Giustizia: “tagli” per 200 milioni € a carceri e geografia giudiziaria, 150 alle intercettazioni Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2012 L’apporto maggiore del ministero della Giustizia alla spending review dovrebbe arrivare dalla nuova geografia giudiziaria, cioè dalla riforma in assoluto più difficile, politicamente, tra quelle in materia di giustizia, che il governo sta faticosamente portando avanti. Quando mancano due mesi e mezzo alla scadenza della delega, il taglio di 674 uffici del giudice di pace deciso a gennaio dal Consiglio dei ministri è stato di fatto stroncato dal Parlamento, che chiede al ministro della Giustizia Paola Severino di fare marcia indietro e di rivedere criteri e tagli, facendo confluire tutto nel decreto su Tribunalini, Procurine e Sezioni distaccate. Che peraltro deve ancora vedere la luce: in settimana, Severino dovrà sciogliere la riserva politica sul piano messo a punto dai suoi uffici tecnici, che prevede la soppressione di 33 Tribunali, 37 Procure e di tutte le 220 sezioni distaccate. Un piano già ridimensionato rispetto alle ipotesi di partenza e suscettibile di ulteriori limature vista l’offensiva in atto (da parte di politici, avvocati, sindaci, rappresentanti sindacali) contro la riforma. Che, rinvio dopo rinvio, rischia di non arrivare puntuale all’appuntamento del 13 settembre, giorno in cui dovrà diventare operativa. I tempi sono stretti. Basti pensare che il decreto sui giudici di pace, una volta approvato dal governo, ha impiegato quattro mesi per essere trasmesso dalla Presidenza del Consiglio alle Camere e che queste hanno già ottenuto due proroghe per il prescritto parere (obbligatorio ma non vincolante). Dopo il voto del Parlamento, il provvedimento deve tornare al Consiglio dei ministri per eventuali correzioni che il governo volesse introdurre sulla base dei rilievi delle Camere. Quindi deve essere firmato dal Capo dello Stato e pubblicato nella Gazzetta ufficiale. Ma al di là dei tempi, resta ancora l’incognita dei contenuti, cioè della portata effettiva della riforma (tra l’altro, si parla di una fase transitoria di 5-10 anni in cui tutto rimarrebbe com’è). Domani mattina Severino ha convocato al ministero i rappresentanti della maggioranza per fare il punto. Certo è soltanto alla luce dell’estensione dei tagli si potrà calcolare l’effettivo apporto alla spending review. Gli altri interventi per razionalizzare la spesa, diminuire gli sprechi e recuperare efficienza riguardano le carceri (200 milioni), la riduzione del parco auto (20 milioni) e il progetto di indire una gara unica nazionale per il noleggio delle apparecchiature per le intercettazioni (telefoniche, telematiche, internet e ambientali). Il ministero ritiene di poter abbattere del 50% il costo, che passerebbe da 350-450 milioni di euro l’anno a 150-200 milioni. Ancora si attende, però, che l’Avvocatura dello Stato dia parere positivo a questa operazione. In ogni caso, complessivamente i risparmi derivanti da questi interventi (sommati a quelli, ancora incerti, derivanti dal taglio dei Tribunalini) dovrebbero ammontare a circa 560 milioni. A ciò vanno aggiunte altre voci di risparmio, che si ricavano dalle recenti misure adottate dal ministro della Giustizia con il dl sviluppo: il filtro all’appello, la riforma della legge Pinto, la riduzione del numero di sedi della Scuola della magistratura. In via Arenula hanno calcolato che il filtro all’appello, nel processo civile, dovrebbe comportare una riduzione di circa 55mila nuove cause civili all’anno. E poiché il costo medio di ogni processo è grosso modo pari a 517 euro, il risparmio complessivo è stato stimato in circa 28 milioni di euro l’anno. Anche la riforma della Legge Pinto (risarcimenti per l’irragionevole durata dei processi) consentirà di risparmiare denari perché dovrebbe ridurre il carico di lavoro di circa 8mila cause all’anno con indennizzi in media pari a 3mila euro. La stima del ministero parla di un risparmio di circa 24 milioni di euro l’anno. Quanto alla Scuola della magistratura, la riduzione delle sedi consente di risparmiare subito 240mila euro l’anno. A queste voci possono essere aggiunti anche i risparmi derivanti dal potenziamento della posta elettronica certificata (2 milioni di euro ogni milione di notifiche in meno, e oggi sono 28 milioni) nonché dalla modifica dei criteri di rimborso delle spese per “consumi intermedi” sostenute dai Comuni (si dovrebbe definire un tot preventivamente). Giustizia: Di Giovan Paolo (Pd), accelerare su pene non detentive Agi, 1 luglio 2012 “L’ennesimo suicidio in carcere, questa volta a Teramo, e il tentato suicidio a Viterbo, dimostrano che bisogna accelerare sul fronte della messa alla prova e dell’attivazione di pene non detentive, inserite nella legge delega in materia di depenalizzazione”. Se tali misure fossero approvate già nelle prossime settimane esse avrebbero un effetto positivo sulla vivibilità di molte carceri”. Lo afferma il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, presidente del Forum per la Sanità Penitenziaria. “Dobbiamo pensare a interventi che abbiano un effetto duraturo e strutturale sulle carceri - continua Di Giovan Paolo - Interventi tampone oramai non servono più”. Giustizia: Papa (Pdl); troppi suicidi nelle carceri, governo si svegli… amnistia necessaria Ansa, 1 luglio 2012 “Due suicidi nel carcere di Teramo nel giro di 24 ore: che cosa ancora deve accadere perché il governo si svegli?”. È quanto afferma il deputato del Pdl Alfonso Papa, che è stato per alcune settimane in carcere per detenzione cautelare per reati contro la pubblica amministrazione. “Mi chiedo che cosa altro deve ancora succedere - prosegue Papa - perché la classe politica si desti dal sonno complice di suicidi e violenze di Stato per prospettare finalmente soluzioni concrete a una situazione che già da tempo è fuori controllo”. “L’estate torrida rende la situazione ancora più allarmante in tutto il Paese: a Sassari e a Taranto, per esempio, manca l’acqua, a Catania i detenuti stremati hanno annunciato lo sciopero della fame e dal 2 luglio rinunceranno persino all’ora d’aria e ai colloqui con avvocati e familiari. L’amnistia - conclude Papa - è ormai una urgenza improcrastinabile, ma forse poco tecnica per un governo di tecnocrati”. “Mi chiedo che cosa altro deve ancora succedere - continua l’onorevole Papa - perché la classe politica si desti dal sonno complice di suicidi e violenze di Stato per prospettare finalmente soluzioni concrete a una situazione che già da tempo è fuori controllo”. “L’estate torrida rende la situazione ancora più allarmante in tutto il Paese: a Sassari e a Taranto, per esempio, manca l’acqua, a Catania i detenuti stremati hanno annunciato lo sciopero della fame e dal 2 luglio rinunceranno persino all’ora d’aria e ai colloqui con avvocati e familiari. L’amnistia - conclude l’onorevole Papa - è ormai una urgenza improcrastinabile, ma forse poco tecnica per un governo di tecnocrati”. Giustizia: alla Camera ancora approfondimenti su Ddl per depenalizzazione Asca, 1 luglio 2012 La Commissione Giustizia ha proseguito l’indagine conoscitiva condotta sul Ddl 5019, il cosiddetto “pacchetto Severino”, di delega al Governo per depenalizzazione, pene detentive non carcerarie, sospensione del procedimento per messa alla prova e nei confronti degli irreperibili puntando a ridurre il sovraffollamento delle carceri. Durante la settimana sono stati ascoltati il Presidente del Tribunale di Milano, Pomodoro, altri magistrati e docenti universitari esperti della materia. Giustizia: 91 operazioni antidroga condotte dalla Polizia penitenziaria dall’inizio dell’anno Adnkronos, 1 luglio 2012 Nelle carceri italiane - sotto i riflettori per la drammatica emergenza del sovraffollamento - si combatte quotidianamente una battaglia nascosta e poco nota: quella contro lo spaccio di droga. Un impegno significativo, che si inserisce in un contesto di numeri che danno il senso delle dimensioni del problema. Sugli oltre 66mila detenuti presenti negli istituti italiani 26.550 scontano pene per reati legati allo spaccio e al consumo di stupefacenti e il 30% dei detenuti entrati in carcere del 2011 sono tossicodipendenti. A fare il punto sul problema è il periodico della Polizia penitenziaria “Le due città”. Dunque, oltre al problema della gestione dei detenuti tossicodipendenti, gli agenti sono impegnati in controlli capillari, per evitare che la droga entri in carcere. Tra gli arrestati per droga, in base alle statistiche, ci sono infatti anche molti spacciatori, che coltivano l’idea di usare la detenzione per far fruttare i propri traffici illeciti e trasformare il carcere in una redditizia piazza di smercio. Il lavoro degli agenti è supportato dall’Unità cinofila della Polizia penitenziaria che, dopo un esperimento fortunato nel carcere di Asti, dal 2001 ha trovato un impiego regolare. Difficile quantificare la droga sequestrata, ma si tratta comunque di cifre di un certo rilievo. Un dato dà idea dell’entità degli stupefacenti immessi in carcere in un anno: oltre 6 chili sequestrati a Le Vallette di Torino. Si tratta prevalentemente di marijuana, hashish, cocaina ed eroina. Ma anche droghe sintetiche, tra cui il subutex, destinato alla disintossicazione dalla dipendenza da oppiacei. Se è facile identificare i momenti in cui accentrare i controlli, all’ingresso e nei colloqui con i parenti, è però impossibile stilare un elenco dei metodi utilizzati per fare entrare la droga in carcere. I controlli all’arrivo sono effettuati dagli agenti sulle persone e sugli oggetti portati dentro, così come ovviamente su tutti i visitatori a ogni colloquio. Ed è proprio al momento dell’arresto che si configurano due situazioni-tipo: la droga ingoiata per nascondere le prove, che in questo caso viene segnalata alla polizia penitenziaria; ma c’è chi si fa arrestare proprio per spacciare in carcere, avendo ingerito gli ovuli di sostanza stupefacente prima, e dunque senza che la polizia ne sia a