palestinesi di Valeria Cagnazzo Nena News, 26 agosto 2012 Continuano le tensioni nelle carceri israeliane. In quella di Ramon, lo scorso 23 agosto, sono scoppiati violenti scontri tra otto prigionieri palestinesi e le guardie della prigione. Lo ha riferito Issa Qarage, ministro palestinese per gli Affari dei prigionieri. I carcerieri avrebbero preso d’assalto una sezione del carcere e aggredito i detenuti, cercando di farli spogliare per effettuare delle ispezioni. Le guardie avrebbero anche lanciato lacrimogeni e posto alcuni detenuti in isolamento. In seguito, avrebbero tagliato acqua ed elettricità nelle celle. Sarebbe questo l’ennesimo segnale del malcontento dei circa 4.700 detenuti politici palestinesi. Secondo le stime fatte da Abdel Nasser Farawana, ricercatore per la questione dei detenuti, i prigionieri sono circa 4.550, 220 i bambini. Tra di loro, ancora molti stanno portando avanti lo sciopero della fame iniziato lo scorso 17 aprile da un terzo dei detenuti palestinesi. Tra i motivi principali delle protesta l’isolamento carcerario, dovuto alle sanzioni imposte da Israele sulle visite dei familiari da Gaza nel 2006, quando un gruppo di militanti palestinesi rapì il soldato israeliano Gilad Shalit, e la “detenzione amministrativa”: in base a questa disposizione, risalente al mandato britannico, lo Stato israeliano è autorizzato ad arrestare i sospettati e, pur non avendo le prove, a protrarre all’infinito la durata della loro detenzione. A segnalare le precarie condizioni dei palestinesi prigionieri di Israele e ad esprimere serie riserve riguardo al rispetto dei diritti umani nelle carceri era stato già Richard Falk alla fine di Aprile. Il delegato speciale dell’Onu per i diritti dell’Uomo nei territori occupati in Palestina si era detto già allora, a pochi giorni dall’inizio degli scioperi della fame, “disgustato dalle continue violazioni dei diritti dell’uomo nelle prigioni israeliane”. E aveva aggiunto: “Chiedo ufficialmente al governo israeliano di rispettare le convenzioni internazionali relative al rispetto dei diritti dell’uomo per quanto riguarda i detenuti palestinesi”. A distanza di quattro mesi, però, la situazione resta critica. Oltre al caso dell’aggressione nella prigione di Ramon, si pensi, ad esempio, alle denunce di maltrattamenti sui prigionieri Hassan Safadi e Samer Al-Barq, il primo al suo 64° giorno di sciopero della fame, il secondo al 94°. Secondo quanto riferito da Safadi all’avvocato Fares Ziad, il 13 agosto le guardie dell’IPS - Israel Prison Service - avrebbero fatto irruzione nella stanza della clinica medica della prigione di Ramleh, che divideva con Al-Barq, per portare i due detenuti in un’altra sala, dove si trovavano prigionieri che non conducevano lo sciopero. La convivenza nella stessa stanza tra scioperanti e detenuti che mangiavano regolarmente avrebbe fortemente provato Safadi e Al-Barq e avrebbe potuto portarli a desistere dalla loro protesta. Al rifiuto dei due detenuti, le guardie li avrebbero aggrediti: avrebbero addirittura sbattuto due volte la testa di Safadi contro la porta, fino a farlo cadere a terra privo di sensi. Safadi e Al-Barq sono stati infine trasferiti in una cella di isolamento, priva di materassi. In seguito all’episodio, si sono scatenate le reazioni di Addamer , Al-Haq e dei Medici per i Diritti Umani in Israele, che chiedono l’intervento della comunità internazionale e delle indagini sulle condizioni di tutti i prigionieri attualmente in sciopero. Quanto al numero degli arresti, sempre Falk aveva tirato delle somme alquanto significative: nel suo comunicato Onu aveva, infatti, sottolineato come, a partire dal 1967, oltre 750mila Palestinesi siano stati arrestati da Israele, dei quali 23mila donne e 25mila bambini. Ciò significa che circa il 20% della popolazione non israeliana dei territori occupati è passata almeno una volta dalle carceri israeliane. La situazione non sembra migliorare: come ha segnalato Abdel Nasser Farawana, ogni giorno sarebbero circa 10 i “sequestri” di palestinesi, ossia l’arresto, spesso notturno, da parte di unità speciali israeliane che entrano nei centri abitati palestinesi. Non ultimo quello del 22 agosto nella città di Hebron (Cisgiordania) dove è stato arrestato un bambino, Hamza Sharif, di soli 13 anni. Sull’isolamento carcerario, sembrerebbero - il condizionale qui è davvero d’obbligo - aprirsi alcuni spiragli: sempre ai giorni scorsi risale la visita di un gruppo di famiglie della Striscia di Gaza ai detenuti del carcere di Nafha. Il primo permesso per i familiari di Gaza di far visita ai 470 detenuti provenienti dalla Striscia nelle prigioni israeliane era stato dato solo il 12 maggio, grazie allo sciopero della fame e alla mobilitazione da esso generata. Da segnalare, fonte di sollievo per il gruppo del “Freedom Theatre” di Jenin (Cisgiordania), è la scarcerazione da parte dell’Autorità Nazionale Palestinae, su cauzione, di Zakaria Zubeidi (cofondatore del teatro), accordata nel processo dello scorso 22 agosto. Stati Uniti: assolto dopo 13 anni di carcere, resta detenuto per un cavillo procedurale La Stampa, 26 agosto 2012 È in prigione da quasi quattordici anni, è stato dichiarato innocente dal tribunale due anni fa, eppure resta in carcere a tempo indeterminato. La storia di Daniel Larsen è una di quelle che fanno dubitare del sistema giudiziario americano, dove oltretutto c’è la pena di morte. Nel