Giustizia: la carica dei 120 costituzionalisti… così si interrompe la flagranza di reato di Andrea Pugiotto Tempi, 23 agosto 2012 La violazione costituzionale è così acclarata, sistematica, duratura che il recupero della legalità si pone come priorità assoluta: amnistia e indulto sono i soli strumenti idonei. Il 17 luglio scorso ennesima condanna Ue del sistema italiano di detenzione. Parla il giurista che porterà al Quirinale il dossier sull’amnistia. Assodato lo stato delle cose, tentare il possibile contro il probabile: è ciò che va fatto, per recuperare alla legalità costituzionale giustizia e carcere. Lo stato delle cose è noto. Non è un retroscena o un’opinione, ma un fatto certo. Oggi, in Italia, la detenzione è trattamento inumano e degradante: lo attesta la sentenza della Corte Edu, Scoppola c. Italia, del 17 luglio scorso (quarta condanna per violazione dell’art 3 Cedu, e ancora pendono 1.200 ricorsi analoghi a Strasburgo). Ne sono indizi il sovraffollamento carcerario, i suicidi dietro le sbarre e tra gli agenti penitenziari, l’invenzione di una verticalizzazione della pena con brande a castello a rimedio dell’asfittico spazio vitale (e pazienza se per stare in piedi si fa a turno), i diritti alla salute e al lavoro risocializzante negati, la parvenza di percorsi riabilitativi pure imposti dalla finalità costituzionale della pena (che alla rieducazione del condannato deve tendere). Proviamo, per un solo istante, a entrare nelle vite degli altri: “Immaginate gli urli, i silenzi attoniti, le agonie, l’astinenza, i cessi a vista, l’acqua che manca, il sangue che corre, quelli che sono pazzi e quelli che diventano pazzi, che aggrediscono e che si feriscono, quelli che sniffano la bomboletta per morire o muoiono per sniffare (...), quelli che pregano rivolti alla Mecca e non gli basta lo spazio e quelli che non pregano, quelli che si masturbano a sangue e tossiscono a morte e ingoiano lamette e batterie e gridano nel sonno” (Adriano Sofri). Accontentiamoci del possibile Il paradosso è che a denunciare l’illegalità di Stato è lo Stato stesso. Attraverso le circolari del Dap. Reiterando, anno dopo anno, decreti del Governo dichiaranti lo stato di emergenza nazionale (ora fino a dicembre 2013). Con esternazioni ufficiali provenienti dai colli più alti, Quirinale compreso. Mediante sessioni parlamentari straordinarie autoconvocate. Attraverso gli atti di sindacato ispettivo di deputati e senatori e le risposte ministeriali. È una realtà che si avvita su se stessa: lo Stato che punisce chi viola le sue leggi attesta di violare la Costituzione, la Cedu, l’ordinamento penitenziario, il suo regolamento di attuazione. Non di un problema umanitario stiamo parlando, dunque, ma di legalità violata. Siamo realisti, vogliamo l’impossibile, si sarebbe detto un tempo. Oggi ci si accontenterebbe del possibile. Perché è possibile uscire da questa condizione di illegalità. E presto, come la “persistente urgenza” denunciata impone, se alle parole del presidente Napolitano diamo il loro autentico significato. La violazione costituzionale è così acclarata, sistematica, duratura che il recupero della legalità si pone come priorità assoluta: amnistia e indulto sono i soli strumenti idonei al fine. Non si tratterebbe di atti di clemenza per i detenuti (condannati o in attesa di giudizio). Semmai di una scelta di politica del diritto che a essi ricorrerebbe nel quadro costituzionale di un diritto penale ricostruito a partire dagli scopi della pena: dunque, un’amnistia e un indulto per la Repubblica. Il diritto è, infatti, violenza domata attraverso il monopolio della forza legittima riservata allo Stato a tutela dell’incolumità dei cittadini, sottoposta a limiti e regole per impedirne l’abuso. E avere in custodia una persona significa - anzitutto - custodirla. Se viene meno a tale funzione, la Repubblica perde la sua legittimazione. Interrotta così la flagranza di reati collegati al sovraffollamento carcerario (maltrattamenti, omissioni di soccorso, lesioni personali, violenze private, abusi d’ufficio, abusi d’autorità, falso ideologico), si passi poi ad aggredirne le cause. Che hanno nome e cognome: legge Bossi-Fini sull’immigrazione, legge Fini-Giovanardi in tema di stupefacenti e tossicodipendenza, legge Cirielli che reintroduce la recidiva obbligatoria e limita l’ammissione alle pene alternative. Vere e proprie leggi “carcerogene”: le prime due aprono le porte della galera, la terza le chiude a chiave. Si dovrà pure intervenire sulla disciplina codicistica della custodia cautelare, troppo lunga perché troppo lunghi si rivelano i tempi del processo penale, e sul suo (ab)uso, perché spesso adoperata come espiazione anticipata di una pena che non ci sarà. Tutto ciò è possibile, ma non probabile. Le fughe da Alcatraz indicate dalle forze parlamentari e dal governo seguono altre mappe. Aumentare la cubatura delle carceri e costruirne di nuove, reclutare più agenti penitenziari, ammettere il condannato a scontare il residuo di pena ai domiciliari, depenalizzare e incrementare l’uso di pene alternative: questo è il mix tra “piano carcere” e “pacchetto Severino”. In teoria cose buone, se complementari (e non alternative) a quelle possibili. In pratica, tutte di là da venire. I tagli agli organici della spending review riguardano anche il personale penitenziario. La legge svuota carceri, già in vigore dal 2010, ha dato risultati ben al di sotto delle previsioni ministeriali. Le misure di depenalizzazione e decarcerizzazione sono state stralciate dal disegno di legge delega all’esame della Commissione Giustizia. Quanto all’edilizia penitenziaria, se nel carcere si specchia l’idea di detenzione, allarma l’obiettivo dichiarato esclusivamente quantitativo, privo di una seria riflessione sullo spazio della pena (e del tempo e del corpo dietro le sbarre). Il monito di Aldo Moro Torna alla mente Aldo Moro e la sua tragica parabola “carceraria”. Da costituente concepì due norme (l’articolo 2 e il 2° comma dell’articolo 32) che antepongono alle esigenze di sicurezza dello Stato i diritti inviolabili della persona. Da guardasigilli molto coltivò la buona pratica delle ispezioni nelle carceri. Ed è in un “carcere del popolo” che è finita la sua vita: “Io comincio a capire che cos’è la detenzione”, scrive in una delle sue lettere. Per lui, da giurista, la pena “è soltanto privazione della libertà, non più di questo: è soltanto privazione della libertà”. Anche in ciò, il suo ricordo resta di monito per tutti. Giustizia: in arrivo a settembre un disegno di legge per la riforma delle carceri www.diritto.it, 23 agosto 2012 Annunciata per fine settembre la riforma delle carceri italiane: salute e pene