conoscenza. Ma poi metodi utilizzati dai detenuti per fare entrare la droga sono davvero i più disparati: si va dal nasconderla nelle parti intime o in bocca, e poi scambiarla attraverso il bacio, all’uso vario della corrispondenza, i francobolli, fogli da lettera sovrapposti o cartoline imbevute di liquido contenente droga, fatte asciugare e che poi rilasciano la sostanza messe a mollo in un recipiente. Ancora, la droga può “viaggiare” nascosta nelle suole delle scarpe o cucita nei bordi degli accappatoi, o in alimenti, come riempiendo e poi richiudendo un’arancia, incidendola nella parte centrale, o nelle ossa della carne, per esempio di agnello o maiale. E non si risparmiano i bambini, spesso usati come ‘corrieri’ con la droga nel pannolino. Un caso per tutti, quello del carcere di Frosinone, che, pur essendo di piccole dimensioni, ha una percentuale altissima di detenuti per droga, fino al 55%. Lì il lavoro della Polizia penitenziaria ha dato vita a un’indagine complessa, conclusasi con 14 ordinanze di custodia cautelare. Giustizia: intervista al pm antimafia Ardituro; a Napoli carceri vivaio della criminalità di Nello Scavo Avvenire, 1 luglio 2012 “Bisogna capire che la questione carceraria attiene non solo al profilo della dignità dei detenuti, ma anche a quello della sicurezza pubblica. Spesso si fallisce su entrambi i fronti”. Non c’è da sorprendersi se a Poggioreale il nome di Antonello Ardituro, pm in forza alla direzione distrettuale antimafia, non susciti particolari simpatie. Il magistrato napoletano è titolare di alcune delle più clamorose inchieste di camorra, comprese quelle sulle infiltrazioni nella politica. A lui non piace ricordarlo, ma è suo il record di latitanti arrestati. Per tutti bastino i “casalesi” Giuseppe Setola, Antonio Iovine, Nicola Schiavone, Mario Caterino: gli spietati capi di “Gomorra”. È possibile che il carcere diventi il vivaio nel quale addestrare e reclutare nuovi affiliati? Il sovraffollamento e la mancanza di progetti di rieducazione su larga scala fanno aumentare esponenzialmente la possibilità del proselitismo carcerario. I detenuti più forti e più ricchi usano il denaro per creare consenso, estendere il proprio potere, arruolare nuovi affiliati. La storia ci insegna che nelle carceri nascono addirittura nuovi clan. Il caso più eclatante? La nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo è l’esempio più lampante di clan che nasce dietro le sbarre. Si tratta di modalità che arrivano fino ai nostri giorni. Si comincia con piccoli reati, poi entrando e uscendo di prigione cresce lo spessore criminale del singolo che grazie alla detenzione allarga il giro di conoscenze e facilmente entra in contatto con i pezzi da novanta della criminalità. Come dire che il carcere può essere parte dell’ingranaggio criminale… In un certo senso sì. Ancora in questi giorni stiamo raccogliendo prove di come tra le celle avvengano non solo affiliazioni. Le indagini e le rivelazioni dei pentiti confermano l’esistenza di trattative: boss che si alleano tra loro, camorristi che stringono accordi con mafiosi siciliani o stabiliscono intese con esponenti della ‘ndrangheta calabrese. Chi fa l’investigatore sa che le indagini risentono molto di quanto succede nel carcere, al punto che disponiamo di un nucleo di polizia giudiziaria (il Nucleo investigativo centrale del Dap) che lavora con noi perché specializzato nelle indagini all’interno delle case di reclusione. Cosa si dovrebbe fare per scongiurare, o almeno limitare, questi fenomeni? Se avessimo strutture di detenzione concepite e costruite in maniera diversa, se fosse drasticamente ridotto il sovraffollamento, se si puntasse sul serio e di più sul recupero e la rieducazione, certamente toglieremmo ai clan molte opportunità e restituiremmo dignità alla detenzione. Sul piano normativo, basta la “svuota carceri”? Occorre intervenire lungo due direttrici, quella del codice penale e quella processuale. L’iper-penalizzazione delle condotte ha prodotto effetti assurdi. Le leggi come quella sulla recidiva hanno avuto come risultato che se per cinque volte vieni scoperto a rubare una scatoletta di tonno (episodio realmente accaduto a Trieste, ndr) la tua condotta è considerata più grave di quella di un incensurato colto in flagrante a rubare una Ferrari. Peraltro, a proposito di spending review, si ha idea di quanto costa istruire tre gradi di giudizio, coinvolgendo decine di giudici, funzionari, impiegati, cancellieri e quanti altri, per il furto di una scatoletta di tonno? Infine occorre un serio piano di edilizia carceraria, per creare istituti capaci di avere spazi e strutture per la rieducazione e, al tempo stesso, consentire un ordinato controllo dei detenuti, per evitare le patologie che ho indicato. A Poggioreale le famiglie versano ai congiunti reclusi 640mila euro al mese Con le nuove norme è possibile depositare per ogni detenuto fino a 200 euro a settimana, usati anche per comprare cibo. Con gli “stipendi” i clan controllano e “arruolano”. Il caffè di Ciccirìnella a Poggioreale non è un lusso per pochi. La “crema d’Arabia” del recluso cantato da Fabrizio De André, più che un innocente piacere da galeotto è diventato uno smacco. I 2.700 detenuti del carcere partenopeo ricevono dai familiari 640mila euro al mese, in totale 8 milioni di euro all’anno, “senza tracciabilità e con il rischio di manovre neppure troppo oscure della camorra”, denuncia un dirigente della polizia penitenziaria. Le nuove norme consentono ai parenti dei reclusi di depositare al “Bollettario”, la cassa dell’istituto di pena, fino a 200 euro alla settimana per ogni congiunto dietro le sbarre, per un massimo di 800 euro al mese, lutto considerato un discreto gruzzolo, dato che il loro mantenimento è a carico della comunità. Ma che ci faranno i ristretti di Poggioreale con quei soldi? Niente di illegale, in apparenza. I reclusi possono approfittare del sopravvitto”, ordinando presso una sorta di supermercato interno generi alimentari che possono cucinare in cella con i fornellini a gas e altri beni: cosmesi, sigarette, bibite. Il risultato è che secondo il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, ogni giorno 2.500 pasti vengono buttati via: l’equivalente di pranzo e cena di 1.250 reclusi su 2.700. Già, perché all’ora di pranzo i corridoi degli otto padiglioni profumano di pastasciutta di Gragnano, di polpette di pesce, di torte fragranti. Per finire con la “crema d’Arabia” che sbuffa dalle caffettiere, per dirla ancora con De André, co’à ricetta ch’a Ciccirìnella/ compagno di cella/ ci ha dato mammà. Il sovraffollamento delle volte è una benedizione. A Poggioreale sono in 2.700 su una capienza di 1.500. In otto o in dieci per cella si sta stretti, ma vuol anche dire che in molte “camere di detenzione si può disporre di quasi ottomila euro al mese”, fa i conti Donato Capece, segretario generale del Sappe. Di fatto metà del cibo preparato e pagato dallo Stato “finisce nella spazzatura: e questo è vergognoso, oltreché immorale - denuncia Capece - in tempi di crisi come quelli attuali”. Che si facciano o no da mancare in proprio, l’amministrazione penitenziaria deve comunque far preparare ì pasti per tutti i reclusi. Facile, dietro al giro di così tanti soldi, vedervi la mano della camorra. “La maggior parte dei detenuti cucina da sé e ai più indigenti - spiega ancora Capece - i boss forniscono la sussistenza quotidiana rifornendoli di cibo, che diventa quindi occasione di affiliazione e sottomissione”. Che Poggioreale sia un mondo a parte lo confermano le statistiche: nelle altre realtà carcerarie ogni detenuto riceve dall’esterno mediamente quattro volte di meno. Un altro agente penitenziario in servizio nell’istituto di pena napoletano aggiunge un tassello. “Ci sono detenuti poveri che potrebbero essere usati dai “capi” che si trovano in carcere come prestanome, per far arrivare più denaro ai boss attraverso i familiari dei compagni di cella”. La questione è stata già portata sul tavolo del premier Mario Monti e del ministro della Giustizia Paola Severino, che sull’argomento hanno ricevuto denunce circostanziate. La faccenda, infatti, è gravida di risvolti. Non solo perché un detenuto “stipendiato” non ha alcun interesse a svolgere attività di lavoro interno, vanificando i tentativi di recupero e reinserimento sociale. “Ma com’è possibile - si domanda ancora Capece - che soggetti e famiglie che risultano indigenti e nullatenenti siano in grado di depositare quelle somme di denaro a favore di detenuti per i quali lo Stato si fa carico delle spese legali assicurando il gratuito patrocinio?”