Giustizia: Osapp; ieri superata di nuovo quota 66mila detenuti, per 45.572 posti-letto Agi, 24 agosto 2012 “Come era facilmente prevedibile, i detenuti nelle carceri italiane hanno nuovamente superato la quota 66mila (66.065 presenze per 45.572 posti-letto) alle 17,di ieri 23 agosto”. Ed “è altrettanto prevedibile che entro pochi mesi, nell’attuale incertezza politica, i dati del sovraffollamento penitenziario assumeranno ben altra rilevanza e pericolosità”. Inizia così, tre giorni dopo il precedente appello, la nuova lettera che l’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria ha trasmesso ai responsabili dei gruppi parlamentari di Camera e Senato. “Le cifre di un incremento di 350 detenuti in soli tre giorni - scrive il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci - questa volta, hanno riguardato principalmente la Sardegna (+84), la Sicilia (+54), la Toscana (+44), la Campania (41), il Lazio (+26) e il Piemonte (+24), ovvero regioni che già da tempo hanno superato i posti-letto disponibili e che adesso si apprestano a superare anche la capienza cosiddetta tollerabile, come già avviene per Friuli, Liguria, Lombardia, Marche, Puglia, Valle d’Aosta e Veneto, mentre del tutto insostenibile diventa anche la penuria di personale di polizia penitenziaria”. Infatti “rispetto alle 7mila unità che mancano all’organico del Corpo, mai integrato dal 1992 (quando i detenuti erano meno di 40mila), in Piemonte ci sono 850 poliziotti penitenziari in meno, 700 ne mancano nel Lazio e in Toscana, 650 in Sicilia e 350 in Campania: con la spending review che blocca l’80% delle assunzioni, già da quest’anno e per i prossimi tre anni, ci aspettiamo persino carceri autogestiti dagli stessi detenuti”. Giustizia: lavoro in carcere; mancano i fondi per dare attuazione alla legge Smuraglia di Ilaria Sesana Avvenire, 24 agosto 2012 “Non lavorare stanca”. È uno dei motti, e dei paradossi, del carcere. Dove solo poco più di tre detenuti su cento (2.261 su un totale di 66.897) hanno la possibilità di svolgere un lavoro vero, di imparare un mestiere che offra professionalità e competenze con cui costruirsi una nuova vita a fine pena. Dal Duemila a oggi, il numero di detenuti pasticcieri, falegnami, cuochi e persino birrai assunti da aziende e cooperative è aumentato in maniera significativa. Merito dei benefici contributivi e fiscali previsti dalla legge Smuraglia (193/2000) che incentivano gli imprenditori a portare il lavoro dietro le sbarre. Ma i fondi per le imprese sono rimasti pressoché invariati (poco più di 4 milioni 600mila euro all’anno) e non ci sono mai stati stanziamenti aggiuntivi malgrado i numeri dimostrassero il successo di questo provvedimento. E le risorse non bastano più a coprire il fabbisogno. Era già successo nell’estate 2011, quando diverse cooperative lanciarono l’allarme la prima volta: un intervento in extremis aveva permesso di trovare fondi aggiuntivi per tappare la falla. “Avevamo avuto rassicurazioni sul fatto che questo problema non si sarebbe ripresentato. E invece…”, ricorda Nicola Boscoletto, presidente del consorzio di cooperative sociali “Giotto” che da vent’anni opera nel carcere di Padova. Il meccanismo si è inceppato e alle cooperative si chiede di tirare la cinghia. “Ce la faremo fino a luglio-agosto. Ma da settembre a dicembre non ci sarà possibile usufruire dei benefici: dovremo fare tutto con risorse nostre. E questo ci mette in difficoltà”, aggiunge Boscoletto. Che non vuole nemmeno pensare all’alternativa di dover licenziare i suoi ragazzi. “È come essere dentro un incubo”, commenta a denti stretti. Nelle stesse condizioni, “Il Cerchio” di Venezia, cooperativa che gestisce una sartoria e una lavanderia nella casa di reclusione della Giudecca e impiega 16 detenute. “Il Cerchio”, tra l’altro, ha realizzato importanti investimenti, acquistando nuovi macchinari proprio per dare più lavoro alle detenute. E invece, come tutte le altre cooperative d’Italia non può farlo: “Eventuali nuove assunzioni - si legge sui documenti dei Provveditorati - non devono prevedere, esplicitamente, la fruizione dei benefici previsti dalla legge 193/2000”. Le nuove assunzioni sono comunque possibili, senza però usufruire degli sgravi fiscali e contributivi. “Ma come posso accollarmi il costo di un lavoratore detenuto alle stesse condizioni di un esterno, che però non ha la possibilità di muoversi liberamente”, riflette Silvia Polleri, che ha avviato un catering all’interno del carcere di Bollate con la cooperativa “Abc. La sapienza in tavola”. “Inoltre, senza questi benefici, diventa difficile portare avanti nuove realtà di lavoro penitenziario dove non ce ne sono”, aggiunge Giuseppe Guerini, presidente di Federsolidarietà. Le belle esperienze di Milano Bollate, Padova, Venezia e Roma rischiano così di restare isolate. E il Mezzogiorno, dove invece ci sarebbe bisogno di investimenti e lavoro vero, resta ancora una volta in svantaggio. Per far fronte alla crisi e all’incertezza dei benefici, alcune aziende hanno avviato una riduzione del personale “galeotto”. La situazione è drammaticamente evidente in Lombardia dove i detenuti assunti con i benefici della Smuraglia sono passati dai 468 del primo semestre 2011 ai 314 del primo semestre 2012. Non si rimpiazzano i detenuti arrivati a fine pena e i part-time vengono accorpati: invece di assumere due persone se ne prende una sola a tempo pieno. “Per noi è un po’ una sconfitta, vorremmo avere sempre più lavoratori nelle carceri”, commentano dal Provveditorato di Milano, che ha anche istituito un’agenzia ad hoc (“Articolo Ventisette”) per incentivare il lavoro penitenziario. “Dobbiamo far capire a chi tiene i cordoni della borsa che i soldi che si mettono nel lavoro non sono una spesa, ma un investimento. Perché si abbassa la recidiva, si evita che le persone tornino a delinquere”, conclude Nicola Boscoletto che, malgrado le difficoltà, non vuole saperne di gettare la spugna: “Spero che nessuno si perda d’animo. Chi opera per il bene, alla lunga, avrà la meglio sul male”. I benefici previsti per aziende e coop Con la Legge Smuraglia (193/2000) lo Stato prevede agevolazioni economiche e fiscali per aziende e cooperative che assumono lavoratori detenuti, promuovendo attività interne ed esterne agli istituti penitenziari. Le imprese, in particolare, possono usufruire di una riduzione dell’80% degli oneri contributivi per ogni detenuto (o internato) assunto per un periodo minimo di 30 giorni. Un beneficio che prosegue per ulteriori sei mesi dopo il fine pena. Si può inoltre beneficiare di un credito d’imposta che può arrivare fino a 516,46 euro mensili (in base al monte ore) per ogni lavoratore assunto. Anche in questo caso l’azienda può usufruire del beneficio per altri sei mesi dopo la scarcerazione del detenuto. Fra chi ha un impiego solo uno su dieci torna a compiere reati Sbattere in galera chi ha sbagliato “e buttare via la chiave”. Perché “devono farsi la galera fino all’ultimo giorno”. Ma siamo sicuri che “più carcere” equivalga a “più sicurezza” nella società? L’esperienza di chi lavora negli istituti penitenziari e i numeri forniti dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, dicono proprio il contrario. Tra i detenuti che scontano la propria pena in carcere senza usufruire di nessun beneficio la recidiva è molto elevata: sette su dieci (il 68,4%) una volta riavuta la libertà, tornano a commettere gli stessi reati che li avevano portati in galera la prima volta. Importanti benefici, invece, si fanno sentire tra i detenuti che usufruiscono di misure alternative alla detenzione (affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, liberazione anticipata, detenzione domiciliare). In questi casi la recidiva scende al 19%. Ancora più bassa la percentuale tra i detenuti che hanno la possibilità di lavorare e di imparare un mestiere durante gli anni della reclusione: solo il 10 - 12% torna a commettere nuovi reati. Giustizia: Piano-Carceri; indetti 5 bandi urgenti; 65 milioni di €, per 1.200 nuovi posti di Luisa Leone Milano Finanza, 24 agosto 2012 Il piano contro l’affollamento delle carceri, sta procedendo con grande celerità, con cinque bandi urgenti lanciati dall’insediamento del nuovo responsabile dell’emergenza, Angelo Sinesio. Per queste gare ci sono in ballo circa 65,5 milioni di lavori per 1.200 nuovi posti. Ma si tratta solo dell’inizio perché, nonostante il Cipe lo scorso gennaio abbia operato un taglio di 228 milioni, su uno stanziamento iniziale di 675 milioni, il piano carceri è passato dagli iniziali 9.300 nuovi posti previsti a ben 11.500. Inoltre, con il sostegno del ministro della Giustizia Paola Severino e di quello dell’Interno Anna Maria Cancellieri, la macchina procede a tutto gas. Nonostante il taglio di 228 mln di fondi il nuovo commissario per l’emergenza sovraffollamento, Sinesio, ha già fatto pubblicare cinque gare con procedura d’urgenza. La ricetta: stop ai nuovi complessi e via agli ampliamenti. Sembra proprio che in Italia, per ottenere qualche risultato, ci sia bisogno di un commissario per ogni cosa. Almeno questo pare dimostrare la celerità con cui procede il piano contro l’affollamento delle carceri, con cinque bandi urgenti lanciati dall’insediamento del nuovo responsabile. Giustizia: Lisiapp; il fumo passivo dei detenuti danneggia anche i poliziotti penitenziari Asca, 24 agosto 2012 Lisiapp: non basta il grave sovraffollamento, le strutture