Sopravvitto caro: a Padova 2 settimane di “sciopero della spesa” Redattore Sociale, 20 luglio 2012 Iniziativa di protesta per la scarsa varietà di prodotti della spesa. In corso anche sciopero della fame e del carrello in appoggio ai Radicali che chiedono amnistia e indulto. Niente spesa per due settimane nel carcere di Padova. È l’iniziativa lanciata da oggi dai detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, per protestare contro i prezzi troppo alti dei prodotti messi in vendita al sopravvitto. I detenuti, infatti, una volta alla settimana possono acquistare una serie di prodotti alimentari e non, al di là di quello che viene loro servito dall’amministrazione penitenziaria. Prodotti che, però, sono troppo cari e non offrono molta scelta. Lo scorso anno la questione era stata sollevata da Ristretti Orizzonti attirando l’attenzione del Dap, che intervenne con una circolare apposita. Ma oggi, un anno dopo, tutto è ancora fermo, tanto che l’attuale capo del dipartimento, Giovanni Tamburino, ha ammesso nell’ultima relazione annuale la mancata risoluzione del problema. Da qui la decisione di astenersi dalla spesa: per due venerdì di fila nessuno acquisterà i prodotti messi in vendita in segno di protesta, ma anche di solidarietà verso quei detenuti - molti - che non hanno le risorse per acquistare dal sopravvitto. “Il problema non è tanto il prezzo dei singoli prodotti, che sono più o meno in linea con i prezzi all’esterno - sottolinea Ornella Favero, direttrice di Ristretti. Il problema è che non è possibile scegliere prodotti di “primo prezzo”, quindi più economici, ma solo quelli delle grandi marche, notoriamente più costosi. Per questo lo scorso anno avevamo chiesto di eliminare la dittatura del prodotto unico”. Ieri, intanto, si è svolta una riunione interlocutoria tra la redazione di Ristretti e l’azienda che fornisce il sopravvitto. In questi stessi giorni si affiancano altre manifestazione di protesta messe in atto da molti detenuti del carcere di Padova. Alcuni stanno prendendo parte allo sciopero della fame indetto dai Radicali per sostenere il documento dei 108 giuristi e costituzionalisti che chiedono al Capo dello Stato di sollecitare il Parlamento a varare amnistia e indulto. Altri, in sostegno alla causa, aderiscono a quattro giorni di “sciopero del carrello”, rifiutando i pasti serviti dall’amministrazione. Sono tutti gesti di protesta che mirano a migliorare una situazione invivibile: il caldo, i pochi colloqui, le scarse attività, lo spazio che manca sono tutti fattori che contribuiscono a rendere ancora più roventi le calde estati nei penitenziari. Giustizia: Parma, Trieste, Firenze, Napoli… in sciopero della fame dentro e fuori le carceri Ristretti Orizzonti, 20 luglio 2012 Parma: trentasei candele illumineranno piazza Garibaldi Trentasei come il numero dei suicidi nei soli primi 7 mesi del 2012 nelle carceri italiane, tra detenuti (31) e guardie carcerarie (5). Da 4 giorni - la protesta si concluderà sabato - Marco Maria Freddi e Agostino Agnero dell’associazione Libera Mente Radicale non toccano cibo. Hanno scelto la più tradizionale delle proteste radicali per smuovere e sensibilizzare istituzioni, forze politiche e opinione pubblica sulla “drammatica” condizione dei detenuti nelle carceri italiane. E neppure Parma è un’isola felice. Ci ricevono - ironia della sorte - in una cucina. Domani si concluderà il loro sciopero dal cibo. “È dura” spiega Marco il cui nutrimento solido degli ultimi giorni è stata rappresentato solo dalle aspirine. “Per tirare avanti, si fa fatica”. Unica concessione sono 3 caffè e latte al giorno e acqua, secondo la “tecnica” adottata dallo storico leader radicale Marco Pannella. Eppure è convinto che questa forma di dissenso, come fece Gandhi tiene a ricordare, possa ancora pagare: “Siamo convinti che dare corpo alla protesta, anche con uno sciopero della fame, tocchi ancora il cuore delle persone. Dobbiamo essere forti, è l’unica cosa che ci rimane. Nessuno parla delle carceri”. Si appassiona Marco quando entra nel vivo del problema: “Da 30 anni l’Italia è condannata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo per la condizione dei detenuti nelle carceri. Ci sono celle da 2 occupate da 6 persone, diventa difficile persino usare il bagno. Il nostro Paese disattende l’articolo 27 della Costituzione che prevede anche la rieducazione. Dei 67mila carcerati italiani molti sono tossicodipendenti che non possono ricevere adeguato supporto, un 20% della popolazione è rappresentata da persone con problemi psichici che corrono il rischio di diventare veramente malati. Ventottomila sono in attesa di giudizio, e le statistiche ci dicono che 14mila sono innocenti”. Un problema storico per l’Italia per la quale l’associazione chiede l’amnistia: “Va concessa subito, per sanare una situazione di degrado e umiliazione. La Ue regola i metri quadrati in cui deve vivere un maiale adulto, noi trattiamo il detenuto peggio di come trattiamo un maiale”. Ma interessa davvero a qualcuno? La protesta insieme al digiuno ha scelto un’alta forma per manifestare il suo dissenso. Il silenzio. “In silenzio perché aspettiamo risposte”. Dalle istituzioni e dalla forze politiche. Marco ricorda la dura condanna del presidente Napolitano sulla condizione dei detenuti. Ma la mobilitazione deve essere anche tra i cittadini: “Sappiamo che le persone sono preoccupate dalla crisi economica, che ci sono tanti problemi, ma crediamo che se non si rispettano i diritti degli ultimi non c’è riforma economica che tenga per salvare l’Italia, non è solo una questione di spread”. Neppure del resto Parma è un’isola felice. Eppure sembra muoversi poco o nulla. “Il sindaco ci ha detto che non è una priorità. Il rettore ha preferito non aderire a una lettera aperta che chiede l’amnistia. Sono argomenti che non pagano elettoralmente”. Eppure il carcere di via Burla come spiega Agostino è uno specchio della situazione italiana: “C’è sovraffollamento e carenza di personale. Collaboriamo con associazioni che vivono in silenzio, sottolineo in silenzio, la realtà quotidiana del carcere a 360 gradi. Per chi lo vive è una situazione drammatica. Via Burla non è solo Tanzi, bisogna parlarne di più. Abbiamo persone che si trovano al carcere duro, anche se non gli spetterebbe, proprio a causa del sovraffollamento. Una violazione dei diritti umani”. Resteranno a digiuno ancora fino a sabato. Domenica sperano che la gente sia in piazza, quando accenderanno le candele e scandiranno i 36 morti suicidi in carcere. Scriveva il detenuto Dostoevskij: “Il grado di civilizzazione di una civiltà si misura dalle sue prigioni”. Trieste: il carcere del Coroneo è una polveriera, anche in 12 in una cella” Il Piccolo, 20 luglio 2012 Protesta nuova, problema vecchio. Incancrenito. In questa città come altrove. Più che altrove, forse. La mobilitazione non violenta di quattro giorni pro-amnistia, appena lanciata a livello nazionale da Marco Pannella col Partito Radicale - estremo tentativo di dare uno scossone all’opinione pubblica e allo Stato a proposito del sovraffollamento delle carceri e della precaria vivibilità al loro interno - riporta a galla in tutta la sua gravità il caso Trieste. Il Coroneo, infatti, è una potenziale polveriera. Continua a scoppiare di detenuti, ben oltre la capienza ufficiale. E li costringe non solo a passare le giornate uno sopra l’altro, ma anche a sopportare pesantissimi disagi causa la vetustà della struttura e dei suoi impianti, peraltro mai soggetti negli anni addietro a una manutenzione degna di tal nome, conseguenza di un progressivo, alla luce dei fatti eccessivo, assottigliamento dei fondi statali destinati proprio al funzionamento, all’ordinaria amministrazione (e manutenzione) delle carceri. Banale esempio. Nella casa circondariale di Trieste, in alcune celle, ci sono sciacquoni difettosi e lavandini semintasati, ancorché utilizzati quotidianamente da una decina di persone chiuse dietro la stessa sbarra. L’ultima tegola: l’acqua calda che non esce da due settimane. Lì ci si lava solo con quella fredda, e si andrà avanti a farlo fino a mercoledì, quando arriverà e sarà rimontato il pezzo di ricambio del miscelatore. Costo, circa 1.600 euro. È stato ordinato subito dopo il guasto dal direttore della struttura Enrico Sbriglia, nonostante quella spesa non sia nemmeno coperta. E meno male che siamo in estate. Proprio per questo, dalle finestre aperte del vicino Tribunale di Foro Ulpiano, si sentiva levare l’urlo degli ospiti del Coroneo: “Vogliamo l’acqua calda”. E ciò con un po’ d’anticipo rispetto all’esordio del tam-tam ideato dal vecchio Giacinto detto Marco (Pannella), che è cominciato mercoledì sera. Anche a Trieste i detenuti hanno iniziato (replicando poi ieri sera) a sbattere pentole e qualsiasi altro oggetto che potesse far un po’ di casino sulle sbarre delle finestre. Hanno armeggiato quindi accendini nell’oscurità per attirare l’attenzione al grido di “amnistia” e “libertà”. A far fronte alla situazione, un manipolo di poliziotti penitenziari in servizio. Pure quell’organico non abbonda. E deve occuparsi di 240 persone recluse, metà delle quali in attesa di giudizio, a fronte di una capienza di 155. Qualcuno, come altrove, ha proclamato lo sciopero della fame per quattro giorni, tanti quanti dura la protesta. Sul posto, anzi dentro il posto, accompagnato dallo stesso Sbriglia - facendo valere così i poteri ispettivi che gli sono propri in quanto consigliere regionale - si è fiondato il giovane Alessandro Corazza, il capogruppo dell’Idv in piazza Oberdan. Ironia della sorte, il più reattivo, per vedere che aria tirava nel carcere triestino in occasione di una protesta che punta all’amnistia, è stato un politico dipietrista, nelle cui corde l’amnistia non trova spazio. Ma che importa. Qui sono in ballo, o meglio in discussione, i più elementari “diritti umani”, fa capire Corazza. Il quale, dopo il sopralluogo, denuncia: “Ho scorto un sovraffollamento impressionante, la situazione è indegna. Dieci, anche 12 detenuti, in una cella che avrà avuto 20 metri quadri, senza condizionatore ovviamente. Peggio che a San Vittore, che io ho visitato. Bravo è il direttore Sbriglia, devo ammettere, a riuscire a gestire con i suoi uomini una situazione simile”. Corazza visita carcere: situazioni insostenibili Appena saputo della clamorosa protesta dei detenuti, il consigliere regionale di Idv Alessandro Corazza si è recato al carcere di via del Coroneo a Trieste. Insieme al direttore Enrico Sbriglia, e in virtù dei poteri ispettivi propri dei consiglieri regionali, è entrato nel penitenziario dove “ho trovato una situazione indegna”. “Il dato più sconcertante - aggiunge Corazza - è che la metà dei carcerati al Coroneo, circa 150 persone, è ancora in attesa di giudizio. Fino a dodici detenuti dentro celle che dovrebbero contenerne la metà, lavandini intasati, water rotti con secchi d’acqua al posto dello sciacquone. Inoltre, da ben 13 giorni non funziona l’acqua calda a causa della rottura della caldaia. Il direttore Sbriglia - racconta il consigliere regionale Idv - visto che il carcere è privo di disponibilità finanziarie, ha deciso di esporsi personalmente per provvedere alla riparazione della caldaia, che dovrebbe essere completata entro