Giustizia: Radicali; quarto giorno di mobilitazione nonviolenta, 20mila adesioni da carceri Notizie Radicali, 21 luglio 2012 Continuano a giungere da molte carceri italiane adesioni all’iniziativa di mobilitazione nonviolenta promossa da Marco Pannella in tutta Italia, giunta oggi al quarto giorno. Nel pomeriggio di oggi siamo giunti a 20.812 detenuti. In queste ore sono giunte le adesioni di 110 detenuti del carcere Taranto, 250 da Civitavecchia, 412 da Monza e 1.400 da Poggioreale. Tra le 2.400 detenute nelle carceri italiane, su una popolazione carceraria di circa 67.000, sono giunte anche le adesioni delle donne detenute degli istituti penitenziari di Lecce, Bergamo, Santa Maria Capua Vetere e Perugia. All’iniziativa nonviolenta hanno aderito anche diversi Direttori di Istituti penitenziari. Marco Pannella questa mattina in un collegamento a Radio Radicale ha, tra l’altro, dichiarato che: “La nostra richiesta di Amnistia non è quel “gesto di clemenza” che chiede il Papa. Noi vogliamo un’amnistia “legalitaria”, cioè che ripristini le condizioni di legalità costituzionale nei tribunali e nelle carceri, contrapposta a un’altra amnistia: quella strisciante, clandestina, di massa e di classe che si chiama “prescrizione” (140.000 processi che decadono ogni anno). Noi vogliamo un’Amnistia che sia propedeutica a una grande Riforma della giustizia penale e civile, la cui paralisi penalizza i privati e le imprese, scoraggia gli investimenti esteri e comporta costi enormi per l’economia nazionale. Chiediamo una Grande Amnistia per la Giustizia, per la Costituzione, per la Repubblica”. L’Iniziativa nonviolenta è promossa insieme all’appello al Presidente della Repubblica lanciato dal professore Andrea Pugiotto e sottoscritto da 130 costituzionalisti e garanti dei detenuti, che chiede al Presidente di farsi forte dello strumento del messaggio alle Camere per favorire un processo deliberativo in Parlamento, attraverso la formalizzazione delle sue preoccupazioni istituzionali e costituzionali puntualmente ed efficacemente manifestate già un anno fa, in occasione del convegno “Giustizia! In nome della Legge e del popolo sovrano” tenuto al Senato lo scorso anno. Giustizia: detenuti in sciopero della fame; cronache da Viterbo, Verona, Salerno ed Eboli Ristretti Orizzonti, 21 luglio 2012 Viterbo: in sciopero della fame da una settimana (La Repubblica) Niente colazione, pranzo o cena per i detenuti della casa circondariale di Mammagialla a Viterbo che hanno deciso di mettere in piedi la protesta, come in molte altre prigioni italiane, per richiamare l’attenzione delle istituzioni sull’emergenza carceri e dare anche seguito all’iniziativa radicale di Marco Pannella, quattro giorni di digiuno e silenzio, per l’amnistia. Sono stati i familiari dei detenuti all’uscita dai colloqui settimanali a informare che i reclusi stanno praticando questa forma estrema di sciopero. Gli stessi condannati hanno ottenuto dalla direzione dell’istituto la promessa che le colazioni, i pranzi e le cene non ritirate siano devoluti in beneficenza alla Caritas diocesana. “I nostri congiunti - spiegano in una nota i familiari - stanno digiunando contro il sovraffollamento e la carenza di personale. Sono rinchiusi in 700 in un carcere che potrebbe contenerne al massimo 450. E non sono solo loro a condividere l’iniziativa di Pannella, ma anche noi familiari, i dirigenti, gli agenti di polizia penitenziaria, gli psicologi, gli educatori, il personale sanitario e amministrativo, i volontarie e i cappellani”. Rebibbia. Non è diversa la situazione a Rebibbia: “Oltre 1.500 detenuti del carcere romano - spiega Irene Testa, segretario dell’associazione radicale ‘Detenuto ignoto’ - stanno rifiutando i carrelli da quattro giorni, come abbiamo potuto constatare insieme all’onorevole Rita Bernardini nella visita che abbiamo svolto nella giornata di venerdì”. “Il sovraffollamento - afferma Testa - è evidente dovunque, con i detenuti che hanno perso anche gli spazi per la socialità. Ad esempio, la stanza del ping pong è stata adibita a sua volta a cella con 13 persone dentro. Per non parlare dell’ala dei disabili, dove persone invalide al cento per cento arrivano a farsela addosso perché i bagni non sono attrezzati per le loro esigenze. Inoltre, le segnalazioni che ci arrivano di Regina Coeli parlano di un aumento delle patologie psichiche che sta portando la situazione fuori controllo”. “È per questo - conclude l’esponente radicale - che chiediamo un’amnistia, perché la matassa delle carceri italiane è talmente aggrovigliata da non permettere di sciogliere un singolo nodo senza vedere stringersi gli altri”. I detenuti di Montorio in sciopero della fame, di Chiara Bazzanella (L’Arena) Non hanno toccato cibo per quattro giorni, protestando, senza creare tensioni ma con la più grande determinazione, per chiedere al governo di intervenire al più presto con indispensabili misure svuota-carceri. Nell’aderire allo sciopero del carrello, i detenuti di Montorio non si sono però dimenticati degli atri, scegliendo di tenere chiuse le cucine e donare gli alimenti a loro destinati alla Caritas locale. Il sovraffollamento, anche nella casa circondariale di Verona, non accenna a diminuire. Anche se negli ultimi mesi le celle si sono “alleggerite” di qualche decina di reclusi, il loro numero complessivo ruota sempre oltre gli 850, ben oltre la capienza massima consentita per legge. Così, da mercoledì fino a ieri sera, anche chi è detenuto nel carcere di Montorio ha aderito alla protesta nazionale per reclamare, più che mai in estate quando lo stare ammassati come sardine diventa ancora meno accettabile, l’intervento di misure quali l’amnistia e l’indulto. “Lo sciopero è stato concordato”, spiega la garante dei diritti dei detenuti a Verona, Margherita Forestan. “Il cibo, che in queste occasioni rischia di essere buttato, ha riempito i furgoni della Caritas che ogni mattina si sono recati in carcere per il rifornimento destinato poi alla varie mense del territorio. Ho partecipato all’iniziativa che sostengo in pieno, ma sono convinta che le decisioni importanti spettino a un governo politico più che a quello tecnico attuale”. Per la Forestan, in ogni caso, basterebbe intanto applicare le leggi già in vigore, come quelle sulle misure alternative, per alleviare chi vive in uno stato di detenzione. “L’adesione allo sciopero è stata massiccia”, interviene Roberto Sandrini dell’associazione La Fraternità. “In un periodo in cui non si parla che di crisi bisogna interrogarsi se abbia senso chiudere in carcere chi ha commesso piccoli reati e che potrebbe riscattare la sua pena con lavori socialmente utili. Ogni recluso costa al giorno oltre 130 euro, e il conto della spesa totale è presto fatto”. “La richiesta di svuotare le carceri serve fino a un certo punto”, dice Maurizio Ruzzenenti dell’associazione Progetto Carcere 663. “O viene cambiata al legge e si evita di riempire le celle di tossicodipendenti e stranieri senza permesso di soggiorno, oppure, entro un anno, e come è già successo dopo l’indulto del 2006, si tornerà al punto di partenza”. Sciopero della fame a Eboli e Salerno (Otto Pagine) Al terzo giorno di nonviolenza, dalla mezzanotte di mercoledì 18 luglio accolto l’invito di Marco Pannella e del Partito Nonviolento Radicale Transnazionale e Transpartito è iniziato lo sciopero della fame della quasi totalità dei detenuti di Fuorni e di molti dell’Icatt di Eboli, insieme a Donato Salzano segretario dei Radicali/Salerno e Carlo Padovano tesoriere di Radicali/Salerno, a Monica Focarelli e Daniela Scrudato, Fabiana De Carluccio, Tina Monaco e Lella Zarrella familiari dei detenuti, accompagnati dalle adesioni al digiuno e al silenzio della d.ssa Rita Romano direttrice del carcere di Eboli, di Gianfranco Ferrigno Presidente di Claai Salerno, di Martina Castellana Presidente Commissione Pari Opportunità della Provincia di Salerno, dal avv. Emiliano Torre consigliere comunale di Sel, dal dott. Francesco Napoli Ass. “La vita dentro” e dall’avv. Massimo Torre già Presidente della Camera Penale di Salerno. Infine la scelta di aderire con il silenzio all’iniziativa nonviolenta da parte di Don Rosario Petrone Cappellano della Casa Circondariale di Salerno. Dichiarazione di Donato Salzano segretario di Radicali/Salerno: “Più di quindicimila le adesioni al digiuno e al