alternative le priorità del ministro Severino. Potrebbe essere settembre 2012 il mese giusto per una compiuta riforma delle carceri. La ha confermato il ministro della Giustizia Paola Severino che, in visita al complesso di Regina Coeli a Roma, ha ribadito come sia in cantiere per l’autunno l’atteso progetto di riforma dei penitenziari italiani, in preda a sovraffollamento, condizioni di vita precarie per i detenuti e percorsi riabilitativi difficoltosi. Il nuovo provvedimento sarebbe indirizzato a sistemare proprio queste criticità che si abbattono sulla popolazione carceraria. La Severino ha rifiutato ogni genere di facile retorica, promettendo di agire soltanto nei confronti dei carcerati in nome della “concretezza”. Punto fermo della futura riforma delle carceri è mettere a punto un sistema sanitario efficiente nelle case circondariali di tutto il Paese. Problemi di salute molteplici affliggono infatti i detenuti: su tutti, le malattie depressive, benché le fatiscenti strutture sanitarie dei penitenziari, in molti casi, non riescono a rispondere neanche alle esigenze più comuni dei detenuti. Non si distingue la stessa Regina Coeli, istituto che vantava un centro clinico dotato di ben due sale operatorie, oggi non attive, ma che si auspica di riattivare con la nuova legge. Non mancheranno, nell’ipotesi di riforma delle carceri, la conferma di nuove modalità di assistenza e di sostegno psicologico per i detenuti, specialmente quelli in attesa da lungo tempo di un giudizio. Una condizione di assoluta incertezza comune a moltissimi carcerati, che si trovano costretti a sopportare dietro le sbarre pur non avendo ottenuto condanna formale per le incriminazioni mosse. Chi, invece, la condanna l’ha regolarmente ricevuta e si trova recluso per scontare la sua pena, dovrà prepararsi all’arrivo di strumenti alternativi alla mera detenzione, che prevedano anche periodi in consegna ai servizi sociali più, com’è ovvio, gli arresti domiciliari. Questo, almeno, è quanto si augura il Guardasigilli sul nuovo progetto di riforma dell’ordinamento carcerario. Tutto ciò, lascia presagire una progressiva riduzione della popolazione dei detenuti, soprattutto per quanto concerne i reati minori. Ancora poche settimane e il sasso lanciato dal ministro della Giustizia potrebbe diventare qualcosa di più consistente: un mese è il termine entro il quale Paola Severino ha assicurato che verrà predisposto e mandato all’esame delle Camere il disegno di legge più atteso dai penitenziari italiani. Giustizia: visite ai mafiosi detenuti, dal ministro Severino, la “tecnica” del silenzio di Andrea Marcenaro Panorama, 23 agosto 2012 Due interrogazioni alla Camera e al Senato chiedono chiarezza sulle visite ai capiclan in carcere. Ma il ministro della Giustizia non risponde, E tace anche il procuratore Grasso. Decine di giornalisti hanno chiamato il ministro Paola Severino. La risposta è stata per tutti la stessa: “Niente da dichiarare. Eventuali risposte verranno fornite in replica alle interrogazioni parlamentari”. Questo giornale, che aveva sollevato la questione del possibile intreccio velenoso fra le ripetute visite del senatore Giuseppe Lumia (Pd) e dell’onorevole Sonia Alfano (Idv) ai capi mafiosi in carcere, Bernardo Provenzano, Filippo Graviano e Antonio Cina, non ha avuto sorte migliore. Alle legittime domande è stato opposto un muro di silenzio che, se non si trattasse di prestigiose istituzioni della Repubblica meritevoli di rispetto fino a prova contraria, verrebbe naturale definire di omertà. Ma la reticenza registrata sembra tale che il rispetto dovuto sta cedendo il passo a una sensazione di prepotenza da parte delle autorità competenti, il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, pensa che l’opinione pubblica debba cuocere nel brodo dei propri dubbi: “Panorama non è il primo giornale che mi telefona sul caso e io, sul caso, non ho rilasciato dichiarazioni. Non si preoccupi, perciò, anche il suo giornale avrà, come gli altri, l’esclusiva del nulla”. La trincea di Grasso costruisce sull’urgenza delle domande la dilazione burocratica delle sue risposte eventuali: “Dovrò intervenire istituzionalmente per via delle interrogazioni parlamentari, mi sembra corretto così, non crede?”. Gli si potrebbe credere se almeno fossero state calendarizzate le interrogazioni presentate dal Pdl a Camera e Senato, con cui si chiede conto delle strane visite in carcere e delle coincidenze tra quegli incontri e alcuni interrogatori del procuratore Antonio Ingroia, oltreché delle preoccupate relazioni della Polizia penitenziaria e dei giri di valzer al ministero della Giustizia. Ma così non è stato. Per sapere qualcosa, bisognerà aspettare almeno la riapertura delle Camere, il 5 settembre. Le puntate carcerarie di Alfano e Lumia non miravano a verificare lo stato di salute dei boss, questo è documentato. Ingroia, in partenza per Tegucigalpa, ha avuto la faccia tosta di negare l’evidenza in un’intervista al Cartiere della sera il 10 agosto. Carlo Federico Grosso, sulla Stampa del 13 agosto, gli è andato in soccorso con i più limpidi argomenti dell’azzeccagarbugli: “Com’è possibile distinguere il “dialogo” dal “vero e proprio colloquio” nel quale esso non dovrebbe trasformarsi?”. Il ministro Severino tecnicamente tace, evitando con cura di sanzionare o di chiarire. E non va bene. Lettere: sovraffollamento delle carceri, evitare gli errori del passato La Nuova Venezia, 23 agosto 2012 In questo periodo si parla molto di come risolvere il sovraffollamento delle carceri, il Ministro Severino si dice pronta con delle nuove soluzioni. L’importante è che non si scelgano soluzioni del passato come l’indulto o altre forme di “svuotamento carceri” che hanno messo sulle strade migliaia di detenuti che dovevano invece scontare la pena perché condannati dalla legge, con non pochi problemi per chi aveva subito danni morali e fisici da queste persone, uno schiaffo morale e psicologico per tutti i parenti delle vittime di atti criminali, senza contare che molti detenuti dopo poco tempo sono rientrati in carcere per altri reati commessi. Senza contare tutto il lavoro fatto dalla polizia per assicurare il rispetto della legge che in un colpo di spugna è diventato vano. Per risolvere il problema delle carceri non possono essere adottati dei provvedimenti che vengono scelti solo perché non hanno un costo economico, c’è la necessità certamente di dare una vita carceraria ai detenuti nel rispetto dei diritti umani e della dignità della persona, ma soprattutto servono progetti mirati al reinserimento nella società e al recupero, è impensabile che il trattamento carcerario sia uguale per chi è stato condannato per pedofilia a chi