. Viene da dar ragione a Cafiero Pasquale, il brigadiere che nel testo di De Andre confida tutta la sua rassegnazione al boss detenuto don Raffaè (Cutolo): “Prima pagina venti notizie, ventuno ingiustizie, e lo Stato che fa? Si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità”. Giustizia: a Milano arrestati 2 agenti Polizia; hanno preso a pugni e calci un uomo inerme di Alberto Berticelli Corriere della Sera, 1 luglio 2012 L’espressione è inconsueta e brutale: “Fracasso di faccia”. L’hanno usata i medici del Policlinico per rappresentare ciò che rimaneva del volto - permanentemente deformato - di un uomo di 64 anni finito in ospedale per “resistenza a pubblico ufficiale”. Due ricoveri, un intervento chirurgico, oltre 40 fratture facciali, trenta giorni di prognosi. E una relazione di servizio in cui due giovani poliziotti della volante, “fuori servizio e in abiti civili”, raccontavano per filo e per segno cosa era successo la notte del 20 maggio sui Navigli, uno dei luoghi cult della movida milanese. Peccato che la relazione si sia rivelata un falso totale e che i due poliziotti siano finiti dritti nel carcere di San Vittore con accuse pesantissime: falso ideologico, lesioni gravissime e calunnia. A scoprire l’imbroglio, il pubblico ministero Tiziana Siciliano, che ha chiesto e ottenuto dal gip Alessandra Clemente l’emissione di due ordinanze di custodia cautelare. Un fatto senza precedenti per la sua brutalità, a Milano. Che ha costretto il questore Alessandro Marangoni a incontrare i cronisti per spiegare: “Chi fa il poliziotto e sbaglia deve pagare il doppio di un normale cittadino, perché è addestrato a comportarsi in modo adeguato in situazioni critiche”. Ad incastrare i due agenti - Federico Spallino e Davide Sunseri, entrambi di 24 anni, siciliani, e solo da un anno in servizio sulle volanti a Milano - è stato (banalmente) il filmato di una telecamera, che ha distrutto la loro relazione di servizio facendo emergere - come scrive il gip nelle dodici pagine di ordinanza - la “reazione fredda ma bestiale” dei due poliziotti alla possibile provocazione della vittima (Vittorino Morneghini, 64 anni) che aveva bevuto qualche bicchiere di troppo di birra. Sono le 3 di notte del 20 maggio. La vita by night sui Navigli comincia a scemare. Le telecamere del Comune riprendono tutto. Riprendono anche i due poliziotti che, con dei fiori in mano, fanno gli spiritosi con alcune ragazze di passaggio. Riprendono anche un diverbio con un signore “dai capelli bianchi”, accompagnato da una donna. Non si sa ancora oggi cosa si siano detti con esattezza. Le versioni sono opposte e non conciliabili. I poliziotti scrivono nel loro verbale di aver reagito a un uomo “in evidente stato di ebbrezza” che li aveva aggrediti verbalmente minacciandoli di morte con una pistola o un coltello, che si era denudato mettendo loro le mani addosso. “L’aggressore” era finito a terra privo di conoscenza. Gli stessi agenti si erano accorti della gravità in cui versava lo sconosciuto e avevano chiamato il 118 e fermato una volante di passaggio. Quello che invece ha ricostruito il magistrato fa accapponare la pelle ed è la semplice trasposizione di quello che mostrano le immagini. Si vede un poliziotto che raggiunge Morneghini e “lo attinge al volto con un pugno di tale violenza che il malcapitato stramazza a terra”. Scrive ancora il gip: “Sopraggiunge l’altro che infierisce sul disgraziato, a terra privo di difese, con un calcio in pieno volto di una violenza inaudita. Nel lieve sobbalzo del corpo sembra di poter percepire il rumore delle ossa che si frantumano”. Il gip è di una durezza spietata con i due tutori delle forze dell’ordine accusati di “inspiegabile condotta”. E ancora: “Inorridisce apprendere che possano essere inseriti nelle forze di polizia soggetti che non hanno avuto la minima remora a colpire in maniera brutale un uomo inerme”. “Il video - scrive ancora il magistrato - dà atto di una condotta molto grave. I due agenti hanno aggredito un uomo con una violenza e una brutalità degne di un delinquente da strada e hanno anche accusato ingiustamente la stessa vittima, forti del loro ruolo di poliziotti”. Ieri mattina il questore Marangoni li ha sospesi dal servizio: “La forza dello Stato è quella di non nascondere nulla”. Giustizia: Corte di Strasburgo; intercettazioni pubblicabili, se notizie di interesse generale di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2012 La pubblicazione integrale delle trascrizioni di Intercettazioni telefoniche e di documenti coperti da segreto istruttorio rientra nel diritto del giornalista a pubblicare notizie di interesse generale. Con un evidente rafforzamento del diritto di cronaca e della libertà con cui i cronisti possono affrontare le indagini giudiziarie e il loro svilupparsi e la relativa tutela delle fonti di informazione. Di conseguenza, le autorità nazionali non possono sequestrare supporti informatici e documenti del giornalista né procedere a perquisizione “massicce” e spettacolari nella redazione e nell’abitazione con il solo obiettivo di scoprire la fonte del reporter. L’indicazione, che si inserisce in un dibattito sempre acceso in materia di intercettazioni, arriva dai giudici europei. I principi sono stati, infatti, stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 28 giugno (Ressiot e altri contro Francia) che contribuisce a rafforzare la tutela delle fonti dei giornalisti. Che - ha precisato Strasburgo - non è un semplice privilegio concesso al cronista, ma è un diritto indispensabile alla libertà di stampa affinché la collettività sia informata su questioni scottanti. Con precisi limiti per le autorità inquirenti che non possono intervenire con mezzi invasivi utili a scoprire Fautore di fughe di notizie. Anche perché, per la Corte, nel bilanciamento dei vari interessi in gioco, è prioritaria la tutela della libertà di stampa, essenziale in una società democratica. Alla Corte europea si erano rivolti alcuni giornalisti francesi che su “Le Point” e “L’Equipe” avevano pubblicato notizie su un’inchiesta relativa all’uso del doping nel ciclismo. Di qui l’apertura dell’indagine: gli inquirenti volevano scoprire chi aveva trasmesso documenti ai giornalisti e avevano così ordinato la perquisizione e il sequestro di materiale cartaceo e informatico disponendo anche intercettazioni telefoniche delle utenze dei giornalisti. Una flagrante violazione della Convenzione europea che assicura il diritto alla libertà di espressione (articolo 10). È vero - riconosceva la Corte europea dei diritti dell’uomo - che i giornalisti nell’esercizio di questo diritto, non hanno un piena e totale libertà di agire, hanno precise responsabilità e devono tener conto del diritto alla presunzione d’innocenza, ma le autorità inquirenti non possono intervenire violando il diritto dei reporter a tutelare le proprie fonti. Poco importa se le indagini non hanno poi determinato l’individuazione delle fonti. Basta l’adozione di misure nei confronti dei giornalisti a produrre un chiaro effetto limitativo del diritto alla libertà di stampa. La tutela delle fonti - osserva Strasburgo - non è un semplice privilegio da accordare a seconda della liceità o dell’illiceità della fonte, ma un elemento essenziale della libertà di stampa. Tanto più che le perquisizioni nel giornale erano state svolte in modo “spettacolare” incidendo sugli altri reporter presenti in redazione. In pratica, gli interventi dell’autorità giudiziaria sono stati percepiti “come una minaccia potenziale per il libero svolgimento della professione”. Di qui la condanna alla Francia, che è stata obbligata anche a pagare le spese processuali che erano state sostenute dai giornalisti (circa 45mila euro per i 5 ricorrenti). Giustizia: caso Aldrovandi; la madre rifiuta le scuse “quell’agente non merita il perdono” di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 1 luglio 2012 Dopo le offese su Facebook. “Non è sincero, doveva pensarci sette anni fa”. Adesso chiede perdono e comprensione, per un “contegno estemporaneo e assurdo”, il poliziotto che su Facebook ha postato insulti e frasi irripetibili dopo la sentenza della Corte di Cassazione, quella che ha confermato la condanna a tre anni e sei mesi per lui e i tre colleghi ritenuti colpevoli dell’omicidio colposo di Federico Aldrovandi. Ma la madre del ragazzo di Ferrara, ucciso la mattina del 25 settembre 2005, delle scuse non sa che farsene. Patrizia Moretti non le accetta. Non le crede sincere. Non pensa siano spontanee. Vuole altro, questa donna. L’assunzione di responsabilità per la fine del figlio. Una legge che preveda e punisca il reato di torture. Un sistema di controlli, all’interno delle forze di polizia, che consenta di prevenire comportamenti non ortodossi. La cacciata dalla polizia dei quattro condannati. Signora Patrizia, Paolo Forlani ha fatto marcia indietro, dopo che lei lo ha querelato per le ingiurie e le minacce e dopo che il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri ha annunciato sanzioni disciplinari. Dice di essersi trovato “in uno stato di sconforto e smarrimento”. Si vergogna delle “frasi sciagurate” contro di lei, contro Federico e contro i ferraresi. “Non è un bambino. Avrebbe dovuto pensarci prima. Usa questa tattica perché ha paura del procedimento disciplinare e vuole mitigare le conseguenze. Non credo che le parole di scuse e pentimento siano farina del suo sacco. Penso che gliele abbia scritte qualcun altro, magari l’avvocato. Se fosse una persona sincera, la coscienza avrebbe dovuto parlargli quasi sette anni fa. Avrebbe dovuto chiedere perdono quando ha colpito e schiacciato mio figlio, fino a togliergli la vita, assieme agli altri di pattuglia. L’errore che ammette è “solo” quello di Facebook, non il massacro di allora”. Nessuno spazio per il dialogo? Nessuna mediazione possibile? “No. Adesso è tardi, inutile E le scuse non fanno che peggiorare la situazione. Forlani sostiene che per sette anni ha “invano cercato di esprimere” le sue ragioni e che nessuno lo ha ascoltato e capito. Non è vero. Lui e i colleghi all’inizio si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, sperando di riuscire a farla franca. Non è stato buono e zitto. Mi ha pure querelato. Lo hanno fatto altri, pure il primo pm. Abbiamo respirato per anni un clima di minacce e intimidazioni. E le indagini, lo dice un’altra sentenza, sono state depistate”. Lei che cosa vorrebbe, adesso? “Non credo che i poliziotti non andranno in prigione, perché tre anni sono indultati e perché potrebbero avere misure alternative. Spero che restino senza divisa, senza pistola, senza lavoro in polizia. Non ho fretta, fiducia sì. Mi hanno portato via Federico, non ho più nulla da perdere. Ma questo non significa che mi rassegno. Anzi. Continuo a combattere. Per lui, per Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Michele Ferulli, per quell’altro uomo picchiato a Milano”. Federico è il primo, in questo tragico elenco. Come è possibile che, dopo, siano morte altre persone in discusse operazioni di polizia, carabinieri, vigili urbani? “Ce ne erano anche in anni precedenti. La differenza è che da qualche tempo su questi casi c’è interesse. La stampa è attenta, i nuovi media mettono in circolo informazioni, video, documentazione. E tra noi familiari si sono creati legami profondi, solidi. Il problema è che all’interno delle forze dell’ordine