silenzio dalle 207 Comunità Penitenziare italiane, tantissime da Fuorni e da Eboli, mentre Radio Radicale ha interrotto le sue trasmissioni, per trasmettere soltanto “Radio Requiem” ad accompagnare l’azione nonviolenta silenziosa, come aveva fatto in passato soltanto nel 1982 per la campagna della fame nel mondo. Affinché la lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano del prof. Andrea Pugiotto, sottoscritta da oltre 120 ordinari di diritto Costituzionale e diritto Penale, sulla quella che è la “prepotente urgenza”, possa dare la forza al signor Presidente d’inviare un messaggio alle camere, come seppe fare in passato soltanto Luigi Einaudi. Così da invitare i parlamentari a farsi carico d’interrompere il fragrante reato della violazione dei diritti umani in cui versa la nostra Repubblica, condannata da tutte le giurisdizioni sopranazionali e dall’opinione pubblica europea. Il dare corpo alla lotta dei nonviolenti per con - vincere, vincere con, vincere insieme a tutta l’opinione pubblica. La forza della nonviolenza gandhiana per interrompere il prodotto dalla “banalità del male”. Amnistia e indulto subito! Amnistia per la Repubblica”. Taranto: Detenuti protestano pensando ai bisognosi (Corriere del Mezzogiorno) Anche i detenuti del carcere di via Magli a Taranto, dal 18 luglio scorso, stanno protestando per il sovraffollamento e le gravi condizioni strutturali, logistiche ed igienico-sanitarie in cui sono costretti a vivere. Agli spazi ristretti si aggiunge il caldo torrido che da oltre un mese imperversa e che in spazi angusti, quali sono le celle, mancando la sufficiente aerazione, fa raggiungere temperature oltre la sopportabilità umana dando origine spesso a tensioni tra gli stessi detenuti. Per far sentire la loro “voce” soffocata dalle mura del carcere, 110 detenuti (su oltre 600 degli ospiti della struttura) hanno scelto di avviare una civile manifestazione con lo sciopero della fame. E proprio dal carcere di via Magli arriva un atto concreto verso gli ultimi. Hanno manifestato la volontà di donare gli alimenti, non consumati da loro durante lo stato di agitazione, alla Caritas Diocesana di Taranto per utilizzarlo per i poveri ed i più bisognosi. Un gesto che ha commosso il direttore della Caritas di Taranto, don Nino Borsci, che in un comunicato inviato alla stampa sottolinea che: «Se è vero che lo Stato, per assolvere bene ai suoi compiti istituzionali deve “tendere alla rieducazione e reinserimento nella vita sociale di chi ha commesso reati”, la risposta concreta, questa volta, l’hanno data proprio i detenuti del carcere di via Magli. Come sta avvenendo in altre simili strutture di altre città, i detenuti di Taranto hanno pensato di chiedere che il vitto non consumato possa essere donato alla Caritas. La loro è una bella iniziativa – ha dichiarato al Corriere – Un bel gesto di solidarietà nei confronti di chi sta peggio e che mi ha commosso. Ma l’emozione più grande mi è stata data l’altro giorno dal responsabile del servizio mensa San Pio X quando ci ha visti arrivare con un furgone carico di pane e frutta. Ha subito esclamato “è la Provvidenza che vi manda perchè avevamo finito il pane”. Ma siamo riusciti anche ad avere carne e tanto altro ancora che abbiamo donato a tanti poveri». I dirigenti del carcere hanno infatti contattato la Caritas per mettere in atto la volontà dei detenuti e don Nino Borsci insieme con i suoi collaboratori si è dato subito da fare per l’approvvigionamento dei generi alimentari e rifornire le due mense cittadine dei poveri (quella di San Pio X nell’omonima chiesta e quella del Carmine in via Cavour), nonchè varie case famiglia e la mensa degli immigrati ospitati a Massafra. «La sofferenza personale, quando diventa comprensione delle sofferenze altrui con gesti concreti, costituisce – ha concluso don Nino – senza dubbio un significativo ed alto esempio di solidarietà. Ringrazio, insieme con i miei collaboratori, i detenuti per il bel gesto, nonchè i dirigenti della struttura carceraria per la solerte collaborazione ed auspico che si possa giungere finalmente e quanto prima alla soluzione del grave problema vissuto dai carcerati». Il gesto di grande generosità e solidarietà ha ancora più valore se si pensa al sacrificio che i detenuti stanno affrontando ormai da quattro giorni. Al caldo insopportabile delle celle, insieme con tutti gli altri problemi di convivenza in una struttura non adeguata ad ospitare oltre 600 detenuti, si è aggiunta la spossatezza dovuta all’astensione dal cibo. Un gesto che non può restare inascoltato e che deve insegnare a molti. Giustizia: strage di Bologna del 1980; appello Associazione “processare lo Stato infedele” di Alessandro Canella www.libertaegiustizia.it, 21 luglio 2012 L’Associazione “Libertà e Giustizia” lancia un appello per accertare le responsabilità dello Stato nella strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 e negli altri eccidi che sconvolsero l’Italia. Il titolo è forte, ma rende l’idea della sete di giustizia e verità che contraddistingue un pezzo di storia della Repubblica Italiana. “Processare lo Stato infedele”, così si chiama l’appello lanciato da “Libertà e Giustizia” e già firmato da numerosi intellettuali italiani, tra cui Gustavo Zagrebelsky, Umberto Eco, Nando Dalla Chiesa e Paolo Bolognesi. L’associazione sostiene che il nostro Paese è ancora in tempo per accertare le responsabilità dello Stato nella strage del 2 agosto 1980, che provocò 85 morti e 200 feriti alla stazione di Bologna, così come il torbido che ancora aleggia su altre stragi. “Trentadue anni dopo si debbono rompere il silenzio e le ipocrisie che hanno coperto la verità, respingendola nelle zone più buie e inesplorabili dello Stato”, si legge nell’appello, sottoscrivibile online. Tra il 1969 e il 1993 le stragi hanno massacrato 154 persone e ne hanno ferite alcune migliaia, ricorda “Libertà e Giustizia”. In tutte queste vicende, che partono da Piazza Fontana e si concludono in via D’Amelio, c’è un filo rosso che investe direttamente lo Stato, che le stragi che si è mosso “di segreto in segreto, di deviazione in deviazione” come scrisse Norberto Bobbio, per fini ormai chiari a chi voglia sapere e ricordare. Nell’appello c’è spazio anche per una riflessione sulla trattativa Stato - mafia, al centro delle cronache e dei conflitti istituzionali di queste ultime settimane. “Dopo trentadue anni si ha tutto il diritto di pensare che lo Stato occulto stia lavorando ancora oggi al servizio di chi vuole coprire la trattativa con i boss siciliani che ordinarono le stragi del 1992 e del 1993?. Le richieste dell’associazione, infine, sono molto chiare: “È stato detto che la vera “ragion di Stato” è fare chiarezza sui “delitti di Stato”, dello Stato infedele. Finché i misteri resteranno tali, sulla nostra democrazia graverà un’ombra pesante. Chiediamo alle istituzioni, compresa la magistratura, di adoperarsi concretamente per rendere possibile questo obiettivo di civiltà e di giustizia”. Giustizia: G8 Genova; la reale non applicazione delle pene detentive sia beneficio per tutti di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 21 luglio 2012 Sul quotidiano La Stampa del 14 luglio l’avvocato Carlo Federico Grosso, uno dei massimi esperti di diritto penale del nostro paese, ha scritto un articolo (“Le punizioni e i benefici devono essere uguali per tutti”) su due sentenze emesse dalla Cassazione in merito ad altrettanti episodi avvenuti nel 2001 durante il G8 di Genova, quella del 13 luglio per i 10 manifestanti accusati di “devastazione e saccheggio” e quella del 5 luglio nei riguardi dei poliziotti responsabili delle violenze compiute alla scuola Diaz. Grosso ritiene prima di tutto valida la sentenza contro i contestatori in quanto, anche se “è possibile che la pesantezza della pena prevista per il delitto di devastazione e saccheggio risenta dello spirito autoritario del codice penale Rocco del 1930”, durante il G8 del 2001 ci sarebbero stati atti di “devastazione” nell’ambito e come espressione di una “guerriglia eversiva”. In secondo luogo Grosso critica l’abnormità delle dure sanzioni contro i manifestanti in rapporto a quelle lievi - prive di carcere - contro chi, “dovendo operare in nome della legge, ha commesso invece, nell’esercizio della funzione, indebite violenze o cagionato lesioni personali a cittadini