la prossima settimana”. “Alcuni detenuti - così ancora Corazza - mi hanno confidato che a causa delle difficili condizioni ambientali e per il caldo insopportabile alla sera non riescono ad addormentarsi e spesso chiedono al medico del penitenziario dei sonniferi per dormire”. “Sarebbero sufficienti appena 10.000 euro all’anno per la normale manutenzione del carcere di via Coroneo - sottolinea Corazza. Invece siamo in presenza di un sotto finanziamento che non è da Paese civile. Le colpe sono da ricercare, certamente, nella politica nazionale che non fa nulla per risolvere questi problemi. Anche la politica locale però non è esente da colpe. In particolare quella pordenonese - sottolinea Corazza - incapace di sbloccare la situazione del penitenziario di Pordenone a causa di tristi veti incrociati a difesa di interessi locali”. “Anche la Giunta Tondo però è totalmente assente - attacca il capogruppo Idv. Già nel 2009 avevo interrogato l’allora assessore regionale alla sanità e protezione sociale, Vladimir Kosic, per sapere a che punto fosse il trasferimento alla Regione della competenza in materia di sanità penitenziaria, previsto dal decreto del 1 aprile 2008. All’epoca la Giunta, di fatto, prese tempo per poi far cadere definitivamente la cosa, nonostante le possibilità che come Regione avessimo di fornire da subito l’assistenza occorrente”. “A problemi di così grande rilevanza vanno date invece risposte strutturali - conclude l’esponente dell’Italia dei Valori. Non solo vanno costruite nuove carceri, moderne e a misura d’uomo, ma bisogna garantire al sistema penitenziario italiano anche maggiori risorse finalizzate alla manutenzione delle strutture esistenti e alle attività di rieducazione, fondamentali per un Paese che vuole dirsi civile”. Firenze: da Ponte Vecchio striscione per “l’amnistia” Uno striscione, lungo 6 metri, con la scritta “amnistia” è stato esposto dal Ponte Vecchio da alcuni esponenti radicali e dell’associazione ‘Andrea Tamburi’ di Firenze. L’obiettivo dell’iniziativa, hanno spiegato i promotori, è quello di denunciare ‘l’illegalità dello stato della giustizia e delle carceri nel nostro Paesè. “Chiediamo al Parlamento un’amnistia - ha spiegato Maurizio Buzzegoli, segretario dell’associazione Andrea Tamburi -, un’ amnistia subito capace di riportare nel nostro Paese lo stato di diritto e capace allo stesso tempo di liberare le carte di magistrati e giudici, affinché quei milioni di italiani che sono all’interno delle tenaglie della giustizia civile e penale possano liberarsi da questo fardello. Un’amnistia subito - ha proseguito - per ristabilire il principio della dignità umana su quello dell’esecuzione della pena. Molti detenuti - ha detto ancora Buzzegoli, rispondendo alle domande dei giornalisti, anche in Toscana, hanno aderito allo sciopero della fame non violento promosso da Marco Pannella”. Per Buzzegoli anche i tafferugli nelle carceri di Firenze e Pisa, di cui scrive oggi il Corriere Fiorentino sono dovuti ad una insofferenza: c’è un livello di sovraffollamento che condiziona gran parte della loro giornata. Buzzegoli ha ricordato che nei 18 istituti di pena toscani, in base a dati aggiornati al marzo scorso, sono presenti oltre 4 mila detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 3200 persone, un terzo dei quali sono in attesa di giudizio. A Sollicciano detenuti appiccano fuoco a pezzi stoffa Caos a Sollicciano. Come si legge in un articolo apparso stamani sul Corriere Fiorentino, in segno di protesta i detenuti hanno dato fuoco a pezzi di stoffa impregnati di olio e li hanno lanciati dalle finestre, hanno iniziato a urlare e battere le pentole alle sbarre. I reclusi sono stati fatti uscire dalla sezioni fino a quando la protesta non si è placata. Inoltre, da mercoledì il 90 per cento di loro è in sciopero della fame, seguendo l’esempio del leader radicale Marco Pannella, e i pasti distribuiti ritornano al mittente. La protesta inscenata dai detenuti è per il sovraffollamento nel quale versa Sollicciano, dove ci sono circa mille detenuti ma la capienza regolamentare dovrebbe essere di circa la metà. “Il problema - spiegano gli agenti di Sollicciano al Corriere Fiorentino - è che la convivenza all’interno degli istituti in questa stagione, tra il caldo insopportabile e il sovraffollamento, diventa davvero impossibile. Se a questo aggiungiamo la tensione provocata dalla fame la situazione è davvero esplosiva. Noi lasciamo aperte tutte le porte per fare in modo che passi l’aria, ma di più non si può fare, sempre di una struttura in cemento si tratta. Da poco abbiamo un congelatore in ogni sezione per consentire ai detenuti di tenere le bottiglie di acqua o il ghiaccio sintetico per le borse termiche. Ma lo sciopero della fame in questa situazione non ci aiuta per niente”. Brescia: a Canton Mombello nuovo sciopero della fame È ancora sciopero della fame tra i detenuti del carcere di Canton Mombello di Brescia dove la protesta riprende contro le condizioni di sovraffollamento, oramai croniche, della struttura. L’astensione dal cibo è stata indetta dal 18 al 22 luglio. Solidarietà ai carcerati è stata espressa da Emilio Quaranta, Garante delle carcere, da sempre in prima linea sul tema delle condizioni di vita dei detenuti nelle case circondariali bresciane, al top della classifica per numero di presenze oltre la capienza prevista. Questo venerdì, dalle 19, il Comitato per la chiusura ha indetto un nuovo presidio sotto le mura in via Spalti San Marco. Quaranta, che si è detto “rammaricato” per la nuova forma di mobilitazione dei detenuti, ha anche detto di “comprenderne le ragioni”. Per il Garante la necessità di una nuova struttura si fa sempre più pressante, ribadendo il sostegno alla “class action” che i detenuti “ intendono promuovere sia in sede comunitaria sia in sede di Magistratura di Sorveglianza ed offrirà in tal senso tutto il supporto possibile”. Sanremo: sciopero della fame e Ramadam per circa 180 detenuti Dopo quello del maggio dell’anno scorso e come sta avvenendo da tre giorni al carcere di Imperia anche i detenuti sanremesi rifiutano i pasti della mensa per chiedere l’amnistia contro il sovraffollamento aderendo all’iniziativa del radicale Pannella. Sono circa 180 i detenuti del carcere di Sanremo che, in linea con l’iniziativa nazionale promossa dal Radicale Marco Pannella, che chiede l’amnistia e una riforma della Giustizia, hanno aderito all’astensione dal vitto dell’amministrazione, una forma di protesta diversa dal più tradizionale sciopero della fame. I detenuti, infatti, rifiutano il cibo proveniente dalle cucine del carcere, ma possono acquistare quello dello spaccio o consumare quello che gli viene portato, durante le visite, da parenti e amici. “Si tratta di una protesta tranquilla - sottolinea Francesco Frontirrè, direttore del carcere sanremese di valle Armea - che per molti musulmani coincide col Ramadan, il tradizionale digiuno islamico”. Molti dei 330 detenuti, infatti, sono nordafricani e non è chiaro, se aderiscano all’astensione dal cibo per motivi politici o religiosi. Nel frattempo nella giornata di sabato 21 luglio 2012, i pannelliani del “GRAF”, Gruppo Radicale Adele Faccio, distribuiranno volantini e raccoglieranno firme davanti al carcere di Imperia Oneglia, durante l’orario di visita dei parenti dei detenuti (in tarda mattinata e fino alle ore 15) per chiedere l’amnistia attraverso quattro giorni di nonviolenza, sciopero della fame e silenzio, e come citano nel loro comunicato: “ una mobilitazione per la grande Riforma della Giustizia, per uscire dalla condizione criminale rispetto alla nostra stessa Costituzione, alla giurisdizione europea e alla coscienza civile del nostro Paese”. Anche a Imperia è iniziata un’analoga forma di protesta. Napoli: a Poggioreale 1.500 detenuti praticano digiuno L’associazione radicale “Per la Grande Napoli” nella mattinata di oggi ha tenuto un presidio nonviolento e silenzioso davanti al carcere napoletano di Poggioreale, all’interno della iniziativa promossa da Marco Pannella e dal Partito radicale per quattro giorni di digiuno e silenzio nelle carceri italiane. Alla manifestazione hanno partecipato circa un centinaio di persone, tra cui dirigenti e militanti radicali, associazioni, familiari dei detenuti e cittadini. Erano presenti il deputato del Pdl Alfonso Papa, che subito dopo ha tenuto una visita ispettiva all’interno del carcere, Mario Barone, presidente di Antigone Campania, don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale con i militanti dell’associazione Liberi di volare onlus. Nell’occasione i manifestanti hanno mostrato cartelli con gli slogan che hanno caratterizzato oltre un anno di azione nonviolenta condotta da radicali napoletani e un lungo striscione con la parola “amnistia”. Molti dei presenti avevano la bocca chiusa con del nastro adesivo per denunciare “l’impossibilità di ottenere un vero grande dibattito pubblico sulla questione della giustizia nel nostro Paese”. Iniziative simili si sono tenute in diverse città, al di fuori degli istituti di pena, tra cui Bologna, Cagliari, Carinola (Caserta), Catania Piazza Lanza, Chiavari, Fuorni, Milano San Vittore, Padova, Poggioreale, Santa Maria Capua Vetere. La mobilitazione nasce a sostegno del documento redatto dal professor Andrea Pugiotto e altri cento docenti universitari di diritto penale e costituzionale, con la richiesta al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, di inviare urgentemente un messaggio alle Camere, affinché si discuta un provvedimento di Amnistia, per porre fine alla tragica condizione di degrado e incostituzionalità in cui si trovano le carceri e la giustizia italiana. Nel corso dei sit-in tenuti negli ultimi giorni l’associazione radicale Per la Grande Napoli ha raccolto 585 sottoscrizioni di cittadini che chiedono un intervento della massima autorità dello Stato. Luigi Mazzotta, segretario dell’associazione radicale Per la Grande Napoli ha accompagnato Alfonso Papa e Renato Farina in una visita ispettiva durata circa due ore. Al termine ha dichiarato: “Sono oltre 1.500 i detenuti a Poggioreale che stanno praticando il digiuno, su un totale di 2605 presenze, come confermato dalla direttrice Teresa Abate. Cresce di ora in ora questa mobilitazione che unisce cittadini provenienti da ogni parte del mondo nella richiesta di giustizia e di legalità. Proseguiremo la nostra azione nonviolenta per l’amnistia con fiducia, perché se l’Italia vuole uscire dalla profonda crisi economica e sociale che sta vivendo deve dare massima priorità alla soluzione del problema giustizia”. Visita Papa-Farina a Poggioreale: oltre 2.600 detenuti Ci sono oltre 2.600 detenuti nel carcere di Poggioreale a Napoli, il 50% in più di quanti ne potrebbe ospitare la struttura. Il dato è fornito dai deputati del Pdl Alfonso Papa e Renato Farina, che insieme a rappresentanti dell’associazione Radicali grande Napoli hanno visitato l’istituto di pena. Due ore ad ascoltare le storie dei detenuti nel padiglione che si chiama come la città. Giustizia: detenuti suicidi e arresti preventivi, inferno da prima pagina (ma non in Italia) di Annalisa Chirico Gli Altri, 20 luglio 2012 Presentato l’Osservatorio sull’immagine delle carceri italiane nella stampa estera. Lo ha voluto