resiste la cultura della violenza, fisica, verbale, intimidatoria. Politici e dirigenti non possono tollerare, fingere di non sapere. Le istituzioni devono muoversi. In Italia il reato di tortura non esiste. Andrebbe introdotto, anche per le “divise” che seviziano, feriscono, uccidono. Non può essere che si proceda per semplici lesioni o per abuso d’ufficio. E servirebbe anche un sistema di controlli interni, per individuare le teste calde, per frenare comportamenti fuori controllo, evitare abusi”. Su Facebook le foto degli agenti condannati, con nomi e cognomi, anni di nascita e la scritta “poliziotti pregiudicati” vengono condivise da migliaia di persone... “Era ora. Quando sono arrestati cittadini comuni, anche per reati banali, le foto vengono divulgate. Non vedo perché per loro, condannati in modo definitivo, dovrebbero esserci eccezioni”. Giustizia: nuovo numero di “Voci di dentro”, progetto transnazionale che porta in Lituania Ristretti Orizzonti, 1 luglio 2012 È in distribuzione il nuovo numero di “Voci di dentro”. La rivista di 48 pagine contiene una sessantina di testi opera dei detenuti che partecipano ai laboratori di scrittura tenuti dall’associazione “Voci di dentro” nelle carceri di Chieti, Pescara, Vasto e Lanciano ed è stata realizzata graficamente al pc da uno dei detenuti in articolo 21 che ha partecipato al corso di informatica iniziato lo scorso novembre nella sede-redazione della rivista; le illustrazioni (tempere in grande formato) sono di un ex detenuto. Il magazine che è andato alle stampe nel mese di giugno è stato dedicato alla legalità: in copertina la scritta “Noi ci crediamo” e una foto rielaborata al pc di una manifestazione sotto l’albero Falcone a Palermo. Immagine alla quale il direttore Francesco Lo Piccolo ha dedicato un ampio editoriale ricordando che quel “noi ci crediamo” significa “credere nella giustizia e nella libertà, ben sapendo che nessuno è libero se vittima del ricatto di un mafioso che impone il pizzo. E che credere nella legalità significa credere nel rispetto dei diritti e della dignità delle persone nei luoghi di lavoro, nei tribunali, nelle carceri e che in particolare nelle carceri significa la messa al bando di ogni violenza fisica nei confronti di chi è detenuto, che legalità è che non ci siano suicidi in carcere e dove devono essere garantiti diritti come la socialità, l’alimentazione, l’igiene personale, i colloqui, lo studio, i permessi, il lavoro, le misure alternative alla pena”. Ampio risalto viene poi dedicato alle iniziative, le “buone pratiche” che si fanno dentro e fuori dal carcere: dunque spazio alle attività del teatro, ai convegni, agli incontri padri detenuti-figli, ai progetti realizzati da “Voci di dentro” uno dei quali ha permesso a sei detenuti di uscire in articolo 21 e partecipare ai corsi organizzati dall’associazione. Come negli altri numeri anche in questa edizione c’è uno “sguardo sul mondo” con testi che questa volta parlano della crisi, della situazione in Grecia, del caso Lusi, del razzismo, dell’Italia in emergenza tra crisi e terremoti con un ricordo del terremoto del Friuli vissuto in prima persona da una detenuta ospite del carcere di Chieti. Sezione a parte chiamata “quattro mura” è invece dedicata al carcere, a quello che non va, ai problemi del sovraffollamento, alla mancate promesse, alle riforme che non ci sono. Chiude il giornale la sezione “scritti corsari” dove la scrittura è una cura, un modo per dare voce al proprio inconscio, per conoscersi e farsi conoscere per quello che si è e che si ha dentro. Nel giornale, infine, c’è un inserto di quattro pagine, in inglese, dove Voci di dentro fa un primo resoconto di ““voices from inside”“, progetto Grundtvig, al quale partecipano oltre a Voci di dentro di Chieti (capofila), l’associazione Città dei giovani di Firenze, i partner lituani di Agapao-Kris di Siauliai, i turchi di Hotelcilik di Diyarbakir e gli sloveni di Papilot di Lubiana. Obiettivo del partenariato: confronto e scambio, condivisione di buone pratiche, realizzazione di nuove iniziative comuni che riguardano il mondo carcerario volte al recupero e reinserimento di detenuti ed ex detenuti e per rimuovere nella società gli ostacoli costituiti soprattutto da pregiudizi e stereotipi. Previste visite alle carceri come quella avvenuta all’inizio del mese a Siauliai in Lithuania. “Voci di dentro” in Lituania Il progetto Grundtvig “Voci di dentro”, dal nome dell’associazione capofila, è arrivato a metà del percorso. Italiani dell’associazione Voci di dentro di Chieti e dell’associazione Città dei giovani di Firenze, lituani di Agapao-Kris di Siauliai, turchi di Hotelcilik di Diyarbakir e sloveni di Papilot di Lubiana, dopo essersi conosciuti in occasione del primo meeting a Chieti il 12 e il 13 dicembre 2011, hanno proseguito il loro percorso incontrandosi Siauliai. Una “due giorni” che si è svolta il 4 e il 5 giugno 2012 utile per un maggiore affiatamento fra partner e interessante per scambiarsi esperienze e condividere buone pratiche. Alla base di tutto c’è la volontà di mettere in piedi iniziative ad ampio raggio che riguardano il mondo carcerario volte al recupero e reinserimento di detenuti ed ex detenuti e a rimuovere nella società gli ostacoli costituiti soprattutto da pregiudizi e stereotipi. Tutto questo con la convinzione che il carcere non è un modo separato, da ignorare o dimenticare, ma è frutto della stessa società. In particolare sono due le azioni che animano in generale l’attività di Voci di dentro di Chieti: 1) trasmettere a chi compie reati la cultura della legalità e offrire chance e opportunità di reinserimento; 2) operare nella società per eliminare lo stereotipo sul carcerato, facendo comprendere che una cosa è l’errore e un’altra è l’errante. Due ambiti di intervento che partono da un presupposto e cioè che la pena non può consistere in trattamenti contrari alla dignità umana. Parole spesso disattese in Italia e anche all’estero. In grandissima sintesi basta dire che in Italia le carceri ospitano quasi 70 mila persone mentre c’è posto per 40 mila e che di queste 70 mila oltre 13 mila sono in attesa di processo. Ma, come detto, anche all’estero non va poi tanto meglio. Almeno per quanto abbiamo visto con i nostri occhi in un carcere della Lithuania durante la visita in un istituto per detenuti in attesa di giudizio che abbiamo fatto a Siauliai grazie ai nostri partner lituani Linas Androponovas e Andreus Karpovas. Visita quanto mai illuminante tanto da poter dire che così facendo sarà ben difficile ottenere l’auspicato recupero. Visita al carcere di Siauliai, di Francesco Lo Piccolo In Italia ci sono ancora carceri che hanno cementati sulle mura di cinta i cocci di bottiglia. Diciamo che funziona da deterrente. A Siauliai, in Lithuania, nel carcere che ho visitato alcune settimane fa con alcuni soci dell’associazione Voci di dentro nell’ambito di un progetto Grundtvig, invece dei cocci di bottiglia usano il filo spinato. Non mi è piaciuto. L’impressione negativa si è poi rafforzata alla vista dei cani alla catena e sentendo i loro latrati che mi hanno accompagnato a lungo mentre attraversavo il cortile del carcere. Anche in Italia gli istituti di pena non sono un granché, anche da noi le strutture sono vecchie - basta pensare a Poggioreale, ma lì a Siauliai, in quel piccolo istituto di pena che si trova a un chilometro dal centro della città, in un mondo dove d’estate c’è luce fino alle 11 e mezza di sera, e dove per strada non c’è anima viva e dove c’è troppo silenzio, lì mentre entravo dentro la struttura detentiva vera e propria, datata 1911, ho avuto la sensazione di essere in un film sui campi di concentramento nazisti, a Dachau o in un Gulag staliniano. Insomma, non è questo il modo con cui vanno trattate le persone accusate di aver commesso dei reati. Accusate e non ancora condannate, perché in questo istituto protetto da un muro di cinta che è una lunga parete di mattoncini rossi, ci sono solo detenuti che ancora non sono stati processati. Presi e portati lì in attesa di giudizio. Seicento persone in una struttura dove c’è posto per 400, come ci ha rivelato la guida, il sergente Remigius. La maggior parte sono giovani e recidivi e prima di venire portati all’interno, nella loro cella, sono sottoposti alla perquisizione personale. Anche qui l’effetto è orribile. La stanza della perquisizione si trova sotto strada, è un buco al quale ci si arriva calpestando vecchi gradini consumati da migliaia e migliaia di scarpe. È un locale senza finestre, illuminato da luce artificiale, dentro c’è una macchina tipo quelle che si trovano in aeroporto per il controllo dei bagagli e che qui viene usata per fare lo screening agli indumenti del detenuto. Tutti gli indumenti, mutande comprese, perché l’uomo, nudo, aspetta dentro una cabina doccia in muratura aperta davanti. Il resto, il tipo di controllo che viene fatto sulle persone, lo si può intuire. Remigius ci ha poi accompagnati all’interno e ci ha fatto vedere una cella attualmente non abitata perché non ancora ristrutturata. Cominciamo con le dimensioni: circa sei metri di lunghezza e tre scarsi di larghezza. Ovvio che vado a memoria, ma questo è quello che ricordo. Ricordo che i letti sono in ferro - non sono tanto diversi dai letti che ci sono nelle carceri italiane - e sono disposti ai lati lunghi del rettangolo, due file da quattro letti ciascuna per un totale di otto letti. Dunque cella da otto. Un passo in avanti rispetto a 12 anni fa quando c’erano celle da trenta persone. In fondo c’è la finestra con la grata, e all’inizio il gabinetto alla turca con “vista sui letti”. Alle pareti classiche scritte, qui anche una grande falce e martello con stella. Dice Remigius: “Le celle sono state ristrutturate dopo il 2000, il gabinetto ora è separato”. Ho cercato di immaginare la ristrutturazione, il risultato non mi è sembrato migliore. Perché, al di là del numero dei detenuti per cella, in una “segreta” come questa la vita è come una tortura: qui