inermi”. Pensa che tale contraddizione sia solo e semplicemente causata dall’assenza del delitto di tortura nel codice penale italiano. Sottolinea infine che, a oltre 10 anni di distanza dai fatti, non solo i manifestanti poi condannati ma pure i poliziotti responsabili delle violenze siano persone cambiate. Le tre tesi di Grosso meritano altrettante risposte. Punto per punto. Partiamo dai reati di “devastazione e saccheggio”. Per quanto gravi possano essere i fatti di “devastazione” bisogna conoscerne le cause sociali e politiche assieme ai motivi per cui non siano stati prevenuti in maniera intelligente dalle forze di polizia e dalle scelte dei governanti. Il loro manifestarsi nell’ambito di rivolte e tumulti sociali ne attenua in ogni caso la gravità. Ne sono responsabili migliaia di persone, tutte in stato di coscienza alterato ed irritato, e non certo 5 o 10 individui. Se gli atti di “devastazione” sono quelli che Grosso definisce come fatti “di distruzione sistematica, carica d’odio, di cose e luoghi della città da parte di gruppi organizzati, travisati, armati di mazze, spranghe e bombe molotov …”, allora - al contrario di quanto ritiene l’avvocato e giornalista torinese - un pugno di persone non può, da solo, compiere quel reato e quindi neppure esserne imputato prima e condannato poi. Al massimo, nel quadro delle vigenti leggi statuali, alcuni individui potrebbero essere imputati e condannati per “danneggiamenti” e non certo per “devastazione”. Analogamente, se il “saccheggio” è quello che Grosso definisce come “asportazione sistematica di ogni bene rinvenuto in determinati luoghi o circostanze”, allora bisognerebbe riconoscere in termini obiettivi che poche persone possono compiere dei furti ma non certo un vero e proprio “saccheggio”. È vero, come ricorda l’articolista, che l’autorità giudiziaria ha cercato di “non coinvolgere nell’imputazione persone nei confronti delle quali non erano emerse prove specifiche di responsabilità penale” ma l’imputazione di “devastazione e saccheggio” era sbagliata, eccessivamente sproporzionata fin dall’inizio. Passiamo al problema dell’abnormità delle sanzioni contro i manifestanti in relazione a quelle contro i poliziotti. L’iniquità non deriva solo dalla circostanza per cui non esiste in Italia il reato di tortura. Il problema è che i reati di “devastazione e saccheggio” non sono definiti in modo chiaro, vengono utilizzati soprattutto contro i contestatori delle formazioni e delle classi considerate “pericolose” e risultano puniti con pene detentive molto più elevate anche rispetto a quelle stabilite per chi nel passato, ad esempio durante numerosi cortei del 1977 nelle grandi città italiane, partecipò attivamente a dei tumulti di piazza. Giungiamo alla terza tesi, quella di dover dare delle attenuanti a tutti, sia ai manifestanti che ai poliziotti, perché dopo tanti anni le persone cambiano. In linea di principio, Grosso ha ragione ma dimentica un piccolo particolare. I poliziotti autori di determinati crimini alla scuola Diaz di Genova hanno continuato a lavorare tra le forze dell’ordine anche in seguito. Hanno ricevuto preventivamente delle attenuanti. E questo non va tanto bene. L’auspicabile introduzione, prima possibile, del reato di tortura non significa comunque dover usare uno spirito di vendetta e inventare chissà quale lunga punizione detentiva per questo tipo di crimine. Significa invece, prima di tutto, garantire l’immediata sospensione cautelativa da ogni incarico pubblico dei poliziotti che risultano imputati per gravi fatti di violenza contro inermi cittadini. E poi, se risultano responsabili, si dovrebbe almeno far togliere loro e per sempre la divisa. Per un paese come l’Italia sarebbe un passo in avanti non solo per la democrazia ma anche per la libertà dalle tradizionali concezioni populistiche e penaliste della giustizia. Le sanzioni per chi commette dei crimini possono essere ben diverse e meno disumane rispetto alle pene detentive. Nei fatti, più che in punto di norma giuridica, la sentenza della Cassazione contro i poliziotti che usarono una violenza cieca alla scuola Diaz di Genova ce lo dimostra. Di conseguenza, se davvero - come sostiene Grosso - le leggi dovrebbero essere uguali per tutti, allora dovremmo augurarci che la reale non applicazione delle pene detentive, sostituite da altre forme sanzionatorie, sia un beneficio per tutti e non per pochi. Fiaccolata per ricordare irruzione Diaz Si svolgerà questa sera a Genova la fiaccolata per ricordare i fatti della scuola Diaz, avvenuti la notte del 21 luglio del 2001, durante il G8. L’irruzione delle forze dell’ordine si concluse con 93 arresti e 82 feriti, tre dei quali con prognosi riservate. La fiaccolata partirà da Piazza Terralba per raggiungere la scuola, in via Cesare Battisti. Tra i giovani arrestati che quella notte furono portati al carcere temporaneo di Bolzaneto c’era la figlia di Enrica Bartesaghi, oggi presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova. “La fiaccolata di questa sera ha un significato diverso rispetto agli anni precedenti. La sentenza della Cassazione, riconoscendo che ci sono stati dei colpevoli e rimuovendoli dai loro incarichi, ha in qualche modo ridato dignità ai 93 giovani che quella notte erano nella scuola. Quando è stata letta la sentenza di Cassazione - ha aggiunto Bartesaghi - mia figlia Sara ha detto: adesso finalmente dovranno credermi. Questa sentenza è stata una sorta di risarcimento morale per le parti civili e per tutti coloro che si sono resi conto di ciò che era accaduto quella notte e dei depistaggi successivi”. Giustizia: vietiamo per sempre ai corrotti di stare in politica e negli uffici Live Sicilia, 21 luglio 2012 La proposta del Garante dei diritti dei detenuti di Trapani, Lillo Fiorello, al Festival della Legalità in corso a Marinella di Selinunte: legare l’interdizione perpetua dai pubblici uffici alle condanne per corruzione. “Solo così, e non aumentando la pena di qualche mese, si crea un deterrente vero”. “In questi giorni si parla tanto dell’inasprimento delle pene per la corruzione e la concussione. Ma siamo sicuri che un anno in più di carcere sia un deterrente efficace? Credo che invece sia più utile inserire un automatismo, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per chi commette questi reati. Così un politico o un funzionario ci pensa due volte”. La proposta arriva dal Garante dei diritti de detenuti presso la Provincia di Trapani, Lillo Fiorello, intervenuto al quarto caffè letterario organizzato nell’ambito del “Festival della Legalità in tour” a Marinella di Selinunte: il dibattito è stato l’occasione per fare il punto sull’universo carceri, dal 41 bis alla rieducazione e al sovraffollamento. Fiorello, intervistato dal coordinatore di “S” Claudio Reale, si è soffermato ad esempio sul sovraffollamento delle carceri. “Costruire nuove carceri - afferma - non è la soluzione. Soprattutto non lo è costruire carceri fuori dai centri abitati: così si marginalizza il detenuto. Bisogna invece depenalizzare i reati minori e, appunto, fare ricorso alle pene accessorie, che possono essere un deterrente molto più di un lieve inasprimento della pena”. L’esempio viene dall’argomento del momento, la corruzione, rinfocolato a Palermo dalla polemica sulla vicenda che riguarda Alfredo Milani al Comune: “L’interdizione perpetua dai pubblici uffici - affonda Fiorello - è una condanna più temuta da politici e burocrati. A loro, in altre parole, sarebbe vietato votare e farsi eleggere, ma anche stare negli uffici, per sempre, e non solo per qualche anno come accade spesso oggi”. Il cuore del dibattito, però, ha riguardato il carcere duro. “Se si pensa al 41-bis come un mezzo per indurre i mafiosi a collaborare con la giustizia - spiega Fiorello - questa strategia ha evidentemente fallito. Da vent’anni a questa parte i mafiosi detenuti al 41-bis che hanno scelto di parlare con i magistrati sono stati appena 26”. Per i detenuti in regime di carcere duro, al momento circa 600 in tutta Italia, la proposta di Fiorello è l’equiparazione alle condizioni carcerarie di chi è in cella nei reparti di Alta sicurezza: “I penitenziari - dice il legale - hanno gli strumenti per controllare i detenuti anche senza costringerli a un trattamento che è stato giudicato più volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario ai diritti umani. D’altro canto, non è riducendo da tre a uno i colloqui con i familiari che si evita che arrivino ordini all’esterno”. Regime di alta sicurezza, quindi. “Non vedo perché - prosegue Fiorello - non si debba evitare allo stesso modo che ad esempio un detenuto per rapina comunichi con l’esterno. E infatti in condizioni di Alta sicurezza questo non avviene. La pena, con il 41-bis, è meramente afflittiva, ma la superiorità del diritto, la giustizia nel senso più alto, deve affermarsi nel rispetto dei diritti umani di tutti, anche dei detenuti”. Per Fiorello, poi, la presenza nel papello di una richiesta specifica legata al carcere duro non può essere un argomento per non alleggerirlo: “Non è fare un favore ai mafiosi - commenta - anche perché credo che quella richiesta fosse legata alle condizioni del periodo immediatamente successivo alle stragi, quando nelle carceri di Pianosa e dell’Asinara le condizioni carcerarie erano molto più dure di adesso. Nel tempo il 41-bis è stato alleggerito, ma adesso dobbiamo discutere di diritti, non di richieste dei mafiosi”. Lettere: pensieri sul carcere… www.estense.com, 21 luglio 2012 Sono una cittadina che per tristi motivi è venuta a contatto con la realtà del carcere ma mai e dico mai avrei creduto che fosse così dura la vita all’interno, che parenti e detenuti avessero così pochi diritti. Se nel carcere a Ferrara hai detenuto un parente puoi portare solo pane fresco e dico pane perché un trancio di pizza da forno non entra, non salumi affettati e formaggi duri (es. grana). Basta! Sapone detersivi spazzolino pentole… o qualsiasi altra cosa se possono la devono comperare là con prezzi non da discount ma da ricchi, sigarette NO tutto NO solo l’abbigliamento da casa. Le visite solo 6 ore al mese distribuite come vuoi nei giorni disponibili. Se hai bambini con la bella stagione c’è uno spazio verde dove c’è una parvenza di normalità, si gioca ci si siede a tavolino, un abbraccio, i detenuti portano acqua o succhi di frutta e pastine (il the no) per i figli e il tempo vola, ma l’inverno con i bimbi è triste, solo un bancone di marmo, lungo da muro a muro, panche sempre di marmo loro di là noi di qua e i bimbi che no correre no saltare perché in tutto quel marmo si possono fare male; brutto, molto brutto. Poi le altre regole sono quelle della legge ma qui a Ferrara ci sono anche le leggi interne e i regolamenti: la legge dice che se sei un tossicodipendente e hai una pena fino a 6 anni se ci sono le condizioni puoi andare in comunità ma a Ferrara NO, il Sert nostro dice che si sono dati una regola interna e si può andare solo quando maturi un residuo pena di 1 anno, quindi se tu hai 5 anni ti lasciano 4 anni in carcere a vegetare perché non si lavora tranne qualcuno, poi l’ultimo anno in comunità che secondo me a questo punto aiuta poco. Con questo momento di caldo infernale non è stata fatta nessuna concessione extra tipo non 1 ma 2 docce al giorno, ore d’aria non nelle ore di massimo caldo ma in ore più fresche … e ci diciamo civili… in celle 3x 4 sono in tre, porte sempre chiuse, intimità inesistente, una finestra dove speri passi un po’ d’aria, caldo soffocante. Danno i tranquillanti per non farli impazzire ma un ventilatore se lo vuoi costa € 40 + 5 euro al mese per la luce, giuro non capisco. La domenica sera non viene data la cena quindi se la famiglia ti passa un po’ di soldi compri e vivi dignitosamente e magari aiuti qualche compagno meno fortunato altrimenti ti arrangi come puoi. Tutto questo, ovvio, nel nome della riabilitazione dell’uomo, ma come potranno queste persone uscendo avere delle opportunità se non gli viene insegnato un lavoro, inseriti in un contesto di normalità, un aiuto concreto all’ inserimento in società; certo che una volta fuori o ti aiuta la tua famiglia o tanti per sopravvivere sono praticamente costretti a delinquere ancora; è vero che sono detenuti ma prima di sbagliare sono state persone come noi e sono padri fratelli figli e vorrebbero tornare ad esserlo: non varrà per tutti ma di certo per tanti non si nasce sbagliati, a volte sono le circostanze che ti fanno fare determinate cose e una volta pagato il tuo sbaglio dovresti avere pari opportunità… se fossimo un paese civile. Lettera firmata Lazio: finanziato un Corso di “guida sicura” per il personale di Polizia penitenziaria Dire, 21 luglio 2012 La Giunta regionale del Lazio ha approvato lo schema di protocollo d’intesa tra la Regione Lazio, il ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria - Provveditorato Regionale del Lazio ed il Garante dei detenuti del Lazio per l’attuazione del progetto “Corso di guida sicura 2012 per il personale di polizia penitenziaria”. “Con questo accordo - spiega l’assessore alla Sicurezza ed Enti locali, Giuseppe Cangemi - intendiamo avviare un progetto finalizzato alla preparazione e alla formazione di 140 operatori di polizia penitenziaria impiegati come autisti addetti alle traduzioni ed ai piantonamenti nell’ambito del territorio regionale. Un servizio che si occupa di tutti i detenuti che necessitano di uno spostamento dall’istituto a cui sono assegnati ad un altro, in aule di tribunali, in luoghi di cura o per l’esecuzione di misure alternative alla detenzione”. Per lo svolgimento dell’iniziativa la Regione Lazio ha stanziato circa 40mila euro. Durante i corsi verranno simulate le condizioni di pericolo riscontrabili sia nella guida di tutti i giorni che in condizioni di particolare pericolo o in condizioni metereologiche avverse. Il corso si svolgerà nei mesi di settembre - ottobre 2012 presso il Centro Aci-Sara. “Il nostro obiettivo - prosegue Cangemi - è quello di favorire in modo concreto il miglioramento delle condizioni di lavoro degli operatori penitenziari del Lazio L’intervento si inserisce nell’ambito delle politiche di intervento a favore delle carceri della nostra Regione che hanno visto questa Giunta fortemente impegnata sin dal suo insediamento, in collaborazione con il ministero della Giustizia e con il Garante dei detenuti del Lazio”. Sarà il Garante dei detenuti del Lazio a svolgere funzioni di mediazione tra la Regione Lazio, il Provveditorato Regionale del Lazio, le Carceri e gli operatori penitenziari per la realizzazione del corso. Aversa (Ce): Opg; compagno di cella gli diede fuoco, muore dopo 45 giorni di agonia Il Mattino, 21 luglio 2012 È morto l’altro pomeriggio, dopo aver passato l’ultimo mese e mezzo nel reparto di Rianimazione dell’ospedale Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta. Internato da anni all’Opg Filippo Saporito di Aversa, Pietro Di Vizio, originario di Terlizzi (Ba), 54 anni, era stato preso a calci e pugni da un suo compagno di cella, Sandro Imperiale, 28 anni, detenuto per tentato omicidio. A seguito di una lite scoppiata per futili motivi, il 5 giugno scorso il ventottenne aveva aggredito Di Vizio con una bomboletta di gas, di quelle utilizzate per i fornellini da campeggio in dotazione ai detenuti, provocandogli ustioni di secondo grado al viso e al corpo. Pur essendo sempre grave, l’internato ricoverato a Caserta era migliorato, ma delle complicanze respiratorie ne hanno determinato la morte. “È una morte cagionata da una vicenda dai contorni poco chiari, sui cui la magistratura dovrà fare chiarezza fino in fondo, onde accertare se una più diligente vigilanza sugli internati avrebbe evitato una simile sciagura. Appena dieci giorni fa, un internato è morto all’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto per avere inalato il gas della bomboletta - scrive in una nota il presidente di Antigone Campania, Mario Barone. Il regolamento penitenziario (Dpr 230/2000) consente a detenuti ed internati l’uso di fornelli. Se fosse però accertato che un compagno di stanza ha dato fuoco ad un altro portandolo alla morte, allora la domanda da farsi è se il detentore del fornello fosse nelle condizioni psicofisiche per detenerlo”. Se Pietro Di Vizio che era alla quarta proroga della misura di sicurezza (considerato quindi ancora socialmente pericoloso) ce l’avesse fatta, molto probabilmente sarebbe stato destinato ad una struttura ad esclusiva gestione sanitaria, di quelle che accoglieranno i destinatari di misure di sicurezza e che non sono ancora dimissibili, come prevede la legge 9 del 2012 sulla chiusura definitiva degli Opg. In provincia di