Giustizia: non si muore di carcere, si muore per inciviltà di Maurizio Artale Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2012 Il “turismo carcerario” dei politici, nei mesi estivi, paradossalmente può essere più proficuo se travalica la norma che lo regola, infatti tanto scalpore ha creato la visita fatta al detenuto Provenzano dal deputato europeo Sonia Alfano e dal senatore della Repubblica Beppe Lumia. I due politici, durante la loro visita, hanno consigliato al “detenuto eccellente” di fidarsi dello Stato e con un atto di pentimento giudiziario fare luce su 50 anni di storia di mafia in Sicilia. Questo è quello che abbiamo saputo della loro visita, ma niente è stato pubblicato sulle condizioni fisiche del detenuto e lo stato in cui versa il carcere nel quale è recluso. Colpa del giornalista che ha scritto l’articolo? Chissà. Credo che dovremmo far circolare più informazioni di come si vive in carcere, di come un detenuto “anonimo” vive in carcere, di come ogni attività che i Direttori riescono a realizzare, con i mezzi che hanno, serve ad interrompere l’apnea della detenzione, si, perché seppur necessaria, in alcuni casi, la detenzione è un’apnea. Può un’ istituzione dello Stato, come il carcere, creato per la rieducazione del reo, fare morti quanto la criminalità comune o la criminalità organizzata? Negli ultimi dodici anni 2000 - 2012, 2.033 detenuti sono morti in carcere per incidenti o suicidi; la criminalità organizzata nello stesso periodo ne ammazza 1.379 mentre 593 sono vittime della criminalità comune (dati dell’osservatorio delle morti in carcere). Ma questi detenuti erano stati condannati a morte o ad una pena rieducativa e riabilitativa che li avrebbe riconsegnati alla società pronti per riprendere il percorso rovinato da un reato che a sua volta aveva cambiato o addirittura distrutto la vita di altri? Tra un bagno e l’altro, tra una bibita rinfrescante e una lettura di un settimanale di gossip sotto l’ombrellone, pensiamo a cosa possiamo fare affinché tutto questo continui a non accadere più. Bastava poco per non far morire Costa Ngallo di 50 anni (pena residua 4 anni) o Chennj Rhee He di 48 anni (pena residua 10 mesi), entrambi morti perché nessuno gli ha offerto un luogo dove poter scontare la loro pena in maniera alternativa fuori dal carcere. Si spendono centinaia di milioni di euro per finanziare associazioni per progetti che servono a loro stesse anziché finanziare o potenziare strutture ed enti che si occupano di detenuti. Prendersi cura di chi ha commesso un reato, qualsiasi esso sia, non significa dimenticare le loro vittime con i loro familiari, sino a quando questo concetto non sarà compreso da tutti non ci saranno carceri migliori, allora “ammazziamoli tutti”. Giustizia: uno sguardo alla condizione delle carceri in Italia. Le iniziative di Sant’Egidio www.santegidio.org, 21 agosto 2012 È nota la condizione dei 67 mila detenuti delle carceri italiane, costretti a vivere in istituti penitenziari che hanno una capienza complessiva di 45mila posti. In questa estate infuocata in carcere tutto diventa più difficile. Il caldo è un motivo di malessere in più e va ad aggravare il sovraffollamento già patito da lungo tempo. D’estate le prigioni cambiano, tutto è fermo: chiuse le scuole, le attività e i servizi ridotti al minimo o sospesi, i tribunali fermi, molti operatori in ferie e le visite dei familiari si diradano, talvolta anche la liturgia non è sicura per la carenza di cappellani. Non resta che aspettare una notizia, una lettera, una visita. Chi è malato fa i conti con le ferie dei medici e degli infermieri. La fragilità, il disagio, la malattia causano numerosi gesti di disperazione, come quelli che si sono verificati in questi mesi in tante carceri d’Italia. Il Ministro della Giustizia Paola Severino, in seguito al suicidio di un ragazzo tunisino affetto da disturbi psichiatrici, ha visitato il carcere di Regina Coeli per incontrare i detenuti, per rendersi conto personalmente delle reali condizioni e prendere alcuni impegni. In questa difficile situazione abbiamo intensificato l’aiuto, le visite, gli incontri nelle carceri. Tante iniziative nelle carceri di Roma, di Napoli, di Firenze: feste, concerti e cocomerate, e in Liguria nelle carceri di Genova di Chiavari, Imperia e Savona, e in Piemonte nel carcere di Vercelli con distribuzioni di generi di prima necessità a chi non ha ciò che serve per vivere dignitosamente. Quest’anno incontri anche con i detenuti delle carceri pugliesi di Foggia, Trani e Lecce e nel carcere più grande della Sardegna, quello di Cagliari. Sono momenti di ristoro, che fanno sentire di non essere dimenticati e accendono la speranza nel futuro. Ma i detenuti e le detenute non chiedono solo di essere aiutati, ma anche di essere utili agli altri, ad esempio ai terremotati dell’Emilia. Le donne del carcere di Pozzuoli, in sciopero della fame per una settimana, hanno fatto sapere alla Comunità di Sant’Egidio: “Vogliamo che il nostro sacrificio non significhi buttare via quello che può essere importante per chi è povero: tutto il cibo che non consumeremo vogliamo regalarlo a voi perché lo portiate ai poveri di Napoli, agli anziani e a chi vive per strada.” Per una settimana gli anziani e i poveri senza casa hanno mangiato mozzarelle, formaggio, meloni, carote, melanzane, peperoni, latte e mortadella. Tutto preparato con cura dalle detenute. Nelle carceri italiane prosegue da tre anni ormai l’impegno per la campagna “Liberare i prigionieri in Africa”, sostegno concreto a chi come loro è prigioniero, ma nelle terribili carceri africane, dove manca tutto e il rischio di morire è molto alto. Le foto di prigionieri con le catene alle caviglie e le immagini delle celle, dove, viene spiegato, non tutti possono sdraiarsi contemporaneamente in terra per dormire, hanno un forte impatto su chi vive l’esperienza dura della privazione della libertà. La drammatica condizione dei prigionieri africani è percepita dai detenuti come ingiusta e intollerabile. Essi rispondono con grande sensibilità e offrono generosamente il poco che hanno per aiutare chi vive così miseramente. Al contempo nei prigionieri africani è grande l’apprezzamento di questo aiuto che viene da chi soffre la stessa prigionia. Questa solidarietà che dalle carceri italiane raggiunge quelle africane ha dato buoni risultati: molti hanno potuto mangiare e ricevere il dono del sapone, per altri è stato pagato il riscatto e sono stati liberati. Davvero anche chi è povero può aiutare chi è più povero. La campagna, come ben precisato in una lettera scritta dai detenuti di Regina Coeli, vuole creare con tante piccole “gocce”, un oceano di solidarietà.ù Giustizia: per le carceri in arrivo un disegno di legge ad hoc? www.leggioggi.it, 21 agosto 2012 Il ministro della Giustizia Severino annuncia per settembre un disegno di legge pro carceri: salute e alternative alla detenzione le priorità. Agenda già fitta per settembre in Parlamento: oltre alla seconda fase della spending review, l’unificazione dei testi pro esodati e le misure di abbattimento del debito pubblico, tra gli impegni già fissati per fine estate ai nostri rappresentanti piomba anche un disegno di legge per sbloccare la melmosa situazione delle carceri italiane. La conferma è arrivata dal ministro della Giustizia Paola Severino che, in visita in uno dei luoghi simbolo del sistema carcerario italiano, il complesso di Regina Coeli a Roma, ha aggiunto una nuova, importante tappa al suo tour nelle carceri, per constatare di persona le condizioni dei detenuti. E in occasione di uno degli istituti più famosi d’Italia è stato confermato per l’autunno l’atteso progetto di riforma dei penitenziari italiani, vessati da sovraffollamento, condizioni spesso precarie per i detenuti e percorsi riabilitativi spesso abortiti. E proprio per sanare queste ferite dovrebbe essere messo a punto, secondo gli auspici del ministro Severino, un testo finalmente attento alle esigenze della folta popolazione carceraria. L’annuncio del Guardasigilli, secondo i resoconti della visita, è stato preceduto (e seguito) da un’ovazione da parte dei detenuti, che hanno inneggiato al pragmatismo dell’ospite d’onore, in particolare quando ha promesso di voler agire soltanto nei confronti dei carcerati nell’esclusivo nome della “concretezza”. Aspetto certamente prioritario della riforma delle carceri, come ha avuto modo di riconoscere la stessa Severino nella sua visita a regina Coeli, è mettere a punto un sistema sanitario efficiente nelle case circondariali di tutto il Paese. Problemi di malattie depressive, dovute alla condizione di prigionia e di distacco dalla società e dagli affetti, sono solo la punta dell’iceberg per stutture che, in molti casi, non riescono a rispondere neanche alle esigenze più comuni dei detenuti in fatto di salute. Ne è un esempio proprio Regina Coeli, istituto che si fregiava di un centro clinico dotato di ben due sale operatorie, oggi non attive, ma che dovrebbero ripartire con la nuova legge. A fianco a questi servizi di medicina, poi, verranno approntate pratiche di assistenza e di sostegno psicologico per i detenuti, spesso provocati dalla lentezza del sistema giustizia che lascia tanti imputati dietro le sbarre in attesa di una sentenza che non arriva mai. Una condizione di assoluta incertezza, che molti detenuti devono vivere nell’ambiente carcerario pur non avendo ottenuto condanna formale per le accuse ricevute. Per chi, invece, la condanna l’ha ricevuta e sconta la pena in attesa di ritornare un libero cittadino, il ministro della Giustizia ha chiarito come il progetto di riforma dell’ordinamento carcerario non potrà prescindere dall’inserimento di strumenti alternativi alla mera detenzione in cella, che prevedano anche periodi di prova presso i servizi sociali e, naturalmente, gli arresti domiciliari. Questo, è facile prevedere, porterà anche a una riduzione dei detenuti in carico al sistema carcerario italiano, soprattutto per quanto concerne le pene più brevi. Per saperne di più, non resta che aspettare la fine di settembre, termine entro il quale Paola Severino ha assicurato che verrà predisposto e mandato all’esame delle Camere il disegno di legge promesso. Giustizia: Desi Bruno; per le carceri servono insieme amnistia indulto e riforme Ristretti Orizzonti, 21 agosto 2012 Bene l’introduzione dell’istituto della messa