è stato condannato per rapina in banca. Per fare questo ci vogliono investimenti per carceri nuovi o devono essere aperti quei carceri costruiti e vergognosamente rimasti chiusi, che stanno andando in rovina. Parallelamente va rivisto il programma di recupero del detenuto, alcune carceri devono diventare delle vere e proprie comunità di recupero dove la condanna non può essere la condizione precaria della vita quotidiana, ma uno sforzo al recupero con personale preparato e adatto professionalmente: questo certamente ha un costo economico, ma è un investimento per una società migliore. Il carcere non può e non deve essere un contenitore dove l’unico problema è quello di come svuotarlo, soprattutto perché non va dimenticato chi è stato segnato per tutta la vita da atti di delinquenza o addirittura ne è rimasto vittima. Per avere una risposta semplice a un problema importante, a volte basta chiederlo a un bambino. Certamente il bambino risponderà che, se la sua casa è piccola per ospitare tutta la famiglia, la soluzione non è quella di far dormire in giardino parte della famiglia, ma piuttosto di ampliare la casa. Albino Pesce Udine: detenuto morto per “scompenso cardiocircolatorio,” l’ex compagna chiede giustizia Messaggero Veneto, 23 agosto 2012 Scompenso cardiocircolatorio, probabilmente riconducibile a problematiche pregresse: è questo il primo esito dell’autopsia eseguita su Matteo Hudorovich, il rom di 28 anni trovato morto, lunedì mattina, nella cella che occupava in carcere, dove era stato rinchiuso il 26 luglio, per scontare una pena di un anno. Per il procuratore Antonio Biancardi, che sul caso ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo, morte come conseguenza di altro delitto e traffico di sostanze stupefacenti, e che ieri ha concesso il nulla osta alla sepoltura, per avere un quadro completo bisognerà comunque attendere l’esito dell’esame tossicologico. “L’esame - ha detto - servirà a determinare se il detenuto abbia assunto sostanze alcoliche o stupefacenti”. Come ha precisato la sua ex compagna e madre della loro bambina, Lucia Mesaglio, Hudorovich soffriva di problemi di alcolismo e di natura psichiatrica, ma non di tossicodipendenza. Sul caso, intanto, è tornato a intervenire il radicale del Pdl, Gianfranco Leonarduzzi, che la settimana scorsa aveva fatto visita alla struttura penitenziaria. “È assordante - ha detto - il silenzio del Garante per i detenuti che la maggioranza del Consiglio comunale ha votato a fine luglio. Honsell definì l’incarico “una grande vittoria di civiltà e della sinistra cittadina”. Purtroppo, nemmeno in giornate tragiche come queste, in carcere si hanno notizie del garante. Honsell - ha concluso - farebbe bene a non speculare su questioni così delicate”. L’ex compagna chiede giustizia “Matteo non era soltanto un numero di matricola all’interno del carcere, ma anche una persona. Le illazioni che sono state fatte su di lui, fanno, se possibile, ancora più male della disgrazia di per sè. Pretendiamo che chi ha sbagliato paghi”. Chiede giustizia Lucia Mesaglio, ex compagna di Matteo Hudorovich, il rom di 28 anni trovato morto, lunedì mattina, nella cella della casa circondariale di via Spalato, nella quale era stato rinchiuso il 26 luglio per il furto di un’automobile. Ieri, sul suo corpo è stata eseguita l’autopsia disposta dal procuratore Antonio Biancardi, che sul caso ha aperto un fascicolo contro ignoti per le ipotesi di omicidio colposo, morte come conseguenza di altro delitto e traffico di sostanza stupefacente. L’incarico è stato conferito nel pomeriggio all’anatomopatologo Fabrizio Carrer, di Treviso, mentre la parte relativa agli accertamenti tossicologici è stata affidata al medico legale dell’ospedale di Udine, Antonio Colatutto. Le prime risposte dell’autopsia si conosceranno probabilmente oggi, mentre per i test tossicologici bisognerà attendere qualche settimana. Intanto, però, all’indomani del drammatico ritrovamento del corpo senza vita di Hudorovich - stando a una prima valutazione del medico del 118 e del medico legale che ne hanno constatato il decesso, a stroncarlo sarebbe stata una crisi cardiaca, è la sua ex compagna a intervenire e invocare rispetto e verità. “Oltre ad appartenere a un’etnia diversa dalla nostra e a essere un pregiudicato - scrive, Matteo era un figlio, un fratello e, soprattutto, il padre di una bimba di 9 anni. Posso capire che, avendo problemi di salute gravi ben noti a tutti, in carcere rappresentasse una scocciatura. Ma posso anche garantire che chi ha sbagliato dovrà pagare. Non avrò pace fino a quando il responsabile non avrà mostrato la propria faccia. Mia figlia - la conclusione - ha perso il padre ed è inutile parlare di fatalità: alle favole non crede più nessuno”. Considerati i problemi di dipendenza da sostanze stupefacenti e di abuso di alcol di cui il giovane soffriva e viste le misteriose modalità del decesso, il procuratore è deciso a capire se all’origine dell’arresto possa esservi stata l’assunzione di droghe. Sul caso, la direttrice del carcere, Irene Iannucci, ha già trasmesso alla stessa magistratura e ai propri superiori la documentazione raccolta dalla Polizia penitenziaria: la relazione degli operatori sull’episodio, le sue valutazioni e la storia sanitaria del giovane, che in un solo mese di detenzione era stato trasferito in ospedale ben due volte per altrettante visite psichiatriche urgenti. Savona: la visita al carcere dell’Associazione Antigone… un viaggio all’inferno di Alessandra Ballerini (Avvocato) La Repubblica, 23 agosto 2012 Cara Repubblica, ogni volta che, seppure da visitatori, si varca il muro di cinta che separa l’inferno dal resto della città, il rumore di quel cancello e di quelli seguenti che ti si chiudono alle spalle ti resta indelebilmente impresso. Siamo in visita, Francesca Dagnino e io come osservatrici di Antigone, nel carcere di Savona. È piena estate, le carceri in questo periodo danno il peggio di loro ed entrambe sappiamo che stiamo entrando nel peggior carcere ligure. Dovevano abbatterlo e invece pare che sia stato stanziato dal Governo un milione di euro per ristrutturarlo. Difficile pensare che siano soldi ben spesi. La struttura è insanabile: vecchia, umidissima, cade letteralmente a pezzi. Muffa ovunque ed aria irrespirabile. Gli spazi angusti diventano, in un carcere che ospita - come quasi tutte le carceri italiane - il doppio delle persone che potrebbe contenere, vere e proprie trappole per umani. Ci sono celle senza finestre. Il vice comandante conferma che non ci sono neppure, per ogni detenuto, i tre metri a disposizione che costituiscono il limite di spazio sotto il quale è corretto parlare di tortura. Ma non c’è