gli otto detenuti ci devono stare 23 ore al giorno su 24; qui devono fare tutto, murati dentro perché la porta della cella non è con le sbarre, ma è il classico blindo tutto di ferro con un piccolo spioncino all’altezza degli occhi. Dicevo 23 sui 24 ore, perché una volta al giorno per un’ora hanno diritto all’ora d’aria. Beh, ho visto il locale dove avviene l’ora d’aria: è una cella in tutto e per tutto identica a quella dove vivono le altre 23 ore: è all’ultimo piano dell’edificio e non ha il tetto che è sostituito con una inferriata. In gergo è detta la fossa dei leoni. E qui, in questa cella senza tetto, e in celle identiche ci vengono portati gli otto di ciascuna cella. E questo per mesi, anni, anche fino a tre anni e più, perché anche qui in Lithuania i tempi della giustizia sono quelli che sono: lunghi, estenuanti, terribili. Anche tre anni di carcere in questa struttura senza speranze, dove al massimo, una volta al mese, puoi avere la possibilità di accedere a un’area computer dove puoi scrivere una lettera, guardarti un film sullo schermo del Pc, naturalmente da solo. I più giovani, spiega il sergente Remigius, preferiscono consumare il loro tempo con i videogiochi. Ho visto la stanza, ammetto che è molto più gradevole della cella. Mi è sembrato di vedere anche un termosifone. Ma devo dire che in giro per la struttura, almeno per quello che mi hanno concesso di vedere, di termosifoni non ne ho visti poi così tanti. E qui il clima non è certo mediterraneo: d’inverno tra gennaio e febbraio le minime arrivano a -25. Perché cambi qualcosa si dovrà aspettare che venga attuato un piano che prevedeva dal 2017 la costruzione di un nuovo centro di detenzione modello scandinavo. Un piano ora fermo per mancanza di fondi. La visita è durata un paio d’ore, all’inizio ci hanno anche mostrato il piccole museo della struttura, dove in un armadio a vetro sono conservati cimeli della storia del carcere: coltelli fatti con l’accendino, scarpe dove sono nascosti cellulari; cerbottane per far arrivare i messaggi all’esterno, sistemi di fuga. Qui ci è stato consentito fare delle foto; tra le tante abbiamo scattato quella che ritrae una cella come era nel 1990, ventidue anni fa, poco prima della proclamazione dell’indipendenza. Penso a quello che ho visto durante la visita, riguardo la vecchia foto. E non vedo una grande differenza. Lettere: che noia… ancora il carcere! di Roberto Puglisi Live Sicilia, 1 luglio 2012 Una lettera ai miei fratelli in carcere che soffrono le pene dell’inferno. Non servirà a niente. Ma forse è meglio scriverla lo stesso. Ma insomma, cosa vogliono questi carcerati? Che noia le proteste e le lamentele! Non lo sanno che in Italia l’espiazione della pena si è trasformata in tortura, senza che sia scritto da nessuna parte? Non lo sanno che le torture dei rei piacciono alla gente perbene, forcaiola e cattiva? Si sfogano così quelli che stanno fuori. Compiacendosi delle sofferenze di quelli che stanno dentro. I cattivi. Infatti, ogni volta che si parla di celle, il sapientone di turno sentenzia: “Colpa loro, dovevamo pensarci prima”. Giusto! Che importa se in prigione ci sarà finito pure qualcuno magari innocente, o in attesa di giudizio, o condannato per il furto di una merendina, o povero, o malato? Che ci frega: la detenzione dovrebbe essere pena e rieducazione, basata sulla privazione della libertà (e non so immaginare cosa ci sia di peggio, ndr)? No, meglio aggravarla con sovraffollamento, col caldo - sai che bello Caronte all’Ucciardone - con l’acqua che manca, con gli scarafaggi, con i carcerati e gli agenti uniti nell’orrore che subiscono. Scusate, capisco, c’è la partita. Infatti diamo ampio spazio al calcio con due pezzi diversamente mirabili su Balotelli. È che ho sentito di scrivere per i miei fratelli carcerati a cui voglio molto bene. E scrivo proprio “fratelli” non per acquisire benemerenze nel basso della terra o nell’alto dei cieli. Scrivo “fratelli” perché tali li sento, in una mattina afosa d’estate. Fratelli miei, vittime dell’inciviltà di chi pensa che il carcere italiano saldi i conti con la giustizia. Fatevi coraggio. Lettere: gli internati Casa Lavoro di Saliceta (Modena) trasferiti a Parma dopo terremoto Ristretti Orizzonti, 1 luglio 2012 Al Tribunale di Sorveglianza di Bologna, al Magistrato di Sorveglianza di Modena, al Capo del Dap Giovanni Tamburino, al Prap di Bologna. Oggetto: richiesta di intervento urgente per violazione di legge in materia di misure di sicurezza. I sottoscritti internati della Casa di Lavoro di Saliceta S. Giuliano Modena, attualmente “ristretti” presso il carcere di Parma per esigenze di emergenza sismica (Prap n° protocollo 995/12-13 del 6/06/2012. Premesso che gli internati sono consapevoli della straordinarietà dell’evento e della complessità della materia; che il trasferimento ha comportato di fatto un regime di detenzione restrittivo a tutti gli effetti, regime non contemplato in alcun modo ai provvedimenti cui si è sottoposti, creando un paradosso giuridico in materia di internamento: formalmente internati, in sostanza detenuti. Conseguenza diretta è una palese violazione della legislazione che disciplina la materia delle misure di sicurezza, essendosi formato un cortocircuito legale nell’individuazione dei diritti e dei doveri, nonché del trattamento e dell’osservazione… Chiedono alle S.V.ILL.me di intervenire urgentemente con provvedimenti ritenuti più opportuni al fine di ripristinare lo status di internati a cui si è sottoposti, annullando gli effetti creatisi di una “ingiusta detenzione” non essendo prevista nei c.d. Aggravamenti delle misure di sicurezza, la detenzione carceraria. Al contrario, per eventi ritenuti straordinari, la legislazione corrente prevede la sospensione o la tramutazione, della misura stessa. Certi dell’attenzione e della celerità di sensibili riscontri, si porgono deferenti ossequi. Teramo: nuovo suicidio in carcere, detenuta etiope di 55 ani si impicca in cella Il Centro, 1 luglio 2012 Nuova tragedia a Castrogno: la donna, 55 anni, si è impiccata in cella a un giorno di distanza dal suicidio di un detenuto pescarese. Doveva scontare 18 anni Secondo suicidio nel giro di 24 ore nel carcere teramano di Castrogno, uno dei più sovraffollati d’Italia. Intorno alle 11, approfittando dell’assenza della compagna di cella, si è impiccata Tereke Lema Alefech, 55 anni, la badante etiope che nel marzo scorso è stata condannata a diciotto anni di reclusione con il rito abbreviato dalla Corte d’assise di Teramo per aver ucciso a sprangate, nell’ottobre del 2010, la collega eritrea Gabriella Baire, 62 anni, nel sottotetto di un condominio di via Pannella. L’avvocato dell’imputata, Maria Assunta Chiodi, aveva chiesto l’assoluzione per infermità mentale. Secondo la difesa, la perizia psichiatrica cui è stata sottoposta Tereke Lema Alefech - e che l’ha dichiarata capace di intendere e di volere - è stata inadeguata. Il suicidio della donna segue di un giorno quello del detenuto pescarese Mauro Pagliaro, 44 anni, che si è ucciso con le stesse modalità, impiccandosi alle inferriate della cella nella quale in quel momento si trovava da solo. Le due tragedie chiamano in causa i gravissimi problemi della casa circondariale teramana: il sovraffollamento (ci sono 430 reclusi a fronte di una capienza di 270), la carenza di personale (ci sono 178 agenti ma la pianta organica, vecchia di dieci anni, ne prevede 202) e l’inadeguatezza della struttura, che in questi giorni di grande caldo si trasforma in un autentico forno. Teramo: Mauro Pagliaro si è impiccato dopo la notifica di un cumulo pena di 4 anni di Diana Pompetti Il Centro, 1 luglio 2012 Qualche giorno fa gli avevano notificato un altro provvedimento di cumulo pene: dal carcere sarebbe uscito nel 2017 e non più tra un anno. Mauro Pagliaro, 44 anni, pescarese, dall’8 giugno detenuto a Castrogno, si è impiccato alle inferriate della cella in cui era solo. È l’ennesima tragedia in un carcere sovraffollato (430 reclusi a fronte di una capienza di 270), un penitenziario che nel 2011 è stato il terzo in Italia per tentati suicidi. Una drammatica contabilità denunciata dai sindacati che, ormai da anni, lanciano allarmi destinati a cadere nel vuoto. Pagliaro, alle spalle varie condanne per droga e furti, fino a qualche settimana fa era convinto che nel 2014 avrebbe finito di pagare il suo debito con la giustizia. Ma qualche giorno fa gli avevano notificato un altro provvedimento di cumulo pene, sempre per reati legati allo spaccio: sarebbe dovuto rimanere in carcere altri quattro anni. Ieri mattina ha deciso di farla finita: si è impiccato con le lenzuola. La scoperta alle 8. I soccorsi sono scattati subito, ma non c’è stato nulla da fare. Il pm di turno Silvia Scamurra non ha ritenuto necessaria l’autopsia e ha riconsegnato la salma ai familiari. I precedenti. L’ultimo suicidio nel carcere teramano (il direttore è Stefano Liberatore) si è consumato esattamente un anno fa. Il 29 giugno si era impiccato un detenuto pugliese. Era recluso nella sezione tossicodipendenti e aveva già tentato il suicidio. Per i tentati suicidi il carcere di Teramo è al terzo posto in Italia: secondo la Uil penitenziari nel 2011 ci sono stati 19 tentati suicidi, mentre da giugno dell’anno scorso ad oggi sono stati già dieci. Detenuti salvati dall’intervento degli agenti: solo 178 per far fronte ad una popolazione carceraria tra le più alte in Italia. I sindacati tornano all’attacco e chiedono interventi immediati. “È l’ennesima pagina nera per il carcere teramano”, dice Giuseppe Pallini, segretario provinciale del Sappe, “si continua a voler ignorare a distanza di tempo dalla dichiarazione dello stato di emergenza per la questione penitenziaria che il carcere di Castrogno ospita 430 detenuti su 270 di capienza tollerabile. Le donne e gli uomini della polizia penitenziaria, nonostante la cronica carenza d’organico di 60 unità, con grandi sacrifici e abnegazione cercano con i pochi mezzi a disposizione di salvaguardare