fatiscenti, la cronica carenza di personale, arriva anche il fumo passivo da parte della popolazione detenuta. Ancor oggi si continua a fumare negli ambienti delle strutture detentive del paese, sottovalutando tanto i rischi derivanti dal fumo di tabacco, soprattutto se passivo. È l’allarme che lancia il Lisiapp (Libero sindacato appartenenti alla polizia penitenziaria) dove riprende uno studio effettuato dalla commissione europea l’Eu-Osha il quale sostiene che il fumo di tabacco riconosciuto nocivo per la salute dei fumatori quanto dei non fumatori, può causare diverse gravi patologie quali malattie cardiovascolari e respiratorie, avere effetti avversi sulla riproduzione, inoltre può provocare la morte a causa di tumori (particolarmente il cancro al polmone), cardiopatie coronariche o ictus. A questo attaccano dal sindacato - “in un luogo come le patrie galere, dove la legalità e il rispetto delle regole dovrebbero essere punti cardini nella vita quotidiana del recluso, invece accade proprio il contrario ed il primo a non far rispettare questa norma è proprio lo stato ovvero il Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) che continua a non far applicare tale disposizione andando in contrasto oltre che non tutelando la salute degli operatori di polizia fumatori e non. Insomma - conclude la nota Lisiapp - una volta per tutte bisogna dire basta al fumo di tabacco passivo nelle sezioni degli istituti di pena. Il Dipartimento Dap deve sentirsi in dovere di applicare la norma del divieto di fumo, cosa che oggi risulta una ciminiera le nostre carceri e non solo per il sovraffollamento. Giustizia: Lisapp; troppi privilegi per i dirigenti del Dap, mentre alla Polpen manca la benzina www.politicamentecorretto.com, 24 agosto 2012 “Frongia (Lisiapp) intanto i mezzi della Polizia penitenziaria rimangono a secco”. Troppi privilegi. Troppe scorte. È quanto accade a chi passa anche per pochi mesi per il Dicastero della Giustizia e dei suoi Dipartimenti. La denuncia arriva dal sindacato autonomo Lisiapp della Polizia penitenziaria per voce del suo segretario generale aggiunto Luca Frongia. “Lo Stato italiano spende troppo per garantire lasicurezza delle personalità, come ex ministri, ex sottosegretari e alti dirigenti della Giustizia e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. È arrivato il momento - afferma Frongia - di una revisione totale del sistema scorte e dei suoi servizi, dove sono coinvolti gli uomini della Polizia penitenziaria. Il tutto nasce a margine dello scandalo di alcuni ex ministri ed ex sottosegretari in giro per la Liguria. “La spending review ha imposto tagli e sacrifici agli italiani, ma per queste situazioni , di tagli ne sono stati visti davvero pochi in particolare poi nel dicastero della Giustizia e nel Dap” afferma il numero due del Lisiapp. La Polizia penitenziaria è allo stremo delle sue capacità operative. “Solo - continua il Segretario Lisiapp - grazie agli uomini e le donne del Corpo e al loro sacrificio che va al di là del ruolo istituzionale , si riesce ad andare avanti”. Assistiamo ogni giorno - sottolinea la nota - ad una sfilata di autovetture nuove e fiammanti, dai costi esorbitanti per un paese che si trova in difficoltà economica, come per esempio l’acquisto di vetture speciali, Bmw serie 3 e 5, Audi serie 6, Land Rover. Per quest’ultima - fanno notare dal Lisiapp, il suo uso era per il trasporto di collaboratori e pentiti. Nel corso del tempo ci siamo accorti che l’uso era cambiato o meglio non è mai stato utilizzato per quel fine, ed assegnato ad alti burocrati della Giustizia. Purtroppo - conclude la nota - in molti casi, la “protezione” dura oltre il proprio mandato, facendo cosi allungare quel privilegio non più consentito per un paese in grave crisi finanziaria come il nostro. Giustizia: il caso Assange e l’Europa, da mito a fortezza di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 24 agosto 2012 Manifestazione a sostegno di Julian AssangeIl 16 ottobre del 1998 Augusto Pinochet venne arrestato a Londra. Le autorità inglesi avevano ricevuto una richiesta di estradizione dal giudice spagnolo Baltazar Garzòn il quale stava conducendo una inchiesta sui crimini di tortura commessi dal dittatore cileno. Si aprì allora un dibattito giurisdizionale pubblico intorno alla persecuzione su scala universale dei crimini contro l’umanità. La Camera dei Lord emise ben due sentenze per sottolineare come le azioni giudiziarie contro le gross violations of human rights non potevano essere contenute negli angusti limiti statuali. Passò circa un anno e mezzo e la real politik trionfò. Jack Straw, Ministro degli interni del governo Blair, interruppe drasticamente le procedure di estradizione di Pinochet verso la Spagna. Nel gennaio del 2000 concesse al dittatore il ritorno in Cile. Erano anni quelli in cui si riteneva che stesse nascendo una nuova era per la giustizia internazionale capace di giudicare su scala globale i crimini contro l’umanità. Nel luglio del 1998 in quel di Roma infatti fu firmato solennemente lo Statuto della Corte Penale Internazionale. Anche il Regno Unito lo sottoscrisse e lo ratificò. Ma nel frattempo con l’attentato dell’11 settembre del 2001 i diritti umani furono restituiti a un ruolo retorico e salottiero. Così piuttosto che occuparsi della loro protezione giurisdizionale universale gli Stati si concentrarono intorno alla cooperazione giudiziaria per colpire le organizzazioni terroristiche. È in questo quadro politico internazionale che l’Unione Europea iniziò a porre le basi per uno spazio giuridico e di polizia comuni nel nome della efficienza e della rapidità di azione. Mentre non decollava la costituzione europea, si andava consolidando su un altro terreno la cooperazione penale senza che si prestassero eccessive attenzioni alle garanzie democratiche dei residenti in Europa. Andando oltre il terrorismo, nel 2002 la Ue adottò il mandato di arresto europeo, in un contesto che non era quello auspicabile della messa in comune di principi di libertà, ma che era divenuto quello della efficacia e della prontezza dell’azione repressiva contro il crimine politico o comune. Il mandato di arresto europeo si andò a sostituire all’antico istituto giuridico della estradizione. Gli Stati dovettero adeguarsi alla nuova normativa. Erano ben trentadue gli ambiti di reati ricompresi, tra cui quelli di natura sessuale per i quali è oggi sotto processo in Svezia Julian Assange. Ogni Stato ha dovuto adattare il proprio diritto interno alla legislazione europea, la quale venne pensata come se i confini tra gli Stati non dovessero esserci più. Piuttosto che a una estradizione tra Stati il mandato di arresto europeo avrebbe voluto assomigliare a una consegna della persona arrestata tra giudici di una stessa nazione. Fa sorridere il caso Assange, ammantato di retorica cooperativa tra Stati europei (in questo caso Regno Unito e Svezia), in una epoca come questa segnata dal protezionismo economico - finanziario, da una Europa in crisi di identità, dallo spread e dal prevalere delle politiche anti - federaliste. Il mandato di arresto europeo non è mai stato messo in discussione dagli Stati. Ci hanno provato invece le Corti supreme. Nel nome delle guarentigie nazionali le corti costituzionali polacca, cipriota, tedesca e italiana hanno parzialmente abrogato le norme di adattamento interno ritenendole non conformi alle proprie costituzioni. Nel nostro Paese con la sentenza n.227 del giugno 2010 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (legge di recepimento del mandato di arresto europeo) nella parte in cui non prevedeva il rifiuto di consegna del cittadino di un altro Paese membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente avesse residenza o dimora nel territorio italiano, qualora intendesse scontare la pena detentiva in Italia. Molti nostri illustri giuristi sin dal 2002 hanno sostenuto con buoni argomenti che il mandato di arresto europeo fosse tout - court anti - costituzionale, perché non offriva garanzie sufficienti all’imputato (esame approfondito del quadro indiziario, valutazione della ragionevolezza delle misure cautelari richieste). È questo il quadro entro cui si muove la vicenda intricata di Julian Assange. Una vicenda che segna come il sistema penale internazionale repressivo abbia prevalso su quello del riconoscimento universale delle garanzie e dei diritti umani. A quattordici anni dalla sua nascita la Corte penale internazionale stenta a funzionare e solo sette sono i casi giudiziari in corso di esame, tutti riguardanti l’Africa. Alla sovranazionalizzazione della giustizia per i crimini contro l’umanità si è sovrapposta in termini vittoriosi la cooperazione giudiziaria tra Stati amici. Lo spazio europeo non è mai divenuto uno spazio unico di diritti mentre oramai funziona quale uno spazio unico per il lavoro delle polizie. Dell’originale progetto europeo, che sotto i colpi della crisi sta naufragando, restano intatte le norme della repressione penale. La creazione di uno spazio comune di sicurezza (vedasi le norme sulla immigrazione) piuttosto che di libertà e di democrazia è l’immagine triste di una Europa ridimensionata da mito a fortezza. Nel caso Assange, nel nome di una procedura europea comune collaborano due Stati, Regno Unito e Svezia, che sinora nulla hanno fatto per non far crollare quel che resta dell’Europa unita. Giustizia: contro la corruzione