problema. In Italia ancora manca una legge che la punisca come reato. In molte celle anche letti a castello a tre piani. E li vedi, questi prigionieri, distesi in una cella buia, senz’aria, con la faccia a pochi centimetri da un soffitto che trasuda muffa. Non si lamentano neanche, rassegnati a non essere ascoltati né a essere esauditi. Non possono nemmeno fare una doccia senza chiedere il permesso alla polizia penitenziaria. Le docce sono esterne alle celle e sistemate nel piano inferiore. L’antro che le contiene è forse lo spazio più umido e fatiscente. La puzza prende lo stomaco. Facciamo due passi dentro, ma subito scappiamo via. Non siamo schizzinose, sia io che Francesca abbiamo visitato molte carceri qualcuna anche in Africa. Eppure l’aria del carcere di Savona la sopportiamo a stento. Un calvario non solo per i detenuti ma anche per chi in carcere ci lavora. Ma vivere dall’altra parte delle sbarre, è senz’altro peggio, specie se non sei colpevole. In carcere la colpa che spesso si sconta è quella di essere tossicodipendente, o straniero o in stato di disagio. Quasi la metà sono detenuti senza che sia stata emessa nei loro confronti una sentenza definitiva. Dunque scontano la pena più a causa di quello che sono o rappresentano che per quello che hanno fatto. In barba alla Costituzione che prevede peraltro che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato. E come ti rieduchi se marcisci disteso su una branda? Usciamo dal carcere e riempiamo i polmoni finalmente di aria buona. In treno, tornando a casa, leggo che l’ex ministro Scajola intervistato da Ferruccio Sansa si dichiarava orgoglioso di essere andato in carcere a Imperia, a visitare il suo coimputato Francesco Bellavista Caltagirone, perché dice è “doveroso” entrare mostrando il tesserino parlamentare a vedere le torture che vengono inflitte ai detenuti. Mi piacerebbe che i parlamentari si ricordassero che il carcere è un’iniqua e costosa (circa 130 euro al giorno per ogni detenuto) tortura non solo quando temono di finirci rinchiusi o quando vanno a trovare qualche compagno di merenda, ma ogni qualvolta votano leggi scandalose come la Bossi-Fini o la Fini-Giovanardi o la ex Cirielli sulla recidiva o tutti i vari insensati pacchetti sicurezza. E che andassero a fare visita non solo ai coimputati ma a tutti i detenuti e si indignassero anche delle loro torture. Antigone, sia l’impavida eroina di Sofocle, sia l’associazione che si occupa della dignità detenuti, credo sarebbe d’accordo. Trieste: nuova direttrice del carcere Silvia Della Branca; “continuerò l’opera di Sbriglia” di Laura Tonero Il Piccolo, 23 agosto 2012 È la prima donna a dirigere il carcere cittadino: “Qui il problema sovraffollamento è più acuto che altrove”. Sono passate poche settimane dal cambio della guardia alla direzione della casa circondariale di Trieste. Silvia Della Branca è la prima donna a dirigere il Coroneo. Eredita una conduzione, quella del suo predecessore Enrico Sbriglia, durata ben 23 anni. Questa donna dal piglio sicuro, la stretta di mano decisa e il sorriso sulle labbra potrebbe decisamente dare un contributo importante al sistema detentivo cittadino. Per ora il suo incarico è determinato da un provvedimento provvisorio. Tra qualche mese spetterà anche a lei decidere tra il carcere di massima sicurezza di Tolmezzo che dirige dal 2003 e quello di Trieste. Della Bianca, dalle prime impressioni cosa differenzia le due strutture? Quello del Coroneo è un carcere molto più aperto alla città. Sbriglia ha tessuto ottimi rapporti con le istituzioni, con le realtà del sociale e con gli enti. Qui dentro si respira la vicinanza con la città. Questo è un carcere costantemente sotto i riflettori, la città è sede di Corte d’Appello, ha un importante Ateneo e questo inevitabilmente mi porterà ad avere rapporti e confronti con l’esterno. I direttori di carcere donna ormai in Italia sono molti. Nei penitenziari di San Vittore, Bollate, Reggio Calabria, Padova, Venezia e Udine alla guida c’è una donna. Che difficoltà si riscontrano? Solo il detenuto di etnia e cultura diversa a volte ha manifestato disappunto trovandosi di fronte a un direttore di sesso femminile ma poi capisce immediatamente che gli conviene fidarsi, avere un atteggiamento più collaborativo. Per il resto non ho mai riscontrato problemi. La tipologia dei reclusi al Coroneo è diversa rispetto a quella dei carcerati di Tolmezzo? Qui ho riscontrato un maggior numero di tossicodipendenti e di persone con dipendenza da alcol, gente anche giovane o straniera consumata dalla droga. Il carcere triestino fa i conti con il sovraffollamento. I reclusi sono in media 245 a fronte di una capienza di 155. Come andrebbe affrontata questa situazione? Al Coroneo il problema è più acuto che in altre carceri, c’è almeno il 50 per cento di persone detenute in più mentre a Tolmezzo siamo sull’ordine del 35 per cento. È una situazione che andrebbe affrontata con la depenalizzazione di certi reati come quelli che coinvolgono una persona colta mentre ruba un salame al supermercato per la prima volta. Per certi reati sarebbe il caso di ricorrere a misure di detenzione alternative o a sanzioni che fungano da risarcimento anche morale nei confronti della società. Dirigere un carcere è un lavoro duro che mette a stretto contatto con la parte più difficile della società. Riesce a trarne delle soddisfazioni? Una sola recidiva mancata è una soddisfazione perché va ricordato che il sistema detentivo ha oltre alla funzione rieducativa anche quelle di garantire la sicurezza alla collettività. A Tolmezzo sono rinchiuse persone che hanno commesso crimini efferati su tutto il territorio nazionale. Qui invece la cronaca cittadina va spesso di pari passo con chi poi viene recluso al Coroneo. Dietro a quelle sbarre oggi, ad esempio, sono reclusi i due assassini di Giovanni Novacco. Il direttore del carcere in questo caso viene visto dalla cittadinanza anche come colui che deve assicurare una pena esemplare a queste persone. Quando incontro i detenuti, proprio per non farmi condizionare, spesso non voglio sapere che reato hanno commesso. È ovvio che quando incontro, ad esempio, i reclusi del 41 bis essere contemporaneamente un onesto cittadino e un direttore di carcere è difficile. Ma come ci impone l’articolo 27 della Costituzione bisogna imparare a rispettare la dignità umana di tutti. Quali sono gli obiettivi che si pone alla direzione di questo carcere? Voglio proseguire con l’impostazione del lavoro dettata da Sbriglia, ora mi dedicherò a conoscere i meccanismi di questa struttura e a stringere un buon rapporto con il personale: prima capire, poi gestire. Nel caso venisse confermato il mio ruolo