alla prova e pene detentive non carcerarie, ma servirà ad evitare nuovi ingressi non a ridurre le attuali presenze. Servono insieme amnistia indulto e riforme. Tra le recenti proposte all’esame del Parlamento, tra cui il disegno di legge “Delega al governo in materia di depenalizzazione, sospensione del procedimento con messa alla prova, pene detentive non carcerarie, nonché sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili”, presentato dal ministro di Giustizia Severino già nel febbraio 2012, ed ancora in esame, va condiviso l’inserimento dell’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, di cui si parla da anni e anche nella passata legislatura era stato oggetto di un tentativo fallito di introduzione nell’ordinamento, così come condivisibile l’introduzione di pene detentive non carcerarie, anche se con qualche timidezza quanto a limiti edittali. Ciò che però è importante è che si tratta di misure che anticipano, almeno si spera, una riforma più completa del sistema sanzionatorio e del sistema penale nel suo complesso. Non a caso le misure che si vogliono introdurre erano già previste nei progetti ultimi di riforma del codice penale Nordio e Pisapia. In questo senso si muove anche la prevista depenalizzazione di tutti i reati puniti con pena pecuniaria. Di rilievo è anche la proposta di sospendere i processi a carico degli irreperibili con le modalità previste nel disegno di legge, che risolve un problema ripetutamente portato anche all’attenzione della Corte europea per la mancata conoscenza dell’esistenza di un procedimento a carico da parte di molte persone poi condannate. Queste riforme sono importanti ma deve essere chiaro che non incideranno sull’attuale perdurante sovraffollamento, ma influiranno positivamente sulla diminuzione, in futuro, degli ingressi in carcere. E certamente non è poco, ma non basta. Si deve ancora consolidare fino in fondo l’idea che la risposta punitiva nella forma della carcerazione dovrebbe riguardare solo quei casi in cui vengono lesi beni di primaria importanza, con una diversa tipologia di sanzioni, più efficaci e al contempo idonee a ridurre la sanzione detentiva, a fronte di una popolazione carceraria che attualmente è costituita da cosiddetta detenzione sociale nella misura del 80%, ovvero da persone che vivono uno stato di svantaggio, disagio o marginalità (immigrati irregolari, tossicodipendenti, emarginati) per le quali, più che una risposta penale o carceraria, sarebbero più opportune politiche di prevenzione e sociali appropriate, e ancor prima che è intollerabile la presenza di persone in custodia cautelare per oltre il 40% della popolazione detenuta. I segnali in questi mesi si sono manifestati, come la confermata apertura del Ministro Severino all’amnistia, e la lettera firmata dal Prof. Pugiotto e da 120 docenti universitari indirizzata al Capo dello Stato, a sostegno di provvedimenti di amnistia e indulto che devono accompagnare un percorso complesso e articolato di riforme nel settore giustizia, capace di risolvere il dramma del carcere senza gli errori del passato quando, a inevitabili e condivisibili provvedimenti di clemenza, nulla è stato affiancato in termini di riforme strutturali. Oggi si deve cambiare, e quindi sì ad amnistia e indulto, accompagnati davvero dalla riforma del codice penale; dalla revisione della legislazione in tema di stupefacenti, immigrazione, recidiva; dalle modifiche al codice di rito. Le proposte sono ormai studiate e articolate da tempo. Solo così si potrà ripartire con molte migliaia di presenze in meno, risolvendo anche in parte il problema dell’organico della Polizia Penitenziaria, e ridimensionare fortemente quel Piano-carceri che ha previsto, anche in Emilia Romagna, la costruzioni di padiglioni per affrontare il sovraffollamento. Le risorse a ciò destinate, almeno in parte, potrebbero essere utilizzate alla ristrutturazione e alla messa a norma delle strutture esistenti e reimpiegate per finalità di reinserimento delle persone detenute. Avv. Desi Bruno Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per la Regione Emilia-Romagna Giustizia: Violante (Pd); amnistia non risolve problemi delle carceri, il fascismo ne fece 51 Adnkronos, 21 agosto 2012 Senza speranza in carcere si muore e in carcere la speranza si chiama lavoro. L’amnistia non è una soluzione, perché sposta il problema che, comunque, si ripresenterà. Sono gli elementi emersi oggi al Meeting di Cl a Rimini nel dibattito “Vigilando redimere. Quale idea di pena nel XXI secolo” nel corso del quale si sono confrontati magistrati, operatori del terzo settore attivi nella realtà carceraria e Luciano Violante, rappresentante di quel mondo politico che i problemi della detenzione dovrebbe provare a risolvere. Proprio l’ex presidente della Camera (autore di un intervento molto apprezzato dalla platea ciellina), ha messo i piedi nel piatto sostenendo che al “disumano” sovraffollamento degli istituti di pena non si può rispondere a colpi di amnistia. “Nel ventennio, il fascismo ne fece 51. Io sono contrario perché penso non sia la soluzione al problema: fatta l’amnistia le cose si sistemano per 4 - 5 anni e poi il problema si ripropone, peggio di prima”. Conclusione: “non possiamo limitarci a fare la manutenzione dell’orrore”, chiosa l’ex presidente della Camera. La causa di tutti i problemi, aggiunge Violante, “è che oggi tutto è declinato al presente e non si programma più il futuro”. Si guarda solo all’ordinarietà dei problemi e la soluzione che, allo stato delle cose sembra un’utopia, è evitare che i carceri si riempiano e che quindi, chi esce dopo aver scontato la pena non ci rientri. Ma in tutto il mondo la questione della recidività è diventato un problema colossale. Il vero nodo da sciogliere. “In Italia - ha ricordato Nicola Boscoletto, presidente del consorzio Rebus che gestisce un’esperienza di lavoro all’avanguardia nel carcere di Padova - la recidività è il 90%. Vuol dire che solo un detenuto su 10 una volta fuori dal carcere, non ci ricasca”. “Ma se ai detenuti si dà modo di redimersi affidandogli un lavoro - ha affermato Tomas De Aquino Resende, magistrato brasiliano dello Stato de Minas Geiras - insegnando loro un mestiere e non costringendoli a vivere nell’ozio 22 ore al giorno, la percentuale dei recidivi crolla al 10%”. Alla collettività conviene che un detenuto non inciampi nuovamente nella giustizia. Lo Stato spende 250 euro al giorno per ogni detenuto che, ha rimarcato ancora Boscoletto, in 10 anni costa un milione di euro. “In base alla popolazione carceraria - ha aggiunto ancora - lo Stato destina solo 18 centesimi al giorno per far funzionare i progetti di lavoro e di recupero dei detenuti. I soldi ci sarebbero pure, se si pensa che il progetto dei braccialetti elettronici, mai entrato a regime e sperimentato solo su 14 detenuti, è costato allo Stato 110 mln di euro”. I morti sono la drammatica conseguenza del sovraffollamento, ma anche dell’inedia e della mancanza di speranza che si vive ogni giorno tra le mura del carcere. Quest’anno, hanno riferito nel corso del convegno, sono già 44 quelli che si sono suicidati: 37 detenuti e 7 agenti. Dal 2000 ad oggi il bilancio è di 825 suicidi, come ha sottolineato Giovanni Maria Pavarin, presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia, l’Italia potrebbe copiare la Norvegia che non intasa i propri istituti di pena per legge. “Se mancano i posti - ha raccontato - i detenuti fanno la fila: ossia in carcere ci vanno quando si libera un posto”. Per alleggerire il carico di lavoro permettendo ai magistrati di occuparsi dei detenuti in attesa di giudizio si dovrebbe poi evitare di processare chi è latitante: “che senso ha - ha domandato in conclusione - processare e condannare chi non c’è?”. Giustizia: Pagano (Dap); caldo e sovraffollamento, impegno per alleviare disagi a detenuti Adnkronos, 21 agosto 2012 Il caldo e il sovraffollamento delle celle, un binomio insostenibile che rischia di aggravare la già difficilissima situazione delle carceri italiane. Ecco perché, in questi giorni caratterizzati dalle temperature record causate dall’anticiclone “Lucifero”, al Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) si sono posti il problema di “aumentare, ai massimi livelli consentiti dalle esigenze di sicurezza, i momenti di socializzazione esterna e di apertura delle celle”, dice all’Adnkronos il vice direttore del Dap, Luigi Pagano. “Non sarà un’iniziativa limitata a questi giorni di grande caldo. Al contrario - continua Pagano - lavoreremo per far sì che queste novità siano portate al più presto a regime ordinario, seguendo le linee programmatiche che prevedono la regionalizzazione dei circuiti penitenziari, la differenziazione degli istituti, con la previsione di regimi di detenzione più aperti, la promozione di attività lavorative esterne, la formazione e l’istruzione”. Pur in una situazione di grave sovraffollamento, “il numero dei detenuti è sceso intorno alle 65mila unità, una cifra che non si raggiungeva da due anni. Se il decremento, lieve ma costante, si manterrà anche nei prossimi mesi - osserva - la situazione diventerà via via più sostenibile. Sarebbe importante il varo definitivo delle misure legislative che prevedono un maggior ricorso alle misure alternative alla detenzione in carcere”. Giustizia: Associazione Antigone; nelle carceri carenza d’acqua e sovraffollamento Adnkronos, 21 agosto 2012 Il problema del sovraffollamento delle carceri italiane “non si è attenuato rispetto allo scorso anno e, ovviamente, diventa ancora più grave considerando le alte temperature”. È quanto denuncia all’Adnkronos Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio Antigone, dopo le visite a diversi istituti di pena avvenute quest’estate. “Il dato più rilevante emerso dalle visite nelle carceri è certamente il sovraffollamento. Inoltre c’è il problema grave della carenza di acqua in molti penitenziari - prosegue Scandurra - e in generale, dei pochi fondi per soddisfare anche bisogni minimi come l’imbiancatura di una sezione. Per affrontare le temperature torride a Catania Bicocca, ad esempio, sono state previste più ore d’aria nel pomeriggio perché le celle hanno una scarsa ventilazione”. “In molte carceri i blindati oltre i cancelli delle celle vengono tenuti aperti per far passare più aria - sottolinea Scandurra - ma nello stesso tempo c’è un