un Codice con norme penali comuni per i Paesi dell’Ue di Donatella Stasio Sole 24 Ore, 24 agosto 2012 La corruzione transnazionale costa all’Unione Europea 600 milioni l’anno. Molto meno dei 60 miliardi annui stimati dalla Corte dei conti per l’Italia, ma abbastanza per far correre ai ripari l’Ue: sulla base dei nuovi poteri in materia penale conferiti all’Unione dal trattato di Lisbona, è già stata approvata dalla Commissione una proposta di direttiva per proteggere gli interessi finanziari dell’Ue anche mediante una sorta di “Codice penale” sulle frodi, in modo da rendere omogenei reati, sanzioni, procedure, prescrizione in tutta l’Europa. Non solo. Nel 2013 prenderà forma anche il Procuratore europeo il quale, avvalendosi degli strumenti dell’indagine penale, potrà indagare ed esercitare l’azione penale nei 27 Paesi Ue. Una rivoluzione che gli Stati membri dovranno rendere operativa. Inutile dire che ci saranno resistenze perché la rivoluzione implica una cessione di sovranità in materia penale, mai vista di buon occhio. Frode, in inglese, è un termine molto più ampio di quello italiano, comprensivo di tutti i reati che hanno un impatto sugli interessi finanziari dell’Ue, quindi anche truffa, corruzione, riciclaggio, conflitto di interessi. Il Sole 24 ore è in possesso del progetto approvato dalla Commissione con le norme penali antifrode, dopo lunghe consultazioni con i governi, i magistrati, i giuristi, le associazioni dei contribuenti, e che a settembre passerà al Parlamento europeo e al Consiglio europeo. La premessa è che la frode e le altre attività illegali lesive degli interessi finanziari dell’Ue “costituiscono un grave problema che si ripercuote sul bilancio dell’Unione stessa e di conseguenza sui contribuenti”. Per interessi finanziari si intendono tutti i fondi gestiti dall’Unione o per suo conto, destinati a migliorare le condizioni di vita e a creare posti di lavoro. Un obiettivo “a rischio”, si legge nella relazione, se il danaro viene distratto, “soprattutto in una fase di consolidamento e responsabilità di bilancio e di riforme strutturali per la crescita”. La quantificazione del danno in 600 milioni di euro l’anno risale al 2010 ma pecca per difetto “poiché non tutti i casi sono identificati e denunciati”. Di qui il “dovere” di sfruttare tutte le possibilità offerte dal trattato Ue per “salvaguardare il denaro dei contribuenti nel modo più efficiente”, ricorrendo anche al diritto penale. Gli Stati membri hanno normative divergenti che spesso determinano “livelli non uniformi di tutela nei rispettivi ordinamenti giuridici nazionali”. Con riferimento alla frode, la sua definizione è stata inclusa dagli Stati in numerose forme diverse di legislazione, dal diritto penale generale alle norme sugli illeciti fiscali, e la stessa divergenza si riscontra sulle sanzioni. “Definizioni di reato comuni a tutti gli Stati membri ridurrebbero i rischi di pratiche discordanti, assicurando un’interpretazione uniforme e garantendo che tutte le condizioni necessarie al loro perseguimento siano soddisfatte in modo omogeneo”, oltre ad avere un effetto deterrente e repressivo tali da scoraggiare i potenziali criminali a spostarsi nei paesi “più indulgenti” per svolgere le loro attività illecite. L’intervento riguarda la frode in senso stretto, ma anche corruzione, riciclaggio e turbative di gare d’appalto pubblico, cioè tutti i comportamenti lesivi del bilancio Ue. Vengono introdotte sanzioni minime e armonizzati i termini di prescrizione poiché su questo fronte emergono “gravi carenze”. Il trattato dà all’Ue poteri forti per adottare misure “dissuasive” e tali da determinare una protezione “efficace” ed “equivalente”. Si è scelto lo strumento della direttiva perché “è il più appropriato” per lasciare agli Stati un certo grado di “flessibilità” nell’adottare “disposizioni più severe”. L’articolo 2 stabilisce che “per interessi finanziari dell’Unione si intendono tutte le entrate e le spese che sono coperte o acquisite oppure dovute in virtù del bilancio dell’Unione e dei bilanci delle istituzioni, organi, organismi stabiliti a norma dei trattati o dei bilanci da questi gestiti e controllati”. Vi rientra anche la frode in materia di Iva. L’articolo 4 disciplina i reati “connessi”, come la condotta disonesta del partecipante a una gara d’appalto pubblico, già prevista in alcuni Stati ma punita con sanzioni molto diverse, che vanno da 1 giorno di carcere in uno Stato fino a un minimo di 3 anni in un altro. La Commissione rileva che “la mancanza di una normativa efficiente sotto questo profilo comporta ogni anno perdite per 40 milioni di euro a carico del bilancio Ue”. Lo stesso articolo definisce la corruzione (che non implica che la condotta sia “in violazione dei doveri d’ufficio”) e la “ritenzione illecita”, cioè le condotte di funzionari pubblici che non sono frode in senso stretto, ma si sostanziano nella ritenzione illecita di fondi o beni contraria allo scopo previsto, al fine di danneggiare gli interessi finanziari dell’Ue. C’è poi una particolare tipologia di riciclaggio, che gli Stati sono tenuti a configurare come reato. L’articolo 6 disciplina la responsabilità delle persone giuridiche per tutti gli stessi reati, che non è alternativa a quella delle persone fisiche. L’articolo 7, sulle pene, impone agli Stati di applicare sanzioni “effettive, proporzionate e dissuasive” e di stabilire pene minime per le persone fisiche mentre l’8 fissa le soglie per le pene detentive, cioè termini minimi e massimi, secondo la gravità dei reati. Si dà molto rilievo alle pene minime per il loro effetto deterrente, e perciò non si può scendere sotto i 6 mesi, che fra l’altro consentono di emettere ed eseguire un mandato di arresto europeo. Seguono le norme su confisca e giurisdizione, mentre l’articolo 12, sulla prescrizione, fissa un termine minimo di 5 anni dal momento del reato, che però si interrompe (e ricomincia a decorrere) dopo ogni atto, compreso l’inizio effettivo dell’indagine o dell’azione penale, almeno fino a 10 anni da quando il reato è stato commesso. La prescrizione per l’esecuzione della pena è di 10 anni dalla condanna definitiva. Lettere: i Rom in carcere, dati di una persecuzione di Every One Group Human Rights www.dazebaonews.it, 24 agosto 2012 I dati riguardanti l’atteggiamento poliziesco e giudiziario verso i Rom indicano un evidente pregiudizio. Circa 3 mila detenuti maschi, nel nostro paese, sono Rom. Si tratta del 5% dell’intera popolazione carceraria, quando i Rom sono lo 0,1 per cento della popolazione italiana. L’antropologia moderna - e le scienze dei diritti umani - ci insegnano che non esiste un popolo con attitudine a delinquere, ma solo cause sociali imputabili agli stati e alle culture dominanti che sono all’origine dell’incremento statistico dei reati presso un’etnia rispetto a un’altra. Il numero di tentati suicidi presso la popolazione carceraria Rom è altissimo. Da parte nostra, intervistando più di cento ex detenuti Rom, abbiamo rilevato un dato che sfiora il 90%. Le donne di etnia Rom in prigione raggiungono addirittura il 40%, con punte del 90% in alcuni istituti penitenziari. Le donne madri in carcere sono Rom nel 90% dei casi. Questi dati devono farci riflettere attentamente, perché ci riportano inevitabilmente - con un ragionamento scientifico e non emotivo - ai numeri di altre persecuzioni e che culminano con gli stessi tragici effetti ovvero le morti in carcere. Nel 2011 almeno 8 Rom si sono tolti la vita in carcere: il 10% del numero complessivo di suicidi. È lo stesso numero delle esecuzioni capitali avvenute in Somalia, uno stato il cui sistema giuridico è considerato incivile ed ha suscitato proteste in tutto il mondo. L’Italia condanna a morte i Rom (ma non solo i Rom: finire in prigione nel nostro paese vuol dire, quantomeno, giungere al disprezzo della vita o contrarre - nell’83% dei casi - una grave malattia infettiva), li condanna a morte attraverso la repressione e la disumanizzazione che esistono nelle carceri. E quando la morte non è fisica, i detenuti Rom - spesso privati dei loro bambini da assistenti sociali e magistrati prima di varcare i cancelli delle prigioni - sono colpiti da tortura fisica e morale, seguita spesso da morte civile. Napoli: il caso Poggioreale e l’ultimo bastione verso un carcere trasparente di Susanna Marietti www.linkontro.info, 24 agosto 2012 Un paio di giorni fa una delegazione dei Radicali guidata dall’onorevole Rita Bernardini era di fronte al carcere napoletano di Poggioreale ed è stata raggiunta da una denuncia. Un ragazzo tossicodipendente detenuto nell’istituto sarebbe stato picchiato da agenti di polizia penitenziaria. La notizia può suonare, purtroppo o per fortuna, un tantino consueta all’orecchio non dedito professionalmente all’ascolto delle voci dal carcere. Purtroppo, perché significa che la violenza nelle nostre patrie galere non è episodica e occasionale. Per fortuna, perché significa che il racconto di questa violenza ha ormai imparato sempre più la propria strada verso l’uscita dalle mura di cinta. Quel che un tempo restava confinato al buio carcerario, relegato nella memoria impaurita di chi era stato oggetto di quella violenza e insieme inevitabilmente della minaccia che si ripetesse nel caso avesse osato denunciarla, oggi ha il coraggio di essere raccontato. Tuttavia, chi conosce le carceri italiane con una certa capillarità sa che la notizia di