al Coroneo mi trasferirei a Trieste, una città che trovo meravigliosa. Torino: al Macef la creatività delle “Fumne”… la nuova moda nasce in carcere di Maria Carla Rota Affari Italiani, 23 agosto 2012 Dalla devianza nasce creatività. Lo hanno dimostrato i carcerati di Rebibbia diventati attori nel film “Cesare deve morire”. E ora lo ribadiscono le detenute della casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino. Otto donne, dai 25 ai 55 anni, che hanno fatto della moda la loro ragione di vita: trasformano giacche sformate, scampoli di tessuto, ritagli di vecchia pelle e gomitoli di lana colorata in scialli, borse, cappelli, abiti e gioielli di design. “Stiliste dietro le sbarre” pronte a sbarcare al Macef, la Fiera internazionale dei prodotti per la casa, l’oggettistica e l’arredamento. Cerare, trasformare, riciclare, rigenerare è il motto delle donne di “Fumne”. Perché non c’è nulla che sia così vecchio o malconcio da essere gettato via. Un pezzo di stoffa da divano, un vecchio cuscino ricamato o una cerniera trovata in un fondo di magazzino grazie a loro acquistano una dignità che non sapevano di avere. Prodotti originali, accessori e gioielli confezionati a mano all’interno di un atelier unico in Italia, la casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino. Il progetto è stato promosso dall’associazione culturale “lacasadipinocchio”“ che dal 2008 organizza un laboratorio creativo, legato al recupero della femminilità, all’interno del penitenziario. Ad animare l’atelier sono 8 donne detenute (di differenti nazionalità), tutte regolarmente assunte. “Così hanno la possibilità di abbandonare, ogni giorno la condizione di ozio forzato all’interno della cella. Iniziano a creare, ad assemblare - spiega ad Affaritaliani.it Monica Cristina Gallo, presidente dell’associazione. Si sentono utili e sono indirizzate a usare saggiamente la loro immaginazione”. E aggiunge: “È un progetto che portiamo avanti da tre anni: abbiamo iniziato con una sorta di creatività spontanea, poi l’abbiamo gradualmente incanalata in progetti ben precisi: c’è un’attenta ricerca in ogni accessorio che proponiamo”. Creare con le mani aiuta a escludere i pensieri negativi, ad alleviare la noia delle lunghissime giornate trascorse in cella. “Abbiamo osservato queste donne in cercare. Se vivi senza cellulare e senza computer, hai una disperazione e una rabbia di fondo che non riesci a veicolare, perché non hai mezzi di comunicazione con l’esterno. Le donne del nostro gruppo hanno anche un innato rifiuto per le regole. Tutti sentimenti che, se artisticamente veicolati, produce genialità anziché devianza”, aggiunge Monica Gallo. Che spiega: “Abbiamo preferito puntare sulla creatività e sui prodotti unici, piuttosto che sulla produzione in serie. Qui si tratta di mettere qualcosa di proprio e non di produrre 400 borse al giorno in serie, come fanno altre cooperative. Anche se questa non vuole essere una critica: tra l’altro la situazione nelle carceri è disperata e tutte queste attività servono per raccogliere fondi”. Le detenute-stiliste hanno l’appoggio della Compagnia di San Paolo, che permette un certo respiro economico. Ma, per capire le condizioni nelle carceri, basti pensare che nel penitenziario di Torino ci sono 146 detenute, di cui solo 20-25 lavorano grazie a diverse cooperative come “La Casa di Pinocchio”. Le altre 110 restano in cella. “Mancano soldi persino per comprare beni per l’igiene personale”, prosegue Gallo. “E purtroppo le donne carcerate vengono nel 90% dei casi abbandonate dalle loro famiglie, a differenza di quanto avviene per gli uomini detenuti”. Dal 6 al 9 settembre le detenute della “La Casa di Pinocchio” metteranno in mostra le loro creazioni al padiglione 5 del Macef, fiera internazionale dedicata ai prodotti per la casa, l’oggettistica e l’arredamento. Che quest’anno ospita anche una sezione interamente dedicata a bijoux, oro, moda & accessori. Tutti i prodotti della “La Casa di Pinocchio” saranno accompagnati da un cartellino con il logo “Fumne” e tutte le informazioni riguardo la storia del prodotto: l’origine dei materiali che lo compongono, le ore necessarie alla sua lavorazione e progettazione, numero di archivio. Questa partecipazione rientra nel programma del progetto “Incontra Fumne” che vedrà “La Casa di Pinocchio” coinvolta in alcuni eventi mirati a far conoscere il proprio lavoro. Le manifestazioni beneficiano del sostegno della Camera di Commercio di Torino area Promozione e sviluppo del territorio. Il Macef sarà forse l’occasione per la svolta. “I commercianti a cui finora abbiamo fornito i nostri prodotti ci hanno chiesto di poter avere più copie dello stesso accessorio, facendoci notare che spesso non riescono a soddisfare l’alta richiesta della clientela. Ma, come detto, noi vogliamo puntare sulla creatività, vogliamo rimanere stiliste. Così abbiamo per la prima volta creato una mini collezione e, se al Macef avremo successo, ci organizzeremo per una sorta di produzione seriale grazie all’appoggio di un’altra cooperativa a cui forniremo i nostri modelli”. Torino: Osapp; nell’Ipm Ferrante Aporti due giorni di inferno per la Polizia penitenziaria Ansa, 23 agosto 2012 “Se l’Amministrazione penitenziaria piange quella della Giustizia minorile non ride, visto il periodico verificarsi di violenze e tensioni negli istituti penitenziari per minori, come nei decorsi 19 e 20 agosto presso l’istituto Ferrante Aporti di Torino”. A dare la notizia è l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) per voce del segretario generale Leo Beneduci. “Lo scorsa domenica - prosegue il sindacalista - un detenuto maggiorenne allocato nell’istituto penale per minori di Torino ha messo completamente a soqquadro la propria cella, distruggendo mobili e suppellettili, in quanto, a suo dire, non gli venivano consegnate le sigarette a cui aveva diritto”. “Spostato di cella il successivo 20 agosto, a partire dalla mattina per fino a tardo pomeriggio, il detenuto che pretendeva le sigarette dai poliziotti penitenziari in servizio, ha devastato vetri, mobili, suppellettili e sanitari anche nella nuova allocazione rendendola del tutto inagibile”. “Benché si tratti di un detenuto non nuovo a tali intemperanze in altre strutture penitenziarie minorili - indica ancora il leader dell’Osapp - c’è da ritenere che non poco di quanto accaduto al Ferrante Aporti, come nelle aggressioni subite dalla locale polizia penitenziaria nello scorso luglio, riguardi le precarie condizioni di lavoro e di organizzazione della struttura, con un organico ormai ridotto all’osso e con il personale che trova ad affrontare in pochissime unità le emergenze più disparate, mentre anche le relazioni