Alfonso Papa. Persino il Guardian si è soffermato sul lugubre fenomeno tutto italiano: tra il 2002 e il 2012 sono morti per cause non naturali nelle galere italiane quasi mille detenuti, il 56% di queste morti è conseguenza di suicidio. L’autorevole quotidiano inglese ha dedicato una mappa interattiva all’anomalia italiana, che al di là del confine osservano con sconcerto, mentre al di qua si insinua un senso di crescente assuefazione. Dietro le sbarre muore un detenuto ogni cinque giorni, lamette e lenzuola recidono il filo rosso della vita. D’estate diventa impossibile la sopravvivenza in pochi metri quadri, dove spesso si fanno i turni per stare in piedi, i frigoriferi non esistono e le vivande si tengono “fresche” nell’acqua del lavandino dove lavi i denti. Lo sa bene il deputato del Pdl Alfonso Papa, che il 20 luglio 2011 si costituì a Poggioreale dopo il voto della Camera a favore del suo arresto. L’estate torrida non si dimentica, e Papa uscì dalla galera per passare ai domiciliari il 31 ottobre. Da lì a una settimana avrebbe scoperto dalla Corte di Cassazione che non sussistevano i presupposti del suo arresto. Dei 26 capi di imputazione inizialmente contestatigli dai magistrati partenopei oggi ne sopravvivono due relativi al reato di concussione. Ma questo poco importa. Alfonso Papa è un parlamentare, dispone degli strumenti di denuncia politica e mediatica per far emergere quel Caso Italia che colpisce migliaia di detenuti senza nome e senza voce. Il 19 luglio hanno presentato alla Camera dei deputati l’Osservatorio sull’immagine delle carceri italiane nella stampa estera: l’obiettivo, come ci spiega, è “far emergere la brutalità della detenzione italiana attraverso gli occhi degli osservatori esteri, che alle carceri nostrane dedicano approfondimenti e servizi”. Insieme a Papa c’erano il massmediologo Klaus Davi, che ha curato la preparazione del rapporto, il direttore de Gli Altri Piero Sansonetti e di Tempi Luigi Amicone, nonché il conduttore di Radio Carcere Riccardo Arena, il presidente dell’Unione Camere Penali Valerio Spigarelli, i rappresentanti delle associazioni Antigone e Ristretti Orizzonti. C’è poco da stupirsi se la stampa estera si occupa di noi. Il Caso Italia è valso al nostro Paese una moltitudine di condanne per le condizioni inumane e degradanti, cui sono costretti i reclusi, nonché per la miriade di casi di ingiusta detenzione e per la lungaggine dei processi. Esiste un nesso di casualità, potremmo dire, tra questi due aspetti: da una parte, l’uso sempre più massiccio della carcerazione preventiva; dall’altra, la durata interminabile e incerta dei processi, che solo nel 2011 si sono estinti per prescrizione in 180mila casi. La regola del “pochi, certi e maledetti” con riferimento ai giorni di galera è ormai entrata nel Dna della magistratura italiana. I processi durano troppo e chissà se mai si arriverà a sentenza: nell’attesa è meglio assicurare la shakespeariana libbra di carne alla folla agognante giustizia. In questo modo la custodia cautelare in carcere si è trasformata da mezzo di tutela delle indagini a strumento per estorcere confessioni e anticipare la pena nei confronti di presunti non colpevoli diffondendo un ingannevole senso di “giustizia”. Lo Stato esiste e stringe le manette ai polsi. Attualmente vivono stipati in celle dove tutto può accadere - e infatti di tutto vi accade -28mila detenuti in attesa di giudizio definitivo; di questi ben 15mila attendono un giudizio di primo grado. Dalle statistiche sappiamo che la metà di questo esercito di presunti non colpevoli andrà incontro a sentenze di assoluzione o proscioglimento. Il Codice di procedura penale prevede che il carcere senza condanna sia extrema ratio, “cui ricorrere quando ogni altra misura risulti inadeguata” (art. 275). Da noi invece è prassi ordinaria. Eppure, in linea teorica, esisterebbe un ventaglio di misure meno afflittive cui i magistrati dovrebbero accordare la preferenza: dal divieto di dimora agli arresti domiciliari. Per non toccare poi quel capitolo-vergogna del braccialetto elettronico che è costato ai contribuenti un contratto ultramilionario con Telecom ed è stato utilizzato a malapena in una decina ai casi. “In Italia quasi il 43 percento dei detenuti sono in carcerazione preventiva”, dichiara il deputato Papa. “La media europea si aggira attorno al 15. Il contrasto è stridente”. Contro il ricorso abnorme alle manette senza condanna Papa ha presentato un progetto di legge che ha raccolto le firme di oltre trecento deputati e il sostegno decisivo di Silvio Berlusconi. La proposta mira a limitare il ricorso al carcere preventivo ai soli reati di sangue, mafia e terrorismo, fissando in sei mesi la durata massima totale della custodia cautelare dietro le sbarre (attualmente può protrarsi fino a sei anni) e disponendo spazi separati per detenuti definitivi e non. Sono inoltre fissate una serie di garanzie per i detenuti non definitivi, come la presenza del gip a ogni interrogatorio (e non soltanto al primo come avviene oggi) e la remissione in libertà dell’indagato nel caso in cui il pm richieda il giudizio immediato. “Non è un caso che l’Italia non ratifichi la convenzione sulla tortura - conclude l’onorevole Papa - Il carcere italiano è di per sé un modo inumano e degradante di esecuzione della pena. Per quasi un detenuto su due non si tratta neppure di pena. È una barbarie cui dobbiamo porre fine”. Giustizia: le carceri italiane? Una “vergogna mondiale” di Dimitri Buffa L’Opinione, 20 luglio 2012 Da “tangentopoli” a “galeropoli”. Ecco come vengono viste all’estero le patrie galere italiane. Male anzi malissimo. Solo un 15% dei giornali monitorati nel biennio 2010-2012 ha osato dare un’immagine sufficiente delle strutture penitenziarie italiane. Per il 75% viceversa l’immagine è pesssima più che negativa e appena un altro 10% tiene una posizione neutra per carità di diplomazia europea. L’Osservatorio sull’immagine delle carceri italiane nella stampa estera presenterà un rapporto ogni sei mesi. Ieri il primo curato da Klaus Davi e coordinato dal deputato del Pdl, Alfonso Papa. Tra i promotori dell’iniziativa la radicale Annalisa Chirico, membro del comitato nazionale, la quale di carceri e diritti dei detenuti si occupa da tempo sui giornali per i quali scrive. Il tutto è stato presentato alla Camera dei deputati alla presenza dell’ex vice presidente delle Camere penali italiane Renato Borzone. Proprio in questi giorni, è bene ricordarlo, si sta svolgendo la quattro giorni di digiuno di dialogo e di silenzio promossa da Marco Pannella, Rita Bernardini, Riccardo Arena, conduttore di Radio carcere, e Irene Testa de Il detenuto ignoto, proprio sul dramma penitenziario italiano e sui suoi risvolti costituzionali che hanno indotto ben cento professori di diritto costituzionale e penale a scrivere al capo dello stato affinché mandi un messaggio alle camere su questi argomenti e sull’amnistia come possibile soluzione. I paesi su cui è stata fatta la ricerca in questione sono Austria, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Svizzera, Stati Uniti. I giornali monitorati ? The New York Times, The Times, The Guardian, Telegraph, Le Monde, Liberation, El Pais, El Mundo, Abc, Sueddeutsche Zeitung, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Der Spiegel. Le citazioni sulle carceri italiane in questo biennio sono state 591. Il 75% di esse in negativo, il 15% positive e il 10% neutre. Per semplificare. Il risultato sintetizzato di questo monitoraggio? “Dopo la continua instabilità dei nostri governi, associata agli innumerevoli scandali politici, la fragile situazione economica e l’alto tasso di criminalità, il sistema carcerario italiano, insieme ai numerosi problemi dell’apparato giudiziario, è tra le voci che contribuiscono in maniera negativa a dipingere l’immagine del Belpaese sulle pagine dei principali quotidiani di tutto il mondo”. La stragrande maggioranza delle citazioni (75%) riguardanti l’ordinamento penitenziario italiano sono fortemente critiche, con pesanti attacchi alle mancanze strutturali e alle condizioni di vita disumane dei detenuti, nonostante gli sforzi del personale carcerario, degli agenti e dei volontari. Solo una minima parte (10%) dei quotidiani stranieri mantiene invece un giudizio neutro limitandosi a riportare esiti di processi o nuove incarcerazioni, mentre un buon 15% delle citazioni riesce a scorgere le “mosche bianche” in un contesto disastroso elogiando istituti di pena all’avanguardia che lottano ogni giorno per mantenere standard che dovrebbero essere un modello per tutta la penisola. Già le cifre parlano di per sé di noi all’estero: 207 i penitenziari italiani, 66.942 i detenuti rinchiusi in strutture, 45.681 i posti effettivamente disponibili, 21.261 gli “esuberi”, 6 i detenuti in media per ogni cella, 2 i metri quadrati in media riservati a ogni detenuto 7 i metri quadrati previsti dal Comitato europeo, 71 i posti nelle carceri italiane ogni 100.000 abitanti, 138 i posti media europea ogni 100.000 abitanti, 864 i tentativi di suicidio nelle carceri italiane nell’ultimo biennio. Ecco quindi la “prepotente urgenza” di cui parlò Napolitano al convegno al Senato organizzato da Emma Bonino un anno orsono, la cosa che ci “umilia” in Europa. E se negli altri paesi rispetto all’Italia la percentuale di persone in carcere ogni 100 mila abitanti è più che doppia rispetto a quella italiana, il posto a disposizione nelle celle è più che triplo. Cosa che testimonia negligenze anche negli investimenti di edilizia carceraria. E d’altronde nel paese delle tangenti per le carceri d’oro non poteva che essere così. I commenti più duri arrivano dalla stampa spagnola che, cogliendo l’occasione dell’assoluzione di Oscar Sanchez, detenuto catalano ingiustamente incarcerato per 20 mesi nelle “terribili prigioni italiane”, lancia pesantissimi attacchi al sistema penitenziario nostrano. Non meno teneri i giornali francesi e inglesi che parlano di condizioni di vita da terzo mondo e strutture fatiscenti e indecenti. Impressionante un articolo su El Pais: “Gli spagnoli confessano reati non commessi pur di andarsene dalle carceri italiane”. In esso fra l’altro si legge: “Circa 150 spagnoli soffrono il collasso delle carceri italiane nelle quali vivono 25.000 detenuti in più rispetto alla loro capacità. Spesso arrestati per inconsapevole traffico di droga, i detenuti spagnoli non solo patiscono le pessime condizioni di vita ma hanno anche difficoltà linguistiche e il loro più grande desiderio è tornare in Spagna. Gli interni non possono ricevere visite “intime” o faccia a faccia, la burocrazia rende lungo il trasferimento e molti spagnoli si dicono pronti a confessare un reato non commesso pur di andarsene da questo inferno”. Per i tedeschi invece le doglianze vengono dal sito News.de con questo titolo: “Nel paese delle vacanze carceri invivibili per i detenuti tedeschi”. Poi si legge che “anche in Italia, ci sono dei tedeschi rinchiusi in prigione. Per l’esattezza, secondo le ultime stime, sono 110. Anche loro, come gli altri, protestano contro le condizioni invivibili nelle quali versano: sono curati poco o nulla, d’estate il caldo è insopportabile e le celle sono sovraffollate. Inoltre circa la metà degli oltre 60.000 