grave problema: durante il periodo estivo si riduce il personale in servizio e di conseguenza, in tanti istituti, anche le attività all’aperto. Quest’anno rispetto agli scorsi - conclude Scandurra - dal mondo politico sono arrivate molte più parole, ma i fatti sono sempre pochi”. Giustizia: Capece (Sappe); carceri sempre più invivibili… e la politica sta a guardare Adnkronos, 21 agosto 2012 Nelle carceri italiane “la situazione, già difficile per il sovraffollamento delle celle, è diventata invivibile a causa dell’ondata di caldo che sta investendo il nostro Paese. E la politica assiste a questo dramma senza fare nulla”. È Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), a denunciare all’Adnkronos “uno scenario terribile, con detenuti ammassati in istituti nei quali a volte manca perfino l’acqua. Se proprio non si vuole varare l’amnistia, almeno il Parlamento si decida ad approvare norme, come quelle contenute nel ddl Severino ancora in discussione alla Camera, che consentono un maggior ricorso alle misure alternative alla detenzione”. “Invito i parlamentari a visitare gli istituti penitenziari in questi giorni - aggiunge Capece - per verificare di persona cosa significa vivere quotidianamente una situazione di questo genere, in celle maleodoranti nelle quali basta una minima scintilla per far esplodere la tensione. È un sistema che regge in qualche modo solo grazie al sacrificio e all’impegno del personale della Polizia penitenziaria”. Giustizia: Beneduci (Osapp) ai parlamentari; interventi urgenti o collasso delle carceri Ansa, 21 agosto 2012 “I dati di ieri 20 agosto 2012, sulla presenza in carcere di 65.793 detenuti a fronte di soli 45.572 posti disponibili e con 7 regioni su 20 (Puglia +75%, Lombardia +74%, Liguria +69%, Veneto +61%, Friuli + 60%, Marche +59%, Valle d’Aosta +53%) che permangono molto al di sopra di qualsiasi capienza detentiva consentita, non lasciano presagire nulla di buono rispetto alle condizioni di vita e di lavoro nell’attuale sistema penitenziario, a meno di interventi sostanziali e risolutivi”. Lo afferma Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), in una missiva indirizzata ai gruppi parlamentari di Camera e Senato. Il documento si sofferma anche sulla situazione dei poliziotti penitenziari, segnalando che “delle 45.121 unità in organico, nonostante i 1.000 neo - agenti assunti di recente, ne risultano in servizio negli istituti e nei servizi penitenziari meno di 37.000 e ulteriori 2.500 unità sono in imminente pensionamento di cui, in sede di spending review, solo 500 rimpiazzabili con nuove assunzioni nel 2013”. “Fallito il cosiddetto Piano Carceri, rimangono poche alternative per restituire risultati e funzionalità alle carceri - prosegue l’Osapp - nessuna delle quali realizzabile senza che la popolazione detenuta sia riportata alle effettive disponibilità di posti-letto”. “Alla Camera dei Deputati lo scorso 7 agosto il Governo ha accolto un ordine del giorno che, tra l’altro, lo impegna a tenere fuori la polizia penitenziaria dal triennale blocco al 20% del turn - over e a considerare i 1.068 pensionamenti del 2011 pienamente rimpiazzabili nel 2012”. “L’auspicio è quindi che il Governo e, in primo luogo, la Guardasigilli Severino - conclude Beneduci - si impegnino pienamente e concretamente perché, in caso contrario, quale fattiva misura non resterebbe ormai che lo scioglimento dell’Amministrazione penitenziaria quale ente superfluo e inutilmente dispendioso”. Lettere: l’Idroscalo e i detenuti-pulitori, un passo verso la società di Giovanni Tamburino (Capo del Dap) Corriere della Sera, 21 agosto 2012 La riabilitazione Si parla spesso di recupero, riabilitazione. Pena utile è quella che aiuta a capire che cresciamo se impariamo ad essere utili agli altri Il cambiamento L’Amministrazione penitenziaria sta operando una grande trasformazione, che non è soltanto la costruzione di nuove carceri Passare dal negativo della pena al positivo di una risposta che ha il significato di riparazione della ferita recata con il delitto. Questo il significato della “Giornata della Restituzione”, iniziativa che la Provincia di Milano ha voluto organizzare con la Casa di reclusione di Opera nel giorno di Ferragosto. Giornata di grande caldo, quando molti erano in vacanza alla ricerca di distrazione: un gruppo di settanta detenuti esce dalle carceri milanesi, sotto la vigilanza discreta e intelligente della Polizia penitenziaria, e si concentra all’Idroscalo per un lavoro di pulizia generale. Quei detenuti hanno reso a Milano un servizio offrendo alcune ore di lavoro gratuito. Mi sembra di poter dire che in tal modo si sono riappropriati di un frammento importante della loro cittadinanza. Noi parliamo spesso di rieducazione, riabilitazione, recupero. Queste espressioni possono riassumersi in un concetto: ritrovare il corretto rapporto con la società e con se stessi. Pena utile è quella che aiuta a comprendere che cresciamo se impariamo ad essere utili agli altri. Capire che la propria crescita, la evoluzione di ognuno dipende dalla capacità di vedere le esigenze dell’altro perché il rispetto dell’altro è condizione del rispetto verso noi stessi. La Provincia di Milano si è mossa nella direzione giusta, così come nella stessa direzione vanno il Protocollo stipulato con l’Anci il 20 giugno scorso per la diffusione in almeno duecento Comuni italiani di attività di utilità sociale da affidare a detenuti ed altre iniziativa che dal volontariato, dal mondo della cooperazione e da una società per fortuna non tutta disattenta continuano a svilupparsi. L’Amministrazione penitenziaria sta operando una grande trasformazione, che non è solo costruzione di nuove carceri. È, piuttosto, la capacità di rinnovarsi in relazione al modo di vedere il detenuto: non più come “peso morto” da tenere rinchiuso e guardare a vista 24 ore al giorno, non più come “zavorra inutile” per la società, ma piuttosto come risorsa. Risorsa che può e deve diventare concreta in tutti i casi - e non sono tutti i detenuti, ma non sono nemmeno pochi - si riesca a mettere a frutto le capacità e la buona volontà che molti detenuti non hanno perduto definitivamente. Sta all’Amministrazione farle emergere per rendere le persone che scontano la pena del carcere utili per la società. Questo e niente altro, lo ripeto, significa rendere la pena utile per il condannato stesso. Come ottenere questo risultato, difficile, ma non impossibile rispetto a un notevole numero di detenuti? Non vi è altro modo che il richiamo alla responsabilità. Far crescere il senso di responsabilità, nella convinzione che non vi è altra strada per preparare il rientro nella società. È una visione comoda e rassicurante, ma del tutto arcaica quella che vede il detenuto come soggetto meramente passivo di interventi che piovono dall’alto. Occorre certamente dirigerlo, reggerlo, orientarlo: ma alla fine tocca a lui assumere il peso del proprio destino attraverso la sua volontà di riscatto, se questa volontà è abbastanza seria e forte. Chi mai potrebbe farlo al suo posto? In questo percorso di crescita il lavoro è uno strumento potente ed insostituibile. Il lavoro crea relazioni sociali costruttive. Produce benessere a sé e agli altri. Fa crescere l’autostima. Non è un caso che la Costituzione ponga il lavoro a pietra fondante. Vi è una stretta relazione tra lavoro e dignità sociale. In astratto ogni persona ha una dignità. In concreto la dignità può andare perduta e senza il lavoro questa perdita è facile che avvenga. Ecco perché iniziative come la “Giornata della Restituzione” sono positive. Non è ancora il risultato di dare al detenuto un lavoro, risultato che purtroppo manca spesso anche fuori dal carcere. Ma quella iniziativa ha dato a settanta detenuti la possibilità di offrire alcune ore di fatica per rendere un servizio alla città e riconoscere in tal modo di essere ancora parte costruttiva della società. Lettere: carceri, i parlamentari non si sostituiscano agli inquirenti di Pietro Mancini Affari Italiani, 21 agosto 2012 Nelle carceri, spesso, sono stati tirati i fili di trame inquietanti, dal “caso Tortora” all’ agguato a Mancini. Solo nel nostro, normale, Paese, e stato consentito a un bieco camorrista, Melluso, “Gianni il bello”, di strappare la libertà, l’onorabilità e la vita a Enzo Tortora. E solo in Italia poteva essere ambientata la kafkiana vicenda della circolare, diffusa nelle prigioni, con la quale gli inquirenti sollecitarono un plotone di gentiluomini, assassini ma solo un po’, a riferire circostanze anti-leader Psi. Sinora, Di Pietro e Bersani non hanno spiegato cosa ci azzecchi con il lavoro delle toghe, e con il rispetto delle leggi, il recente “tour” nelle carceri di Sonia Alfano, europarlamentare Idv, e di Beppe Lumia, senatore Pd, organizzato per “far pentire i mafiosi”, in primis Provenzano. Quando entrano nelle carceri, i parlamentari dovrebbero limitarsi a controllare la salute dei detenuti, ma non sostituirsi agli inquirenti. O, come è capitato ad Alfano e a Lumia, dare l’impressione di farlo. Questo sconcertante “tour” dei politici è l’ennesimo caso di confusione dei ruoli. Ai parlamentari spetta il compito di far le leggi, ma non quello di indagare, né di interrogare i reclusi e neppure di influenzarne la condotta processuale. Se ciò non avviene, non ci si può sorprendere se i magistrati scrivano libri e articoli. O, come sta succedendo in questi giorni, mobilitino i cittadini, promuovendo singolari raccolte di firme, da Ficarra e Picone a Sabina Ciuffini, con l’obiettivo di mobilitarsi a difesa della Costituzione, in aperta e paradossale polemica proprio con Napolitano. Cioè con il supremo garante della Carta, oltre che Presidente del Consiglio superiore della Magistratura e, dunque, anche delle toghe “resistenti”. E il Capo dello Stato viene dipinto da alcuni personaggi come un abietto insabbiatore della verità sulle presunte trattative, nel 93, tra settori delle istituzioni e Cosa Nostra. Uno scontro che, come ha rilevato la Guardasigilli, Severino, non porta da nessuna parte In questa babele, pochi cercano di far luce sul mistero più inquietante. Perché, 20 anni fa, uno stimato giurista, Conso, oggi ultranovantenne, con il consenso del “grande regista” - come lo ha definito Martelli - Scalfaro, decise di sottrarre ai vincoli del “41 bis” 300 pericolosi capi delle più agguerrite e spietate cosche