questa particolare denuncia non è consueta come altre possono apparire. Il carcere di Poggioreale era uno degli ultimi bastioni. Lì dentro i detenuti hanno vissuto per decenni nel terrore dell’istituzione che li custodiva. Quando persone che avevano avuto esperienza di quella galera venivano trasferite in altre carceri, si portavano dietro il loro panico. Era difficile convincerli che a Rebibbia a Roma, per fare un esempio, non accadevano quelle violenze così ordinarie nelle mura napoletane dalle quali provenivano. “Oddio, passa una guardia”, capitava sobbalzassero nel corridoio aggrappandosi in un gesto istintivo a un compagno di detenzione. “Embè, che fa? Certo che passa una guardia, siamo in carcere”, rispondeva quello. La stretta si allentava piano, lo sguardo girava intorno per convincersi di trovarsi davvero in un luogo tanto differente. Ci volevano mesi per recuperare una percezione normale dello spazio carcerario che abitavano. Nel febbraio dell’anno 2000 il Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa venne in visita all’istituto di Poggiorale. Nel report stilato a seguito dell’ispezione, il Comitato sottolineò come nella struttura regnasse un’atmosfera opprimente e come i detenuti, ogni qualvolta si trovavano in presenza di personale di polizia penitenziaria, abbassavano immediatamente la testa e incrociavano le mani dietro la schiena. Militarmente, se dovevano recarsi da un luogo all’altro della struttura, lo facevano in questa posizione, in fila per due da buoni soldati, sussurrando al proprio compagno di riga senza permettersi di rivolgere la parola a nessun altro. A questa descrizione, il Comitato aggiunse l’ovvia annotazione dell’inutilità di un tale approccio rispetto alle esigenze di sicurezza, caldeggiandone il superamento. Le relazioni tra detenuti e agenti, scriveva, sono rese così ben poco costruttive. Il governo italiano rispose con quel senso di comicità che solo le nostre autorità hanno dimostrato negli anni di saper avere. Non c’entra la polizia, disse. Sono gli stessi detenuti che oramai hanno queste abitudini e, si sa, gli usi e i costumi sono difficili da dismettere… Tutto questo per dire che la denuncia uscita due giorni fa dal carcere di Poggioreale non è una denuncia come le altre. Mostra che la battaglia per un carcere trasparente portata avanti negli ultimi venti anni da organi dell’informazione e della società civile sta raggiungendo gli ultimi baluardi. Che un detenuto di Poggioreale abbia oggi il coraggio di raccontare alla politica di essere stato pestato, è frutto di un grande lavoro culturale. Associazioni, giornalisti attenti e persone come Ilaria Cucchi, che da quasi tre anni lavora a una grandissima e dolorosa battaglia di verità, hanno reso a questo Paese un grande servizio nella direzione della civiltà umana e giuridica. Genova: allarme tubercolosi a Marassi; isolato un detenuto per evitare rischio contagio di Marco Preve La Repubblica, 24 agosto 2012 È di nuovo allarme tubercolosi al carcere di Marassi. Un detenuto è, infatti, risultato positivo alla Tbc e sono subito scattate le misure d’emergenza per evitare qualsiasi rischio di contagio. L’uomo è ora ricoverato nel centro clinico dell’istituto “che è a tutti gli effetti un ospedale regionale - come ricorda il direttore del carcere Salvatore Mazzeo - e quindi il paziente è seguito nel migliore dei modi e sono state prese tutte le misure di profilassi necessarie “. Il caso, però ripropone come, già era avvenuto proprio un anno fa e sempre nel periodo estivo, il problema del sovraffollamento degli istituti di pena. Problematiche che coinvolgono sia i detenuti che gli agenti della polizia penitenziaria, i quali spesso hanno chiesto interventi risolutivi attraverso le loro organizzazioni sindacali. Quest’ultimo episodio è stato scoperto due giorni fa. Il malato affetto da tubercolosi polmonare è un genovese di 44 anni con numerosi precedenti per i cosiddetti reati contro il patrimonio (furti) e con problemi di tossicodipendenza. In carcere in questo periodo si trova anche suo fratello. Arrestato per un furto è entrato nelle Case Rosse di Marassi il 2 di agosto. Negli ultimi giorni aveva detto di non sentirsi bene ed era stato trasferito in infermeria. Sono stati subito effettuati alcuni esami ed è emersa la sospetta Tbc. “Il detenuto - spiega ancora il direttore Mazzeo - è stato trasferito in isolamento del centro clinico. Al paziente come a tutto il personale che entra in contatto con lui sono state consegnate mascherine per evitare rischi di trasmissione del contagio”. Al momento non sembra che possano esservi stati rischi di contagio e quindi non sarebbero scattati né esami di controllo per altri detenuti e personale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e tantomeno una terapia farmacologica. Il caso viene comunque seguito ed è stata richiesta particolare attenzione all’interno del carcere per individuare fin dall’inizio eventuali situazioni sospette. La vicenda non sembra al momento creare le preoccupazioni e le polemiche verificatesi nel luglio del 2011 quando, in Questura, dopo che si era scoperto che era affetto da tubercolosi un profugo che era rimasto a lungo nei locali per sbrigare le pratiche di regolarizzazione, era stata decisa la temporanea chiusura dell’Ufficio Stranieri. In realtà nessun agente o impiegato civile era stato contagiato ma il caso aveva suscitato scalpore e poche settimane dopo di nuovo la Tbc era stata diagnosticata ad un detenuto del carcere. La tubercolosi non è comunque una patologia così rara all’interno di Marassi come delle altre carceri. Il sovraffollamento e l’alta percentuale di detenuti con problemi di tossicodipendenza quando non di vera e propria sieropositività, hanno reso di fatto piuttosto comuni sia l’Aids che altre malattie come l’epatite o, appunto, la tubercolosi. Patologie che creano ulteriori problemi di invivibilità all’interno di istituti dove il sovraffollamento della popolazione carceraria è cronico così come sono risicati gli organici e i fondi a disposizione della polizia penitenziaria. Reggio Calabria: il carcere di Arghillà prigioniero di se stesso, contenzioso ha bloccato i lavori di Pino Toscano Gazzetta del Sud, 24 agosto 2012 Cantiere aperto da 20 anni. Un’opera costata finora 90 milioni di euro, che avrebbe dovuto risolvere il dramma del sovraffollamento. Ma adesso la ministra Severino ha deciso che la vergogna deve cessare. Vent’anni di solitudine. È il carcere di Arghillà. Costato novanta milioni di euro, fatto crescere e lasciato lì, prigioniero di se stesso. Un istituto penitenziario che avrebbe dovuto rappresentare un punto di svolta, la risposta finalmente efficace al dramma dei detenuti portati all’ammasso, il distintivo di una concezione umana della pene. Invece è una vergogna nazionale, l’ennesima atroce beffa, un monumento all’indifferenza dei governi, al nanismo della classe politica e all’ottusità della burocrazia. Tutti - governi, politica, burocrazia - tenuti in ostaggio dal contenzioso senza fine instaurato dall’impresa aggiudicataria dei lavori. Una guerra di perizie e varianti, di ricorsi alla giustizia amministrativa e di tempi morti con conseguente lievitazione dei prezzi. Una burla divenuta un caso nazionale. Nel novembre del 2009 se ne occupò anche la popolare trasmissione televisiva della Rai “Uno Mattina”. In questi anni, tutti i ministri della Giustizia hanno fatto la gara a chi la diceva più grossa, però l’opera non ha fatto nessun passo avanti. Ma ora pare che il titolare della Giustizia, Paola Severino, si sia messa seriamente in testa di far cessare la vergogna. E alcuni suoi atti vanno in questa direzione, come sottolinea l’alto magistrato Giuseppe Tuccio - Garante dei diritti del detenuto. La premessa: “Da oltre vent’anni si discute a Reggio il “caso Arghillà”. Sono rimaste nel buio le ragioni di una scelta ubicativa in un’area territoriale che meritava una diversa destinazione urbanistica e che invece per insediamenti abitativi non disciplinati ha trasformato il momento antropizzante in una negativa opportunità di degrado sociale. E nel cuore i questo habitat sorgerà il carcere di Arghillà”. “Al ministro Severino”, dice Tuccio entrando nel cuore della questione, “va dato atto di aver ripreso con particolare solerzia e severità il tema del recupero di questa struttura che sarà idonea ad ospitare oltre trecento detenuti. Quanto questo coincida con i profili della funzionalità della pena sul versante trattamentale è abbastanza evidente. Criminologi e cultori del diritto penitenziario concordano in ordine alla connotazione della territorializzazione della pena quale veicolo di più proficuo ed intenso recupero rispetto a processi disumani di derealizzazione affettiva proprio a causa dell’estrema limitatezza delle opportunità di contatti con il nucleo familiare di appartenenza”. Naturalmente senza trascurare l’aspetto della salvaguardia sociale: “Va da sé che tale trattamento deve coniugarsi con le esigenza di sicurezza per cui l’avvicinamento dei detenuti dovrà passare al vaglio di apparati giudiziari che esprimano preventivi giudizi soprattutto in ordine al rischio di degenerazioni sul versante dei contatti con la società criminale di appartenenza”. Le iniziative del Guardasigilli sulla struttura reggina: “Allo stato - ricorda Tuccio - il ministro Severino ha nominato proprio per le carceri di Arghillà un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, il