giugno 1998 Larsen si trovava in un bar di Northridge, in California, dove era scoppiata una violenta rissa. I poliziotti erano intervenuti per sedarla. Avevano detto di aver visto Daniel che prendeva dalla sua cinta un oggetto metallico luminoso, e lo lanciava sotto un’auto. Dopo aver perquisito la zona, avevano trovato un coltello a doppio taglio lungo circa quindici centimetri. Larsen era stato incriminato e durante il processo il suo avvocato, Michael Edward Consiglio, non aveva chiamato alcun testimone. Daniel aveva già avuto due condanne per furto, e quindi in base alla legge che dopo tre reati punisce i responsabili in maniera molto più dura, poteva ricevere una sentenza pesante. Il giudice, infatti, lo aveva condannato a 28 anni di prigione. Qualche tempo dopo il processo, l’avvocato Consiglio aveva perso la licenza, a riprova del fatto che la strategia difensiva non era stata brillante. Larsen aveva fatto ricorso, contattando nove legali diversi, ma senza ottenere nulla. Nel 2002, come ultimo tentativo disperato, si era rivolto al California Innocente Project, un’organizzazione che aiuta i detenuti condannati ingiustamente. Il Project aveva accettato il suo caso e qualche tempo d.opo era riuscito a individuare tre testimoni che la sera del delitto avevano visto un’altra storia. Il coltello, secondo loro, non stava nelle mani di Daniel, ma di un’altra persona. Tra i nuovi testimoni c’era anche un ufficiale di polizia del Tennessee che aveva diretto un commissariato in North Carolina, e questo aveva dato credibilità alla sua versione. Sommando queste testimonianze ad altre prove, gli avvocati del Project erano riusciti a costruire il caso per sostenere l’innocenza del loro cliente. Nel 2008 avevano presentato l’ultimo appello possibile, in base a una clausola che serve quando si sospettano condanne ingiuste. Un anno dopo il giudice Suzanne Segai aveva ascoltato i nuovi testimoni, valutato le prove, e cambiato il giudizio: “È uno di quei casi straordinari in cui un detenuto afferma la propria innocenza e stabilisce che la Corte non può avere fiducia nel verdetto contrario di colpevolezza”. Il giudice Christina Snyder aveva concordato, stabilendo che Larsen poteva essere rilasciato, anche se non aveva presentato in tempo la richiesta. A quel punto è intervenuto il segretario alla Giustizia della California, Kamala Harris, che ha fatto appello, sostenendo che Daniel era comunque colpevole. Si è aggrappata proprio al ritardo nella domanda di scarcerazione e così ha bloccato tutto. Due anni dopo lo scagionamento, Larsen è ancora in prigione, e nessuno sa dire fino a quando ci resterà. I suoi sostenitori hanno presentato una petizione, ma calcolano che negli Stati Uniti ci sono almeno duemila condannati riconosciuti innocenti, che sono ancora in carcere. Questo aumenta il sospetto di casi in cui persone innocenti sono state condannate anche a morte, e allontana a tempo indefinito il giorno in cui Daniel potrà uscire. Libia: la giornata in carcere di Saif al-Islam… Ansa, 26 agosto 2012 Mangia miele e tonno per colazione, beve Red bull e fa pure ginnastica. È questa - a credere a uno dei carcerieri - la giornata tipo di Saif al-Islam, secondogenito del defunto dittatore libico, Muammar Gheddafi, rinchiuso nella prigione di di Zintan, (136 chilometri a sudovest di Tripoli) dallo scorso novembre e in attesa del processo che si terrà a settembre. In base al racconto di un giornalista algerino, citato da Al Arabiya, che ha raccolto la testimonianza di una delle guardie del penitenziario, Saif “viene trattato in conformità con gli insegnamenti della Sharia islamica: che - assicura devotamente il secondino - preservano la dignità dei detenuti”. Stando al racconto della guardia carceraria, la cella di Saif “è una stanza larga con un bagno e un cortile dove può camminare e fare ginnastica”. Il figlio di Gheddafi aveva chiesto di poter avere alcuni libri di religione e gli sono stati consegnati testi in inglese da rappresentanti di alcune organizzazioni internazionali che lo hanno visitato. Saif è stato catturato nel deserto dai combattenti il 19 novembre del 2011 e da allora è rinchiuso in un cella a Zintan. La Libia ha deciso di processarlo, sfidando una richiesta da parte della Corte penale internazionale, che ha emesso un mandato d’arresto e ha chiesto di poterlo processare per crimini di guerra. “Sta bene”, ha detto al-Ajmi Ali Letairi, leader dei miliziani. “È stato sottoposto ad un intervento riuscito alla mano”, ha aggiunto. L’operazione - ha spiegato - è stata fatta in carcere da un team di medici da Tripoli. Alla domanda sul perché Saif sia detenuto in Zintan invece di essere trasferito a Tripoli, Letairi ha risposto: “Ci sono forti timori che possa fuggire o essere ammazzato”. Messico: 103 coppie si sposano nel carcere di Ciudad Juarez Ansa, 26 agosto 2012 Non hanno potuto organizzare un banchetto né potranno partire per il viaggio di nozze, ma hanno comunque vissuto il giorno più bello della loro vita. Cento tre coppie si sono sposate nella prigione di Ciudad Juarez. La condizione di detenuti non ha impedito loro di pronunciare la promessa di eterno amore, con tanto di torta nuziale. Non è la prima volta che in questo carcere si celebrano matrimoni di detenuti, nel marzo 2011 26 coppie avevano detto sì davanti a un ufficiale dell’amministrazione locale, diventando così marito e moglie dietro le sbarre.