criminali? Udine: indagini in corso sulla morte in carcere di un giovane rom, aveva problemi psichici di Luana de Francisco Messaggero Veneto, 21 agosto 2012 Lo hanno trovato morto ieri mattina, ancora steso nel letto, probabilmente vittima di una crisi cardiaca sopraggiunta nel corso della notte. Un malore così improvviso e silenzioso, da impedire a lui qualsiasi reazione e ai suoi due compagni di cella di accorgersi di alcunché. Fin qui la ricostruzione fornita dalla casa circondariale di via Spalato, dove Matteo Hudorovich, 28 anni, fino a qualche tempo fa ospite del campo nomadi di via Monte Sei Busi, si trovava rinchiuso dal 26 luglio scorso per il furto di un’auto. L’episodio, però, è tutt’altro che chiuso e i dubbi della magistratura - che sul caso ha immediatamente avviato un’inchiesta - ruotano proprio attorno alla causa del decesso. Perché se è vero che, stando a una prima valutazione del medico del 118 e del medico legale che ne hanno constatato il decesso, a stroncare il giovane è stata una crisi cardiaca, è altrettanto vero che si trattava di un detenuto con problemi di tossicodipendenza e abuso di alcol. Da qui, la decisione del procuratore capo Antonio Biancardi di non escludere alcuna pista e aprire un fascicolo a carico di ignoti non soltanto per l’ipotesi di reato dell’omicidio colposo, ma anche per quelle di morte come conseguenza di altro delitto e di spaccio di sostanze stupefacenti. Saranno l’autopsia e l’esame tossicologico, disposti per oggi, a fornire le prime indicazioni. Ma è probabile che l’indagine prosegua con gli ulteriori accertamenti che il procuratore e il suo sostituto, Claudia Danelon, cui il caso è stato assegnato, decideranno di delegare, per capire se Hudorovich possedesse della droga o del metadone e, in caso affermativo, da chi l’avesse ricevuto. Niente più che supposizioni, quelle finora formulate dalla Procura, legate proprio al mistero sulle modalità del decesso e per le quali l’esito dell’autopsia risulterà determinante. Non meno importante, ai fini dell’indagine della magistratura, sarà anche la documentazione che la direttrice del carcere, Irene Iannucci, ha intanto fatto raccogliere al proprio personale e che invierà anche al Dipartimento, al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria - che, come da prassi, procederà a propria volta con una valutazione interna - e al magistrato di sorveglianza. Nel “dossier” su Hudorovich, anche l’atto con il quale la direttrice, giovedì scorso, ne aveva disposto l’uscita per una visita psichiatrica urgente. Visita che la direttrice aveva autorizzato su espressa richiesta del medico del carcere e che si era conclusa nel giro di poche ore, senza alcun ricovero. “Dall’ospedale - afferma Iannucci, il ragazzo era stato dimesso in giornata con la prescrizione di una nuova terapia. Quando, ieri mattina, la nostra infermiera si è recata nella cella che Hudorovich occupava al piano terra, insieme ad altri due detenuti, aveva appena cominciato il consueto giro per la distribuzione della terapia. I suoi due compagni - continua - si erano svegliati un po’ prima e, all’interno della stessa cella, avevano già fatto colazione. Sono stati loro, all’arrivo dell’infermiera, a scuoterlo per chiamarlo. Non ricevendo risposta e vedendo che rimaneva immobile, hanno dato l’allarme”. Hudorovich era stato condannato a scontare una pena - peraltro non ancora diventata definitiva - di un anno. Ad arrestarlo, alla fine del mese scorso, erano stati gli agenti delle Volanti, dopo averlo sorpreso al volante di una Ford Escort rubata poco prima in via Cividina. Per bloccarlo e mettergli le manette ai polsi, la polizia aveva dovuto lanciarsi in un inseguimento notturno, in pieno centro, e concluso in via Caneva. Modena: i rinforzi arrivano dal carcere, 13 detenuti lavorano per la ricostruzione di Francesco Dondi Gazzetta di Modena, 21 agosto 2012 Daniele e Titel escono presto dal carcere di Sant’Anna. All’esterno li aspetta il furgone che, tre volte alla settimana, li accompagna nella Bassa, a San Felice. Daniele e Titel sono due dei tredici ragazzi modenesi inseriti nel progetto voluto dal ministro Severino e che mette a disposizione dei paesi terremotati il supporto di 40 detenuti. Daniele ha 35 anni, faceva il lattoniere poi la crisi economica lo ha costretto a chiudere e per racimolare qualche soldo si è infilato in un brutto giro. Titel, invece, era arrivato con la famiglia dalla Romania: ha vissuto a Medolla e poi a Massa prima di venire condannato per un piccolo reato. Faceva il saldatore, un omone di 37 anni abituato a fare fatica, a lavorare, con in testa solo il pensiero di poter sostenere moglie e figli ora tornati nel paese d’origine. Sono le 9 quando varcano i cancelli della Del Monte: maxi-magazzino di aiuti umanitari dove confluiscono centinaia di cartoni e imballaggi. Sono là in fondo, stanno sistemando delle confezioni di prodotti igienici quando decidono di raccontare la loro storia. “Ho accettato molto volentieri di mettermi a disposizione - spiega Daniele .Mi sento utile, diciamo che è una forma di riscatto. C’è gente che sta peggio di me e allora perché non provare ad aiutarli? Sono felice, anzi mi piacerebbe che questa esperienza, semmai dovesse servire a queste persone, potesse continuare a lungo”. Titel è più silenzioso. Non vorrebbe parlare, poi si scioglie e il rumeno con il fisico da peso massimo apre il libro. “Non è il primo progetto sociale a cui posso accedere - dice. Il martedì e il giovedì vado a Spilamberto per pulire le aree verdi. Il carcere ti logora. Devi riuscire ad occupare il tempo che non passa mai. Con Daniele ci conoscevamo già, ma arriva il momento in cui parli e riparli fino a quando non ha più nulla da dire. E invece la gente della Bassa ha bisogno. Ho sentito dentro di me la voglia di accettare questa opportunittà, sono qui per aiutare”. I ragazzi non otterranno sconti di pena, non accettano di svolgere lavori socialmente utili per un fine utilitaristico. Quello sporcarsi le mani è il simbolo di una voglia di riscatto. Punto e basta. Ma di Titel e Daniele ormai è piena la Bassa. A Novi, ad esempio, lavora Giuseppe. Faceva il geometra nei cantieri e ora legge e rilegge le ordinanze di inagibilità che il sindaco Turci dovrà poi firmare. Ha le competenze per potere essere utile nel mondo della burocrazia. Mike, Pellegrino ed Evans invece vanno a faticare a Mirandola. Li hanno aggregati al gruppo dei cantonieri. Spostano le transenne che quotidianamente riducono la zona rossa, fanno tutti quegli interventi di manutenzione necessari a dare dignità ad una città distrutta nell’animo. A metà pomeriggio ritorno il furgone a riprenderli. Lo guida un volontario dell’associazione “Gruppo Carcere - Città” della presidente Paola Cigarini. È stata lei, insieme all’associazione Servizi Volontariato di Modena, a rendere possibile il progetto. Perché, seppur tutto sembri così semplice, c’è un duro lavoro di taglia e cuci per poter aiutare la Bassa dando anche un pizzico di dignità ai detenuti. Lucca: l’Idv denuncia; carcere è vergogna nazionale, da chiudere senza indugi www.lagazzettadilucca.it, 21 agosto 2012 Anche quest’anno una delegazione dell’Italia dei Valori è stata impegnata nella tradizionale visita a carceri italiane, e, per quanto riguarda la Toscana, la scelta è caduta su tre istituti delle province di Livorno, Lucca e Siena. Per la prima volta l’iniziativa del Ferragosto in carcere ha coinvolto anche il tutta la delegazione Idv al Parlamento Europeo guidata dal capogruppo Niccolò Rinaldi. La realtà riscontrata e i problemi di fondo sono ormai risaputi: sovraffollamento impressionante e sottodimensionamento dell’organico della polizia penitenziaria, stato degradato degli edifici e degli ambienti interni. Inoltre, ed è il fattore più grave emerso dagli incontri di quest’anno, la tanto spesso denunciata carenza di attività riabilitative del detenuto - che dovrebbero rispondere a una delle funzioni fondamentali del carcere - è ormai cronica. “Della dozzina di istituti visitati dal 2009, quello di Lucca - insieme a buona parte degli spazi dell’Ospedale Giudiziario Penitenziario di Montelupo - è il più scandaloso dal punto di vista delle infrastrutture. Antico in tutti i sensi, - scrive il deputato europeo - collocato in pieno centro, circondato da case “demaniali” che guardano direttamente nei cortile o verso le celle e abitate da personale carcerario, costituisce non solo un’incongruenza nel tessuto della città, ma soprattutto lo spazio - morale ancor prima che materiale - di una situazione impossibile. Ci si aggira costantemente tra transenne e impalcature, che spezzano ulteriormente gli spazi sovraffollati: i sanitari delle celle sono minimi, molto spesso sfondati e con perdite, e nello stesso angusto locale (2 mq) del gabinetto alla turca della cella si trova anche l’angolo cottura e la dispensa per la preparazione dei pasti da parte dei detenuti; sporche e rotte le docce (in un reparto ne funzionano solo tre su sei); diffuse ovunque le macchie di umidità e la caduta di calcinacci; alcune celle si trovano addirittura nel seminterrato e la finestra, alta nel vano, è all’altezza del marciapiede del cortile; le sale colloqui con i familiari e colloqui con gli avvocati, oltre che pericolanti e interamente puntellate, hanno lo spazio superiore aperto - per cui dall’una è possibile ascoltare la conversazione dell’altra; gli spazi comuni sono ristretti o chiusi; mai aperto il campetto di calcio a forma di trapezio; largamente inutilizzabile la palestra; gli alloggi degli agenti prevedono un ingresso pericolante e puntellato da impalcature permanenti, camerate a più letti, bagni col tetto sfondato, un’installazione internet non funzionante; gli stessi uffici dei dirigenti della polizia penitenziaria non sono “uffici”, ma sgabuzzini a volte senza finestre”. “Alcuni settori dell’istituto sono interamente abbandonati - prosegue Rinaldi - ma non sono mai stati evacuati degli arredi e dei suppellettili, che si trovano in uno stato di disordine e di sporcizia totale. Il sopralluogo al carcere di Lucca si è dunque risolto nell’esplorazione d’una rovina che provoca un negativo effetto moltiplicatore: in questa struttura il caldo estivo è ancora più soffocante, il sovraffollamento ancora più intasato, il freddo invernale ancora più rigido, il deserto di momenti formativi ancora più deserto. Il