sindacali ed il rispetto degli accordi tra le parti languono da tempo”. “A parte quello che di grave sta accadendo da tempo all’istituto Ferrante Aporti di Torino e gli appelli dell’Osapp, riguardo l’incorretta gestione della struttura, sino ad oggi inascoltati da parte del Dipartimento della Giustizia Minorile, al cui vertice è stata di recente designata la dott.ssa Caterina Chinnici - conclude Beneduci - il fatto che nelle strutture penitenziarie per minori, in cui il rapporto tra personale di polizia penitenziaria e i detenuti è, sulla carta, di 2 a 1 e in cui gli addetti dell’area socio-pedagogica sono in numero almeno pari ai ristretti (al contrario di quanto accade nei penitenziari per adulti), si verifichino spesso condizioni di così rilevante disagio e violenza nei confronti degli addetti del Corpo e per la stessa utenza, a parte gli evidenti sprechi, dovrebbe indurre a più di un ripensamento sulla validità dell’attuale sistema”. Foggia: Osapp; agente penitenziario salva dal suicidio un detenuto di 52 anni Ansa, 23 agosto 2012 Un tentativo di suicidio messo in atto da un detenuto nel carcere di Foggia è stato sventato da un agente di polizia penitenziaria. Lo rende noto con un comunicato il vicesegretario nazionale dell’Osapp (Organizzazione nazionale autonoma di polizia penitenziaria), Domenico Mastrulli. Il detenuto, di 52 anni, nato nel foggiano, in carcere in quanto arrestato nell’ambito di una maxi operazione che ha recentemente smantellato l’attività di una organizzazione dedita alle estorsioni, con un lenzuolo aveva realizzato una corda con la quale stava per impiccarsi nel bagno della cella. L’uomo è stato ricoverato nella infermeria del carcere. Il detenuto - fa presente Mastrulli - “è stato salvato dall’unico poliziotto del reparto prontamente intervenuto sul posto, attirato dalle urla dei quattro compagni di cella dell’aspirante suicida”. Il detenuto che ha tentato il suicidio si proclama innocente e respinge tutte le accuse a suo carico. Secondo quanto riferisce l’Osapp, l’uomo negli ultimi 20 giorni aveva già tentato altre due volte di togliersi la vita. Alcuni giorni fa l’Osapp, tra l’altro, aveva segnalato “l’ennesimo caso di aggressione compiuto nel carcere di Foggia nei confronti di agenti di polizia penitenziaria da parte di detenuti colti da malore o da crisi isteriche perché si dichiarano innocenti. Il carcere di Foggia - conclude Mastrulli era e rimane vigilato solo da quindici poliziotti per 724 detenuti, compresi tutti i servizi inerenti alla vigilanza e ai piantonamenti presso reparti e strutture ospedaliere esterne”. Asti: Sappe; detenuto aggredisce agenti, situazione allarmante richiede interventi urgenti Ansa, 23 agosto 2012 Un marocchino di 21 anni detenuto nel carcere di Asti ha aggredito gli agenti di polizia penitenziaria che lo hanno sorpreso mentre tentava di commettere un furto in un’altra cella. Lo riferisce il sindacato autonomo Sappe precisando che una delle guardie ha riportato lesioni guaribili in trenta giorni. “Nelle carceri - dice Donato Capece, segretario generale del Sappe - la situazione resta allarmante e il Dap continua a sottovalutare i pericoli. Il governo Monti - conclude - deve intervenire con urgenza per risolvere i problemi”. Verona: estate in carcere, musica e cinema per “alleviare” caldo e sovraffollamento L’Arena, 23 agosto 2012 Proseguono fino a settembre nel carcere di Montorio le attività culturali promosse nell’ambito dell’iniziativa “L’altra platea”, volte a rendere più sopportabili le condizioni di vita dei detenuti, rese ancora più difficili in questi giorni dal gran caldo. Operatori volontari del gruppo Microcosmo, coordinati da Paola Tacchella e Dannia Pavan, con la collaborazione del Direttore del carcere, Maria Grazia Bregoli e del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Margherita Forestan, hanno fatto sì che i mesi di luglio e agosto fossero il più possibile ricchi di proposte musicali e cinematografiche. Ecco che dopo Arisa è stata la volta di Veronica Marchi, Gli S-partiti, Luca Donini Quartet, Rock in progress, New Delta, Tiziano Rigo. In settembre è atteso Eugenio Finardi per chiudere la stagione per la parte musicale. Quanto al cinema, una giuria composta da persone detenute ha collaborato attivamente con Alessandro Anderloni al XVIII Film Festival della Lessinia, proseguendo anche in questi giorni i lavori, in vista delle premiazioni di sabato. “Oltre a questo sostegno culturale - ricorda Margherita Forestan - sono stati organizzati i sabati speciali delle famiglie, che hanno visto i bambini delle persone detenute partecipare insieme ai loro genitori a giochi, iniziative e attività manuali, degustando i cibi preparati dagli stessi detenuti. L’obiettivo che cerchiamo di perseguire - conclude la Garante - è quello della partecipazione alla vita della città, riproposta in carcere, e allo sviluppo di una più costante presenza dei familiari, i figli soprattutto, accanto alle persone detenute, soprattutto nei periodi più difficili, come quello che stiamo vivendo, non solo per le temperature torride ma anche per il protrarsi del sovraffollamento nelle celle, con condizioni di vita impensabili per quanti non conoscono la realtà del carcere”. Roma: prosegue iniziativa “Evasioni musicali”, con Marco Masini a Civitavecchia Il Velino, 23 agosto 2012 L’assessore alla Sicurezza ed agli Enti locali della Regione Lazio, Giuseppe Cangemi ha assistito oggi al concerto di Marco Masini che si è svolto alla Casa circondariale di Civitavecchia nuovo complesso, organizzato nell’ambito del iniziativa “Evasioni Musicali” promossa dalla Regione Lazio. Insieme, l’assessore al Bilancio della Regione Lazio, Stefano Cetica, e la direttrice del carcere Silvana Sergi. Il cantautore toscano ha entusiasmato i detenuti che hanno assistito al concerto intonando insieme all’artista alcuni dei suoi brani più celebri da “Ti Vorrei” a “Le ragazze serie” senza dimenticare “Ci vorrebbe il mare”. “Abbiamo avuto modo di riscontrare che la musica, come per esempio i concerti di artisti famosi nelle carceri del Lazio, nella cornice delle diverse attività consentite all’interno degli Istituti penitenziari, non ha svolto solo una funzione rilassante e di passatempo, bensì ha costituito anche, nella sua potenzialità espressiva, un utilissimo strumento di comunicazione e di superamento di quelle difficoltà comunicativo-relazionali, spesso riscontrabili in alcune persone detenute”, ha sottolineato Cangemi. “Nel portare i saluti della presidente Renata Polverini - ha proseguito Cangemi - ho voluto ricordare il lavoro che viene svolto dalla Regione a favore della popolazione detenuta nel Lazio. Con particolare riguardo