prigionieri in Italia è in carcere preventivo in attesa di giudizio”. Insomma se una volta eravamo il paese che andava in copertina dei magazine tedeschi con un revolver su un piatto di spaghetti ora rischiamo di finirci per il sole a scacchi. Infine l’aspetto che maggiormente attrae le critiche della stampa internazionale è il sovraffollamento (25%) che più volte in passato ha scatenato le condanne e il rimprovero di organismi internazionali. Problema collegato al precedente, l’allarmante tasso di suicidi (19%) con dati impressionanti che sono la diretta conseguenza delle altre questioni che affliggono il nostro sistema penitenziario: gli abusi (14%), le carenze strutturali (13%), l’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva (10%), l’inadeguatezza degli organici (8%) e la mancanza di fondi (6%). Giustizia: 31 suicidi e 87 detenuti morti nel 2012… l’intollerabile situazione nelle carceri di Valter Vecellio Notizie Radicali, 20 luglio 2012 In Italia ci sono nove milioni di processi penali e cinque milioni di civili pendenti; un cittadino, in media, deve aspettare 9 anni per una sentenza definitiva, ciò comporta 170mila prescrizioni all’anno e una perdita per l’Italia stimata intorno ad un punto percentuale del Pil a causa dei mancati investimenti degli imprenditori. Dall’inizio dell’anno sono morti in carcere 87 detenuti dei quali 31 suicidi, ovvero 14 decessi al mese. Negli ultimi dieci anni ci sono stati più di 600 suicidi tra i detenuti e dal 2000 ad oggi si sono uccisi 68 agenti carcerari. Quest’ultimo, in particolare, è un segnale chiaro del fallimento del sistema carcerario italiano, è un dato che da solo dovrebbe gettare un terrificante sospetto anche tra i giustizialisti più convinti e incalliti: se anche chi rappresenta le istituzioni ed esercita il potere si suicida, allora, forse, davvero c’è molto che non va, e qualcosa va fatto urgentemente. È questa premessa che partono il professor Andrea Pugiotto, ordinario di diritto costituzionale all’università di Ferrara e oltre cento docenti universitari di diritto penale e costituzionale, e attraverso una lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di mandare quanto prima un messaggio alle camere, affinché si discuta del provvedimento di amnistia: “Un provvedimento che sarebbe strutturale per una Riforma della Giustizia, perché le strutture esistenti - immediatamente, e dopo trent’anni - fuoriescano dalla condizione criminale”. Non è la sola iniziativa su questo terreno. L’Unione delle Camere Penali italiane, per esempio, ha in corso un vero e proprio “tour” nelle carceri italiane. Il 10 luglio hanno “ispezionato” l’Ucciardone di Palermo; ora è la volta del carcere catanese di piazza Lanza; poi quello di Bicocca. Il 20 luglio invece, doppio appuntamento per l’Ucpi che, con due delegazioni differenti, visiterà sia il carcere di Siracusa che quello di Rovigo. C’è poi il fronte radicale. Sono in pieno svolgimento le “quattro giornate” di “sciopero della fame e di silenzio” indette la settimana scorsa da Marco Pannella. Si intende così richiamare l’attenzione sulla condizione in cui versano le carceri italiane e per chiedere il provvedimento di amnistia. La deputata Rita Bernardini propone di fare qualcosa in più: coinvolgere anche i parenti dei reclusi. Spiega: “File di parenti di detenuti davanti alle carceri, quando si aspetta per il colloquio, spesso di notte o alle prime ore del mattino: mettersi silenziosamente in fila, magari con un cartello al collo con scritto “amnistia subito” o “Giustizia, diritto, legalità” o perché no? “Siamo tutte e tutti con Pannella”. La cosa farebbe fare molto effetto e sarebbe un vero e proprio evento nonviolento”. Carceri, e più in generale, questione giustizia che non funziona. Ricorda l’economista Tito Boeri: “La gestione di una causa civile costa allo stato circa 500 euro, contro un incasso - attraverso il contributo unificato - che in alcuni casi può essere di appena 43 euro, cioè solo l’8,7 per cento delle spese sostenute (la media europea è del 25,9 per cento). Come si legge nel Rapporto 2010 della Commissione europea per una giustizia efficiente, il restante 91,3 per cento, che corrisponde a qualche miliardo di euro, è a carico della collettività”. Il ricorso alla giustizia civile si è trasformato spesso in un abuso, sommergendo ogni anno i tribunali con oltre cinque milioni di nuove procedure, di cui solo il 40 per cento viene smaltito. Lo spiega bene un altro economista, Leonardo D’Urso: “Uno dei grandi problemi della gestione della giustizia civile è l’assenza di un budget di entrata per ogni tribunale insieme a una corretta contabilità di gestione, controllo e imputazione dei costi. Occorre eliminare tutte le cause pretestuose che danneggiano chi ha davvero bisogno di ricorrere al giudice. È come se un ospedale con 400 posti letto dovesse ricoverare mille pazienti, senza distinguere tra i malati immaginari o perfettamente guaribili a casa da quelli che hanno davvero bisogno del ricovero. Le conseguenze sono facilmente immaginabili. Per risolvere la situazione basterebbe introdurre una norma che accolli a chi perde il processo, e non alla collettività, il conto delle spese. Un’altra soluzione possibile consiste nello stimolare la diffusione di assicurazioni di tutela legale. In questo modo, se si vince o se si perde, i costi sono coperti dall’assicurazione”. Per tornare alla situazione carceraria. L’ultimo detenuto suicida è un “pentito” di camorra: si chiamava Angelo Ferrara, aveva 41 anni. Si è ucciso impiccandosi con i lacci delle scarpe nella Casa di Reclusione di Carinola, nel casertano. Gli agenti della Polizia penitenziaria lo hanno trovato riverso a terra, senza vita, coi lacci stretti intorno al collo. Sul corpo, secondo i primi rilievi, nessun segno di colluttazione. Le dichiarazioni di Ferrara, nel 2008, avevano portato alla condanna di numerosi esponenti della camorra napoletana affiliati al clan Moccia di Afragola (Na). Posto in “programma di protezione” dalla apposita Commissione del ministero degli Interni si stabilisce con una nuova identità a Ronchi dei Legionari (Gorizia). Il 27 maggio 2009, con dei complici, compie una rapina alla filiale del Monte dei Paschi di Siena di Portogruaro (Ve) e nel settembre 2010 rapina altre due banche di Rimini: scoperto grazie alle immagini riprese dalle telecamere istallate negli istituti di credito si vede revocare il “programma di protezione” e finisce detenuto a Carinola, dove ieri appunto si è tolto la vita. Come si è detto, dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita 31 detenuti, 10 gli stranieri. Il più giovane dei detenuti che si sono uccisi aveva soltanto 21 anni (Alessandro Gallelli, morto il 14 febbraio nel carcere di Milano San Vittore), il più “anziano” 58 (Giuseppe Cobianchi, morto nel carcere di Milano Opera). L’età media dei detenuti suicidi è di 37,7 anni, 10 erano stranieri e 21 italiani, 3 le donne (Tereke Lema Alefech, morta a Teramo; Claudia Zavattaro, a Firenze e Alina Diachuk, a Trieste). I dati del Ministero della Giustizia sulle morti in carcere contemplano soltanto due “categorie”: i “suicidi” e le morti per “cause naturali” (oltre a quella degli “omicidi”, che fortunatamente sono eventi rari nell’attuale sistema penitenziario: 1 o 2 all’anno). Tra le morti per “cause naturali” sono classificati anche i decessi causati da overdose di farmaci e droghe, da scioperi della fame portati alle estreme conseguenze, da “lesioni” di origine non chiara e su questo ultimo aspetto si concentra spesso l’attenzione della magistratura e dei media, basti pensare a nomi come Stefano Cucchi, Marcello Lonzi, Aldo Bianzino… “Suicidi” sono considerati quelli messi in atto con tecniche che non danno adito ad equivoci sull’intenzione auto-soppressiva, nel 90% dei casi l’impiccagione, raramente il taglio delle vene e l’asfissia. I decessi causati da inalazione di gas finiscono quasi sempre nel novero delle morti per “cause naturali”, poiché vengono attribuite ad un “errore” del detenuto, che avrebbe “esagerato” nello sniffare il butano a scopo stupefacente. Quindi un tentativo di “sballarsi” che si conclude male… ed invero la pratica di inalare il gas delle bombolette da camping è diffusa tra i detenuti tossicodipendenti, ma negli ultimi mesi sono morte così persone che non avevano “problemi di droga”: da Giampiero Converso nel carcere di Busto Arsizio (ex appartenente alla ndrangheta, era collaboratore di giustizia), a Sandro Grillo nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto. Casi perlomeno “dubbi” e spesso all’inchiesta della magistratura si aggiunge quella “interna” dell’amministrazione penitenziaria, ma in mancanza di prove certe dell’intenzione suicidaria (ad esempio un biglietto di addio scritto dal detenuto) si concludono nel solo modo possibile, con l’accertamento della morte “naturale”. Il dubbio è che in Italia il numero dei suicidi in carcere sia sottostimato da sempre, “prove certe” non ne abbiamo, ma abbiamo individuale almeno un “indizio” che meriterebbe un approfondimento: negli ultimi 12 anni nelle carceri italiane sono morte più di 2.000 persone (di cui circa 700 per suicidio) e la loro età media (38,5 anni) è di poco superiore a quella dei suicidi (37 anni). Perché muoiono così tanti detenuti giovani e giovanissimi? Tutti per “sballo da gas”? Il carcere dove nel 2012 si è registrato il maggior numeri di suicidi è Teramo (3 casi: Tereke Lema Alefech, il 29 giugno, Mauro Pagliaro, il 28 giugno e Gianfranco Farina il 2 febbraio). L’Istituto di pena teramano (270 posti e 430 detenuti presenti), assieme a quello Sulmona (250 posti e 450 detenuti presenti) detiene il triste record delle morti violente tra i detenuti: negli ultimi 7 anni a Teramo si sono verificati 11 suicidi e 2 decessi per “cause da accertare”, mentre a Sulmona 10 suicidi e 3 decessi per “cause da accertare”. Per avere un termine di paragone nel carcere di Poggioreale, dove sono ristretti mediamente 2.000 detenuti, dal 2005 ad oggi sono avvenuti 7 suicidi e 3 decessi per “cause da accertare”. Giustizia: il valore delle parole e dei gesti di Carlo Peis Notizie Radicali, 20 luglio 2012 Il dare corpo alle proprie idee con uno “sciopero della fame e di silenzio”, si rinnova in questi giorni con l’iniziativa radicale per un’amnistia. Come in tante altre circostanze si propone una battaglia per alimentare, rinunciando alla propria energia, chi dovrebbe e in alcuni casi vorrebbe ma non può dar corso a un proprio dovere istituzionale. Un gesto, spesso equivocato, forse anche per comoda convenienza, ma che se ascoltato rivela la sua pacifica indole che si rivolge a tutti e mai contro qualcuno. Ma qual è l’attuale scenario dal quale emerge la proposta di Marco Pannella? La realtà del sistema giurisdizionale è quella di un sistema che con difficoltà produce giustizia, intesa come quel rimedio umano che cerca di accertare colpe penali, responsabilità civili, violazioni amministrative, con la massima equità, efficacia ed efficienza. La prova di una complessiva giustizia che non funziona si riscontra in tutti quei casi di una tardiva a volte errata se non talvolta persino negata giustizia. Oltremodo tristemente certificato dalle condanne che vengono ingiunte all’Italia dalla Corte di