bel giardino del chiostro è puramente decorativo, consolazione solo per gli occhi, e specchio della chimera inseguita da chi vive questo carcere: ammirevole il sorriso della buona volontà del sottufficiale che ci ha premurosamente accompagnato nella visita, un sindacalista indignato ma apparentemente ancora battagliero, quasi struggente la meticolosa pulizia della propria misera cella da parte di un detenuto, o i lavori di pittura degli infissi e degli intonaci di un’altra intrapresi dagli occupanti come una sfida collettiva. Ma i casi della propria vicenda rivelati da singoli detenuti (compreso un detenuto in palesi cattive condizioni di salute, che ci ha raccontato che per accucciarsi ogni volta sul gabinetto “alla turca” deve farsi aiutare dolorante dai compagni, fino all’emblematica vicenda del detenuto senza braccia, di fatto lasciato inerte per buona parte del giorno), o l’illustrazione di specifici problemi da parte degli agenti, perdono quasi di peso in questa struttura medievale, perché vi sono alterate le regole fondamentali della dignità, oltre che della logica”. “Questo infatti non è un carcere recuperabile. Inutile prevedere o sperare in lavori di risanamento. Per tale ragione - sostiene Rinaldi - ritengo che l’istituto di Lucca debba essere chiuso e portato fuori del centro della città - anche se si è trovato chi sostiene che tale scelta non è mai stata fatta perché tacitamente osteggiata da interessi cittadini, preoccupati che un nuovo carcere alteri i valori immobiliari e il quadro sociale della zona prescelta. Ma la dismissione di questo prezioso manufatto antico e centrale non avverrà, almeno non ora, così come niente accadrà: nella risposta a un’interrogazione parlamentare, il ministro della giustizia avrebbe dichiarato che per Lucca non sono previsti fondi né piani alternativi. Il carcere di Lucca pare quindi destinato a perpetuare la sua vera vocazione: non la redenzione del detenuto, ma una vergogna nazionale, che lascerebbe a bocca aperta e indignerebbe un qualsiasi osservatore straniero. Il quale, come noi, potrebbe convenire che questo antico luogo di spiritualità nel centro di una bellissima città, è un’eloquente metafora del carcere italiano: dentro il cuore della nostra società, e tuttavia ignorato dalla stessa società, uno sfacelo senza possibilità di redenzione che si sfalda giorno dopo giorno fisicamente su chi ci vive, e culturalmente su tutti noi. La più eloquente delle rappresentazioni, e per questo la più dura”. Agrigento: europarlamentare Iacolino in visita alla Casa Circondariale Petrusa La Sicilia, 21 agosto 2012 Questa mattina alle ore 09.00 l’Europarlamentare e Vice Presidente della Commissione Libertà Civili, Giustizia e Affari Interni del Parlamento Europeo Salvatore Iacolino e il Presidente dell’Associazione Culturale “Giovane Europa”, Fabio Zarbo in visita presso la Casa Circondariale “Petrusa” di Agrigento. La visita - che rientra nell’ambito di un ampio giro conoscitivo nelle carceri siciliane - ha lo scopo di comprendere meglio criticità, condizioni generali delle strutture e contribuire a trovare le soluzioni alle problematiche relative alle esigenze dei detenuti e del personale di sorveglianza e amministrativo. Sovraffollamento dovuto alla presenza di cittadini stranieri - molti provenienti da Paesi terzi - e ancora di quelli in attesa di giudizio, ambienti inidonei e in taluni casi trattamento inadeguato dei reclusi pongono seri dubbi sulla possibilità di garantire standard minimi di detenzione accettabili, il rispetto dei diritti fondamentali e la tutela della dignità della persona che esige, invece, migliori condizioni alberghiere per permettere agli Istituti Penitenziari di svolgere il proprio mandato educativo e riabilitativo. Al termine della visita alle ore 11,30 l’On Iacolino e l’arch. Zarbo incontreranno presso il Bar “Milano (Porta di Ponte - Agrigento) gli Organi di Informazione per illustrare quanto emerso nel corso della visita e le iniziative da mettere in campo con il Parlamento Europeo nei confronti della Commissione Europea per migliorare le condizioni di vita all’interno delle strutture carcerarie e per favorire l’individuazione di nuove soluzioni per il reinserimento lavorativo e l’integrazione sociale degli ex detenuti con particolare riferimento ai giovani già reclusi. Napoli: a Poggioreale sit-in Radicale per l’amnistia, mentre detenuto denuncia pestaggio Notizie Radicali, 21 agosto 2012 “Amnistia”, recita il grosso striscione, steso dinanzi alla saracinesca di un negozio chiuso certamente per ferie. Quelli che l’hanno steso, però, in ferie non ci sono andati. Almeno non dalla militanza. I radicali napoletani dell’associazione “per la Grande Napoli” il mese d’agosto lo stanno trascorrendo sull’asfalto infuocato di fronte al civico 177 di via Nuova Poggioreale, l’indirizzo cui fanno capo più persone in assoluto in città, una comunità di circa tremila persone, quella del carcere di Poggioreale. Si svegliano all’alba i militanti del partito radicale italiano, arrivano dinanzi al carcere, mettono lo striscione, montano un tavolino, sistemano le carte per la raccolta firme e le bandiere di partito. Si svegliano all’alba ma non sono i primi ad arrivare. Dinanzi all’ingresso per i colloqui c’è sempre già qualcuno che aspetta. Mamme, papà, mogli e figli di detenuti. Alcuni di loro stanno lì dalla notte per incontrare i propri cari in carcere, l’appuntamento per eccellenza. In carcere la sofferenza più grande è forse quella di star lontano dai propri cari, per il sorriso di uno di loro si contano le ore in cella, ci si rende conto forse solo lì di quanto sia importante, e che in confronto quello che s’inseguiva prima era solo un ombra. I radicali ogni mattina li raggiungono, s’intrattengono con loro per quella parte d’attesa, tutt’altro che breve, che si trascorre fuori delle mura, evidenziando il trattamento davvero inumano che loro come i loro cari in carcere devono subire solo per poterli vedere. Ieri verso ora di pranzo, dirigenti e militanti radicali erano davanti all’ingresso della direzione del carcere, manifestando per l’ennesima volta. A turno c’era qualcuno al megafono, chiedendo il rispetto delle leggi dello Stato nell’istituzione carceraria che è essa stessa Stato, a turno erano insieme con i familiari dei carcerati, o a controllare i documenti per la raccolta firme che mira a dare più peso ed urgenza alle loro proposte di giustizia. Da quando oltre un anno fa la storica guida del partito radicale, Marco Pannella, ha lanciato l’ennesima campagna per la legalità in carcere, i militanti napoletani sono sempre stati in prima linea, con sit-in, raccolta firme ed opere di sensibilizzazione tra la cittadinanza. È di nemmeno un mese fa un a cinque giorni di ‘silenziò nelle carceri, un’azione di protesta non violenta, un satyagraha in Sanscrito, parola resa famosa da Ghandi, che con questa forma di protesta ha cambiato letteralmente il corso della storia della sua nazione, offrendo spunti ed indirizzo ad tante e tante altre lotte. I satyagraha sono proteste particolari perché fanno leva sulla fiducia, non su altro. Le iniziative radicali di matrice ghandiana acquisiscono forza dalla convinzione che la parte altra, qualsiasi essa sia, comprenda e infine permetta. Durante la cinque giorni silenzio un numero indefinito ma sicuramente amplio di detenuti è semplicemente stato in silenzio, evitando di parlare se non per le emergenze, mettendo fine alle battiture, forma di protesta rumorosissima e diffusissima, in modo che ad assordare fosse il loro silenzio. Di questa e tante altre iniziative radicali si è fatta veicolo radio carcere, probabilmente il mezzo di comunicazione più ascoltato nelle carceri. Detenuto denuncia: picchiato in cella Un giovane detenuto tossicodipendente picchiato dagli agenti nel carcere di Poggioreale. Questa è la denuncia ricevuta ieri dall’onorevole dei Radicali - Pd, Rita Bernardini. La parlamentare per sollecitare il Presidente della Repubblica ad affidare un suo messaggio alle Camere e per chiedere che “siano create le condizioni politiche per l’amnistia”, ha manifestato ieri mattina davanti al carcere di Potenza, dove ha incontrato anche i giornalisti prima di visitare la struttura, che ospita circa 100 detenuti ma soffre di gravi carenze. Bernardini ha anche annunciato di voler “andare a fondo” sulla denuncia ricevuta da Napoli e relativa ad un giovane tossicodipendente detenuto nel carcere di Poggioreale che sarebbe stato picchiato dagli agenti: “È urgente intervenire perché tutta la comunità penitenziaria è in condizioni di estrema sofferenza”. Intanto, dopo le visite ispettive con il Senatore Radicale Marco Perduca presso la Casa Circondariale di Secondigliano, l’Istituto Penale per Minorenni di Nisida e la Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli l’associazione radicale “Per la Grande Napoli” prosegue la mobilitazione straordinaria in sostegno alla azione nonviolenta di Marco Pannella per l’Amnistia. Mercoledì e giovedì prossimo dirigenti e militanti radicali saranno di nuovo impegnati dalle ore 6 alle ore 8 per informare sulle prossime tappe della lotta e confrontarsi con i cittadini presenti all’esterno del carcere di Poggioreale. “Con oltre dieci milioni di procedimenti civili e penali pendenti - ha detto Bernardini - il sistema giustizia in Italia è alla bancarotta e impedisce anche gli investimenti che gli imprenditori esteri penserebbero di fare nel Paese”. Avellino: niente doccia, detenuto ingoia accendino per protesta Ansa, 21 agosto 2012 Paura al carcere di Bellizzi dove un detenuto ingerisce un accendino. Protagonista della forma di protesta un 50enne di Lecce. A lanciare l’allarme è stato il compagno di cella. Trasportato d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale Moscati di Avellino dagli agenti del nucleo operativo, il 50enne è stato sottoesposto ad un intervento di gastroscopia che ha scongiurato il peggio. Sembra che il detenuto abbia ingerito l’accendino perché gli avrebbero negato di farsi la doccia. Lecce: un Polo Universitario per i detenuti del carcere di Borgo San Nicola Futura Tv, 21 agosto 2012 Un progetto tenuto a lungo nel cassetto, sta per tornare in vita grazie all’impegno e alla tenacia del direttore di Borgo San Nicola, Antonio Fullone, il quale da anni sogna di importare un vero e proprio polo universitario all’interno del