Caserta entro il 31 marzo del 2013 l’Asl ne aprirà due, a Francolise e a Calvi Risorta. È pronta invece la sezione della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere destinata a imputati e condannati con infermità psichica sopravvenuta nel corso della detenzione e ai soggetti condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente: è un piccolo reparto di cinque stanze che doveva essere aperto entro il 31 marzo, ma è operativo da ieri. Sarà una valvola di sfogo importante per l’ospedale psichiatrico giudiziario dove erano tradizionalmente ristretti, a seguito di patologia psichiatrica sopravvenuta, anche i condannati provenienti dal carcere. “Attualmente questi sono la maggioranza dei rei presenti presso l’Opg Saporito - afferma Giuseppe Nese, coordinatore dell’Osservatorio permanente per la Sanità penitenziaria della Regione Campania e rappresentante del Comitato paritetico inter istituzionale che si occupa della dismissione degli Opg - e cioè 120 su 175 internati. Il numero dei prosciolti, ossia di chi ha compiuto reato essendo totalmente incapace di intendere e volere è invece diminuito molto grazie alle dimissioni e all’applicazione del principio di territorialità”. Firenze: 5 agenti a processo, avrebbero sottoposto 4 detenuti a violenze fisiche e psichiche di Massimo Mugnaini La Repubblica, 21 luglio 2012 Il gruppo di poliziotti nel 2005 avrebbe sottoposto a violenze fisiche e psichiche 4 detenuti colpendoli con calci, pugno e bastonandoli. È ripreso oggi a Firenze, nel bel mezzo della protesta dei detenuti di Sollicciano che si sta svolgendo in questi giorni, il processo al gruppetto di poliziotti penitenziari del carcere fiorentino che tra il settembre e il dicembre 2005 avrebbe sottoposto a violenze fisiche e psichiche almeno 4 detenuti italiani e immigrati colpendoli con calci, pugni, schiaffi e persino bastonandoli con manici di scopa in legno, fino a spezzarglieli addosso. Dopo la prima udienza di smistamento dello scorso dicembre, stamani il giudice Maria Dolores Limongi ha consentito che si costituissero parti civili nel processo le associazioni Antigone e L’Altro Diritto, rappresentate dall’avvocato Michele Passione, dopo due ore di camera di consiglio. Dei 5 presunti picchiatori, uno - che risultava “recidivo specifico” - è però nel frattempo deceduto. Gli altri 4 sono accusati dal titolare delle indagini, il pm Concetta Gintoli, di lesioni volontarie aggravate, abuso di poteri e violazione dei doveri inerenti la pubblica funzione e con l’arma. Secondo la procura, i cinque agenti avrebbe agito sia nelle celle dei detenuti che nell’ufficio del capoposto. Molte le presunte fonti di prova in mano all’accusa: una segnalazione del provveditorato regionale, una relazione ispettiva del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, gli accertamenti clinici e le testimonianze delle associazioni di volontariato presenti nell’istituto penitenziario fiorentino. Stamani sono stati anche sentiti 3 dei 25 testimoni che compariranno davanti al giudice. Si tratta del maresciallo che ha condotto le indagini e di due volontari delle associazioni. La prossima udienza è prevista per il 19 settembre. Sul processo incombe peraltro la prescrizione, prevista per settembre 2013. E sempre nella giornata odierna, alcuni esponenti radicali e dell’associazione Andrea Tamburi hanno esposto sul Ponte Vecchio uno striscione lungo 6 metri con la scritta “amnistia”. Obiettivo dell’iniziativa, hanno spiegato i promotori, denunciare “l’illegalità dello stato della giustizia e delle carceri nel nostro Paese”. Comunicato stampa di Antigone Le associazioni Antigone e L’altro diritto entrano come parte civile nel processo in corso a Firenze nei confronti di quattro agenti penitenziari accusati, in concorso tra loro e abusando dei poteri inerenti la loro funzione, di aver maltratto cinque detenuti ristretti nella casa circondariale di Sollicciano tra settembre e dicembre 2005. È stata infatti accettata oggi, durante la prima udienza dibattimentale del processo, la richiesta di costituzione delle associazioni avanzata dall’avvocato Michele Passione, insieme a quella di due dei detenuti coinvolti. Secondo la ricostruzione della Procura, che porta tra le altre fonti di prova la stessa segnalazione del Provveditorato regionale e la relazione ispettiva del Dap, oltre agli accertamenti clinici e alle testimonianze delle associazioni di volontariato presenti nella Casa circondariale, la “squadretta” agiva nell’ufficio del capoposto e nelle celle dei detenuti. Colpiva con calci, pugni e schiaffi, e in un’occasione anche con un manico di scopa in legno “sino a spezzarglielo addosso in più parti”. “Anche se fossero confermate tutte le accuse, i quattro agenti non rischiano molto: “Non più di due o tre anni - spiega l’avvocato delle associazioni, Michele Passione - ma il vero sforzo è quello di arrivare a sentenza prima che i reati si prescrivano, ossia nel giugno 2013”. “Si tratta di un’ennesima lotta contri i tempi della prescrizione” - dichiara Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone - “In assenza del reato di tortura nel nostro codice penale, infatti, come successo di recente in un analogo processo svoltosi a Lecce e che vedeva imputati nove agenti penitenziari, si rischia che il processo possa essere chiuso prima della pronuncia della sentenza”. “Vediamo se per la prima volta, a Firenze, si porta a processo, oltre ai fatti specifici di cui sono imputati i singoli agenti, anche il clima di intimidazione dei detenuti creato in quei mesi nel carcere di Sollicciano” - afferma Emilio Santoro, Presidente de L’Altro diritto - “Lo stesso che aleggia in molte carceri italiane e che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha considerato essere di per sé trattamento inumano e degradante”. Reggio Calabria: Sappe; manca personale, saltano processi nel reggino www.telereggiocalabria.it, 21 luglio 2012 “Negli ultimi giorni non si sono potuti celebrare alcuni processi a carico di detenuti ristretti negli istituti della provincia di Reggio Calabria a causa della mancanza di personale di Polizia Penitenziaria”. A riferirlo sono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e il segretario regionale dello stesso sindacato Damiano Bellucci. “La situazione di criticità - proseguono Durante e Bellucci - che oramai si protrae da tempo e che è determinata dalla carenza di personale di Polizia penitenziaria e della contemporanea celebrazioni di numerosi processi è stata da tempo segnalata sia agli uffici regionali dell’Amministrazione Penitenziaria, da tre anni privi di un Provveditore titolare, sia al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Allo stato l’unica iniziativa assunta, peraltro non condivisa dalla nostra organizzazione sindacale ed evidentemente non risolutiva delle problematiche esistenti, è stata quella di utilizzare il personale assegnato a Crotone per far fronte alle criticità della provincia reggina e del quale non si può non evidenziare, alla pari degli altri colleghi impiegati in regione, il quotidiano sacrificio che compiono al servizio del Paese e tra mille difficoltà utilizzando per viaggiare furgoni seppur senza detenuti, alzandosi tutte le mattine alle prime luci dell’alba per rientrare nella tardissima serata ed in alcuni casi anche in piena notte. Tutto ciò già sapendo, di dover ripartire la mattina seguente perché i servizi di missione si susseguono senza soluzione di continuità e senza la materiale possibilità di permettere il turn-over del personale interessato, impossibilitato a programmarsi la vita famigliare e sociale perché richiamato in servizio in continuazione e adesso anche dal congedo ordinario stante la recente disposizione del Provveditorato regionale di blocco del piano ferie estivo”. Per Durante e Bellucci “nei penitenziari calabresi la situazione è dunque sempre difficile non solo per il sovraffollamento dei detenuti che sono 3.000 di cui 67 donne a fronte dei 1890 posti disponibili ma anche per la mancanza di personale della Polizia Penitenziaria che è in continua diminuzione, infatti, nella provincia di Reggio l’istituto di Laureana di Borrello non è stato ancora dotato di una propria pianta organica mentre a Reggio, a fronte di una dotazione organica di Polizia Penitenziaria di 199 unità i presenti sono circa 175, e a Locri l’organico