Strasburgo per violazione del giusto processo e della ragionevole durata dello stesso. Se si parla della realtà carceraria le cose, se è possibile, sono ancora peggiori. L’attuale sistema carcerario a causa del sovraffollamento, delle condizioni fatiscenti dei penitenziari, della concreta impossibilità di realizzare una umana espiazione della pena, danno luogo ad una situazione che in molti casi si può definire senza timore di smentita di inciviltà. È bene ribadire, che l’espiazione di una pena, dopo una riconosciuta colpa giudiziaria, così come prevede il nostro ordinamento, deve essere conforme al rispetto dei diritti umani che se sono tali non ammettono deroghe. Un’espiazione che nel contempo deve essere rieducativa affinché possa espletare la sua funzione di redimere e consentire il successivo reinserimento sociale. Così come è altrettanto chiaro che una condanna giudiziaria, proprio per la sua intrinseca sanzione morale e civile, debba essere conseguente al più equo, celere e garantista processo. Tutto ciò crea quel necessario indissolubile binomio tra il processo e l’applicazione della sanzione che sono l’uno la ragione dell’altro e devono essere collegati entrambi da un reciproco rispetto del diritto e dei diritti. La nota dolente di questa realtà è che il titolare di entrambe queste funzioni è lo Stato che per la sua ragion d’essere ha l’onere e l’obbligo di garantire il più rigoroso rispetto e applicazione dei diritti di tutti. A tal proposito non nuocerebbe rileggere le lettere e riascoltare le testimonianze dei detenuti. Quest’ultimi fanno affiorare dai penitenziari una condizione di vita dove la speranza viene annullata, il futuro schiacciato dalla quotidiana morte fisica e morale, i buoni sentimenti preclusi quanto gli affetti, un presente che quotidianamente si oscura in un carcere che si dimostra contro la vita. L’osservazione inevitabile al rappresentato dramma che non si può sottacere, è che tutto ciò si realizza in quel luogo statale che istituzionalmente è preposto ad ben altra funzione. In questo scenario un’amnistia pare l’unica possibile soluzione, visto che anche i fatti ci attestano che per decenni le alternative proposte si sono dimostrate vane, all’avvio di una grande riforma della Giustizia partendo dal fermare una situazione di flagrante violazione del diritto da parte di colui che ha l’obbligo e il dovere di applicarlo: lo Stato. I radicali da tempo e ancora in questi giorni con un’iniziativa di quattro giorni di sciopero della fame e di silenzio propongono “un’amnistia” e un messaggio presidenziale al Parlamento per proporre una congrua discussione pubblica sul tema, che seppur grave e drammatico, è assente. In conclusione, è doveroso ricordare e segnalare che in una di queste precedenti iniziative partecipò l’attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, garante della legalità costituzionale, al quale si potrebbe rivolgere una semplice domanda o che comunque ci consente di formularla: da allora sono cambiate le condizioni complessive della giustizia e delle carceri che La spinsero a partecipare oppure no? e se nulla è cambiato, perché allora abdicare a quelle ragioni di prepotente urgente necessità di un’opportuna amnistia che si ritenne sottoscrivere con la propria personale partecipazione? Giustizia: Unione Camere Penali; cinque giorni di sciopero, dal 17 al 21 settembre Adnkronos, 20 luglio 2012 Cinque giorni di astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale degli avvocati penalisti dal 17 al 21 settembre: è quanto ha deliberato l’Unione camere penali italiane per esortare il Parlamento ad “approvare rapidamente la riforma della professione forense” e il governo ad “escludere la stessa dal regolamento di riordino delle professioni e a rivedere le modifiche delle circoscrizioni giudiziarie così come finora delineate”: Inoltre, vengono richiamate “tutte le istituzioni e le forze politiche ad affrontare seriamente il problema della situazione carceraria, a riprendere il dibattito sulla riforma costituzionale della giustizia e a dare impulso ai progetti di legge sulla giustizia penale”. L’Ucpi ricorda che “la riforma dell’ordinamento forense, dopo l’approvazione in Senato del novembre 2010, non è ancora stata licenziata dalla Camera nonostante l’impegno, più volte ribadito dai partiti, di portare rapidamente a compimento l’iter legislativo. Questa riforma - si sottolinea - è fondamentale per la corretta esplicazione del diritto di difesa, in particolare per il riconoscimento della specializzazione forense, che attuerebbe il diritto dei cittadini ad avere un difensore penale realmente adeguato al ruolo”. Ma per i penalisti, “sono molte le riforme da portare a termine: da quella delle circoscrizioni giudiziarie, sulla quale non vi è una nostra pregiudiziale opposizione ma su cui occorre ripensare l’intervento, con una ridefinizione delle circoscrizioni intelligente e non operata attraverso mere soppressioni lineari e conseguenti accorpamenti; all’accantonata riforma costituzionale della giustizia; fino al tema delle intercettazioni, dove le ripetute violazioni del segreto di indagine e la costante inosservanza delle norme che regolano la pubblicazione degli atti, producono una situazione assolutamente anomala e del tutto sconosciuta nei moderni sistemi di democrazia. Infine, la riforma del sistema penitenziario, davanti alla situazione di evidente illegalità in cui versano le carceri italiane”. Giustizia: Sappe; il Dap stanzia 76mila € per un corso anti-stress riservato ai Comandanti Public Policy, 20 luglio 2012 L’Eap, l’Ente di assistenza per il personale dell’amministrazione penitenziaria, ha stanziato 76.000 euro per pagare un corso di formazione che insegni appropriate tecniche anti-stress ai Comandanti delle carceri. Il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) esprime forti critiche perché l’Eap finanzia un’iniziativa rivolta ad un settore, “quello della formazione superiore dei Comandanti (e cioè circa duecento persone in tutto) su un argomento che nulla ha che vedere con l’assistenza al personale” Il Sappe fa anche un po’ di conti per dimostrare che tutta l’operazione è uno spreco di risorse. Massimo De Pascalis, direttore dell’Istituto superiore studi penitenziari (che ha organizzato il corso e che lo ospiterà), ha dato le cifre: 2.500 euro per i docenti, 9.000 per il pagamento della missione ai partecipanti, 7.500 per i costi dei pasti. Sono 19.000 euro per ognuna delle quattro edizioni, per complessivi 76 mila euro. Il Sappe contesta la ripartizione dei costi. In percentuale c’è un 47% di spesa per gli spostamenti dei corsisti, un 40% per i loro pasti e soltanto uno striminzito 13% di spesa per la formazione vera e propria. Il sindacato, dopo aver rimarcato che viviamo nell’era di internet, delle videoconferenze con Skype, dell’open source, ha ricordato che lo stesso Issp aveva lanciato il “Portale della Formazione” e che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) aveva messo in rete un portale della formazione approntato dall’ufficio Sia (Sistemi informativi automatizzati). Il nuovo portale, il Golf, Gestione on line della formazione, è giudicato dal personale penitenziario un inutile doppione. Nel 2012, lamenta il Sappe, “da un progressista come Massimo De Pascalis che s’è sempre impegnato per innovare, soprattutto nel settore dell’informatica, ci si aspetterebbe qualcosa di più di un’offerta formativa del genere dove poco più del 10% è speso per le attività didattiche e tutto il resto è più o meno uno spreco di soldi”. In dieci anni, conclude il sindacato, non è partito nemmeno uno dei due “portali della formazione”. Giustizia: 100 poliziotti penitenziari suicidati in 12 anni, interrogazione di Rita Bernardini La Sicilia, 20 luglio 2012 Dal 2.000 ad oggi, in Italia, cento agenti della polizia penitenziaria si sono tolti la vita. L’ultimo un mese fa, a Trapani. Vincenzo, 35 anni, trapanese, assistente della Polizia penitenziaria in servizio presso il carcere Ucciardone di Palermo, ha posto fine alla sua esistenza con un colpo di pistola. C’è una connessione diretta o indiretta di questo tragico gesto con le condizioni ambientali e lavorative in cui opera la polizia penitenziaria? È quanto chiede di sapere l’onorevole Rita Bernardini, che ha presentato un’interrogazione indirizzata al Ministro della Giustizia. “La tragedia - scrive - è avvenuta a pochi mesi dal suicidio di altri appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria a Formia, San Vito al Tagliamento, Battipaglia e Torino, e prima ancora altri tragici casi sono avvenuti a Mamone Lodè, Caltagirone e Viterbo. Da tempo i sindacati della polizia penitenziaria sostengono che bisogna comprendere e accertare quanto abbiano eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere. È stato il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ad accertare che i suicidi di appartenenti alla polizia penitenziaria, benché indotti dalle ragioni più varie e strettamente personali, siano in taluni casi le manifestazioni più drammatiche e dolorose di un disagio derivante da un lavoro difficile e carico di tensioni. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria assicurò a suo tempo i sindacati di categoria che avrebbe prestato particolare attenzione al tragico problema, con la verifica delle condizioni di disagio del personale, ma a tutt’oggi non sono stati attivati questi importanti centri di ascolto”. Giustizia: inserì catetere a detenuto senza motivo, medico condannato a 2 anni e 8 mesi Ansa, 20 luglio 2012 Condanna a due anni e 8 mesi di reclusione, a conclusione di un procedimento tenutosi con il rito abbreviato, per Rolando Degli Angioli, il medico in servizio a Regina Coeli il 20 luglio 2008, accusato di aver sottoposto il detenuto Julien Monnet, in carcere per aver picchiato violentemente la figlia nei pressi dell’Altare della Patria, ad un illegittimo ed immotivato trattamento sanitario. Per la stessa vicenda l’infermiere Luigi Di Paolo è stato rinviato a giudizio e sarà processato con il rito ordinario. I due erano finiti sotto inchiesta per, a seconda delle singole posizioni, falso, abuso di ufficio e concorso in violenza privata con l’aggravante dell’abuso dei poteri. In base all’accusa i due imputati avrebbero inserito in modo indebito “un catetere vescicale” durante una visita medica. Un’azione messa in atto senza un “quadro clinico di riferimento” come scrivono i pm nel capo di imputazione. Soddisfatti i difensori di Monnet, dichiarato non punibile in quanto incapace di intendere e di volere quando picchiò la figlia. “Finalmente - hanno commentato Michele e Alessandro Gentiloni - una sentenza che fa giustizia delle sofferenze di Monnet. Lui è da tempo tornato a casa. Le sue condizioni di salute sono buone ed ottimi sono i rapporti con la figlia e la ex moglie”. Giustizia: quando in Italia si seviziavano i brigatisti… di Pier Vittorio Buffa Venerdì di Repubblica, 20 luglio 2012 Nel 1982, per liberare il generale Usa James Lee Dozier, la polizia decise di passare alle maniere forti con i primi arrestati, ma chi diede l’ordine? “Venne dall’alto”. “La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe”. Salvatore Genova racconta così quello che accadde nella questura di Verona, nella