carcere per i detenuti. Il progetto, con tanto di accordo con la Provincia, era finito nel dimenticatoio, complice anche lo scandalo che aveva colpito l’ex rettore Oronzo Limone. Ora, però, tutto sembra essere nuovamente in gioco: il 18 giugno il direttore Fullone ha incontrato l’attuale rettore dell’Università del Salento, Domenico Laforgia, e insieme stanno cercando le soluzioni migliori per poter offrire realmente ai detenuti un’opportunità di reintegrarsi in società. L’istruzione, infatti, è l’arma più efficace per sconfiggere la criminalità e riprendere in mano la propria vita. Ecco perché il direttore della Casa Circondariale si è impegnato in questo difficile, ma proficuo, percorso. Il progetto potrebbe partire già dal mese di ottobre. Il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria individuerà 10 detenuti per la sperimentazione della bozza. L’offerta formativa prevedrà momenti didattici, orientativi, materiale didattico e, col tempo, anche scambi e stage. Un progetto in divenire dunque, ma che promette di rappresentare un grande passo in avanti per il reinserimento reale dei detenuti in società. Ivrea (To): paesani rifiutano Comunità di accoglienza per i detenuti, il parroco si dimette La Sentinella, 21 agosto 2012 Don Severo Piovanelli, conosciuto come don Severino, 66 anni, già parroco di Bellavista, del Sacro Cuore e cappellano del carcere di Ivrea, con una lettera inviata in questi giorni alla diocesi eporediese ha reso nota la sua decisione di lasciare la parrocchia della frazione Torre Balfredo. Lui, il parroco degli ultimi, che due anni fa ha fondato nella casa parrocchiale la comunità di accoglienza alle Querce di Mamre, allo scopo di aiutare gli ex detenuti del carcere di Ivrea a reinserirsi nella società, non si nasconde dietro un dito. “Mio malgrado - spiega don Piovanelli - non sono riuscito a tessere un rapporto di speranza con la popolazione che, fatte poche eccezioni, non ha accettato la nascita della comunità, creando di fatto una situazione insostenibile”. Il parroco non lo dice, ma sembra che anche la curia, dopo l’appoggio nella fase di avvio, non abbia più sostenuto economicamente la comunità d’accoglienza per gli ex detenuti. Le difficoltà di dialogo tra il parroco ed una bella fetta di residenti erano cominciate subito, proprio per la questione della comunità di accoglienza. “Don Piovanelli pensa più agli ex detenuti che ai suo parrocchiani”, dicono ancora oggi cittadini. Un’affermazione non corretta per il parroco, che anche su questo aspetto puntualizza: “La casa parrocchiale prima era libera poiché il parroco risiedeva da un’altra parte, io invece mi sono stabilito qui. Oltre ad occuparmi degli ex detenuti ho sempre seguito tutte le altre attività religiose, in modo particolare quelle legate al catechismo. Ed i risultati sono stati positivi, messi anche nero su bianco da una lettera di ringraziamento che mi hanno inviato alcuni genitori. La parrocchia quindi è sempre aperta per tutti. Il problema è che la popolazione non ne voleva sapere di aiutare degli ex detenuti. Ma se questo compito non lo fa la Chiesa, seguendo la parola di Dio, a chi deve essere affidato?”. Tra le righe del suo sfogo, don Piovanelli invita tutti alla riapertura di un dialogo. “Con un pizzico di buona volontà conclude il parroco - le soluzioni si possono trovare per il bene dell’anima”. La parola quindi passa ora al nuovo vescovo di Ivrea, Edoardo Cerrato, già informato delle dimissioni. Rimini: detenuti in trasferta da tutta Italia al Meeting di Comunione e Liberazione di Davide Pelanda www.articolotre.com, 21 agosto 2012 È probabilmente forse la prima volta che un nutrito gruppo di detenuti assieme ad agenti di polizia penitenziaria, educatori e volontari partecipa al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini. Infatti dalla casa di reclusione di via Due Palazzi hanno organizzato un pullman per partecipare stamane all’incontro che ha per titolo “Vigilando redimere. Quale idea di pena nel XXI secolo”. L’importante momento del meeting sarà preceduto da un video di Monica Maggioni e Maria Silvia Santilli, che raccoglie testimonianze di cambiamento dei detenuti, nonostante la situazione del sovraffollamento del carcere che possiamo dire essere molto tragica. Oltre ai detenuti padovani ci saranno anche la presenza di altri detenuti provenienti da istituti penitenziari di tutta Italia, dalla Sicilia all’Abruzzo fino al Piemonte. Va detto che proprio un anno fa dal Meeting il presidente Napolitano aveva fatto un appello per condizioni di detenzione più umane. All’incontro interverranno anche esponenti di altre nazioni come, ad esempio, Tomáz de Aquino Resende, procuratore di giustizia del Ministero pubblico dello Stato del Minas Gerais (Brasile), dove la situazione è esplosiva, con 500mila carcerati (in Italia sono circa 67mila), un alto coefficiente di violenza e la violazione diffusa dei diritti più elementari. Anche se pare che i brasiliani siano più avanti degli europei in tema di carcere. Ma ci saranno anche gli italiani Giovanni Maria Pavarin, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, Luciano Violante, presidente del Forum Riforma dello Stato del Partito Democratico. Quest’ultimo si è espresso già con vari interventi recenti sul tema, anche sul sito internet il sussidiario.net, in particolare in seguito alla visita del carcere di Padova di un anno fa, nell’ottobre 2011. A coordinare l’incontro è stato chiamato Paolo Tosoni, presidente della Libera Associazione Forense. Le aspettative di questo incontro, fanno sapere dal Meeting ciellino, è quello di “puntare su esperienze positive di recupero, di redenzione, di voglia di cambiare, di giocarsi una nuova chance. È solo questo che prima o poi (anche se noi speriamo il prima possibile, per il bene di tanti detenuti, ma soprattutto per tutta la società) potrà portare qualcosa di nuovo nelle carceri italiane”. Ricordiamo infine che già la rassegna riminese parlò con il mondo carcerario, a partire dal 2006, con le prime presenze dei detenuti, i convegni con i ministri della Giustizia e con la grande mostra “Libertà va cercando ch’è si cara. Vigilando Redimere” del 2008 con annessa pasticceria dei carcerati, esperienza proseguita l’anno successivo e nel 2011 con la giornata del carcerato. Busto Arsizio: carcere, eppur si gioca… la finale del torneo di calcio www.varesenews.it, 21 agosto 2012 In agosto il caldo rende difficile sopportare le lunghe giornate: in corrispondenza con le Olimpiadi la Uisp ha promosso un momento di sport che ha coinvolto circa 80 detenuti. A Londra le Olimpiadi sono finite da pochi giorni, a Busto Arsizio si conclude il torneo più particolare della città: quello di calcio giocato dai detenuti della Casa Circondariale cittadina. Perché l’estate è il momento difficile per i detenuti e la Casa Circondariale di Busto Arsizio, in collaborazione con Sol.Co. Varese, Enaip Lombardia e UISP Varese, ha concluso oggi l’attività più impegnativa: un torneo di calcio a cinque che ha coinvolto le sezioni comuni. Un torneo combattutissimo, che ha visto coinvolti circa 80 detenuti divisi in 4 sezioni: i giocatori sono stati scelti tra i ristretti nelle varie sezioni, creando così un campionato davvero internazionale, visto che all’incirca l’80% di loro è straniero. Squadre a nazionalità miste, con molti musulmani che hanno giocato e vinto nonostante le difficoltà fisiche create dall’osservanza del digiuno per il Ramadan. Perché lo sport, e in particolare il calcio, è una passione che non ha età e non conosce confini. E se è l’unico modo per “evadere” con il pensiero da una situazione opprimente come quella del carcere, allora ogni partita, ogni gesto atletico prende un sapore più intenso, e ogni gol trovato con onestà diventa un piccolo riscatto per sé e per la squadra. Soprattutto quando, in semifinale, strappi un pareggio all’ultimo minuto per poi vincere ai rigori. La combattutissima finale ha visto opposte le rappresentative della prima e della seconda sezione. Una partita che si è dimostrata per nulla a senso unico, e che ha visto alla fine il trionfo della seconda sezione, 3 - 2. Oggi sono stati anche premiati i migliori giocatori in campo: K.N. dal Marocco, U.M. dalla Romania e l’italiano P.G. Fondamentale, per la realizzazione dei tornei, la collaborazione di tutto l’istituto: dai vertici direttivi dell’Istituto, nella persone del Direttore Orazio Sorrentini, della Responsabile dell’Area Trattamentale Rita Gaeta, del Commissario Rossella Panaro che ha in capo l’area sicurezza, a tutto il personale della Polizia Penitenziaria. E anche il sostegno fondamentale di quanti da anni lavorano all’interno della Casa Circondariale: i due educatori di Consorzio Sol.Co Varese ed Enaip Lombardia, organizzazioni che stabilmente collaborano con la Casa Circondariale e UISP Varese che ha messo a disposizione arbitro e palloni per giocare. Sono stati organizzati i turni degli operatori, attivate tutte le procedure che rendono possibile l’accesso dei detenuti al campo sportivo il martedì pomeriggio dalle 13.30 alle 15.00; informate le persone ristrette, ribadite le regole, formalizzati permessi per l’ingresso degli arbitri. Si sono attivati anche i detenuti: in ciascuna delle sezioni un responsabile ha formato le squadre, dribblando le numerose difficoltà che questo particolare luogo impone. E così, dicono gli agenti di Rete Sabrina Gaiera e Sergio Preite: “Abbiamo visto le persone ristrette caricarsi di entusiasmo, riuscire per un attimo ad “evadere” dai pensieri circolari che affollano la mente quando te ne stai sdraiato sulla tua branda in cella. Il calcio per un attimo ci ha “de - istituzionalizzati” ci ha reso persone capaci di correre, fare goal, esultare e rattristarci per la sconfitta”. Torino: Osapp; agente aggredito da detenuto che voleva trasferimento in diversa sezione Adnkronos, 21 agosto 2012 Un ispettore capo della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Torino ieri è stato ferito in modo lieve da un detenuto marocchino di 20 anni: ha una contusione alla spalla sinistra e al dorso. Lo riferisce l’Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. L’aggressione è avvenuta intorno alle 12.30: il marocchino ha aggredito l’agente dandogli degli schiaffi e colpendolo alla spalla con un passaverdure, riferisce il sindacato, dopo che il poliziotto non gli ha permesso di