prevede 94 unità ma i presenti sono solo 65. A Palmi l’organico è fissato in 121 unità mentre i presenti sono circa 100”. Teramo: detenuti del carcere di Ascoli impiegati come giardinieri Il Centro, 21 luglio 2012 Nasce con la volontà di offrire nuova integrazione sociale e migliorare la qualità dei servizi esistenti, la convenzione tra il Comune di Sant’Egidio alla Vibrata e la Casa Circondariale di Ascoli Piceno. Si tratta di un progetto di recupero sociale per alcuni detenuti che svolgeranno piccoli interventi necessari alla valorizzazione, conservazione e custodia del territorio e del patrimonio comunale. Durante le “giornate ecologiche”, che ogni anno vengono svolte nel Comune vibratiano con l’utilizzo di alcuni detenuti impegnati nella pulizia del verde e della viabilità urbana, si è concretizzata la possibilità di avvalersi di alcuni soggetti, individuati dalla Direzione del carcere, per un piano di lavoro limitato ma continuativo. In particolare i detenuti svolgeranno le seguenti attività: piccoli interventi di potatura di cespugli e siepi; pulizia di aiuole, aree verdi e parchi; raccolta delle foglie; tinteggiatura di arredo urbano (panchine, cestini, ecc). Nello svolgimento del lavoro saranno seguiti e coordinati dall’ufficio manutenzione del Comune. La Casa Circondariale ne consentirà l’uscita dal lunedì al sabato, dalle ore 8.00 alle ore 13.30. “La convenzione che è stata firmata”, spiega il Sindaco Rando Angelini, “ vuole rispecchiare molteplici valori. È necessario far passare il concetto che il carcere è anche un luogo dove personale ed educatori, insegnano un percorso che porterà il detenuto ad un reintegro nella società. Alla luce di tutto ciò questi accordi sono fattori importanti perché tali insegnamenti e affermazioni non rimangano solo parole. Segnali rilevanti che riqualificano la figura umana, sostenendola a superare una situazione di difficoltà in favore di un costruttivo reinserimento nella società. Ma non solo”, continua il Sindaco Angelini, “Si ha, nel contempo, la possibilità di offrire e migliorare servizi rivolti alla cittadina”. Milano: nella Casa di Reclusione di Opera, lo sport negato…. e non si sa perché blogdellagiustizia.it, 21 luglio 2012 Per il torneo di pallavolo dentro il carcere erano arrivati stampa e personalità. E il vicedirettore aveva promesso: “Si farà anche basket e rugby”. Ma da allora tutto è fermo, senza spiegazioni. L’allenatrice, Marina Signorelli, non si dà pace: “Mi sembra di aver tradito i ragazzi”. Il 15 giugno di un anno fa, nella Casa di Reclusione di Opera, sono volati palloni di volley. E promesse. Quel giorno, al termine del torneo di pallavolo (quattro le squadre partecipanti, due di detenuti, due di ospiti) disputato alla presenza del coach della Nazionale italiana Mauro Berruto, Maria Vittoria Menenti, la vicedirettrice della casa circondariale più grande d’Italia, anticipò ai giornalisti presenti che l’attività sportiva si sarebbe presto ampliata al basket e in futuro magari anche al rugby, lo sport che ha introdotto la pratica del terzo tempo. Da allora, però, il sogno è rientrato nel cassetto: il corso di pallavolo Sportivi Dentro è stato cancellato. Niente pallavolo, niente basket, niente di niente. Per i detenuti del carcere di massima sicurezza non resta che rassegnarsi a 22 ore in cella, due di aria, come prevede la dura legge di Opera. Perché? “Non ho avuto l’onore di una spiegazione qualsiasi” risponde Marina Signorelli, docente di educazione fisica, undici anni di volontariato nelle carceri al fianco di Luigi Pagano, per 16 anni direttore di San Vittore, oggi vice al Dap, il Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria. “Lo scorso settembre - racconta - mi sono rivolta alla vicedirettrice per mettere a punto un piano di lavoro”. La reazione? “Non sprecare adesso energie per niente. Ecco le parole testuali che mi disse, rimangiandosi quanto dichiarato pochi mesi prima di fronte alla stampa, ad autorità politiche e a membri dell’amministrazione”. Ci sarà un motivo… “E chi lo sa? Ho spedito migliaia di email senza risposta. Ecco, vorrei che la dottoressa Menenti avesse il coraggio di guardarmi negli occhi e di spiegarmi perché si è rimangiata quelle parole”. Le richieste di chiarimento si sono finora infrante contro un muro di gomma. “Mi sono rivolta a due consiglieri regionali, Fabio Pizzul del Partito democratico ed Enrico Marcosa dell’Udc che avevano assistito al torneo. Entrambi mi hanno garantito il loro interesse”. In effetti Marcora e Pizzul, come prevede la legge, si sono recati al carcere di Opera dove sono stati ricevuti dal direttore Giacinto Siciliano ricevendo “ampie rassicurazioni”: tranquilli, tutte le attività riprenderanno entro gennaio 2012. Ma l’estate è arrivata, senza che si muovesse foglia. Indomita, Marina Signorelli ha bussato alla porta del dottor Antonino Porcino, successore di Pagano alla guida del Dap lombardo. La risposta? “Tranquilla, non ti preoccupare tesoro”. Correva il mese di marzo, naturalmente non è successo nulla. “Gigi Pagano - sospira - mi dice di tener duro. Ma deve far fronte ad emergenze di ogni tipo: nelle carceri manca la carta igienica. Ci sono otto magrebini, gente da cento chili e più, costretti a vivere in una cella due per tre. Però mi permetto di dire che un po’ di sport renderebbe la vita più sopportabile anche a quei magrebini… “. I risultati di nove mesi di lavoro del programma “Sportivi Dentro” sono stati senz’altro positivi. “Lavoravo con 25 persone in condizioni particolari: una sola guardia dentro la sua postazione, io da sola. Ho avuto risposte splendide, tipo quella di un detenuto che mi ha detto: professoressa, quando esco di qui mi dà una mano? Vorrei insegnare la pallavolo ai ragazzini… “. La fiducia, in un mondo così difficile e spietato, è merce che si conquista solo con una grande applicazione. “Bisogna essere puntuali, assidui e rispettare gli impegni. Tu non sei, mi dicevano, come tanti che vengono qui due o tre volte tanto per far vedere che s’interessano di noi poi scompaiono”. Parole amare, viste alla luce della situazione di oggi. “La cosa che più mi dispiace è di aver tradito, in un certo senso, la fiducia di questi detenuti. Senza che nessuno abbia il coraggio di spiegarmi il perché”. Non esistono ragioni di tipo economico, perché i costi, pur modesti, erano coperti dallo sponsor Edison. I due allenamenti pomeridiani alla settimana, comportavano l’impiego di una sola guardia. E allora? Quali possono le motivazioni dello stop? “Non so. Forse quell’attività piaceva troppo ai detenuti. Forse qualcuno ha deciso che non era giusto che queste persone godessero di uno spazio del genere. Del resto, anch’io ho commesso degli errori. Uno in particolare, è stato molto grave”. Cioè? “È successo il 19 dicembre del 2010, dopo pochi mesi di lavoro con i detenuti. Mi sono permessa, assieme ai miei assistenti, di portare due bibite e due panettoni per festeggiare il Natale. E tutti e tre portavamo il cappello di Babbo Natale con le stelline fosforescenti”. Qual è stato l’errore? “Semplice, abbiamo regalato i cappellini. Due detenuti per questo sono finiti in isolamento. Un terzo, che sta in galera da trent’anni, è stato lesto a rilanciarmi il cappellino prima che la guardia se ne accorgesse. Siano stati chiusi nello stanzone per 40 minuti. Poi sono andata in direzione”. E che è successo? “Il direttore Siciliano mi ha detto: dottoressa, mi meraviglio: qui non siamo a San Vittore”. Sassari: la rotonda è inagibile, niente Festa dei Candelieri a San Sebastiano di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 21 luglio 2012 La festa dei Candelieri non entra più nel carcere: perché la rotonda non è agibile e nessuno potrà ballare, quest’anno, attorno al Candeliere di San Sebastiano. In compenso, la direzione e la Penitenziaria stanno organizzando per venerdì prossimo il concerto dei Tazenda. È iniziato, invece, due giorni fa il graduale svuotamento del penitenziario che dovrebbe culminare con l’apertura del nuovo istituto di Bancali. Ma la prudenza, in estate, non è mai troppa. E prima di attendere che in via Roma la situazione diventi rovente a causa di caldo, sovraffollamento e saltuari blackout idrici, mercoledì 30 detenuti sono stati trasferiti a Tempio, nel penitenziario appena ultimato. Lo ha deciso il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Gianfranco