l’incolumità dei detenuti”. Anche per Donato Capece, segretario generale del Sappe, “la realtà è che nelle carceri ci sono 45mila posti letto e nelle celle sono stipati in 67mila, che la polizia penitenziari ha settemila agenti in meno. Con il caldo soffocante di queste settimane la situazione nelle carceri è molto tesa. Bisogna aumentare il ricorso alle misure alternative alla detenzione e rendere il carcere l’extrema ratio, non l’unica soluzione per tutto e tutti”. Per Eugenio Sarno, segretario generale della Uil penitenziari “c’è il dovere morale di fermare la strage e assicurare dignità. Questa strage silenziosa non può non toccare, e turbare, le coscienze di tutta la società e tutti hanno il dovere di interrogarsi”. Il carcere di Castrogno è uno dei pochi in Abruzzo dove viene garantita la presenza di una guardia medica 24 ore su 24. “Questo”, aggiunge Pallini, “significa che continueranno ad inviare ancora detenuti nonostante le celle sovraffollate”. Teramo: i detenuti sono 430, vivono in 3 metri quadri… e ogni anno la situazione peggiora Il Centro, 1 luglio 2012 Benvenuti a Castrogno, qui 400 detenuti vivono in stanze di otto metri quadrati. Così scriveva tre anni fa il Centro. Oggi la situazione è peggiorata: i detenuti sono 430, il carcere, sulla carta, ne può contenere 270. Gli agenti di custodia sono 178, ma la pianta organica (del 2001!) ne prevede 202. È in questo clima che i detenuti si tolgono la vita oppure aggrediscono gli agenti. In queste stanze, che qualcuno ha ribattezzato la Cayenna, due degli otto metri sono occupati da bagni con pareti di cartongesso senza manutenzione da dieci anni. L’odore dev’essere nauseabondo, d’estate è insopportabile. I detenuti gettano dalle finestre i rifiuti organici. Così tre anni fa scriveva il cronista del Centro. Così è ancora adesso. È un clima teso quello che si respira al Castrogno: il carcere dello scandalo del pestaggio al detenuto, del cd anonimo finito su tutti i giornali d’Italia e del comandante delle guardie sospeso, Giuseppe Luzi, che nel cd dice a un subalterno: “I detenuti li devi massacrare in sezione”. Anche questo accadeva tre anni fa. L’inchiesta si trova ora alla seconda richiesta di archiviazione. Nel frattempo anche il numero delle guardie è sceso. Allora erano 184. E nessuno poteva far trapelare la notizia che nelle quattro sezioni sono rinchiusi 60 sieropositivi insieme a 50 malati psichiatrici, tutti a rischio di gesti autolesionistici. Metà dei padiglioni è coperta d’amianto, d’inverno si vive al gelo, d’estate sembra un braciere. I vetri rotti non vengono sostituiti. E 100 stanze, prima occupate dagli agenti, restano vuote. Mentre i detenuti vivono dall’altra parte, stretti come sardine, e la tensione cresce insieme con il desiderio di fuggire non da Castrogno ma dalla vita: dieci tentati suicidi in un anno non hanno bisogno di commento. Qui, nel carcere che sembra un pollaio, è difficile riabilitarsi. In un qualunque momento può esplodere la rabbia. Ciascun detenuto vive in 6 metri quadrati, anzi in 3 perché in ogni cella ci sono due reclusi. Dormono su letti a castello, in alcune stanze i posti sono persino tre ed è come passare la vita chiusi in una cabina del telefono. Tre anni fa, il Centro scriveva che l’ambulatorio dentistico è rimasto rotto per due anni e che, dopo essere stato riparato, non funzionava lo stesso perché la Asl non aveva soldi. Chissà se ora funziona. E ancora oggi gli agenti non possono rivelare fuori dalla Cayenna d’Abruzzo che per coprire i turni quando si è meno della metà dell’organico saltano i riposi e fai lo straordinario che non ti verrà mai pagato. Viterbo: detenuto 56enne tenta suicidio tagliandosi le vene dei polsi la trachea e la carotide Agi, 1 luglio 2012 Adnkronos, 1 luglio 2012 Un detenuto romeno di 56 anni, Giovanni Dragonescu, intorno alle 15 di questo pomeriggio ha tentato di togliersi la vita tagliandosi le vene dei polsi e colpendosi, con un coltello, la trachea e la carotide. I medici del carcere, dopo avergli tamponato le ferite, lo hanno trasferito all’ospedale Belcolle dove è stato sottoposto a un intervento di chirurgia vascolare. A segnalare la vicenda il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Secondo quanto appreso dal Garante, il detenuto aveva un fine pena fissato al 2013 ma, con in benefici di pena, sarebbe uscito dal carcere entro la fine del 2012. Questo pomeriggio intorno alle 15 l’uomo, descritto da tutti come un’ottima persona dal comportamento irreprensibile, ha deciso di togliersi la vita colpendosi più volte con un coltello. Alla base del gesto, a quanto sembra, problemi di carattere familiare. È il secondo tentativo di suicidio in una settimana all’interno del ‘Mammagiallà di Viterbo. “Stavolta il gesto di un uomo disperato non è finito in tragedia per la prontezza e la professionalità del personale in servizio nel carcere - ha detto il Garante Angiolo Marroni - ma resta il fatto che a Viterbo, come del resto in tutte le carceri del Lazio, si vive una situazione difficilissima”. Secondo gli ultimi dati, a Viterbo sono detenute 762 persone a fronte di una capienza di 444 posti. Per far fronte all’arrivo dei detenuti sfollati dalla carceri terremotate dell’Emilia, è stato necessario anche riaprire una sezione da tempo in disuso. “Tutto - ha concluso Marroni - contribuisce ad aggravare una situazione estremamente delicata all’interno delle carceri. Uno dei momenti più difficili da passare in carcere è proprio l’estate, quando il caldo, il sovraffollamento e la riduzione delle attività trattamentali e di svago, rendono insopportabili le celle. In questa situazione basta davvero poco per alterare i fragili equilibri psichici e per spingere le persone emotivamente più deboli a tentate gesti disperati”. Cagliari: detenuto 66enne in fin di vita; costretto in sedia a rotelle, da un mese rifiuta cibo La Nuova Sardegna, 1 luglio 2012 “Destano preoccupazione le condizioni di salute di un detenuto ricoverato nel Centro Diagnostico Terapeutico di Buoncammino. Si tratta di un uomo di 66 anni, originario di Suelli, con un grave handicap motorio che lo costringe su una sedia a rotelle, si astiene dal cibo per protesta da oltre un mese”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che ha effettuato alcuni colloqui con il detenuto nella casa circondariale cagliaritana. Intanto, secondo il deputato Pdl Mauro Pili il governo avrebbe “deciso di scaricare sulla Sardegna 100 detenuti in regime di 41 bis. Una decisione irresponsabile, sia per la logistica strutturale sia per la cronica carenza di personale che regna nelle carceri sarde. Le notizie sul trasferimento dei 100 detenuti pericolosi sono ormai ufficiali e il governo deve fare subito retromarcia per evitare che la situazione in Sardegna degeneri. In queste ore - ha poi aggiunto Pili - è in corso un reclutamento di 50 agenti (compresi anche diversi operatori da Buoncammino) da sottrarre alle strutture sarde per destinare all’apertura del carcere di Nuchis-Tempio. Si tratta dell’ennesimo grave tentativo di aprire una nuova struttura senza nessun nuovo reclutamento di personale. Tutto questo - ha proseguito Pili - mette a rischio la sicurezza delle carceri e soprattutto rende impossibile il lavoro del personale impegnato nelle strutture già di per sé incontrollabili con il poco organico disponibile”. Cagliari: convegno su riforma sanitaria… si deve garantire la salute a chi vive nelle carceri La Nuova Sardegna, 1 luglio 2012 “Bisogna garantire ai detenuti sardi un diritto alla salute identico a quello degli altri cittadini, data anche l’evidente disparità legata alle limitazioni di movimento, che non consentono quindi ai detenuti di scegliere un medico secondo le proprie esigenze e che ingigantisce qualsiasi forma di malattia, a volte solo temuta”: l’ha detto il presidente del tribunale di Cagliari Francesco Sette al convegno che si è svolto al Lazzaretto sul passaggio del personale sanitario penitenziario dal ministero della Giustizia alla Regione, attraverso le Asl, che interessa 250 operatori in servizio negli istituti penitenziari sardi. Il carcere è di per se stesso un luogo patogeno, diversi sono gli studi che dimostrano come esso incida sulla salute del detenuto. Salute che deve essere intesa non solo come assenza di malattia, ma come complessivo benessere fisico, psichico e sociale secondo la definizione che ne fornisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Dallo stato delle carceri si misura il livello di civiltà di un paese e lo stato delle carceri è essenzialmente misurato attraverso la qualità della sanità penitenziaria: “I detenuti sono in massima parte extracomunitari e tossicodipendenti, soggetti che vivono una condizione di estrema povertà e che si trovano quindi ad essere ancor più fragili e bisognosi di aiuto” ha detto la presidente del tribunale di Sorveglianza di Sassari Maria Antonia Vertaldi. Aiuto che non sempre, considerate le condizioni della detenzione, può essere oggi garantito. L’attività sanitaria rivolta all’ intera popolazione carceraria della Sardegna, che conta oltre 2000 detenuti distribuiti in 12 Istituti penitenziari, dovrà quindi essere gestita esclusivamente dal personale Asl, di cui una parte proveniente dall’amministrazione penitenziaria “in vista di un miglioramento delle condizioni di salute dei detenuti” come ha spiegato il direttore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna, Gianfranco De Gesu. Che ha aggiunto: “Gli interventi sono volti tra l’ altro a fornire assistenza psicologica, mentre per ciò che concerne la telemedicina e la tele diagnostica è ancora presto, ma contiamo di arrivarci in tempi non troppo lontani”. Il contesto che si verrà a formare esigerà il recupero della professionalità acquisita dal personale in servizio presso gli Istituti e il confronto-integrazione con gli approcci e metodologie del personale che opera nelle Asl. Questo progetto formativo - avviato nella primavera del 2012 - ha previsto la realizzazione di otto