andare in una sezione non assegnata a lui. “È senza fine - ha commentato il segretario generale Osapp, Leo Beneduci - la stagione di aggressioni nei confronti dei poliziotti penitenziari a causa anche della noncuranza e dei troppi luoghi comuni in sede politica sulle condizioni di vita e di lavoro nelle carceri italiane”. Libri: la vittoria postuma di Basaglia… di Corrado Stajano Corriere della Sera, 21 agosto 2012 Oreste Pivetta “Franco Basaglia, il dottore dei matti” - Dalai editore - pp. 287, € 17. Non è un’arida biografia questa scritta da Oreste Pivetta, Franco Basaglia, il dottore dei matti (Dalai editore, pp. 287, 17), ma un appassionato racconto, protagonista un intellettuale anomalo del Novecento che fino alla morte lottò con sereno coraggio in nome del progresso sociale e civile per la liberazione di uomini e donne chiusi in condizioni disumane nei manicomi. Non smise mai di credere nella forza del fare, motore del mondo, andò sempre avanti come poteva nonostante le denunce, i processi, gli oltraggi, gli ostacoli della burocrazia, del costume retrivo, della politica, anche quella di sinistra. Quando morì, il 29 agosto 1980, Maurizio Chierici, che lo conosceva bene, scrisse sulla terza pagina del “Corriere”: “Basaglia è morto, forse non ha più nemici”. Oreste Pivetta è un giornalista colto - ha diretto sull’Unità uno dei supplementi letterari più rimarchevoli degli ultimi decenni, è autore, tra l’altro, di un bel libro, Candido Nord (Feltrinelli), saggio, narrazione, inchiesta su una cupa storia veneta degli anni Novanta. Ora racconta la vita di Basaglia, senza farsi condizionare dai confini della scienza, con empatia, ma con rigore, documentando tutto ciò che lo psichiatra ha fatto e scritto. Fanno da guida alle pagine della biografia i famosi libri basagliani, L’istituzione negata e La maggioranza deviante , quest’ultimo firmato con Franca Ongaro, la moglie di Franco, donna di sottile intelligenza, e altri scritti pubblicati dalla vecchia Einaudi, allora all’avanguardia progressista nella ricerca del nuovo. Quei libri ebbero grande successo, soprattutto tra i giovani, ma Pivetta si è servito nella sua ricerca anche di altri materiali importanti per capire la lezione di Basaglia, come i testi delle conferenze fatte in Brasile. Questa biografia è anche un libro di storia su quel che è successo in Italia soprattutto negli anni Settanta. Pivetta non dimentica mai il contesto storico - politico in cui lo psichiatra lavora. Sembrano finzioni i fervori di allora, nonostante quegli anni non siano stati di certo sereni, tra bombe, stragi, tentati colpi di Stato, il terrorismo, se si fa un paragone con il presente piatto, privo di idee e di speranze. Furono anni di riforme di grande rilievo, basta ricordare le leggi sul divorzio, sul referendum, sullo Statuto dei lavoratori, sulle Regioni, sull’obiezione di coscienza, sull’aborto. La legge 180, la legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi, viene approvata il 13 maggio 1978, quattro giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro. Ma chi è Franco Basaglia? Nato nel 1924 in una grande famiglia veneziana, ha l’antifascismo e la ribellione nel sangue. Staffetta partigiana, durante la guerra di liberazione, tra Venezia e il Brenta, viene arrestato nel novembre 1944. La prigione, dove resta fino all’aprile 1945, è la sua prima esperienza di istituzione chiusa. Si laurea in medicina nel 1949, si specializza in malattie nervose e mentali, libero docente, lavora nella clinica universitaria di Padova fino al 1961, ma gli orizzonti della carriera accademica gli sembrano angusti e ambigui. Quello è per lui il tempo dello studio accanito. Basaglia, attento anche alle esperienze straniere, non è uno psichiatra selvaggio, come spesso, insultandolo, si è voluto far credere, privo di serietà scientifica. Ha invece tutte le carte in regola. In più, fin da giovane, lo attraggono Sartre, Jaspers, Heidegger, Minkowski, Merleau - Ponty, Musatti e poi Goffman, Ronald Laing, Franz Fanon, Marcuse, Foucault, i libri del Sessantotto di cui Franco Basaglia è padre e insieme figlio ardente. Nel 1961 vince il concorso per la direzione dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia. Comincia la grande avventura. Sembrano tempi lontanissimi. La città è grigia, militare, di là dalla stazione c’è un muro con la Jugoslavia, come quello di Berlino. Basaglia in manicomio comincia col togliersi il camice, è uno come gli altri, il malato gli interessa più della malattia. Tratta i pazienti come persone, la sua funzione - la sua missione - è di ricreare, quando è possibile, e spesso lo è, la normalità, facendoli uscire così dalla malattia e dai guasti della prigionia. I suoi detrattori gli attribuiscono idee che non ha mai avuto. Non ha mai detto, per esempio, che la malattia mentale non esiste, è convinto che la mancanza di diritti la renda spesso più grave. Detesta le classificazioni, gli schemi, è perennemente alla ricerca della causa sociale del male, non gli interessano le astratte teorie. Ha una simpatia naturale, affascina anche i matti, capisce subito l’importanza dell’informazione, distrugge le bolge dantesche e le fosse dei serpenti, rompe le gerarchie, riesce a salvare il salvabile di molti. Fa sparire poco alla volta i letti e le cinghie di contenzione, le grate, i cancelli. Bisogna convincere il paziente che il medico è lì per dargli una mano. È necessario creare un rapporto di complicità, adoperare tutti gli strumenti che possono essere utili, soprattutto la parola e il libero lavoro. Nel manicomio le riunioni si susseguono alle riunioni, con i pazienti, con gli infermieri, con i medici, “per creare un terreno di confronto e di verifica reciproca”. Basaglia tocca con mano la miseria, l’antica fame. Uno dei suoi motti è un proverbio calabrese: “Chi non ha, non è”. Quando fa uscire i pazienti liberi in città suscita reazioni furibonde. Accade anche qualche tragedia, tutto allora gli casca addosso, ma non demorde mai. Ricomincia da capo. Dopo Gorizia, Trieste, Colorno. Per ridar l’anima a un vecchio indimenticato cavallo, un gruppo di artisti e di pazienti costruiscono nel manicomio San Giovanni di Trieste un cavallo con lo scheletro di legno, fatto di cartapesta e di gesso, color azzurro. Il 25 febbraio 1973 Marco Cavallo, si chiama così, va in città, fino a San Giusto trainato da un camion preceduto dalla banda, tra tamburi e bandiere, con i matti, i medici, gli infermieri, Basaglia in testa, in un lungo corteo. È una gran festa popolare, una nuova liberazione. Vale per tutti più di trent’anni dopo? Si calcola che il 70 - 80 per cento dei pazienti, adesso che i manicomi non esistono più, siano tornati nelle proprie case o nelle piccole istituzioni famigliari di una decina di persone. Restano gli incurabili, un 20 per cento, grave problema, e i nuovi matti, figli della globalizzazione, della recessione, della crisi. Ma si può dire che Franco Basaglia, con la sua grande passione, nonostante i conflitti, le polemiche, i tormenti, abbia vinto. Le sue idee hanno cominciato a entrare nel porto della coscienza comune. Immigrazione: Ragusa; disordini nel Centro di accoglienza di Pozzallo, 14 arrestati Ansa, 21 agosto 2012 La squadra mobile di Ragusa, i Carabinieri di Modica e la Guardia di Finanza di Pozzallo hanno arrestato 14 tunisini accusati di aver creato disordini ieri nel centro di accoglienza a Pozzallo (Rg). Gli indagati che sono accusati di resistenza e violenza verso le forze dell’ordine erano sbarcati alcune settimane fa a Lampedusa. I migranti hanno ferito un carabiniere e un poliziotto “devastando la struttura, distruggendo l’impianto di videosorveglianza, allagando alcune stanze con le lance antincendio, distruggendo gli armadi del materiale di vestiario della Protezione Civile, computer e altro materiale informatico negli uffici di polizia”. Secondo la polizia i tunisini hanno utilizzato gli estintori del sistema antincendio come armi contundenti lanciandoli contro le forze dell’ordine e hanno usato i vetri delle finestre rotte come armi da taglio. La reazione violenta degli ospiti del centro si è scatenata dopo che avevano tentato la fuga ed erano stati fermati da agenti e militari. Gli arrestati sono stati portati in carcere a Modica e Ragusa. Brasile: Apac; una prigione senza guardie… dove i detenuti hanno la chiave della cella Intervista a Tomaz de Aquino Resende, a cura di Pietro Vernizzi www.ilsussidiario.net, 21 agosto 2012 Per evitare che il carcere divenga un’”università del crimine”, in cui il detenuto impara a commettere reati ancora più gravi, un gruppo di magistrati brasiliani da 40 anni sta sperimentando un sistema davvero originale. Hanno abolito le guardie carcerarie e consegnano a ciascun prigioniero le chiavi della cella e del portone del penitenziario. L’effetto è stato sorprendente: anziché aumentare, il numero di evasioni è crollato in modo verticale. A spiegare come funziona il sistema Apac, che significa Associazione per la protezione e assistenza ai condannati, è il procuratore brasiliano di Mina Gerais, Tomàz de Aquino Resende, che oggi parlerà al Meeting di Rimini. Il magistrato critica inoltre il sistema della carcerazione preventiva in uso in Italia: “Deve essere limitata a pochissimi casi stabiliti dalla legge, ricorrervi per forzare delle confessioni è una scelta degna dei secoli più bui”. Procuratore, a quali condizioni il carcere può favorire il reintegro del detenuto? In media il 70% dei detenuti una volta rilasciati commettono un nuovo crimine, che nella maggior parte dei casi è più grave del precedente. Il motivo è che sono passati dall’”università del crimine”, che è la prigione. Con il nuovo sistema che stiamo applicando in Brasile, chiamato Apac, i casi recidivi si riducono a meno del 10%. L’obiettivo del trattamento dei carcerati deve essere quello di ridurre la criminalità, non di aumentarla. In che cosa consiste il sistema Apac? In primo luogo abbiamo eliminato la polizia dalla prigione, non ci sono né guardie né agenti penitenziari. I carcerati hanno inoltre la chiave della prigione. Tutto si basa sull’autodisciplina, sulla fiducia e sul rispetto dei detenuti. Questa esperienza prosegue da 40 anni e sta dando risultati soddisfacenti. Quanti carcerati sono già evasi con questo metodo? Molti di meno che con il sistema comune di carcerazione. Abbiamo contato sei evasioni su 400 detenuti nell’arco di dieci anni. Molti di quelli cui affidiamo le chiavi avevano tentato ripetutamente la fuga quando erano incarcerati con il sistema convenzionale. E non ne hanno approfittato? Un detenuto, condannato a 50 anni, in 24 anni è evaso per ben 12 volte. Una volta ha scavato un tunnel, un’altra è ricorso alle armi, ha corrotto le guardie, in pratica le ha tentate tutte. A un certo punto noi magistrati abbiamo scommesso sulla sua libertà, e lo abbiamo inserito nel sistema Apac consegnandogli la chiave del portone del carcere. In nove anni non è mai uscito una sola volta senza permesso, ed è morto quando gli mancavano quattro anni alla scarcerazione. L’ultima volta che lo ho incontrato mi ha detto: “Quando avrò finito di scontare la pena, voglio continuare a lavorare qui per costruire anche per tutti gli altri ciò che ho visto per me”. Gli ho chiesto: “Perché sei scappato tante volte, e ora che hai le chiavi non lo hai più fatto?”