notte tra il 27 e il 28 gennaio 1982. La ragazza è Elisabetta Arcangeli. Il suo compagno è Ruggero Volinia. Salvatore Genova è uno dei poliziotti che guidarono le indagini sul caso James Lee Dozier, il generale americano rapito dalle Brigate rosse il 17 dicembre 1981. Genova sarà arrestato insieme ad alcuni suoi uomini con l’accusa di aver usato violenza su dei terroristi catturati, ma quella notte, in questura, è solo un testimone: conduce l’interrogatorio il suo collega Oscar Fiorolli. I poliziotti capiscono che Volinia sta per cedere. “Fu uno dei momenti più vergognosi di quei giorni” dice Genova, “avrei dovuto arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece, caricammo Volinia su una macchina e lo portammo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale e, dopo pochi minuti, parla, ci dice dov’è il generale Dozier”. A coordinare il tutto e a eseguire il trattamento con acqua e sale, una tortura già usata dai francesi nella guerra di Algeria, è una squadretta speciale guidata da un alto funzionario di polizia, Nicola Ciocia, e composta da quattro poliziotti chiamati i Quattro dell’Ave Maria, La tecnica è all’apparenza semplice, ma bisogna essere molto esperti per praticarla in modo sicuro ed efficace. Il prigioniero è legato a un tavolo, con un tubo gli vengono fatte ingurgitare grandi quantità di acqua e sale che provocano, oltre alla nausea, un forte senso di soffocamento. Ciocia è in via Caetani a Roma quando, il 9 maggio 1978, viene trovato il corpo di Aldo Moro nella Renault rossa. Lo si distingue di spalle, nelle foto, dietro Francesco Cossiga. La sua squadra entra in azione pochi giorni dopo, già con i primi arresti del dopo Moro. “All’acqua e sale” è infatti sottoposto, lo racconta lui stesso nei dettagli, Enrico Triaca, il tipografo delle Br. Ma Ciocia, che Umberto Improta, capo degli investigatori durante il sequestro Dozier, soprannominò dottor De Tormentìs, non agi certo di sua iniziativa. Lo si capì già allora, nel 1982, che c’era un piano preciso, venuto dall’alto. Se ne è avuta la conferma ora, a distanza di trent’anni. Ciocia, pur non ammettendo le torture con l’acqua e il sale, ha detto di essere lui il dottar De Tormentìs, Salvatore Genova, a sua volta, è stato molto preciso. Ha raccontato della riunione che si tenne in questura a Verona all’indomani del sequestro di Dozier: un via libera all’uso delle maniere forti con terroristi e fiancheggiatori, il timbro ai metodi di Ciocia-De Tormentis. La riunione fu convocata dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci. Nella stanza c’erano anche Improta, il poliziotto cui De Francisci aveva affidato il coordinamento del lavoro, Oscar Fiorolli, Luciano De Gregori e Salvatore Genova. Ascoltarono De Francisci dire, così ricorda Genova, che l’indagine su quel sequestro era “delicata e importante” e che bisognava fare “bella figura”. E dare il via libera all’uso delle maniere forti per risolvere il caso. “Ci guardò uno a uno e con la mano destra” rievoca Genova “indicò verso l’alto. Ordini che vengono dall’alto, spiegò: quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fece sì con la testa e disse che si poteva stare tranquilli, che per noi garantiva lui. Il messaggio era chiaro e, dopo la riunione, cercammo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti? Fu questo che ci dicemmo tra di noi funzionari. E di far male agli arrestati senza lasciare il segno”. Ciocia, con i quattro dell’Ave Maria, arrivò il giorno dopo quella riunione e poi tornò in Veneto negli ultimi giorni del sequestro, quando le indagini portarono ai primi arresti dei fiancheggiatori. E quindi alla necessità di ferii parlare. Tutti gli uomini di Improta assistettero alla prima “acqua e sale” di Verona, quella praticata a Nazareno Mantovani, che svenne durante il trattamento. L’adrenalina scatenata dal successo dell’operazione Dozier (il generale liberato, i brigatisti catturati senza sparare un colpo) e i risultati ottenuti con le tecniche di Ciocia scatenarono lo spirito di emulazione. Nella caserma della Celere di Padova, dove furono portati i terroristi, non si andò tanto per il sottile. Genova e i suoi, infatti, furono arrestati con l’accusa di aver organizzato, tra l’altro, la finta fucilazione del br Cesare Di Lenardo. In quelle settimane, il ministro dell’Interno Virginio Rognoni disse: “Possiamo respingere, con assoluta fermezza e grande tranquillità di coscienza, l’accusa adombrata in alcune interrogazioni e sicuramente presente in certa campagna di stampa, di avere trasferito la lotta contro il terrorismo su un terreno diverso da quello dell’ordinamento giuridico mediante una pratica sistematica e violenta del rapporto fra Stato e cittadino al momento dell’arresto...”. I giornali ai quali faceva riferimento il ministro erano soprattutto L’Espresso e la Repubblica. Giustizia: “Altro che abusi, noi salvammo questo Stato” di Antonio Corbo Venerdì di Repubblica, 20 luglio 2012 Parla Nicola Ciocia, il poliziotto che avrebbe usato la tortura dell’acqua e sale con i terroristi. Nega tutto ma poi dice: “la polizia deve poter agire”. Ammissioni altrui, versioni ormai precise scritte in atti giudiziari e, infine, la “sua” verità. Che ora Ciocia cerca di mettere assieme, per la prima volta. Da mesi, forse sollecitato da quell’anniversario dell’inverno 1982, si è barricato in un silenzio preoccupato. Sono passati trent’anni dalla liberazione a Verona di James Lee Dozier e dagli elogi di Ronald Reagan. La fine di un incubo. Quel nome in codice, ormai riemerso - dottor De Tormentis - ha però sconvolto la vita di un ex poliziotto che filava verso gli 80 anni. All’improvviso, tutto è cambiato e adesso si sente braccato da un passato fosco. Torture per estorcere confessioni. Napoli. Nicola Ciocia, era davvero lei il dottor De Tormentis? “Fu una battuta di Umberto Improta. Lo scherzo di un attimo. Avevamo liberato da poco Dozier. Glielo dissi: “Umbè, non scherzare”. Eravamo venti funzionari di polizia arrivati da tutta Italia. Ora, invece, sembra che ci fossi solo io a Verona... Sono quasi tutti morti e non ho testimoni per difendermi. Il mio dramma è questo. E la verità è un’altra. Abbiamo impedito che proseguisse la strage delle Brigate rosse. Ammazzavano e azzoppavano a Torino, Milano, Roma. Moriva tanta gente”. “Acqua e sale” somministrati a forza per far “cantare” i terroristi. È vero, dottor Ciocia? “Tutto nasce dalle rivelazioni del dottor Salvatore Genova. Era con noi a Verona: poi diventò deputato del Psdi. Non so perché abbia fatto questa scelta. Ha parlato con Nicola Rao, autore del libro Colpo ai cuore (Sperling & Kupfer, pp. 208, euro 17, ndr), e in tv”. Che cosa prova nei confronti di Genova? “Non capisco perché dice certe cose. Che io non confermo affatto”. Rimpianti, rimorsi? “Ho creduto solo in Dio e nello Stato. Certi interrogatori richiedono coraggio. Dicevamo, ai nostri tempi: ci vuole stomaco. Non si domandava mica: scusi, è stato lei? No. Le norme del codice di procedura penale non bastano. Abbiamo fermato altre stragi. Se siamo stati più decisi negli interrogatori, queste sono cose che ogni poliziotto si porta nella tomba. Sono cose che appartengono allo Stato, e basta”. Tutto sembra crollargli addosso. L’età, la delusione, gli insulti al cuore, un orecchio che non va. Ciocia, però accetta di parlare e prega la moglie, insegnante in pensione, di offrire qualcosa. “Un’aranciata, ecco. No, l’acqua no”. È triste Ciocia, e non coglie il tentativo di battuta. “Anche l’acqua, perché no?”. L’accusa più imbarazzante è infatti quella di aver bendato gli arrestati, poi costretti testa in giù a bere “acqua e sale”. Ci si sente con i muscoli a pezzi, fino a perdere coscienza del proprio corpo. Ci si sente ai confini della morte, dicono. Nel campionario osceno e feroce delle torture, lo chiamano water-boarding”. Che cosa ne pensa, dottor Ciocia? “Non è così che si fa parlare un terrorista. Questo non esiste. I metodi sono altri”. Può raccontarli? “Bisogna indagare a fondo. Sapere tutto. Famiglia, lavoro, hobby, segreti, amanti, tutto. E far sentire l’interrogato in tuo totale possesso. Sono insegnamenti di grandi poliziotti: i miei maestri, Paolo Zamparelli, Angelo Mangano... Con Mangano, ero commissario giovane a Corleone. Prendemmo prima Luciano Liggio, grazie a un confidente, poi Salvatore Riina. Siamo stati notti e notti tra i cespugli, senza fumare né parlare”. Tutto qui? “La mia polizia è questa: dura, durissima, fatta di indagini, sacrifici, attese, pedinamenti”. La polizia, si dice, “è il braccio violento della legge”. Si riconosce in questa definizione? “No, semmai è il braccio armato dello Stato. Così va meglio”. Torniamo alle accuse che vi sono state rivolte nel caso Dozier. Le donne brigatiste raccontarono le sevizie più gravi, vere torture. “Io ho sempre rispettato le donne”. A Napoli lei ha sconfitto i Nuclei armati proletari. Il successo che la portò, poi, all’Ucigos. Che metodo usaste? “Non ci furono torture, neppure quella volta. Ma quali torture? Ci fu, invece, uno scoppio in un covo. Trovammo centinaia di chiavi con cartellini e iniziali: abbiamo passato giorni e giorni, e anche le notti, a cercare di collegare quelle chiavi con gli altri covi. Finì con quattromila indagati. Un lavoro mostruoso: è quella la mia polizia”. C’è una foto famosissima, dottor Ciocia, nella quale lei è appena alle spalle di Francesco Cossiga, dietro la Renault rossa con il corpo di Aldo Moro, in via Caetani a Roma. Che cosa ricorda di quei minuti? “Cossiga, poco dopo, mi chiese di accompagnarlo nella chiesa più vicina. Entrò, rimasi fuori con altri due o tre. All’uscita mi disse: “Non sono più ministro dell’Interno”. Quanto tempo è passato”. Trent’anni. Ma, ogni tanto, si legge ancora di nuovi pestaggi, dopo un arresto. Lei ormai è in pensione e può parlare liberamente. Un’ultima domanda: sono ancora tanti i dottori De Tormentis? “La vuole un’altra aranciata?”