prefetto Senisi, che recentemente ha inviato sul posto una qualificata commissione di ingegneri e tecnici specializzati che hanno redatto una prima relazione da cui emerge l’esigenza primaria di coinvolgere le autorità locali per la costruzione di una strada la cui realizzazione non era stata neanche prevista nell’originaria progettazione. Problematiche più specifiche sono emerse anche relativamente alla deficitaria impiantistica, fognaria ed elettrica. La notizia più incoraggiante è che un fondo finanziario decisamente adeguato è stato posto a disposizione del ministero delle Infrastrutture, per cui è da ritenere che il percorso condurrà in tempi ragionevoli a positiva conclusione”. Sarebbe una grande notizia per una città abituata ad essere presa in giro. Il ministro Severino è persona capace e risoluta. Se punta l’obiettivo lo raggiunge. Sempre che, oltre la voglia, abbia anche il tempo di farlo. E questo non dipende certo da lei”. Rieti: cittadini in rivolta “basta con i detenuti ospitati dalle coop” Il Messaggero, 24 agosto 2012 A Monte San Giovanni, paese di 770 abitanti in provincia di Rieti e teatro di uno dei più sanguinosi eccidi nazisti durante la seconda guerra mondiale, a centinaia sono pronti a marciare su Rieti. Motivo della protesta è la presenza di detenuti, tossicodipendenti, rifugiati politici e soggetti disagiati ospitati in cooperative (alcune costituite per l’occasione) che stanno causando problemi di convivenza con la popolazione locale dando vita ad episodi che hanno costretto i carabinieri a intervenire più volte. Dopo una petizione firmata da quasi quattrocento persone e inviata alle autorità provinciali, adesso è in preparazione una forma di protesta più clamorosa: i residenti vogliono marciare su Rieti, per denunciare pubblicamente quanto sta accadendo nel loro paese. “Ormai siamo decisi - dicono al comitato composto dai circa cinquecento firmatari della protesta con la quale si contesta la presenza di elementi accusati di turbare la vocazione turistica del territorio - marceremo per farci sentire, visto che alle nostre lettere ci sono state offerte risposte evasive e incomplete dal sindaco Avicenna e dalle autorità. Non siamo assolutamente contro politiche di recupero di soggetti svantaggiati, condividiamo il progetto voluto dal governo, ma chiediamo che non siano coinvolti paesi come il nostro che solo grazie a un po’ di turismo riescono a sopravvivere e a coltivare qualche speranza di rilancio”. Il dubbio del comitato è che lo spirito umanitario e assistenziale sia, in realtà, il modo per pochi di guadagnare grosse cifre. “Non si spiega altrimenti la nascita di numerose cooperative, alcune ancora in attesa di autorizzazione, il cui numero e componenti sono incerti” è la tesi sostenuta. Come pure non sembra aver trovato risposta la richiesta avanzata dai firmatari della petizione al sindaco perché controlli l’attività di certe società. “Quali reali interessi nascondono certe iniziative?” chiedono, con insistenza, i componenti più impegnati del comitato. Ma il tempo delle domande sembra terminato, a Monte San Giovanni la parola d’ordine è ormai una, quella di marciare su Rieti. E fare chiarezza sull’operazione salva disagiati. Bologna: mancano fondi, a rischio il laboratorio teatrale delll’Ipm del Pratello Dire, 24 agosto 2012 Il lavoro nei suoi legami con l’arte, la musica, la poesia, la guerra e la preghiera. È con questa chiave che il Teatro del Pratello aprirà, anche quest’anno, le porte della Comunità ministeriale di giustizia minorile di Bologna alla città. La quinta edizione della rassegna “Pratello. Teatro musica” è stata presentata questa mattina al bar La Linea di piazza Re Enzo e vedrà, come ospite d’eccezione per la serata finale, il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso. “Teatri di lavoro”, questo il nome dell’edizione 2012, parte martedì prossimo, 28 agosto, con lo spettacolo “Lavorare e vagabondare” con Luciano Manzalini, di cui è protagonista la Compagnia del Pratello, formata dai ragazzi della comunità. “Hanno partecipato in otto - spiega Rossella Fumarola della comunità ministeriale - sono stati due mesi di lavoro: a luglio i ragazzi hanno partecipato a un laboratorio di maschere ed ad agosto al laboratorio teatrale”. Il 29 agosto tocca a Fiorenza Menni, del Teatrino Clandestino, portare in scena la filosofia operaia di Simone Weil e Leslie Chang. Giovedì 30 agosto è la volta della poesia sul lavoro e nelle fabbriche, da Majakovski a Sinisgalli fino a Di Ruscio, affidata alla voce di Maurizio Cardillo e alle musiche di Carlo Maver. Il 31 agosto è la volta del concerto di canti di lavoro, dalle mondine alle lavandaie del Vomero, mentre l’1 settembre va in scena il lavoro nell’arte, alla presenza del pittore Concetto Pozzati. Il 2 settembre Tita Ruggeri leggerà brani degli scrittori Pap Khouma e Julie Otsuka, sul lavoro e l’immigrazione, mentre il 3 settembre va in scena il legame tra lavoro e guerra. La rassegna del Teatro del Pratello avvicina poi il lavoro e la preghiera nello spettacolo del 4 settembre, con l’intervento di don Giovanni Nicoli. Chiudono le canzoni sul lavoro (Lennon, Springsteen, Radiohead, Evora, Buarque), il 5 settembre, e il prologo di Camusso. I primi tre spettacoli sono ospitati nel cortile della comunità ministeriale, gli altri nel cortile del Quartiere Saragozza, in via Pietralata. La rassegna ha il sostegno di Unipol, Coop Adriatica, Ottica Garagnani, Emilbanca e Conad Sant’Isaia. “Si parla sempre dei problemi del carcere minorile - afferma la garante regionale dei detenuti, Desi Bruno - ma c’è anche altro: la comunità ministeriale rappresenta il superamento del carcere. Si può fare molto a prescindere dal carcere - insiste Bruno - ci sono esperienze parallele che possono rappresentare il futuro della città”. Quanto al lavoro del Teatro del Pratello e del suo regista, Paolo Billi, la garante aggiunge: “L’esperienza di Billi continua a essere una sperimentazione, ma non dovrebbe esserlo. Mi piacerebbe poterlo dare per scontato e non dover sempre richiamare il suo valore. Ogni anno, invece, le difficoltà sono sempre maggiori”. Teatro Pratello senza fondi, stagione out? Dovrebbe cominciare il 9 settembre e finire, con l’ultima replica degli spettacoli, a dicembre. E invece il Teatro del Pratello, attivo da anni nel carcere minorile di Bologna, per il momento è in sospeso. È l’effetto della nuova convenzione approvata dalla Giunta comunale a fine luglio, che ha confermato l’intesa con la cooperativa sociale che si occupa del teatro con i giovani detenuti fino al 31 dicembre 2013, ma ha rimandato a successive “disponibilità di bilancio” il contributo. E così, ad oggi, “non ho ancora nessuna cifra da mettere nel bilancio alla voce entrate”, lancia l’allarme il regista Paolo Billi, che del progetto di teatro al Pratello è l’anima. “Dovrei cominciare il lavoro dentro l’istituto il 9 settembre - spiega Billi, oggi a margine di una conferenza stampa - e finire a dicembre dopo 15 repliche. Ma per adesso sono in sospeso”. In realtà, sottolinea il regista, non è solo il Comune a non aver battuto colpi finora. “Non ho ricevuto contributi da nessuno - sottolinea Billi - neanche dai privati che hanno sempre dato il loro supporto”. Tanto che l’assessore regionale al Welfare, Teresa Marzocchi, ha telefonato al regista per esprimere la sua preoccupazione. Se nulla cambierà, e i rubinetti non saranno aperti di nuovo, Billi promette che agli inizi di settembre convocherà una conferenza stampa per comunicare le sue intenzioni sul futuro. E, nel frattempo, chiederà un incontro al sindaco di Bologna, Virginio Merola. “Questo azzeramento completo del Pratello - si sfoga Billi - finisce per azzerare anche l’unica cosa positiva che c’era”. La rassegna del Teatro del Pratello avvicina poi il lavoro e la preghiera nello spettacolo del 4 settembre, con l’intervento di don Giovanni Nicoli. Chiudono le canzoni sul lavoro (Lennon, Springsteen, Radiohead, Evora, Buarque), il 5 settembre, e il prologo di Camusso. I primi tre spettacoli sono ospitati nel cortile della comunità ministeriale, gli altri nel cortile del Quartiere Saragozza, in via Pietralata. La rassegna ha il sostegno di Unipol, Coop Adriatica, Ottica Garagnani, Emilbanca e Conad Sant’Isaia. “Si parla sempre dei problemi del carcere minorile - afferma la garante regionale dei detenuti, Desi Bruno - ma c’è anche altro: la comunità ministeriale rappresenta il superamento del carcere. Si può fare molto a prescindere dal carcere - insiste Bruno - ci sono esperienze parallele che possono rappresentare il futuro della città”. Quanto al lavoro del Teatro del Pratello e del suo regista, Paolo Billi, la garante aggiunge: “L’esperienza di Billi continua a essere una sperimentazione, ma non dovrebbe esserlo. Mi piacerebbe poterlo dare per scontato e non dover sempre richiamare il suo valore. Ogni anno, invece, le difficoltà sono sempre maggiori”. Catanzaro: Radicali e Verdi; due detenuti gravemente ammalati ottengono i domiciliari Comunicato stampa, 24 agosto 2012 Da un anno e otto mesi erano sottoposti alla custodia cautelare in carcere, massima misura restrittiva prevista dal Codice di Procedura Penale. E ciò nonostante le gravissime patologie che gli erano state diagnosticate. Nei mesi scorsi le loro vicende erano arrivate al Governo Italiano ed alla Commissione Europea tramite distinti ed autonomi atti di