. “Dall’amore non si fugge”, mi ha risposto. In 24 anni nessuno lo aveva trattato come un uomo, quando ha trovato qualcuno con questa attenzione nei suoi confronti ha cambiato completamente atteggiamento. Offrite questa opportunità a tutti i tipi di detenuti, inclusi quelli che hanno commesso i reati più gravi? Il sistema Apac riguarda tutti i tipi di crimine e tutti i tipi di criminali. Oggi sono coinvolti 2mila carcerati, in penitenziari da 140 - 150 persone l’uno. Il 30% sta scontando pene tra gli otto e i 50 anni per reati come traffico di droga, rapina a mano armata e altri delitti gravi. Come fate a decidere a quali detenuti dare fiducia? La fiducia è data a tutti, non esiste una regola, ed è proprio questa la cartina di tornasole del successo del nostro progetto. All’ingresso di una delle carceri in cui applichiamo il sistema Apac c’è scritto: “Qui entra l’uomo e il reato rimane fuori”. Su 500 detenuti con cui mi sono coinvolto, conosco il delitto commesso soltanto in due casi. Come si spiega che dando le chiavi delle celle i carcerati fuggono di meno? In primo luogo, per essere ammessi nel programma Apac devono accettare delle regole e una disciplina particolari. In nuovi arrivati confessano di avere chiesto di partecipare al programma Apac con l’obiettivo di evadere, ma quando si rendono conto di essere trattati in modo differente decidono di rimanere. È solo a quel punto che noi consegniamo loro le chiavi della cella. Quali sono gli altri requisiti per essere ammessi al sistema Apac? In primo luogo, il detenuto deve avere ricevuto una condanna definitiva. Inoltre deve firmare l’accettazione delle nostre regole. Terzo, chi ha un’anzianità maggiore nel carcere ha la precedenza. Se dopo essere stato ammesso in Apac, un detenuto fugge o compie delle mancanze gravi, ritorna al sistema comune e diventa l’ultimo in graduatoria. Quali sono i limiti entro cui deve essere usato lo strumento della carcerazione preventiva? La carcerazione preventiva deve riguardare le situazioni estreme, quando realmente il detenuto in attesa di giudizio rappresenta un grave rischio per la società. Per evitare scelte arbitrarie, le regole per la carcerazione preventiva devono essere molto chiare ed esplicite in modo che i magistrati sappiano bene in quali casi applicarle. In Italia la carcerazione preventiva è stata utilizzata per costringere gli inquisiti a confessare… Questo accade solo quando si abusa del proprio potere e non ha veramente senso, è una cosa di secoli fa. Non conosco la realtà italiana, ma se realmente la carcerazione preventiva è utilizzata con l’unico scopo di ottenere una confessione, è qualcosa di cui non so capacitarmi. Nel nostro Paese su 67mila detenuti, 28mila (il 42%) sono in attesa di giudizio in carcere … In Brasile invece su 500mila carcerati, il 70% ha ricevuto un giudizio definitivo e il restante 30% è in attesa di giudizio. Il carcere preventivo riguarda però solo i casi in cui ci sono già la prova o la confessione, non è uno strumento fine a se stesso. Venezuela: domenica d’inferno nel carcere Yare I, 29 morti e 14 feriti www.voce.com.ve, 21 agosto 2012 È stata una vera e propria domenica d’inferno quella che hanno vissuto i detenuti della carcere Yare I, e i loro familiari. Il bilancio assai pesante: 29 morti, tra cui una parente di un detenuto e 43 feriti (ben 14 tra le persone che visitavano i propri familiari in carcere). Sono ancora sconosciute le cause che hanno provocato la scintilla e scatenato la violenza tra due bande, probabilmente già in contrasto per il controllo della carcere. E altrettanto sconosciute sono le ragione per le quali i prigionieri erano in possesso di armi da fuoco, coltelli ed altri oggetti micidiali. La ministro Iris Varela, responsabile del sistema penitenziario venezolano, ha assicurato che si indagherà su quanto accaduto in Yare I. La violenza che ha scosso nuovamente le carceri venezolane, con un bilancio drammatico, ha provocato la reazione del mondo politico. Il candidato della coalizione di opposizione, Henrique Capriles Radonski, ha sottolineato che da quando si è creato il ministero, il cui titolare è Iris Varela, sono stati commessi ben oltre i 500 omicidi e la violenza è periodica. Ha assicurato che durante il suo governo si faranno sforzi per rendere le carceri più umane e sicure, specialmente per chi vi è detenuto. Stati Uniti: detenuto costretto a lavori forzati fa causa allo Stato per “schiavitù” Ansa, 21 agosto 2012 Nel 2008, Finbar McGarry, uno studente laureato presso l’Università del Vermont, è stato arrestato con l’accusa di detenere una pistola abusiva. Le accuse sono state fatte infine cadere, ed è stato liberato. Ma mentre era in attesa di processo, i suoi carcerieri gli ordinarono di lavorare per 25 centesimi di euro l’ora nella lavanderia della prigione o sarebbe stato condannato all’isolamento. Ora, McGarry, sta facendo causa, sostenendo che il trattamento subito è paragonabile alla schiavitù. Se vince, la sentenza avrà enormi ripercussioni per le carceri americane, dove tanti prigionieri che non sono stati ancora condannati sono impiegati in lavori forzati. Nel corso del suo lavoro, McGarry dice di aver contratto gravi lesioni al collo e un’infezione batterica potenzialmente mortale. Nel primo processo, dove ha chiesto un risarcimento di 11 milioni di dollari il giudice ha stabilito che i diritti costituzionali di McGarry non sono stati violati, ma tale sentenza è stata ribaltata in appello la scorsa settimana. Macedonia: dopo le liste di proscrizione, ora si fa largo castrazione chimica dei pedofili di Stefano Giantin Il Piccolo, 21 agosto 2012 Autorevole ong per la difesa dei bambini chiede con forza la soluzione “finale”. Il governo apre alla proposta: “Metodo chimico degno di considerazione”. Si fa sempre più dura la lotta alla pedofilia in Macedonia. Dopo la pubblicazione online (registarnapedofili.mk) di nomi e indirizzi dei pedofili condannati per abusi su minori - 231 casi dal 2004 al 2009, 38 recidivi - Skopje potrebbe considerare la castrazione chimica come “arma finale”. La proposta è stata avanzata sui quotidiani nazionali e poi rilanciata all’estero dal portale Balkan Insight. Ispiratore dell’idea, già promossa da lui stesso in passato, è Dragi Zmijanac, direttore di “First Children’s Embassy in the World-Megjashi”, autorevole Ong locale per la difesa dei diritti dei bambini. “Abbiamo proposto la castrazione chimica o la terapia medica perché siamo fortemente convinti che i pedofili non possano avere un trattamento sicuro in prigione. Sfortunatamente, la maggior parte di loro, dopo aver lasciato l’istituzione, ripete il crimine e ciò conferma la nostra preoccupazione che la recidività sia la loro caratteristica principale, che non esistano trattamenti sicuri per la risocializzazione”, illustra Zmijanac al “Piccolo”. Dovrebbe perciò essere “obbligatorio” dopo la galera usare la “castrazione chimica come misura preventiva”, per scongiurare altre violenze, aggiunge. Allo stesso modo, “siamo per la pena massima - l’ergastolo - in caso di recidività su un minore di 14 anni”. Castrazione con mezzi chimici “che è una misura preventiva più umana di quella fisica, praticata in Cechia, dove i pedofili volontariamente la scelgono al posto dell’ergastolo”, assicura l’esperto. Oltre alla terapia medica da ripetersi ogni tre mesi, sotto la supervisione di medici e poliziotti, Zmijanac consiglia poi i “braccialetti elettronici”. “Polizia, centri sociali per il lavoro, scuole ed enti pubblici potrebbero così monitorare i pedofili”, impedire che trovino lavoro a contatto con minori. Terapia volontaria o obbligatoria? L’aumento delle pene, fino a 15 anni, non ha avuto “gli effetti sperati sulla prevenzione del crimine. La pedofilia è in aumento e più e più casi vengono denunciati. Non siamo certi che il fenomeno sia in crescita, ma pensiamo di aver rotto il silenzio sulla sofferenza dei bimbi e incoraggiato loro e le famiglie a denunciare le violenze”, precisa. “L’abuso sessuale sui bambini lascia ferite permanenti. La cosa più grave è che in gran parte dei casi i bambini conoscono il pedofilo o vengono stuprati da un membro della famiglia”, specifica. L’introduzione del database non basta e la “castrazione chimica e i braccialetti”, da “installare” sui pedofili, “potrebbero aumentare leggermente” le chance di “successo della lotta alla pedofilia”, assicura, auspicando infine l’apertura di case-protette per difendere le vittime. Il sasso è stato lanciato. E le autorità, per bocca del ministro per le Politiche sociali, Spiro Ristovski, citato da Balkan Insight, hanno anticipato che “il metodo è degno di considerazione”. Pakistan: accusata di blasfemia, bimba di 11 anni in carcere con gli adulti Agi, 21 agosto 2012 Rimsha Masih, la bambina pakistana di 11 anni accusata di blasfemia, è detenuta nel carcere di Adiala, insieme agli adulti nonostante la sua giovane età, in attesa del giudizio della corte: è quanto ha rivelato un funzionario del centro detentivo, Arsalan Ahmed, sottolineando che la bambina, cristiana e affetta da sindrome di Down, è “in custodia cautelare insieme alle donne adulte”. Secondo il quotidiano locale Express Tribune, Rimsha non ha potuto ricevere la visita né degli avvocati né dei rappresentanti delle organizzazioni per i diritti umani. La bimba, che rischia la pena di morte, è stata arrestata venerdì scorso con l’accusa di aver bruciato copie del Corano.