seminari locali, tenuti presso gli Istituti penitenziari che si trovano in corrispondenza delle Asl. Sassari: il carcere di San Sebastiano verso la soluzione della crisi idrica? La Nuova Sardegna, 1 luglio 2012 Un passo importante è stato compiuto ieri per risolvere l’emergenza idrica all’interno del carcere di San Sebastiano. Da maggio l’erogazione dell’acqua subisce rallentamenti e spesso è stata garantita solo per tre ore al giorno, a causa della mancata fornitura notturna (indispensabile per riempire le vasche di riserva) da parte di Abbanoa, che sospende l’erogazione notturna per lavori di riparazione al depuratore di Truncu Reale. Ieri mattina, però, tecnici del gestore della rete hanno apportato una modifica alla condotta di immissione dell’acqua all’interno del carcere, che serve proprio ad alimentare i vasconi. Una modifica che consentirà di far entrare più acqua nella rete interna, e garantire ai detenuti continuità nell’erogazione, ma soprattutto un flusso più abbondante. Non è chiaro quale sarà l’effetto finale dell’intervento, cioè se sarà sufficiente a risolvere i blackout idrici che i detenuti stanno sopportando ormai da settimane. L’unico momento di tensione si è registrato venerdì 22 giugno, quando al risveglio, alle 8, i reclusi avevano aperto i rubinetti che però erano rimasti a secco. E avevano protestato battendo le gavette alle sbarre delle celle, per comunicare il loro malessere. Una ventina di detenuti aveva minacciato lo sciopero della fame, ma la protesta era rientrata quando il direttore del carcere Francesco D’Anselmo, il comandante della Penitenziaria Sandra Cabras e il garante per i detenuti Cecilia Sechi avevano promesso di cercare una soluzione immediata. In due settimane, direttore e garante hanno investito del problema la Prefettura, che a sua volta ha convinto Abbanoa della necessità di intervenire sulla condotta esterna in modo da garantire ai detenuti l’approvvigionamento di acqua per l’estate, presumibilmente, l’ultima estate da trascorrere nel vecchio penitenziario, se saranno rispettati i termini per la consegna del nuovo istituto di Bancali. Era stato il ministro delle Infrastrutture Corrado Passera (competente sulla costruzione, fino all’affidamento all’amministrazione penitenziaria) a garantire termini certi per la fine dei lavori al Guardasigilli Paola Severino, in un incontro dedicato alle carceri sarde. Il colloquio era avvenuto all’indomani della visita del ministro della Giustizia in Sardegna, in un tour per gli istituti isolani - nuovo carcere di Uta, Is Arenas, San Sebastiano, Bancali - durante il quale la Severino aveva voluto verificare di persona lo stato dell’arte dei cantieri. Sul suo tavolo, lo scorso inverno, era arrivato un dossier del Sappe sullo stato di degrado di San Sebastiano e la necessità aprire le nuove strutture. Ancona: al carcere di Barcaglione nuovi agenti e cento detenuti trasferiti da Montacuto Il Messaggero, 1 luglio 2012 Arriveranno nuovi agenti di polizia penitenziaria nelle Marche e la Casa circondariale di Barcaglione sarà potenziata per decongestionare Montacuto. È il primo della serie di impegni che il capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino si è assunto durante l’incontro che si è svolto giovedì a Roma con il Garante regionale dei detenuti Italo Tanoni e le consigliere regionali Rosalba Ortenzi e Franca Romagnoli. “Abbiamo ottenuto risposte certe e impegni precisi - conferma Tanoni - A fine luglio si concluderà un corso per la formazione di agenti penitenziari e 80 di loro saranno assegnati a Barcaglione”. Secondo Tanoni circa 100 degli attuali 381 detenuti di Montacuto potrebbero essere trasferiti nel carcere anconetano attualmente sottoutilizzato. “L’esito dell’ incontro è senz’altro positivo, il lavoro svolto da anni dall’Assemblea legislativa per migliorare le condizioni di vita nelle carceri sta dando dei risultati” sottolinea la Presidente della I Commissione affari istituzionali Rosalba Ortenzi. Soddisfatta anche la consigliera Franca Romagnoli che ha riconosciuto la grande disponibilità all’ascolto da parte del Presidente del Dap, l’apertura di alcuni spiragli per migliorare la situazione carceraria e l’avvio di un canale diretto di confronto con Roma, grazie alla presa in carico del problema da parte dell’Assemblea e dell’ Ombudsman”. Siracusa: accordo Lilt-Ministero della Giustizia; detenuti assisteranno pazienti oncologici www.giornaledisiracusa.it, 1 luglio 2012 Il protocollo d’intesa è stato firmato nei giorni scorsi dal giudice Giuseppina Storaci e dal presidente provinciale della Lilt, Claudio Castobello. È stata siglata tra la sezione provinciale di Siracusa della Lilt, la Lega italiana per la lotta contro i tumori ed il Tribunale di Siracusa una convenzione che consentirà a quattro detenuti l’attività in favore dei pazienti nella struttura poliambulatoriale della Lilt in viale Epipoli, all’interno dell’ospedale “Rizza” e nelle delegazioni provinciali di area di Canicattini e Pachino. Il protocollo d’intesa è stato firmato nei giorni scorsi dal giudice Giuseppina Storaci e dal presidente provinciale della Lilt, Claudio Castobello. Il servizio che sarà svolto attraverso il coordinamento di due tutors, si articolerà in quattro direttrici: attività di supporto a favore della prevenzione della malattia oncologica, attività di aiuto e sostegno al malato oncologico, attività di supporto al trasporto del malato oncologico nei centri di radioterapia e poter favorire così la promozione legata all’importanza della prevenzione oncologica primaria, secondaria e terziaria. La durata della convenzione è fissata in un anno rinnovabile fino ad un massimo di cinque. Le attività saranno svolte secondo quanto è disposto nel decreto legislativo 274 del 2000, e l’attività che non sarà retribuita, sarà espletata in conformità con quanto è stato previsto nel provvedimento di condanna dal giudice, che indica il tipo e la durata del lavoro di pubblica utilità. Bologna: due condanne per lo stupro in cella all’Ipm del Pratello La Repubblica, 1 luglio 2012 Una sentenza in tempo record che non solo ha condannato due ragazzi - oggi diventati maggiorenni - per violenza sessuale su un altro detenuto più debole, ma ha sconfessato coloro che avevano sottovalutato quanto era accaduto in una cella del Pratello. Il Tribunale dei minori ha condannato a 4 anni e 4 mesi e a 3 anni e 4 mesi i due ospiti del carcere del Pratello che, nel settembre dello scorso anno, avevano abusato sessualmente di un loro compagno di detenzione. Un episodio tra i più gravi alla base dell’ispezione-blitz del novembre scorso, al termine della quale il ministro della Giustizia Paola Severino aveva disposto il trasferimento del direttore del centro giustizia minorile Giuseppe Centomani (poi mai messo sotto provvedimento disciplinare e ora a capo a Napoli), il direttore Lorenzo Roccaro (che ha avuto 11 giorni di sospensione) e il capo degli agenti Aurelio Morgillo (anche lui mai messo sotto procedimento). Nessuno fece denuncia formale di questo reato ed è ancora in corso in Procura ordinaria l’inchiesta del pm Antonello Gustapane su una serie di omissioni di denuncia di violenze e soprusi tra i detenuti e su diversi trattamenti non ortodossi, vessatori e violenti su detenuti, commessi da appartenenti alla polizia penitenziaria. La violenza dopo botte e scherzi da caserma avvenne una sera in cella su un sedicenne italiano: due diciassettenni gli autori, un italiano e un tunisino. Fu tale la paura della vittima che solo dopo le testimonianze di altri ospiti del carcere ha ammesso il sopruso, per timore di essere spacciato per “una femmina”. Due giorni fa, davanti al collegio presieduto dal giudice Donatella Donati e al pm Flavio Lazzarini, il ragazzo, che era in cella per alcune rapine in casa e ora è libero, ha commosso tutti raccontando la sua disavventura e la fatica psicologica che ha fatto per uscirne. “Una sentenza soddisfacente per i tempi rapidissimi - ha commentato il procuratore Ugo Pastore - che ha confermato in pieno l’ipotesi accusatoria”. Una sentenza record, ma allora nessuno fece denuncia, né la polizia né il direttore, che dichiarò di non aver trovato riscontri. La notizia arrivò in Procura quasi un mese dopo, per altre vie, segnalata da alcuni assistenti sociali, a conferma di un clima che l’ispezione poi ha messo in luce in tutta la sua gravità. Belluno: detenuto a processo per furto di un lenzuolo in lavanderia, il giudice lo assolve Corriere delle Alpi, 1 luglio 2012 Assolto dall’accusa di furto di un lenzuolo. La curiosa vicenda ha visto, ieri mattina, come protagonista, nell’aula penale al primo piano del palazzo di giustizia di Belluno, un veneziano di 39 anni, Riccardo Maggio (difeso dall’avvocato Enrico Rech). I fatti risalgono al 15 luglio 2010 quando Maggio fu denunciato per la singolare accusa di tentato furto di un lenzuolo all’interno del carcere di Belluno. L’imputato, in quel periodo, lavorava all’interno della lavanderia del carcere, e quel giorno decise di nascondersi un lenzuolo sotto una maglietta esclusivamente per portarlo in cella e darlo ad un detenuto che era rimasto senza, dopo che il suo s’era strappato. Maggio, però, all’esterno della lavanderia fu perquisito, da una guardia carceraria che, a suo dire, l’aveva preso di mira, e fu trovato in possesso del lenzuolo, ben piegato. A quel punto, la guardia carceraria, denunciò il detenuto veneziano con l’accusa di tentato furto aggravato dal fatto che il lenzuolo era un bene dell’amministrazione penitenziaria. Nel corso dell’udienza di ieri sono stati sentiti sia l’agente penitenziario che lo denunciò che lo stesso imputato. Si è passati poi alla discussione nel corso della quale il difensore di Maggio, l’avvocato Rech, ha sostenuto come non si potesse parlare di furto in quanto il lenzuolo veniva solo spostato dalla lavanderia al carcere. Il bene sarebbe rimasto, dunque, all’interno delle mura carcerarie di Baldenich. Una tesi difensiva che il giudice Antonella Coniglio