. Sardegna: progetto per le Colonie penali agricole, firmato accordo per l’attuazione La Nuova Sardegna, 20 luglio 2012 È stato firmato ieri il protocollo d’intesa tra il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e il gruppo “Studio Vacanze” rappresentato da Gesuino Coi che darà piena attuazione al progetto C.o.l.o.n.i.a. Si tratta di un piano triennale gestito dal Prap Sardegna e finanziato dalla cassa delle ammende del ministero dove i detenuti delle case di reclusione di Is Arenas, Isili e Mamone, formati e avviati in specifiche attività nel settore agro-pastorale, grazie anche all’inserimento di diversi capi d’arte (apicoltore, addetto agli allevamenti, potatore specializzato) contribuiscono alla produzione di prodotti quali formaggi, miele, polline, olio extravergine di oliva, ortaggi e piante officinali. I prodotti, marchiati con il logo “Galeghiotto”, sino a questo momento sono stati pubblicizzati e venduti in alcune fiere nazionali e all’interno degli spacci dell’amministrazione penitenziaria facendo si che i considerevoli incassi, ritornassero nelle casse dello Stato. La riorganizzazione del lavoro all’interno delle Colonie, grazie alla sinergia di tutti gli operatori, ha permesso che nel corso di questi tre anni venisse implementata in maniera considerevole sia la quantità che la qualità del prodotto. Tali risultati hanno consentito così di ipotizzare maggiori aperture verso l’esterno, sia per i prodotti, che per i detenuti inseriti all’interno del progetto e considerati i veri protagonisti e il centro attorno al quale far ruotare tutti gli interventi. Con la firma del protocollo d’intesa con l’importante realtà alberghiera e ricettiva gallurese, l’esperienza C.o.l.o.n.i.a. si arricchisce così della partecipazione di un nuovo partner che, oltre ad acquistare parte dei prodotti Galeghiotto, si impegna ad assumere nei villaggi alcuni detenuti ristretti nelle tre colonie penali o frequentanti il corso alberghiero di Alghero. La firma del protocollo, pone le basi per il completamento del percorso di inclusione sociale dei detenuti che, grazie a quanto imparato all’interno degli istituti penitenziari, potranno scommettere nuovamente sul loro futuro. Lombardia: l’Assessore Ruffinelli; lo sport strumento di formazione nelle carceri Asca, 30 luglio 2012 Si è svolta oggi al Pirellone l’audizione dell’assessore regionale allo Sport e Giovani Luciana Ruffinelli, davanti alla Commissione carceri. Nel corso dell’incontro sono state illustrate le politiche regionali attivate in ambito sportivo carcerario. “Nel 2008/2009 - ha spiegato la Ruffinelli - grazie ai fondi disponibili con il bilancio, si sono potute organizzare attività con programmi di diverso tipo, in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria, federazioni ed enti di promozione sportiva. Ora le difficoltà legate ai trasferimenti statali ci costringono, nostro malgrado, a temporeggiare. È un vero peccato - ha commentato l’assessore - perché lo sport negli istituti di pena rappresenta un valido strumento di promozione della persona, di valorizzazione delle competenze, di formazione e aggregazione”. L’Unione Italiana Sport per Tutti ha proposto alla Regione un progetto che prevede il coinvolgimento di ben 13 istituti lombardi. ‘Credo che con questa ipotesi di lavoro - ha concluso l’assessore -, attraverso una programmazione mirata e rivolta ai singoli istituti, si possano offrire le opportunità di attività più adeguate alle singole realtà carcerarie. I finanziamenti potrebbero essere reperiti attraverso il bando da un milione di euro, aperto il 18 luglio scorso dalla Regione, anche alla luce di quanto è proposto dal gruppo di lavoro, che sta discutendo la legge di riordino sullo sport, la quale contempla anche le attività rivolte ai detenuti’. Bolzano: il Prefetto; carcere è inadeguato, serve al più presto una nuova struttura Alto Adige, 20 luglio 2012 “Mi auguro che al più presto possa perfezionarsi l’iter per la costruzione della nuova struttura che sorgerà nell’area Bolzano sud e che potrà garantire condizioni di vita e capacità di rieducazione più consone e confacenti agli obiettivi propri di un istituto di pena moderno”. Lo ha detto il commissario del governo, Valerio Valenti, che ieri mattina ha visitato il carcere di Bolzano. “Ho voluto rendermi conto di persona delle condizioni di vita dei centoventidue detenuti che occupano le celle del carcere”, ha aggiunto il prefetto Valenti subito dopo aver lasciato il carcere di via Dante. “Malgrado l’ottima collaborazione con le istituzioni locali - sottolinea una nota del Commissariato del governo - l’attuale struttura soffre per la mancanza di spazi verdi, di locali idonei ad attività trattamentali e presenta, in alcuni casi, situazioni igieniche fortemente deficitarie”. E poi aggiunge: “Profonderò ogni sforzo per accelerare le procedure per la costruzione del nuovo carcere e far sì che anche il personale addetto alla custodia, carente di un terzo rispetto a quello assegnato, possa operare in condizioni di maggiore sicurezza”, ha concluso Valenti. Solo pochi mesi fa, all’interno del carcere, era scoppiata una rivolta tra i detenuti, che avevano dato fuoco a materassi e pezzi di carta e staccato tubi dell’acqua, perché stanchi delle condizioni all’interno della struttura. Per diverse settimane, il primo piano non è stato utilizzato. La metà dei detenuti era stato spostato presso altri carceri del Nord-Italia. Le condizioni, però, pur essendo stato riaperto il primo piano, rimangono critiche, come in quasi tutti i carceri italiani. La struttura di via Dante, infatti, non dovrebbe ospitare più di ottanta detenuti, mentre allo stato attuale ne contiene un terzo in più. Gli stessi agenti, tramite il sindacato, hanno spiegato che la situazione è diventata “insostenibile” e che i dipendenti non hanno la possibilità di garantire la massima sicurezza. Catania: l’Ucpi in visita nelle carceri; a Piazza Lanza e Bicocca situazione insostenibile La Sicilia, 20 luglio 2012 I detenuti vivono in condizioni drammatiche e umilianti. É quanto è emerso nella visita effettuata ieri nel carcere di Piazza Lanza e in quello di Bicocca dagli avvocati Giuseppe Passarello, presidente della Camera penale di Catania, Salvatore Liotta, componente della Commissione diritti umani e carcerazioni speciali dell’ Unione camere penali italiane e Luca Mirone, referente dell’ Osservatorio Carceri, assieme agli avvocati Vinicio Nardo, Francesco De Minicis ed Annamaria Alborghetti della Giunta dell’Unione camere penali italiane. Una visita completa, effettuata nell’ambito di un progetto nazionale di monitoraggio di tutte le carceri italiane portato avanti dall’Unione delle Camere Penali Italiane, in concomitanza, peraltro, dello sciopero della fame e del silenzio posto in atto dai detenuti catanesi. La grave realtà della vita carceraria è emersa anche dai colloqui intrattenuti, durante la visita, con i detenuti e con il personale che lavora all’interno delle strutture penitenziarie. “Nonostante il documento di denuncia presentato, a seguito di un incontro avuto con il ministro della Giustizia nel gennaio scorso - dicono i componenti della Camera penale - ad oggi poco o nulla è cambiato e le attuali condizioni di vita intramurarie appaiono più che mai insopportabili. Il sovraffollamento carcerario, purtroppo, vanifica gli sforzi di tutti coloro i quali quotidianamente operano, con impegno e dedizione, all’interno del carcere. L’incapacità dello Stato di garantire i diritti minimi dei detenuti (si pensi solo alla scarsa disponibilità di acqua che viene erogata per poche ore al giorno ed alle condizioni medievali del reparto “Nicito” di Piazza Lanza) si traduce nella quotidiana violazione dei diritti costituzionalmente garantiti delle persone recluse. Non si può non evidenziare come l’insostenibile situazione riscontrata sia anche il frutto di un eccessivo ricorso alla custodia cautelare, sulla base di pretese esigenze securitarie ed emergenziali e del mancato funzionamento, ampiamente previsto e preannunciato dai penalisti, della legge c. d. “svuota carceri” che non ha avuto alcuna concreta incidenza sul drammatico problema denunciato”. Modena: la Coop Estense mette in vendita le coltivazioni biologiche dei detenuti Modena 2000, 20 luglio 2012 La Coop Estense promuove la vendita delle coltivazioni biologiche dei detenuti della Casa Circondariale Sant’Anna di Modena. Da alcuni anni, sotto la guida esperta di due agronomi, i detenuti coltivano all’interno della casa circondariale prodotti ortofrutticoli che hanno ottenuto la certificazione biologica da parte di Icea (Istituto per la certificazione etica e ambientale). Nei tre ettari di terra, coltivati esclusivamente a mano, si producono more, cetrioli, cipollotti ma anche pomodori ciliegini, ravanelli, zucchine chiare e scure tutto rigorosamente in maniera biologica. I detenuti, adeguatamente formati, si occupano di tutte le fasi del processo produttivo, dalla semina alla raccolta. I prodotti finora sono stati venduti nello spaccio interno del carcere ed occasionalmente durante fiere e mercatini ma oggi, grazie alla collaborazione con Coop Estense, i frutti della terra arrivano sui banchi di vendita della cooperativa, negli ipermercati Grand Emilia e Portali di Modena. Il progetto, dalla forte valenza educativa, ha l’obiettivo di favorire i processi di integrazione dei detenuti e di contrastare il pregiudizio che li circonda, spesso ostacolo nel momento del loro reinserimento nella società a fine pena. Oggi nel carcere di Modena l’attività agricola è una delle principali iniziative proposte ai detenuti nell’ambito dei programmi di reinserimento sociali, non solo perché costituisce un’opportunità lavorativa utile per ricollocarsi nella società ma anche perché rappresenta uno strumento di crescita personale. Cassino (Rm): dalla Regione 60mila euro per impianti sportivi in carcere Dire, 20 luglio 2012 La giunta regionale del Lazio ha approvato una delibera che prevede interventi per la casa circondariale di Cassino, proposti dal Dap e condivisi dal Provveditorato regionale del Lazio, per un importo complessivo di 60 mila euro. Nel dettaglio, si tratta della copertura del campo sportivo con rete leggera e protezione dei pali di sostegno della recinzione, della realizzazione di un campo di bocce con la relativa copertura e della manutenzione del sistema di rubinetteria. Con questo provvedimento, ha spiegato il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, “confermiamo la nostra attenzione verso i detenuti della nostra regione, in questo caso della casa circondariale di Cassino. Interventi che si sommano ad altri analoghi già previsti e programmati in altre strutture detentive del Lazio”. “La realizzazione, insieme alla ristrutturazione, di campi sportivi nelle carceri - ha aggiunto l’assessore regionale alla Sicurezza, Giuseppe Cangemi - rappresenta un progetto di inclusione sociale ma anche un modo, attraverso l’attività sportiva, di riabilitazione e per arginare in qualche modo il disagio delle persone detenute”. Cagliari: Comune e Sdr per garantire diritto preghiera a detenuti islamici Adnkronos, 20 luglio 2012 L’associazione Socialismo Diritti Riforme e l’Assessorato dei Servizi Sociali del Comune di Cagliari, in collaborazione con l’area Educativa e la Direzione del carcere di Buoncammino, hanno promosso, per il secondo anno consecutivo, l’iniziativa ‘Ramadan, cultura e preghierà rivolto ai detenuti di religione islamica. Ciascuno dei 40 detenuti praticanti, che da oggi effettuano il Ramadan, riceverà, a conclusione della giornata di astinenza, un sacchettino contenente i datteri. Il rito infatti prevede che la consumazione del cibo dopo il tramonto sia preceduta dall’assunzione di alcuni datteri. Per poter esercitare il diritto-dovere della preghiera, secondo pilastro dell’Islam, i cittadini privati della libertà hanno ricevuto anche una piccola sveglia per ciascuna cella che consentirà loro di organizzare meglio le giornate dedicate alla spiritualità. ‘Il crescente numero di detenuti extracomunitari nella struttura penitenziaria di Buoncammino ha posto all’attenzione delle istituzioni il problema della pratica della fede islamica. L’amministrazione comunale di Cagliari fin dal suo insediamento ha guardato con interesse - afferma l’assessore del Comune di Cagliari, Susanna Orrù - alle espressioni di fede, ritenendo che la cultura e la spiritualità costituiscano per i detenuti aspetti di alto valore umano e sociale. Un piccolo gesto, la donazione di un frutto caro al mondo islamico, è un segno tangibile della cura umana verso chi vive