De Gesu, nel duplice tentativo di aprire in via sperimentale la struttura di Nuchis e prevenire tensioni a San Sebastiano. In quella che viene riconosciuta come una delle peggiori galere d’Italia, si cerca di portare il numero di reclusi sotto quota 100, dagli attuali 160. Obiettivo ambizioso, se si pensa che fino a un mese fa erano oltre 215. Numeri a parte, è impensabile “stipare” tre esseri umani nei cubicoli, le celle di 7 metri quadrati, buie e bollenti, che tanto hanno scandalizzato operatori umanitari e parlamentari, ultimo il Pdl Mauro Pili che ha pronta una denuncia alla Procura. In alcune di quelle stanze di detenzione, soprattutto al II e III braccio, le pareti sono tappezzate di buste di immondizia nere, per coprire la muffa che sembra decomporre le pareti. Anche per le condizioni ormai difficili da sanare, la direzione del carcere ha svuotato il famigerato III braccio, quello degli stanzoni da 10 - 12 persone, il vecchio reparto promiscui dove nel novembre 2007 è avvenuto, secondo la Dda, l’omicidio del detenuto Marco Erittu. “L’intenzione del Prap è quello di inviare altri detenuti a Tempio”, spiega De Gesu, che da settembre scorso prova a risolvere il caso San Sebastiano. Qualche giorno fa, invece, era intervenuto il Dipartimento centrale per alleggerire il penitenziario sassarese, portando sulla Penisola 10 reclusi da via Roma, altrettanti sono stati trasferiti nelle colonie dell’isola. Non è abbastanza. Non nel caso di emergenze. La scorsa settimana la tensione è salita di nuovo - dopo la protesta del 22 giugno - perché ancora una volta, dopo una giornata con temperature proibitive, all’ora della doccia è mancata l’acqua. Ora la situazione sembra tornata alla normalità. Gli ultmi mesi di San Sebastiano (l’apertura di Bancali è prevista per fino anno) dipendono molto da una serie di fattori, come l’accordo nazionale tra Dap e sindacati sull’aumento dell’organico della Polizia penitenziaria previsto per le carceri sarde. A conti fatti, le caselle da riempire potrebbero essere 487 in più (sottratte agli organici di altre regioni). Ora si deve solo capire come farlo. I primi ad arrivare nell’isola, quasi esclusivamente a Tempio, saranno un centinaio di agenti di origini sarde che hanno chiesto di tornare a casa. Molto dipendente dall’incontro del 26 tra Dap - sindacati. Roma: consegnava droga ai detenuti di Regina Coeli durante le visite, arrestato Roma One, 21 luglio 2012 Portava droga nelle carceri di Regina Coeli e Rebibbia. Ieri mattina T.P.F. 26enne romano pregiudicato è stato arrestato al termine di accertamenti svolti dal Nucleo Investigativo Centrale della Polizia penitenziaria. Il ragazzo arrestato, un ventiseienne romano, era già conosciuto dalle forze dell’ordine e questo suo recarsi continuamente a “visitare” i detenuti di Regina Coeli e Rebibbia hanno insospettito la polizia penitenziaria. Per questo, il giovane è stato seguito nei suoi movimenti, finché non è arrivato il momento di scoprire il motivo di tante visite nelle carceri. L’indagine, coordinata dal pm Francesco Polino, trae origine da una serie di ritrovamenti di droga avvenuti nei penitenziari romani. L’uomo nel corso di una perquisizione è stato trovato in possesso di 60 grammi di cocaina, unitamente a una somma di denaro pari a 300 euro circa, probabile ricavati dall’attività di spaccio. In seguito al processo per direttissima, il ventiseienne è stato condannato a 2 anni e 4 mesi di reclusione da scontare in regime di arresti domiciliari presso l’abitazione dei genitori, nel quartiere Boccea. Droga e mafie, una sfida da vincere di Piero Innocenti Il Mattino di Padova, 21 luglio 2012 Nelle ultime settimane il tema della legalizzazione delle droghe è tornato di attualità, perché ritenuto essenziale per combattere le mafie del narcotraffico e la devastante violenza collegata al traffico delle droghe. Il dibattito sulla legalizzazione delle droghe riaffiora riacquistando un certo vigore in concomitanza con i resoconti annuali di organismi nazionali e internazionali. Sono del giugno scorso, il rapporto del World Drug Report 2012 sulla droga che circola nel mondo e il resoconto italiano della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga che “fotografa” quanto fatto nel 2011 in tema di contrasto al narcotraffico dalle forze di polizia e dalle dogane. Intanto ci si deve chiedere: quali droghe legalizzare? Secondo quali criteri? Chi dovrebbe fissarli? Quale purezza dovrebbe essere consentita? Dove dovrebbero essere vendute? Quanti “drogati” può “tollerare” un paese? Con la legalizzazione delle droghe si realizzerebbe un mercato il cui obiettivo finale, a lungo termine, sarebbe quello della libera produzione, distribuzione e consumo, ma con tassazione e controllo rigoroso dello Stato per ridurne gli effetti nocivi. In questo modo si sottrarrebbe alla criminalità organizzata il relativo mercato con la conseguenza di decapitalizzarla. Nel breve e medio termine, le droghe dovrebbero essere distribuite da strutture sanitarie, con prescrizione medica ed ulteriori controlli. Verrebbe meno la violenza che caratterizza il commercio illecito e che scaturisce dalle rivalità tra i vari gruppi criminali per accaparrarsi fette di mercato. La legalizzazione dovrebbe, inoltre, avvenire nel quadro di un concerto internazionale e riguardare tutti i paesi del mondo, altrimenti le organizzazioni criminali si concentrerebbero per i loro affari nei paesi proibizionisti. I problemi di criminalità che rimarrebbero (rifornimento abusivo dei minorenni, un eventuale mercato parallelo a più basso costo di quello ufficiale), sarebbero più facilmente affrontabili rispetto al potere criminale oggi gestito dai narcotrafficanti. Il sistema di legalizzazione dovrebbe prevedere divieti di assunzione per determinate categorie (minori, donne in gravidanza, operatori di pubblici servizi, piloti d’aereo, conducenti dei mezzi di trasporto, ecc.). La legalizzazione determinerebbe una diminuzione dei delitti collegati alle droghe e un significativo svuotamento delle carceri (a metà del 2012, nei 205 istituti penitenziari italiani, il 25% dei reclusi si è dichiarato tossicodipendente, numero che sale al 50% se si sommano i non tossicodipendenti arrestati per spaccio). Non mancano le obiezioni, naturalmente: in un mercato legale aumenterebbero i pericoli per la salute (epidemia da consumo di droghe) e, quindi, delle spese sanitarie (già sei anni fa il Cnr valutò in oltre 4 miliardi di euro la spesa in Italia per il consumo di cocaina). La legalizzazione potrebbe comportare un incremento rispetto agli attuali consumi di droghe (come avvenne negli Usa, nel 1933, con la fine del proibizionismo degli alcolici). Si aggiunga, infine, che un’alta percentuale della popolazione (in generale quella più “adulta”) è contraria alla legalizzazione delle droghe, influenzata, in ciò, dai condizionamenti ideologici, culturali e sociali. Eppure, moltissimi e autorevoli esponenti delle forze di polizia, politici di alto rango, magistrati, esperti analisti della criminalità, sono convinti che la “guerra alla droga”, iniziata oltre mezzo secolo fa, nelle forme in cui è stata combattuta sinora, debba considerarsi perduta. Se ne vanno convincendo anche i Governi di diversi paesi che, al tempo stesso, attuano la politica del rigore in quanto più in sintonia con il sentimento della maggioranza della pubblica opinione. Senza un tale consenso, dunque, la politica non avrà mai il “coraggio” di affrontare il tema della legalizzazione delle droghe. Con grande soddisfazione delle mafie internazionali (quelle italiane in prima fila), che da quel commercio continuano a trarre ingentissimi profitti, inquinando economie e istituzioni di molti paesi, incluso il nostro. Droghe: 22 mila i tossicodipendenti in carcere, allo studio soluzioni Ansa, 21 luglio 2012 In Italia i tossicodipendenti in carcere nel 2011 erano 22.413, pari al 29% del totale dei detenuti. Numero peraltro in diminuzione rispetto all’anno precedente (erano 24.008). I dati sono stati resi noti da Giovanni Serpelloni, capo del Dipartimenti antidroga nel corso di un incontro a Washington con West Huddleston giudice e coordinatore nazionale della Nadcp, l’Associazione Nazionale dei giudici americani delle Drug Court, tribunali speciali per reati connessi all’uso di droghe pensati negli Usa per