Sindacato Ispettivo firmati dai Parlamentari Verdi e Radicali capeggiati rispettivamente dagli Onorevoli Raul Romeva i Rueda e Rita Bernardini. I Deputati, sollecitati dall’ex Consigliere Nazionale dei Vas ed esponente dei Verdi Emilio Quintieri, avevano evidenziato che il trattamento penitenziario doveva essere realizzato secondo modalità tali da garantire ai predetti detenuti il diritto inviolabile al rispetto della propria dignità ed alla tutela della propria salute così come sancito dagli Articoli 2, 3 e 32 della Costituzione Repubblicana, chiedendo l’immediata scarcerazione e la loro sottoposizione al regime degli arresti domiciliari o comunque il ricovero in idonee strutture così come peraltro previsto specificatamente dall’Articolo 11 dell’Ordinamento Penitenziario. Tanto per garantire che l’espiazione della custodia cautelare in carcere non si traducesse di fatto in una illegittima violazione dei diritti umani fondamentali tutelati anche dalle Convenzioni Europee e dai Trattati Internazionali, secondo modalità tali da pregiudicare irreversibilmente le loro condizioni psico - fisiche già gravemente compromesse. Si tratta dei cetraresi Vincenzo Roveto e Alessandro Cataldo, entrambi imputati nell’ambito dell’Operazione Antimafia “Overloading” e condannati in primo grado dal Gup del Tribunale di Catanzaro Dottor Livio Sabatini: il primo alla pena di 6 anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso (Art. 416 bis c. 1 c.p.) ed il secondo alla pena di 12 anni di reclusione e 40.000 Euro di multa per partecipazione all’Associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (Art. 74 c. 2 D.P.R. nr. 309/1990). Roveto, difeso dagli Avvocati Giuseppe Bruno e Sergio Rotundo, è stato scarcerato ed associato ai domiciliari già nei giorni scorsi mentre Cataldo difeso dall’Avvocato Giuseppe Bruno verrà scarcerato nei prossimi giorni, dopo aver concluso la chemioterapia presso il Reparto di Oncologia dell’Azienda Ospedaliera “Pugliese - Ciaccio” di Catanzaro. Ad entrambi era stata accertata e riconosciuta una grave patologia neoplastica e, più in particolare, a Roveto un carcinoma alla vescica ed a Cataldo un tumore maligno che colpisce il sistema linfatico meglio noto come “Linfoma di Hodgkin”. Lo scorso 16 Luglio durante la 666^ seduta della Camera dei Deputati gli Onorevoli Rita Bernardini, Marco Beltrandi, Maria Antonietta Farina Coscioni, Matteo Mecacci, Maurizio Turco ed Elisabetta Zamparutti visto che il Governo non ha fatto pervenire risposta nel termine stabilito, hanno chiesto al Presidente della Camera Onorevole Gianfranco Fini, ai sensi dell’Art. 134 comma 2 del Regolamento Parlamentare, di ottenere risposte alle Interrogazioni nr. 5/07434 e 5/07411 durante la prossima seduta della XII Commissione Permanente “Affari Sociali”. Il Presidente dell’Assemblea di Montecitorio ha trasmesso le Interrogazioni al Presidente della Commissione competente Onorevole Giuseppe Palumbo dandone comunicazione ai Ministri della Giustizia Paola Severino e della Salute Renato Balduzzi onerando il Dicastero della Giustizia di fornire risposta agli atti di sindacato ispettivo presentati dai Deputati. Piena soddisfazione per la scarcerazione dei detenuti Roveto e Cataldo è stata espressa da Emilio Quintieri, esponente dei Verdi aderente anche al Movimento dei Radicali Italiani : “la reclusione non costituisce una ragione per sopprimere i diritti inalienabili ed inviolabili dell’uomo e fra questi ci sono anche e soprattutto quelli della salute. Dal 1959 ad oggi la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo ha condannato la Repubblica Italiana 2.122 volte per violazione della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali. Il nostro paese si è classificato al secondo posto, dietro solo alla Turchia (2.573 violazioni) e prima di Russia (1.079) e Polonia (874). Secondo, dunque, su 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. Mentre per l’irragionevole durata dei processi l’Italia ha il comando della classifica con 1.139 violazioni seguita dalla Turchia con 440 condanne, Polonia 397 e Grecia 353. In questi primi 8 mesi del 2012 sono già morte 102 persone detenute delle quali 37 si sono suicidiate. Gran parte di queste persone era detenuta in attesa di giudizio, in barba al precetto costituzionale della presunzione di non colpevolezza, grazie all’abuso della custodia cautelare in carcere nota meglio come “carcerazione preventiva” che, invece, dovrebbe essere disposta solo in casi di “eccezionale rilevanza” e quando ogni altra misura cautelare personale risulti inadeguata. Roveto e Cataldo dovevano già essere scarcerati da tempo perché la loro malattia esigeva un trattamento sanitario che certamente non poteva essere assicurato nelle strutture penitenziarie dove erano ristretti e nessuna esigenza cautelare poteva andare a discapito della loro salute e dignità umana che meritava di essere tutelata anche al di sopra di eventuali esigenze di sicurezza”. Treviso: su una capienza di circa 140 posti disponibili, i detenuti sono il doppio di Samanta Di Persio www.agoravox.it, 24 agosto 2012 "Il giorno di ferragosto sono stato al carcere di Treviso e la situazione è sempre disumana: su una capienza di circa 140 posti disponibili, i detenuti sono il doppio. Tra i problemi del carcere c'è anche il fatto che il direttore ostacola la presenza dei volontari e ciò non rende "trasparenti" le mura del carcere...". Ricevo questo messaggio da Carlo e mi riporta alla mente uno dei problemi più annosi del nostro Paese: il sovraffollamento degli istituti di pena. Nelle 206 strutture potremmo ospitare circa 45 mila detenuti, invece sono oltre 67mila. Con il decreto svuota carceri sono usciti solo 3.446 detenuti. Da tempo i radicali chiedono un'amnistia perché la situazione è disumana. L'Italia nel 2009 è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo per trattamenti inumani e degradanti. Lo spazio a disposizione per ogni detenuto nelle carceri italiane era di circa tre metri quadri, secondo l'Europa dovrebbero essere 7,5. L'associazione Antigone da maggio sta raccogliendo le firme per portare all'attenzione del cittadino che le carceri sono fuori legge, sono stati visitati 15 istituti dal 21 giugno al 2 luglio. I parametri da analizzare erano: numero dei detenuti presenti; reparto più sovraffollato e descrizione dettagliata della cella tipo; luminosità della cella e possibilità di apertura del blindato durante la notte per favorire la ventilazione nel periodo estivo; frequenza di accesso alle docce in comune e condizioni igieniche delle stesse; numero di ore trascorse al di fuori della cella; presenza di una cucina ogni duecento detenuti. Attraverso la verifica del rispetto della legalità negli istituti di pena italiani dal punto di vista socio-sanitario è emerso che tutti gli istituti visitati sono risultati fuorilegge in base ad almeno uno dei cinque criteri di giudizio. Fino ad oggi 37 detenuti si sono tolti la vita, ed oltre 100 sono morti in carcere. Al problema del sovraffollamento si aggiunge la mancanza di contatti con l'esterno, la media dei volontari presenti nelle carceri è di uno ogni sette detenuti. Nel corso di quest'ultimo anno ho presentato La pena di morte italiana in diverse regioni d'Italia ed ho conosciuto psicologi, volontari, sacerdoti, direttori, assistenti sociali, tutti mi hanno segnalato il problema del carcere come luogo che non rieduca, anzi le nostre carceri imbrutiscono gli ospitati. Don Marco è un prete volontario di Rebibbia, racconta di gironi infernali, di persone dimenticate che ti entrano dentro con le loro storie, il carcere romano è stato visitato recentemente dal Papa, ma se questa visita serve solo ad imbiancare le parete, e non a sensibilizzare le condizioni di vita di essere umani, non serve a molto arieggiare una tantum quei corridoi. Alla fine di giugno 2011 il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha comunicato che gli incentivi alle assunzioni di detenuti, da parte di cooperative sociali e imprese, previsti dalla legge 22.6.2000, n. 193, c.d. "Smuraglia", per l'anno in corso, non sarebbero stati più operativi essendo esaurito il budget a disposizione per la copertura dei benefici fiscali, previsti dal D.M. 25 febbraio 2002, n. 87. Se la concezione comune vuole che in galera ci vadano le persone indesiderate nella società, va da sé che a pochi interessa se le nostre carceri violano l'articolo 27 della nostra Costituzione. Le stesse persone poco si indignano se nel nostro Parlamento ci sono politici condannati in via definitiva che esercitano la funzione di legislatore, sempre per la concezione comune è più pericoloso un drogato che un amministratore che ruba soldi pubblici e può rifiutarsi di fare le analisi tossicologiche. Oristano: il leader indipendentista Doddore Meloni ai domiciliari dopo malore La Nuova Sardegna, 24 agosto 2012 Salvatore Meloni è agli arresti domiciliari. Ma non potrà comunicare con estranei al proprio nucleo familiare. Il provvedimento del giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Oristano gli è stato notificato nella tarda mattinata, dopo che l’indipendentista era stato ricoverato nell’ospedale San Martino a causa del peggioramento delle sue condizioni di salute in carcere. Nonostante la svolta preoccupante, il leader del movimento indipendentista sardo Malu Entu non intende desistere dalla propria iniziativa di protesta e ha ribadito di volere