alle attività formative, alla riabilitazione e al reinserimento socio-lavorativo dei detenuti”. Cangemi ha poi sottolineato la partecipazione e il successo che sta riscuotendo la rassegna ‘Evasioni Musicalì negli Istituti penitenziari del Lazio dove si sono svolti i concerti, ricevendo consenso tra la popolazione detenuta. “Per questo - ha concluso - un ringraziamento particolare va a tutti gli artisti che si stanno esibendo in queste settimane. Un gesto di solidarietà che anche grazie alla loro sensibilità e disponibilità siamo riusciti ad offrire a quanti sono costretti a vivere lontano dai propri cari e dalla famiglia”. Bergamo: nuovo lavoro da semilibero per Renato Vallanzasca alimenta polemiche L’Eco di Bergamo, 23 agosto 2012 Il tragitto quotidiano che Renato Vallanzasca percorre tra il carcere milanese e Sarnico passa inevitabilmente davanti al casello dell’A4 di Dalmine, il luogo in cui, il 6 febbraio 1977, lui e la sua banda della Comasina uccisero gli agenti della polizia stradale Luigi D’Andrea e Renato Barborini durante un conflitto a fuoco. La fine degli Anni Settanta rappresentò per la banda del “bel René”, nomignolo da lui sempre detestato, l’apice di una violenza che, da Milano, terrorizzò l’Italia intera. Pochi giorni prima dell’omicidio dei due agenti della Stradale a Dalmine la banda della Comasina aveva infatti concluso il sequestro di Emanuela Trapani, figlia di un imprenditore milanese che venne tenuta in ostaggio di Vallanzasca per un mese e mezzo, fino alla liberazione dopo il pagamento di un riscatto di un miliardo di lire. Di fronte al posto di blocco degli agenti D’Andrea e Barborini, Vallanzasca e i complici non esitarono ad aprire il fuoco, freddando entrambi i poliziotti. Un episodio che destò grande clamore nell’opinione pubblica e che fece terra bruciata attorno alla banda della Comasina e attorno al suo capo indiscusso, l’allora ventiseienne Vallanzasca. Passarono soltanto sei giorni dal suo arresto, il secondo dopo quello - che è negli annali della cronaca nera - del 1972, quando a mettere le manette ai polsi del criminale milanese fu l’allora capo della Squadra mobile di Milano Achille Serra. Il ventunenne Vallanzasca si sentiva invincibile. Anzi, ricco e invincibile. Con la sua banda aveva già racimolato tanti soldi con rapine che avevano terrorizzato la Milano bene dell’epoca. Auto di lusso, belle donne, capi firmati e orologi di lusso, come quello che, il 28 febbraio 1972, si slacciò e buttò sul tavolo di casa sua con tono di sfida alla polizia: “Se mi incastri, diventa tuo”, disse a Serra. Poco dopo la polizia, perquisendo la casa, trovò la lista degli stipendi dei dipendenti di un supermercato che la banda della Comasina aveva da poco rapinato. Così Vallanzasca finì per la prima volta in manette, trascorrendo i quattro anni e mezzo successivi in oltre trenta carceri italiane, continuamente trasferito per via del suo comportamento tutt’altro che collaborativo. Evaso - e siamo al 1976 - Vallanzasca ricostituisce in poco tempo la sua banda, dedicandosi anche ai sequestri di persona, tra cui appunto quello della Trapani che precede di pochi giorni il massacro di Dalmine. È del 15 febbraio 1977 il secondo arresto del bandito. Alti e bassi nella sua carriera criminale che rispecchiano, per esempio, i rapporti con il nemico-amico Francis Turatello, forse figlio naturale di Frank Coppola e a capo della banda “concorrente” a quella della Comasina (ma entrambe talmente efferate da preoccupare la ligèra, la vecchia mala milanese), salvo poi essere chiamato da Vallanzasca come “compare d’anello” al suo (primo) matrimonio con Giuliana Brusa nel 1979 e poi ucciso in carcere, due anni dopo, da mandanti ignoti. Vallanzasca - che deve scontare quasi 300 anni di carcere - non ha mai perdonato i traditori. Emblematico l’omicidio di Massimo Loi, ex componente della sua banda deciso a cambiar vita, assassinato nell’81 a Novara durante una rivolta carceraria. Sembra che ad ammazzarlo sia stato proprio Vallanzasca, che poi lo decapitò per giocare a palla con la sua testa. Ma su questo episodio anche le biografie del criminale forniscono versioni differenti. Roma: Sant’Egidio; a Regina Coeli festa per fine del Ramadan, la offre pasticcere ebreo Il Messaggero, 23 agosto 2012 Il 21 agosto, la Comunità di Sant’Egidio ha organizzato la consueta festa per l’Aid el Fitr, a conclusione del mese di Ramadan, nel carcere romano di Regina Coeli. Più di 80 detenuti di varie nazionalità sono usciti dalle sezioni di reclusione per incontrarsi nella sala biblioteca opportunamente preparata con i tappeti per la preghiera. L’immagine dei saluti tra amici e compagni di detenzione, che si incontravano dopo mesi, è stata commovente, ed ha aperto i festeggiamenti. Sono seguiti un discorso di saluto dei membri della Comunità di Sant’Egidio che da oltre 20 anni svolgono servizio in carcere, dell’amministrazione carceraria, del cappellano. Ad animare la giornata una quindicina di membri del movimento Genti di Pace, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, che riunisce persone di lingue, etnie e religioni diverse. Youssef Etais, mediatore culturale per il carcere, marocchino, ha guidato la preghiera, molto partecipata. Dopo la preghiera, il rinfresco a base di tramezzini, torte rustiche, patatine, dolci e bibite. La novità di quest’anno è che il rinfresco è stato offerto da un pasticcere ebreo, Dolce Kosher, in via Fonteiana, che ha preparato il tutto seguendo rigorosamente la regola kosher, che è molto gradita anche ai musulmani. Alla celebrazione dell’Aid di quest’anno hanno così partecipato cristiani, ebrei e musulmani, dimostrando che i credenti di diverse religioni possono collaborare per la pace e la concordia tra i popoli. A tutti è stato lasciato come ricordo un’immagine a colori su cartoncino, che conteneva anche gli auguri per l’Aid e tutti gli indirizzi per incontrare la Comunità di Sant’Egidio e il movimento Genti di pace una volta usciti, speriamo presto, dal carcere. Domani la stessa festa si svolgerà a Rebibbia Nuovo Complesso, nell’area verde. Mondo: cosa fare se arrestati all’estero… protezione consolare e trasferimento in patria di Luca Santaniello (Avvocato) www.angri.info, 23 agosto 2012 Secondo le ultime stime rilasciate dal Ministero degli Affari Esteri, i connazionali attualmente detenuti in penitenziari stranieri, sono circa 3000, di cui gran parte ancora in attesa di giudizio. Generalmente, il sistema giuridico penale vigente negli Stati stranieri è molto diverso da quello italiano, per cui gli italiani detenuti all’estero sono, innanzitutto, penalizzati dalla scarsa conoscenza della procedura penale e delle leggi, nonché della lingua locale. A ciò si aggiunga, che le condizioni dei penitenziari in molti Paesi stranieri, sono molto più dure che in Italia. Inoltre, in questi casi, le autorità diplomatiche e consolari italiane hanno poteri ben limitati, non potendo né contestate né ignorare, le decisioni delle autorità giudiziarie del Paese ospitante. Tuttavia, ci sono alcune cose importanti da sapere, nel caso in cui si venga arrestati in un Paese straniero. 