incentivare la riabilitazione ed evitare la carcerazione dei tossicodipendenti. L’incontro è servito anche per verificare la possibilità di realizzare in Italia questi particolari tribunali. Parlando del numero dei tossicodipendenti in carcere, Serpelloni ha detto: “Vorremmo che diminuisse ancora e che si potessero attivare programmi alternativi alla reclusione ancora prima dell’entrata in carcere già durante i processi per direttissima. Un ulteriore recente studio nazionale del Dpa condotto con le regioni ha rilevato che la percentuale di veri tossicodipendenti (cioè diagnosticati secondo criteri diagnostici scientifici) è del 19,4%”. Serpelloni nominato giudice onorario delle “Drug Courts americane” Discutere della fattibilità anche in Italia delle Drug Courts, (tribunali speciali per reati connessi all’uso di droghe per incentivare la riabilitazione ed evitare la carcerazione dei tossicodipendenti). È l’argomento affrontato nell’incontro tra Giovanni Serpelloni, capo del Dpa, e West Huddleston giudice e coordinatore nazionale della Nadcp (Associazione Nazionale dei giudici americani delle Drug Courts) referente del governo americano. Si sono approfondite e confrontate le strategie di cooperazione internazionale dei due Paesi per la gestione dei programmi di prevenzione e dei modelli alternativi al carcere per le persone tossicodipendenti. Si è parlato di ciò che attualmente è attivo negli Stati Uniti e della possibilità di scambio di buone pratiche e programmi innovativi di prevenzione, trattamento e reinserimento delle persone tossicodipendenti al fine di evitare loro il carcere. In Italia, ha spiegato Serpelloni, ai colleghi americani, i tossicodipendenti in carcere nel 2011 sono risultati essere 22.413 Unità, che corrispondono al 29% del totale dei detenuti. Questo numero peraltro è in diminuzione rispetto all’anno precedente (dato precedente 24.008), ma vorremmo che diminuisse ancora e che si potessero attivare programmi alternativi alla reclusione ancora prima dell’entrata in carcere già durante i processi per direttissima. Un ulteriore recente studio nazionale del Dpa condotto con le regioni ha rilevato che la percentuale di veri tossicodipendenti è del 19,4%. Serpelloni ha poi aggiunto che, al contrario degli Stati Uniti dove chi usa sostanze può essere carcerato, l’uso di sostanze stupefacenti in Italia non è un reato penale e quindi non è previsto l’arresto ma solo l’applicazione di sanzioni amministrative. I tossicodipendenti quindi attualmente carcerati, lo sono per reati connessi al traffico, allo spaccio, alla produzione illegale o ad altri gravi reati ma non per l’uso. È stato anche evidenziato come il problema droga e carcere in Italia sia stato indicato prioritario dal ministro Riccardi fin dall’inizio del suo mandato. Durante l’incontro Serpelloni è stato nominato da West Huddleston “giudice onorario” delle Drugs court della Nadcp “per l’interesse e la leadership dimostrata a livello internazionale sul problema carcere e droga e attivazione delle pene alternative sul modello delle drugs court americane”. “Sono molto onorato della nomina ricevuta - ha dichiarato Serpelloni - siamo molto interessati al modello delle Drug Courts e abbiamo chiesto e ottenuto dai rappresentati della Nadcp di collaborare strettamente con il Dpa per cercare con uno sforzo congiunto di portare a compimento questo progetto pilota anche nel nostro Paese. L’esperienza americana insegna, che numeri alla mano, questo modello può produrre una risoluzione dell’uso di sostanze fino al 75% nelle persone trattate, con un risparmio enorme di costi e di sofferenza per la società e per il singolo individuo”. Il giudice West Huddleston, ha poi aggiunto; “sarà onorato di collaborare con il Dpa per rendere fruibile la nostra esperienza e il modello delle Drug Courts anche per il vostro Paese oltre che per altri paesi europei quali l’Inghilterra e il Belgio”. Siria: rivolta dei detenuti nel carcere di Homs, circondato da carri armati Tm News, 21 luglio 2012 Una rivolta è in corso nella principale prigione della città siriana di Homs, dove i detenuti hanno preso possesso di un’ala del carcere dopo che le guardie hanno abbandonato i loro posti: lo hanno reso noto fonti dell’opposizione siriana, che temono “un massacro” da parte dell’esercito, intervenuto per ristabilire l’ordine. Il carcere è stato infatti circondato dai carri armati, che hanno aperto il fuoco contro l’edificio: i morti sarebbero almeno quattro, secondo le fonti; nella prigione si troverebbero almeno 3mila detenuti, molti dei quali arrestati per reati politici dopo lo scoppio delle manifestazioni antigovernative, nel marzo del 2011. Libia: nelle carceri si spara e si picchia con mazze di ferro La Repubblica, 21 luglio 2012 Il racconto di padre Moses Zerai, direttore dell’agenzia umanitaria eritrea Habeshia. Un ragazzo di 18 anni è stato raggiunto da un proiettile all’addome e un altro colpito in faccia da una sbarra di ferro perché chiedevano cibo e acqua. Picchiate anche donne in gravidanza. I carcerieri vogliono imporre il digiuno del Ramadan Oggi la polizia libica, nel carcere di Sibrata Mentega Delila (Tripoli), non ha esitato a sparare contro profughi affamati che chiedevano cibo. Lo fa sapere padre Moses Zerai, direttore dell’agenzia umanitaria Habeshia, in contatto diretto attraverso i cellulari con le persone rinchiuse nel penitenziario libico. Un ragazzo di 18 anni è stato colpito all’addome, ora è in ospedale, dove è stato presentato come un mercenario di Gheddafi, mentre lui è solo un giovane richiedente asilo politico Eritreo. Un altro di 19 anni è stato colpito all’orecchio con una sbarra di ferro, tutto questo perché i detenuti di Sibrata Mentega Delila chiedono qualcosa da mangiare e acqua, ormai da due giorni, senza avere risposta. Questa mattina hanno subìto maltrattamenti anche alcune donne in stato di gravidanza, i carcerieri hanno tirato loro addosso delle sedie di ferro, perché urlavano vedendo il sangue del giovane colpito da proiettile e l’altro che sanguinava dall’orecchio colpito dalla sbarra di ferro. Questo gruppo di persone rinchiuse nel carcere libico è composto da 350 persone, di cui 50 donne, 6 delle quali in stato di gravidanza, una di loro deve partorire tra due settimane. Ci sono anche 2 bambini, di cui uno di 1 anno e mezzo, che ha bisogno di cure mediche. Sono tutti nelle celle del carcere che si trova a poca distanza da Tripoli. Gli abusi e le violenze che subiscono vengono loro inflitte da militari, che costringono tutti, anche i non musulmani, a rispettare il mese di digiuno previsto dal Ramadan, cominciato il 20 luglio e che si concluderà il prossimo 20 agosto. Chi si rifiuta viene picchiato brutalmente, come successo oggi. Oltre a tutto il resto, viene violata anche la libertà religiosa di queste persone, viene oltraggiata sistematicamente la loro dignità. Le autorità libiche - è l’appello del direttore di Habeshia - devono fermare queste violenze e tortura quotidiana a cui sono sottoposti questi profughi. “Facciamo appello al governo italiano, in virtù dei loro accordi bilaterali con la Libia, affinché chiedano alle autorità libiche di fermare ogni abuso e violenza nei confronti dei profughi eritrei e di tutti gli altri detenuti, la cui vita è in pericolo. È diventato urgente - ha aggiunto padre Zerai - che questi richiedenti asilo siano presi in consegna immediatamente dell’Unhcr di Tripoli. Chiediamo il rispetto della liberta religiosa, e che si impedisca ogni forma di tortura nei confronti di persone che chiedono solo asilo”. Medio Oriente: Gaza, Hamas scarcera 159 detenuti come “regalo” per ramadan Agi, 21 luglio 2012 Hamas ha annunciato che scarcererà nel complesso 159 persone attualmente detenute nelle prigioni della Striscia di Gaza come “dono” da parte del premier Ismail Haniyeh, leader locale del gruppo radicale palestinese, in occasione del Ramadan: il mese sacro islamico riservato alla preghiera e al digiuno diurno, iniziato ieri nella piccola enclave. Nel renderlo noto un portavoce del ministero dell’Interno della Striscia, Islam Shahwan, ha precisato che i beneficiari sono tutti criminali comuni, intendendo dunque che non potranno godere del provvedimento i prigionieri politici. Da quando prese il potere con la forza a Gaza, a metà del giugno 2007, ogni anno Hamas replica la misura di clemenza.