proseguire con lo sciopero della fame e della sete. Il crollo è arrivato in piena notte, determinato proprio dalla rinuncia al cibo e all’acqua che Salvatore Meloni ha intrapreso dal primo istante, sabato mattina, quando è entrato nel carcere di Oristano in esecuzione dell’arresto per frode fiscale. L’allarme è scattato dopo la mezzanotte, quando i medici del carcere hanno constatato che Dodore, gravemente indebolito, debilitato e disidratato aveva perso conoscenza. Calo glicemico importante, pressione molto bassa, insomma un quadro generale che non permetteva più la permanenza in cella, hanno portato i sanitari a disporre il ricovero urgente nell’ospedale San Martino. Anche in terapia, Meloni ha continuato a rifiutare di alimentarsi e bere, per cui è tenuto sotto stretta osservazione medica. Superata l’emergenza, Salvatore Meloni non dovrà tuttavia rientrare nel carcere. Nella stessa mattinata, nella stanza dell’Unità operativa di medicina dell’ospedale, dove è piantonato da due agenti della polizia Penitenziaria, gli è stato notificato il provvedimento con il quale il Gip Annie Cecile Pinello ha sostituito la misura della custodia cautelare in carcere, con quella degli arresti domiciliari nella sua abitazione di Terralba. Meloni ha rifiutato di prendere visione della notifica perché il provvedimento non è scritto in lingua sarda. Sarà comunque necessario attendere alcuni giorni prima che i sanitari dell’ospedale si pronuncino sulle sue condizioni e ne dispongano la dimissione. Attraverso una nota diffusa più tardi, il partidu indipendentista sardu Malu Entu ha poi spiegato che il provvedimento del gip è stato “duramente contestato” dal presidente che ha annunciato “di continuare comunque lo sciopero della fame e della sete anche durante gli arresti domiciliari”. La determinazione di Meloni, è stato spiegato, trova ragione nella prescrizione contenuta nell’ordinanza del gip, che gli vieta di comunicare con terzi estranei al nucleo familiare, con qualunque mezzo (posta, telefono, mail, social network o qualunque altra connessione telematica). “Il presidente Meloni - ha spiegato il suo avvocato difensore Cristina Puddu - viste le limitazioni impostegli dal Gip, prende atto ancora una volta delle motivazioni politiche che hanno determinato il suo arresto, poiché tali divieti non hanno nessuna ragione di essere rispetto alle accuse di presunta evasione fiscale formulate nei suoi confronti”. Lo stesso avvocato aveva detto fin dal primo istante di ritenere non sussistenti anche le ragioni della custodia cautelare rispetto alla quale ha preannunciato ricorso al tribunale del Riesame. Doddore Meloni, 69 anni compiuti, originario di Ittiri ma da tempo residente a Terralba dove aveva avviato un’attività di autotrasporti poi fallita nel 2007, quattro anni fa aveva proclamato la Repubblica indipendente di Malu Entu, e domani a Mal di Ventre o eventualmente a Mandriola se ne celebrerà l’anniversario. Sulmona (Aq): Mascitelli (Idv) in visita al carcere, sovraffollamento e disagi www.leggimi.eu, 24 agosto 2012 L’aggravarsi del sovraffollamento della popolazione carceraria, le emergenze igienico - sanitarie della struttura, la sicurezza e le condizioni preoccupanti di lavoro degli agenti della polizia penitenziaria sono le ragioni della visita del Senatore dell’IdV Alfonso Mascitelli domani 24 alle ore 11.30 presso la casa circondariale di Sulmona. “Le denunce e i giusti allarmi di una situazione che sta diventando, giorno dopo giorno, sempre più esplosiva - dice Mascitelli - richiedono il dovere di una verifica immediata e diretta della situazione in cui versa il carcere di Sulmona, per poter richiamare, alla ripresa dei lavori parlamentari, una diversa attenzione del Ministro della Giustizia Severino. Dopo le promesse del precedente ministro Alfano e i suoi annunci di un Piano straordinario nazionale delle carceri - conclude il senatore Idv - non è più possibile andare avanti con silenzi, omissioni e false promesse”. Benevento: arrestato latitante evaso da Sulmona, in colluttazione feriti tre carabinieri Ansa, 24 agosto 2012 Al termine di una violenta colluttazione, in cui sono rimasti feriti tre carabinieri, è stato arrestato nel Sannio Mario De Pasquale, un pericoloso latitante, condannato per omicidio, insieme al fratello, perché ritenuto responsabile di una rapina in abitazione in cui aveva ucciso usando un’ascia come arma. De Pasquale, 42 anni, originario di San Martino Valle Caudina (Avellino), da qualche tempo domiciliato a Benevento, già condannato per omicidio volontario nel 1991, con precedenti per sequestro di persona a scopo di rapina, stava scontando un periodo di detenzione nella casa circondariale di Sulmona (L’Aquila). Dopo un breve permesso, non era tornato in carcere e si era dato alla latitanza trovando rifugio in un casolare abbandonato, in contrada San Martino ad Apice (Benevento). L’uomo - riferiscono gli investigatori - è considerato elemento molto pericoloso e dedito, anche negli ultimi tempi, a crimini e violenze. Libia: Agenzia Habeshia; militari sparano contro profughi campo Homs Ansa, 24 agosto 2012 Militari sparano contro i profughi nel carcere di Homs ad est di Tripoli. È quanto denuncia l’Agenzia Habeshia per la cooperazione e lo sviluppo. “La situazione dei profughi africani sub sahariani in Libia - afferma don Mussie Zerai, portavoce dell’organizzazione - si sta rivelando sempre più un inferno. Anziché protezione i profughi trovano condizioni terribili di detenzione, maltrattamenti in alcuni casi fino anche all’uccisione, come successo ieri sera”. “Ieri sera sul tardi - racconta don Zerai - i militari che sorvegliano il centro di detenzione dei richiedenti asilo a Homs, a est di Tripoli, dove sono detenuti centinaia di eritrei e somali in cerca di protezione, di fronte alle richieste e allo sciopero della fame messo in atto dalle donne disperate dalle condizioni di vita, hanno risposto picchiando selvaggiamente un ragazzo come capro espiatorio, per poi sparargli senza nessuna ragione. I militari hanno sparato anche contro le donne che urlavano di fronte all’uccisione di un loro compagno, per ridurle al silenzio”. Nel campo ci sono anche “molte donne che aspettano un bambino - ricorda il sacerdote - bisognose di controlli medici e di assistenza che non ricevono mai”. “Quando finirà tutto questo? - si chiede don Zerai. L’Europa quando si deciderà a fare un intervento energico contro queste violazioni e crimini contro l’umanità? La morte o il ferimento di un richiedente asilo in un centro di detenzione in Libia è una grave colpa anche dell’Europa che non sta vigilando sugli accordi, pur di impedire ai migranti di raggiungere la Fortezza Europa. Faccio appello al Parlamento Europeo perché intervenga con decisione sul governo di Tripoli, lo richiami al rispetto dei diritti umani e dei richiedenti asilo politico”, conclude Zerai, che chiede di “liberare tutti i profughi consegnandoli nelle mani del Unhcr”. Cina: Ong denuncia; ricovero psichiatrico forzato per oppositori politici Ansa, 24 agosto 2012 Migliaia di persone, tra cui anche diversi dissidenti, sono rinchiusi contro la loro volontà in istituti psichiatrici della Cina, spesso come forma di punizione per le loro proteste politiche. Lo rivela una relazione pubblicata dal gruppo Chrd (Chinese Human Rights Defenders), che arriva un mese prima della revisione della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite, ratificata nel 2008. Lo studio di Chrd, che è stato effettuato esaminando più di 60 casi di persone detenute negli ospedali psichiatrici e dopo aver effettuato 15 interviste con persone che in precedenza erano state detenute in simili strutture, rileva che coloro che si trovano in carcere per presunte malattie mentali sono frequentemente sottoposti a trattamenti medici forzati, violenza e abusi fisici di vario tipo come ad esempio le scosse elettriche. “Queste persone rappresentano uno dei gruppi più vulnerabili in Cina - ha dichiarato Renee Xia, direttore internazionale di Chrd - non solo sono privati della libertà sulla base di presunte disabilità, ma coloro che esercitano violenze o soprusi nei loro confronti raramente ne pagano le conseguenze legali”. Secondo il rapporto, la detenzione negli ospedali psichiatrici è utilizzata dal governo spesso per sbarazzarsi di attivisti, dissidenti e intellettuali scomodi. In un caso documentato, la relazione descrive come un avvocato per i diritti umani, Liu Shihui, ha videoregistrato un infermiere che gli diceva che i due ricoverati che egli era venuto a visitare in un ospedale psichiatrico sarebbero stati rilasciati solo se avessero deciso di smettere di fare petizioni e di criticare il governo. Allo stato attuale, come evidenzia il rapporto, non ci sono leggi precise in Cina in materia di salute mentale. Alla fine del mese il comitato permanente dovrebbe discutere una proposta adi legge sulla materia. Per Chrd il governo cinese dovrebbe garantire che i diritti umani dei pazienti siano rispettati perseguendo legalmente i responsabili per la detenzione ingiustificata e non motivata da reali e documentati problemi medici di persone negli ospedali psichiatrici. Zurigo: detenuto muore per overdose, atale una quantità eccessiva di metadone Apcom, 24 agosto 2012 Il detenuto di 31 anni morto nella notte tra il 9 e il 10 agosto nella prigione Pöschwies di Regensdorf (ZH) è deceduto per un’overdose di metadone. È quanto