1) La protezione consolare Secondo la Convenzione di Vienna del 1963 sulle relazioni consolari, i cittadini italiani, quando sono arrestati all’estero, hanno diritto alla protezione del proprio Consolato, mediante la quale, i funzionari dell’Ambasciata o del Consolato italiano possono visitare il detenuto in carcere, fornirgli una lista di avvocati locali, avvisare i familiari, garantire, se necessario, assistenza medica e beni di prima necessità al detenuto. 2) La protezione consolare dell’Unione Europea Quando un cittadino italiano si trovi in stato di arresto o di detenzione in un territorio straniero dove non è presente una rappresentanza diplomatica o un ufficio consolare italiano, può accedere alla protezione consolare dell’Unione Europea, quindi chiedere assistenza alla missione diplomatica di qualsiasi altro Paese membro dell’Unione Europea. 3) Trasferimento delle persone condannate Secondo quanto previsto dalla Convenzione di Strasburgo del 1983 sul trasferimento delle persone condannate, i cittadini italiani condannati ad una pena detentiva da scontare in un carcere straniero, possono chiedere di essere trasferiti in Italia per continuare l’espiazione della pena. Affinché possa essere chiesta l’applicazione della Convenzione di Strasburgo, è necessario che la sentenza sia definitiva e che i due Stati, vale a dire, quello che ha emesso la sentenza di condanna e quello in cui dovrà essere trasferito il detenuto, siano d’accordo. Medio Oriente: Israele rilascia dopo 27 anni arabo da più tempo detenuto Agi, 23 agosto 2012 È stato rilasciato oggi in Israele il prigioniero arabo rinchiuso da più tempo in un carcere dello Stato ebraico: si tratta di Sudqi Suleyman al-Maqt, 45 anni, cittadino siriano originario di Majdel Shams, sulle alture del Golan, occupate durante la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, e poi annesse unilateralmente. Stando all’agenzia di stampa palestinese Wafa, che citava il ministero per i Detenuti dell’Anp, Maqt era recluso dall’agosto 1985, dopo essere stato riconosciuto colpevole di “atti di resistenza e iniziative contro l’occupazione”. In concreto, l’ex detenuto avrebbe fatto esplodere una bomba contro una base militare nell’area contesa, e contribuito inoltre a organizzare la lotta armata. L’uomo è già rientrato a casa nel suo villaggio, accolto da familiari e vicini. Nel frattempo un portavoce del ministero della Difesa israeliano, Guy Inbar, ha rivendicato un gesto di buona volontà da parte del proprio governo, consistito nel permettere l’ingresso a “oltre un milione di palestinesi” in occasione del mese sacro islamico del Ramadan e della festività che ne segna la conclusione, l’appena trascorso Eid al-Fitr. Secondo Inbar, nell’occasione ai posti di blocco di frontiera con la Cisgiordania i controlli sono stati particolarmente blandi, così da permettere ai fedeli di raggiungere i luoghi di culto musulmani e di visitare i loro parenti ivi residenti. Algeria: arrestato attivista diritti umani, protestava contro sospensione erogazione acqua Tm News, 23 agosto 2012 L’attivista dei diritti umani algerino Abdelkader Kherba è stato arrestato dopo aver partecipato a una manifestazione contro la sospensione dell’erogazione dell’acqua nel dipartimento di Medea, a 100 chilometri a sud di Algeri. Lo riferisce la Rete degli avvocati per la difesa dei diritti dell’Uomo. “Abdelkader Kherba, 32 anni, è stato arrestato ieri mentre partecipata nella città di Kasr Bukhari contro l’interruzione regolare dell’acqua corrente”, ha dichiarato il coordinatore della Rete, Amine Sidhom, precisando che Kherba stava filmando la manifestazione quando è stato fermato. Militante del Comitato nazionale per la difesa dei diritti dei disoccupati e della Lega algerina per la difesa dei diritti dell’Umomo, Kherba “è stato denunciato per oltraggio a pubblico ufficiale e rinchiuso nel carcere di Kasr Boukhari”, ha spiegato. Nel maggio scorso, Kherba è stato condannato a un anno di reclusione con la condizionale e al pagamento di un ammenda da 20.000 dinari (200 euro) per “incitamento all’assembramento e usurpazione di identità”, dopo aver partecipato a un sit-in organizzato dai cancellieri davanti al Palazzo di giustizia di Algeri. Cina: monaco tibetano torturato e condannato a sette anni per proteste contro il regime Asca, 23 agosto 2012 Un monaco tibetano è stato picchiato, torturato e messo in prigione per aver protestato contro il regime cinese. Yonten Gyatso, attivista per i diritti civili nella provincia del Sichuan, è stato condannato a sette anni di carcere per aver diffuso informazioni sulle proteste in Tibet. Secondo quanto riferito dall’associazione Reporters without Borders, il monaco è stato condannato lo scorso 18 agosto da un tribunale di Aba, ma la famiglia lo ha saputo solo ieri. Yonten Gyatso era stato arrestato lo scorso 18 ottobre, con l’accusa di aver diffuso fotografie e informazioni su Tenzin Wangmo, la prima donna ad essersi data fuoco per protesta contro la repressione in Tibet. Secondo l’associazione, durante la detenzione è stato picchiato e sottoposto a torture dagli uomini dell’Ufficio locale per i segreti di Stato. Perù: ex presidente Fujimori ricoverato in clinica per essere sottoposto ad un intervento Ansa, 23 agosto 2012 L’ex presidente peruviano Alberto Fujimori è stato trasferito dalla prigione, dove sta scontando una condanna a 25 anni di reclusione per violazione dei diritti umani e corruzione, alla clinica San Felipe di Lima per essere sottoposto ad un intervento urgente per ulcere e ferite nella bocca. Fujimori, 74 anni, presidente del Perù dal 1990 al 2000, è stato trasferito con un veicolo dell’amministrazione penitenziaria scortato da due altri simili della polizia nazionale. A bordo di altre quattro vetture c’erano i suoi familiari. In un altro mezzo viaggiava il figlio minore di Fujimori, Kenji, attualmente parlamentare. Fujimori, destituito nel novembre del 2000 per “incapacità morale a governare”, sarà sottoposto ad una quinta operazione alla bocca, dopo averne subito altre quattro. Il suo medico personale, e parlamentare, Alejandro Aguinaga, ha riferito di una recrudescenza delle lesioni alla “parte anteriore della lingua” di Fujimori, che negli ultimi mesi ha perso quasi 20 chili di peso.