un difficile momento’. I praticanti islamici, specialmente quelli che sono privati della libertà, vivono con particolare intensità - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme - l’esperienza spirituale. Il Ramadan è per loro un’occasione di profonda purificazione, di rinascita, di pura preghiera. La fede è per i detenuti fonte primaria di consolazione e di speranza soprattutto nelle lunghe attese che precedono i processi. Rappresentano, inoltre, momenti di riflessione e di crescita interiore irrinunciabili nonché occasioni di scambi culturali all’insegna del rispetto della differenza e della pacè. Quaranta chilogrammi di datteri sono stati consegnati nel carcere di Buoncammino dove verranno distribuiti durante i 30 giorni di digiuno rituale. Immigrazione: niente diritti per i nuovi schiavi L’Espresso, 20 luglio 2012 Saranno gli effetti del governo tecnico, che s’occupa unicamente di conti pubblici e nuove tasse da pagare. Sarà per la crisi dei partiti, che parlano soltanto di se stessi, di alleanze, di marchingegni elettorali. Ma una grande questione politica e civile è ormai in esilio, e a nessuno importa un fico secco. Neanche quando gira in tragedia: 54 morti e un unico sopravvissuto su un gommone avvistato il 10 luglio, eppure il giorno dopo non una parola dai nostri leader fin troppo ciarlieri, un angolino in cronaca sulla stampa nazionale. Quanto poi ai vivi, agli immigrati con un contratto in regola e un permesso di soggiorno (2.089.000, secondo i calcoli dell’Istat), loro sono un popolo invisibile. Un popolo di schiavi. Ecco infatti qualche dato. A parità di mansioni, un immigrato guadagna il 36 per cento in meno rispetto a un italiano. E la crisi economica ha peggiorato questa discriminazione. Nel periodo 2004-2007, i mutui concessi dalle banche agli immigrati rappresentavano l’8,2 per cento del totale; nel quadriennio 2008-2011 la quota è scesa al 4,5. Nel frattempo gli consentiamo solo i lavori più umili e precari. Li costringiamo a vivere in tuguri pagati a caro prezzo, sicché il 34 per cento versa in condizioni di disagio abitativo, contro il 14 degli italiani. Quando va bene, perché gli stranieri formano inoltre la netta maggioranza (67 per cento) dei senzatetto. Temiamo che ci facciano del male, ma più di frequente siamo noi stessi ad aggredirli (ogni 25 ore uno straniero subisce un atto di violenza). E C’È INFINE una discriminazione normativa, oltre che sociale. Corre sulle montagne russe della burocrazia: a un cittadino bastano 30 giorni per rinnovare il passaporto, a uno straniero ne servono 291 per rinnovare il permesso di soggiorno. Viaggia sui vagoni piombati usciti dall’officina del diritto, a partire dalla legge Bossi-Fini, che gli ha reso la vita assai più dura. Arranca sul reato di clandestinità, introdotto da Maroni e benedetto poi dalla Consulta (sentenza n. 250 del 2010): in sintesi, se perdi il lavoro perdi anche il permesso di soggiorno, e a quel punto diventi tecnicamente un delinquente. Ma il punto di crisi più profondo sulla condizione degli immigrati è la libertà di partecipare alla nostra vita pubblica, di condizionare la politica, d’esprimere una scelta elettorale. No taxation without re-presentation, senza rappresentanza niente tasse, recita l’antico motto dei coloni americani. Invece una riforma costituzionale del 2000 ha elargito il diritto di voto agli italiani residenti all’estero (anche se in Italia non ci hanno mai messo piede, anche se non pagano un euro di tasse), mentre nessuna riforma lo ha mai garantito agli stranieri residenti qui da molti anni. Insomma i nostri fratelli separati votano ma non pagano dazio, gli immigrati pagano e non votano. Nemmeno alle elezioni amministrative, dove si decidono le sorti delle città in cui loro vivono, studiano, lavorano. Significa che il 5,3 per cento della popolazione residente è condannata all’astensione dal voto. L’unico modo per uscire dal ghetto è diventare cittadini, ma anche questa è una via tutta in salita. La legge n. 91 del .1992 si basa sullo ius sanguinis (è cittadino chi sia figlio di almeno un genitore italiano), anziché sullo ius soli, come negli Usa (è cittadino chi nasca nel territorio dello Stato). Dunque i figli degli immigrati nati in Italia, che frequentano una scuola italiana, che magari parlano dialetto siciliano o romanesco, rimangono stranieri in patria. Potranno chiedere la cittadinanza più avanti nel tempo, quando diventeranno grandicelli; ma non è un diritto, è piuttosto una graziosa concessione delle autorità amministrative. E per ottenerla servono 10 anni di residenza ininterrotta nel nostro Paese, che nella pratica diventano almeno 13 anni. Ecco, mettiamoci una pezza. Facciamolo per Balotelli, italiano con la pelle nera che ci ha fatto guadagnare una finale. Facciamolo per curare le nostre pulsioni schizofreniche: chiediamo l’unione politica all’Europa, la rifiutiamo in Italia. O almeno facciamolo per correggere lo spread: quello sui diritti civili. Immigrazione: nel 2011 “trattenuti” nei Cie più di 7mila migranti, la metà rimpatriati www.linkontro.info, 20 luglio 2012 Nel 2011 sono stati 7.735 (6.832 uomini e 903 donne) i migranti trattenuti nei 15 centri di identificazione ed espulsione (Cie) operativi in Italia e di questi solo la metà (3.880) sono stati effettivamente rimpatriati. I dati nazionali 2011 sui Cie, forniti dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, confermano che queste strutture, oltre ad essere del tutto inadeguate a garantire la dignità e i diritti fondamentali dei migranti trattenuti, si dimostrano, nei fatti, pressoché irrilevanti e scarsamente efficaci nel contrasto dell’immigrazione irregolare. Il prolungamento a 18 mesi dei tempi massimi di trattenimento (giugno 2011) sembra aver contribuito unicamente ad esacerbare gli elementi di violenza e disumanizzazione dei Cie come già rilevato nel recente rapporto di Medici per i Diritti Umani (Medu). Le sbarre più alte e come dimostra la serie senza precedenti di rivolte e fughe di massa dell’ultimo anno (787 i migranti fuggiti dai Cie nel 2011 rispetto ai 321 del 2010). Un dato che sconcerta è l’alto numero di cittadini dell’Unione europea internati nei centri di identificazione ed espulsione. Nel 2011, infatti, sono transitati nei Cie ben 494 migranti di origine rumena, terza nazionalità in assoluto per numero di presenze. Anche alla luce dei dati del 2011 e in considerazione delle gravi criticità ripetutamente riscontrate nel corso degli anni sulla natura e il funzionamento dei Cpta-Cie, Medu ritiene necessario l’abbandono dell’attuale sistema di detenzione amministrativa nell’ambito di una sostanziale revisione del Testo Unico sull’immigrazione improntata a una prospettiva di apertura e reale integrazione. Una riforma che, a partire da una diversa disciplina degli ingressi, renda dunque possibili strategie di gestione dell’immigrazione irregolare più razionali e rispettose dei diritti fondamentali della persona. Dei Cie si può e si deve fare a meno. Argentina: torture sui detenuti riprese in video, arrestati cinque poliziotti Tm News, 20 luglio 2012 Cinque poliziotti di una squadra antidroga sono stati arrestati in Argentina, dopo che organi di informazione locali hanno trasmesso un video che mostra le torture inflitte a due detenuti. Il ministro della Sicurezza, Eduardo Sylvester, ha annunciato gli arresti ieri a tarda ora nella città settentrionale di Salta: sono stati effettuati, ha spiegato, dopo una “rapida indagine”. I filmati sui siti internet dei principali quotidiani nazionali, Clarin e La Nacion, mostrano due detenuti spogliati, solo con le mutande, in un cortile. Un agente versa un secchio d’acqua sulla testa di un detenuto in ginocchio e a terra con le braccia legate dietro la schiena. Un altro mette una busta di plastica sopra la testa dell’altro uomo e la stringe, finché il detenuto non cade a terra; successivamente toglie la busta, per consentire all’uomo di respirare. Egitto: per festa inizio Ramadan il presidente Mursi ordina scarcerazione 572 detenuti Adnkronos, 20 luglio 2012 Per festeggiare l’inizio del Ramadan, il presidente egiziano Mohammed Mursi ha disposto il rilascio di 572 detenuti, che erano nelle carceri del paese dall’esplodere della rivolta dello scorso anno. Tra i detenuti che saranno liberati, 530 sono già stati condannati da un tribunale militare, mentre altri 42 sono in attesa di processo. La lista dei detenuti da scarcerare è stata stilata sulla base delle raccomandazioni di una commissione istituita dallo stesso Mursi per valutare i casi di civili arrestati e detenuti dalle autorità militari. Sono in tutto 11.879 gli egiziani che si trovano in questo status, secondo i dati della commissione. Tra questi, tuttavia, 9.714 sono già stati rilasciati. Russia: punk Pussy Riot in cella altri 6 mesi, ma le tre imputate rischiano fino a 7 anni Ansa, 20 luglio 2012 Altri sei mesi di carcere, sino al 12 gennaio 2013, ossia almeno per tutta la durata del processo: è cominciata male l’udienza preliminare per le tre giovani donne del gruppo punk Pussy Riot, detenute da quasi quattro mesi per una provocatoria preghiera punk anti Putin nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, lo scorso 21 febbraio. Un’iniziativa che ha diviso la società e anche il mondo ortodosso: da un lato l’opposizione liberale, i difensori dei diritti umani, gli intellettuali e una fetta di credenti, tutti indignati per una carcerazione così lunga, dall’altra il patriarca Kirill, le alte sfere della gerarchia religiosa, i fedeli più conservatori e lo stesso leader del Cremlino Vladimir Putin, a favore di una punizione esemplare per un atto sacrilego. Il capo della Chiesa ortodossa, che ha definito l’epoca di Putin “un miracolo di Dio”, è finito nel mirino in particolare perché non pratica il perdono cristiano in questa vicenda, una delle ultime a metterlo in imbarazzo, dopo il caso dell’orologio Breguet da 30 mila dollari cancellato con un ritocco da una foto ufficiale. Le divisioni della società si sono viste anche oggi intorno al tribunale, presidiato dalle forze di polizia: da una parte una ventina di militanti ortodossi che mostravano cartelli con scritte come “difendete i nostri bambini” o “per la morale”, dall’altra alcune decine di sostenitori delle Pussy Riot, tra cui lo scrittore Boris Akunin: “questo processo non può che suscitare che disgusto in tutte le persone normali, qualunque siano le opinioni religiose e politiche”, ha commentato. “Non solo una illegittimità dimostrativa ma anche sadica. Sono dei cannibali”, ha commentato dal suo twitter il popolare blogger anti Putin Alexiei Navalni. Le tre imputate, Nadezhda Tolokonnikova, Iekaterina Samutsevich e Maria Aliokhina, sono apparse sorridenti ma rischiano sino a 7 anni di carcere per teppismo con l’aggravante dell’odio religioso. Sono accusate di essere entrate nella cattedrale di Cristo Salvatore mascherate e di aver cantato con chitarre elettrice e amplificatori una preghiera intitolata “Maria madre di Dio, caccia Putin”. Insieme a loro altre due donne, non ancora identificate. La difesa ha tentato oggi una mossa a sorpresa, citando tra i testimoni sia Putin che il patriarca Kirill. Ma l’ultima parola spetta ai giudici, che decideranno nella prossima udienza di lunedì.