emerge dall’analisi chimico - tossicologica dell’Istituto di medicina legale di Zurigo. Nel carcere l’uomo, originario della Repubblica dominicana, non ha ricevuto alcun metadone in base a prescrizione medica, spiega il ministero pubblico zurighese in una nota odierna, aggiungendo che le indagini su questa morte inusuale proseguono. Dopo la morte del 31enne l’organizzazione di aiuto ai detenuti Reform 91 aveva lanciato accuse secondo cui il decesso sarebbe avvenuto per colpa di un’omissione di soccorso. Un fatto che nei giorni scorsi la procura ha negato. Dall’autopsia era emerso che l’uomo non presentava alcun problema fisico. Siria: liberiamo Mazen Darwish, difensore dei diritti umani in carcere da 7 mesi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 agosto 2012 Mazen Darwish, direttore del Centro siriano per l’informazione e la libertà d’espressione, è stato deferito a un tribunale militare segreto, che non consente la presenza di avvocati o di osservatori né consente ricorsi. L’uomo, 40 anni, è stato arrestato insieme a 13 colleghi e due visitatori nel corso di un raid contro il Centro siriano per l’informazione e la libertà d’espressione (Scm). Secondo quanto riportato ad Amnesty International, uomini in divisa, che si ritiene appartenessero alle forze di sicurezza, hanno fatto irruzione nella Scm il 16 febbraio 2012. Le forze di sicurezza hanno arrestato le 16 persone che si trovavano nell’edificio in quel momento, portando con sé computer, telefoni cellulari e tutti i file, che si ritiene contenessero informazioni riservate relative al lavoro dell’Scm. Secondo quanto riportato da uno dei detenuti rilasciati, tutti gli arrestati sono stati trasportati al Centro per la sicurezza a Damasco, dove si ritiene che Mazen Darwish e gli altri sette uomini siano ancora detenuti, apparentemente senza accusa né processo. Dal giorno del suo arresto, Mazen Darwish è stato detenuto in condizioni di sparizione forzata. Le autorità siriane si rifiutano di fornire alla famiglia e al suo avvocato qualsiasi informazione sul luogo della sua detenzione e sulle sue condizioni di salute, malgrado le numerose richieste. Otto dei colleghi arrestati con Mazen sono attualmente sotto processo davanti a un tribunale militare. Durante le udienze, il giudice ha ripetutamente invitato l’Air Force Intelligence a presentare Mazen Darwish come testimone, ma la sua richiesta non ha avuto alcun seguito. Durante l’ultima udienza, il 6 agosto, il giudice ha ricevuto una lettera dell’Air Force Intelligence in cui si affermava che Mazen Darwish non poteva presentarsi come testimone in quanto era in procinto di essere trasferito a un tribunale militare segreto. Secondo le informazioni ricevute da Amnesty International, le udienze del tribunale segreto sono condotte da militari e nessuna rappresentanza legale, né alcun testimone, sono autorizzati a partecipare. Le sentenze non sono impugnabili. La data dell’udienza rimane segreta. Amnesty International considera Mazen Darwish un prigioniero di coscienza, detenuto unicamente a causa del suo pacifico esercizio del diritto alla libertà di espressione e di associazione e per il suo lavoro presso la Scm. Qui l’appello per chiedere la sua scarcerazione. Norvegia: Breivik giudicato sano di mente, condanna a 21 anni per le stragi del luglio 2011 Agi, 24 agosto 2012 Anders Behring Breivik, il giovane estremista norvegese che massacrò 77 persone tra Oslo e l’isola di Utoya il 22 luglio del 2011, è stato giudicato sano di mente e condannato a 21 anni di carcere, prorogabili se sarà ritenuto ancora pericoloso. Il verdetto accoglie le richieste avanzate dallo stesso estremista durante il processo durato 10 settimane. Breivik aveva anticipato che avrebbe fatto ricorso in appello solo nel caso gli fosse stata riconosciuta l’infermità mentale che poteva comportare l’internamento a vita in un istituto psichiatrico. Breivik non si è mai pentito per i massacri e ha piú volte ribadito di non voler essere considerato uno schizofrenico. L’estremista di destra verrà incarcerato nel penitenziario di Ila, alle porte di Oslo, dove nelle ultime settimane sono stati realizzati dei lavori di ristrutturazione. Come il resto dei detenuti potrà fare sport ed avere accesso ad un computer. Palestra, computer e tv Una cella di otto metri quadrati per dormire, una palestra con tapis roulant e un ufficio dotato di tv e computer per scrivere le sue memorie: è una detenzione dorata quella che attende Anders Behring Breivik, l’estremista 33enne condannato a 21 anni di carcere per le stragi a Oslo e sull’isola di Utoya nel luglio 2011. Per lui si riaprono le porte del penitenziario di Ila, carcere di massima sicurezza una decina di chilometri a nord - ovest di Oslo, dove è rinchiuso dal giorno dell’arresto. Diversamente dall’usuale cella singola, per Breivik sono stati predisposti ben tre spazi di 8 metri quadrati l’uno per compensare il regime di isolamento a cui è soggetto. Totalmente vietati i contatti con gli altri detenuti e le attività ricreative, l’estremista ha però accesso a un piccolo cortile per la sua ora d’aria giornaliera. A sua disposizione, oltre a giornali e televisione, c’è anche un computer, privo di collegamento internet ma utile per scrivere la sua autobiografia, già annunciata da uno dei suoi avvocati. Ergastolo abolito dal 1971, eccetto che per genocidio Salvo i reati di crimini contro l’umanità e genocidio, La Norvegia ha abolito l’ergastolo dal 1971, e il codice penale non prevede pene esplicitamente superiori ai 21 anni di detenzione nel rispetto di una filosofia che privilegia fortemente la redenzione e reinserzione dei criminali. Per questo motivo la condanna inflitta a Anders Behring Breivik viene considerata equa dall’opinione pubblica norvegese: essendo il massimo della pena, viene ritenuto un segnale sufficientemente forte verso la società. D’altronde, i 21 anni di carcere sono prorogabili indefinitamente qualora il detenuto venga considerato socialmente pericoloso: e secondo un sondaggio, il 62% dei norvegesi ritiene che Breivik non uscirà più dal carcere, il che lo renderebbe un caso unico. Le stragi di Oslo e Utoya non hanno invece riaperto alcun dibattito riguardo alla pena di morte, abolita nel 1905 per i reati comuni: l’ultima esecuzione risale al 1948, nel quadro dei processi contro i collaborazionisti seguiti alla Seconda Guerra Mondiale. Soddisfazione per condanna Breivik Anders Behring Breivik, il killer di Oslo, è stato condannato al massimo della pena di 21 anni, visto che la Norvegia ha abolito l’ergastolo nel 1971. Una sentenza che può sembrare lieve al di fuori dei confini, considerato che l’uomo è responsabile della morte di 77 persone, ma che nel paese scandinavo è stata accolta con soddisfazione. “Tutto ciò rispecchia la cultura norvegese. L’obiettivo del sistema giudiziario è quello della riabilitazione dei criminali”, spiega all’Afp un professore di legge dell’Università di Oslo, Jo Stigen. “È psicologicamente soddisfacente che abbia avuto il massimo della pena. È un segnale forte per la società. Malgrado la condanna a 21 anni, la legge norvegese prevede che la detenzione possa essere prolungata a tempo indeterminato, se il carcerato continua a rappresentare una minaccia e il 62% dei cittadini, secondo un sondaggio del quotidiano Verdens Gang, ritiene che Breivik non sarà mai liberato”. Si tratterebbe di un caso unico, dato che finora nessun norvegese è stato in carcere per più di 21 anni. Ma secondo un altro professore dell’Università di Oslo, Hans Petter Graver, non è escluso che Breivik possa uscire anche prima di aver scontato l’intera condanna. “Il principio del sistema giudiziario norvegese non è quello di tenere la gente per tutta la vita in prigione, ma di essere reintegrata nella società”, ha detto al quotidiano Dagbladet. “Nessuno può sapere come evolverà Breivik nei prossimi 15 o 20 anni. Anche la società si evolve”. La Norvegia ha cancellato l’ergastolo oltre 40 anni fa per adeguare la legislazione alla realtà dei fatti, visto che le condanne a vita non venivano inflitte più da molti anni. Il paese ha poi reintrodotto l’ergastolo per crimini contro l’umanità e genocidio per rispettare le convenzioni internazionali, ma nessuno norvegese finora è stato processato per questi reati. Neanche il massacro compiuto da Breivik ha spinto l’opinione pubblica a riaprire un dibattito sulla pena di morte, con l’ultimo caso di esecuzione capitale avvenuto nel paese nel 1948 e legato alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per i criminali civili la condanna a morte è stata abolita nel 1905. Pakistan: bimba “blasfema”; Commissione per i diritti umani chiede rilascio immediato Ansa, 24 agosto 2012 La Commissione per i diritti umani del Pakistan ha chiesto formalmente alle autorità di rilasciare immediatamente Rimsha Masih, la bambina accusata di blasfemia per avere bruciato pagine con frasi del Corano, e di dare protezione a lai, alla sua famiglia ed alle centinaia di cristiani fuggiti dal villaggio di Mehrabadi alla periferia di Islamabad. La piccola, ricorda il quotidiano Daily News, è stata arrestata il 16 agosto e posta in custodia della polizia nel carcere di Adiala per 14 giorni. Nella sua richiesta la Commissione ha insistito che la ragazzina soffre a quanto sembra di Sindrome di Down e che in ogni caso una accusa di blasfemia a carico di una minorenne cristiana, che non sta bene, è incredibile.