ha accolto, assolvendo Maggio con la formula del “fatto non sussiste”. Bologna: Sappe; agente aggredito da un detenuto finisce all’ospedale Agi, 1 luglio 2012 Ancora un’aggressione nel carcere bolognese della Dozza. Un agente è stato aggredito da un detenuto impiegato come “spesino” all’interno del carcere. Lo comunica il sindacato di Polizia penitenziaria Sappe. Stando alle prime ricostruzioni dei fatti, il detenuto, invece di lavorare, stava giocando con altri suoi compagni in una saletta; l’agente, dunque, lo avrebbe invitato ad uscire e ad andare a lavorare. Il detenuto si sarebbe scagliato contro il poliziotto, tentando di colpirlo a pugni e ferendolo sul naso. L’agente, ora, è stato portato in ospedale. “Riteniamo che la misura sia ormai colma - rileva Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe - non è più possibile tollerare queste continue aggressioni, ad opera di detenuti che rifiutano ogni regola. Chiediamo che a questo soggetto venga immediatamente tolta la possibilità di lavorare, considerato che non si è dimostrato meritevole di tale beneficio, magari a scapito di altri suoi compagni, e che vengano assunti seri provvedimenti disciplinari, oltre ai risvolti penali della vicenda. Ricordiamo che a Bologna ci sono oltre mille detenuti, per una capienza di 470 posti e mancano circa 200 agenti: dei 570 previsti ce ne sono circa 370”. Ascoli: detenuti del carcere di Marino del Tronto alla Giornata Ecologica di Nereto (Te) Il Centro, 1 luglio 2012 Si è svolta questa mattina la Terza Giornata Ecologica, iniziativa che ha visto la presenza di quattro detenuti del carcere di Marino del Tronto di Ascoli, impegnati in una serie di attività. Un progetto pianificato dall’amministrazione comunale di Nereto con collaborazione con l’istituto di pena, che ha come obiettivo quello di recuperare e di includere nella società i detenuti. Parole di soddisfazione hanno espresso il sindaco Stefano Minora, il vice Daniele Laurenzi e l’assessore Patrizio Panichi, che hanno trascorso la giornata assieme ai detenuti. “Abbiamo una fattiva intesa con il Direttore della Casa Circondariale di Marino del Tronto” spiega il vicesindaco Laurenzi, “ e con il magistrato di Sorveglianza del tribunale di Macerata. Abbiamo coinvolto quattro detenuti in questa nuova “Giornata Ecologica” che, grazie alla collaborazione con la Polizia Penitenziaria, ha il duplice compito, come detto in premessa, d’essere strumento di recupero e di nuova inclusione sociale. È altresì un messaggio che trasmettiamo ai detenuti affinché riacquistino stima di loro stessi”. I detenuti sono stati impegnati nella pulizia della Vecchia Fontana e delle zone antistanti il Teatro “Brecht”. Gli amministratori del Comune di Nereto hanno poi accompagnato sia i detenuti che gli agenti della Polizia Penitenziaria a loro scorta, ad una conviviale che si è tenuta in un noto locale neretese, ove hanno assaggiato, tutti seduti allo stesso tavolo, alcune prelibatezze della cucina locale. L’iniziativa, visti i felici esiti, verrà di certo ripetuta. Rovigo: il musicista Massimo Bubola in piazza con i detenuti venerdì 20 luglio Rovigo Oggi, 1 luglio 2012 Venerdì 20 luglio alle 21, in piazza Vitotrio Emanuele II, si accendono le luci sulla condizione dei detenuti nella casa circondariale di via Verdi. Si terrà infatti l’iniziativa “Il carcere in piazza” che avrà per ospite il musicista Massimo Bubola. Per l’occasione, i detenuti di Rovigo saranno in piazza per portare la propria testimonianza. Michel Foucault, grande filosofo francese del nostro secolo lo prende a paradigma di tutte le istituzioni “perfette” che hanno modellato il nostro vivere, sentire, pensare e agire. È il carcere, una realtà su cui riflettere per sentirci responsabili e per non dimenticare. Venerdì 20 luglio, alle 21, in piazza Vittorio Emanuele II, si terrà la settima edizione de “Il carcere in piazza”, iniziativa organizzata dal coordinamento dei volontari della casa circondariale di Rovigo. Una serata di riflessione, musica, poesia e racconti sulla condizione carceraria. Ospite della serata il musicista Massimo Bubola. Conduce Michaela Faggiani e recita Camilla Ferrari, con la regia di Livio Ferrari, garante dei diritti delle persone private della libertà di Rovigo. Per l’occasione, i detenuti saranno in piazza e porteranno la propria testimonianza ai cittadini. Caltanissetta: “Attimi d’evasione” nel carcere di San Cataldo, in mostra vignette dei detenuti La Sicilia, 1 luglio 2012 Celebrazioni, emozioni e…”Attimi d’Evasione”, ieri, alla Casa di reclusione. In occasione della festività di San Basilide, patrono della Polizia penitenziaria, nella nella cappella dell’istituto penitenziario, è stata celebrata la Santa Messa, dal cappellano del Carcere, Padre Enrico Schirru. Presenti alla cerimonia, il direttore della Casa di reclusione di San Cataldo e del penitenziario di Caltanissetta, dott. Angelo Belfiore, il vicecommissario di Polizia penitenziaria di San Cataldo, Alessio Cannatella, il vicecommissario della Polizia penitenziaria di Caltanissetta, Michelangelo Aiello, gli operatori dell’area educativa, gli agenti della Polizia penitenziaria, anche in pensione. Intervenuti, inoltre, il sindaco Francesco Raimondi, il presidente del Tribunale di sorveglianza di Caltanissetta, Roberto Ferrando ed il magistrato di sorveglianza Francesco Frisella Vella. Successivamente, nella sala teatro dell’istituto, si è svolta l’inaugurazione della mostra di vignette realizzate da dieci detenuti nell’ambito del corso “Attimi d’Evasione”, tenuto dal vignettista Lello Lombardo (in arte “L. Kalos”): il progetto ha visto i ristretti realizzare elaborati su delicate tematiche quali sovraffollamento, servizio sanitario, colloqui con i familiari, rapporti con i figli, reinserimento nella società, politica e sistema carcerario, lo scontare una pena per reati commessi da altri. Alla manifestazione è intervenuto anche Sergio Criminisi, siciliano di Agrigento, vignettista della trasmissione televisiva di Raiuno “Verdetto Finale”, oltre al dott. Michele Spena, editore de “Il Fatto Nisseno”. Nell’occasione, le autorità hanno preso la parola: significativa la lettera di commiato del dott. Frisella Vella, che ha rassegnato le dimissioni dalla magistratura. Lello Lombardo, ha evidenziato “l’interscambio avvenuto con i detenuti, che molto hanno dato in termini di umanità con le loro storie e la loro sofferenza”. Il direttore del Carcere, dott. Belfiore, ha consegnato una lode da parte del Dipartimento amministrativo penitenziario al sovrintendente di Polizia penitenziaria, Salvatore Di Franco, in servizio a Caltanissetta, per avere salvato la vita ad un detenuto, scongiurandone il suicidio. Hanno parlato anche il vicecommissario Cannatella, il responsabile dell’area educativa Michele Lapis ed il funzionario della professionalità di servizio sociale dott. ssa Rosa Maria Miraglia. Infine, in visita, l’on. Rita Bernardini (Radicale). Pavia: “Torre del Gallo in Concert II”, le band in carcere per solidarietà La Provincia Pavese, 1 luglio 2012 Il “Torre del Gallo in Concert II” nella Casa circondariale pavese - spiega Daniela Bagarotti, educatrice del carcere - rappresenta la fine di un bellissimo progetto che ha costruito uno spirito di aggregazione straordinario tra detenuti ed operatori”. Partiti da una riflessione sul senso delle rivolte del 1968, i carcerati hanno voluto capire quanto la rivoluzione sia passata anche dalla musica, analizzando i vari generi e i brani più rappresentativi per la loro vita. Il lavoro ha portato quindi alla realizzazione di un cd. Il concerto di sabato ha visto coinvolte alcune band pavesi (La Corte dei Miracoli e gli Audiolazy), che eseguiranno alcune tracce tratte dal disco prodotto durante l’iniziativa, mentre i detenuti hanno spiegato il perché delle canzoni scelte. Alla realizzazione dell’evento hanno partecipato anche il Comune, l’Università di Pavia con il professor Mario Dossoni, del dipartimento di Scienze Politiche Sociali e Radio Ticino, grazie all’impegno di Simona Raparelli che ogni sabato conduce un programma dall’interno del carcere. “Noi educatori - conclude la Bagarotti - vogliamo ringraziare i detenuti per l’impegno e la passione che hanno messo, senza dimenticare il comandante Angelo Napolitano e Jolanda Vitali direttrice di “Torre del Gallo”, sostenitori fin da subito di questa importante iniziativa, giunta al suo secondo anno di vita”. Libri: “Dentro”, tutto il dramma del carcere nel libro di Sandro Bonvissuto di Paolo Merlini La Nuova Sardegna, 1 luglio 2012 “Sollevare la copertina di “Dentro” significa accettare sin da subito di spezzarsi le unghie contro l’autenticità abrasiva dei muri del carcere”. Michela Murgia ha presentato così, su Repubblica, il libro d’esordio di Sandro Bonvissuto, quarantaduenne romano, una laurea in filosofia nel cassetto e un presente, senza rimpianti, come cameriere in una storica trattoria della capitale, “Da Candido”. Uscito da un paio di mesi, grazie al passaparola e alla segnalazione di lettori importanti, “Dentro”, pubblicato da Einaudi, ha fatto molto parlare di sé, per la purezza e l’essenzialità della scrittura, l’incisività di quanto narrato. Nel caso specifico, il “Dentro” - titolo del primo di tre racconti - è il carcere. Un racconto crudo, in prima persona ma non autobiografico, perché Bonvissuto - ieri ospite al festival Isola delle Storie - in carcere non c’è mai stato, anche se la sua descrizione di un’esperienza drammatica nella vita di un uomo è efficace come raramente accade. Tanto da far pensare, appunto, a un’esperienza vissuta oltre che raccontata in prima persona. Come è nata l’idea di un racconto così dettagliato sull’esperienza del carcere? “Ci tenevo a parlarne, anche se non mi ha riguardato in prima persona. Sentivo l’esigenza di raccontare un’esperienza con cui sono comunque venuto in contatto, sia pure in modo marginale, per amicizie e trascorsi giovanili, insomma per interposte persone. C’è poi un lavoro di ricerca e documentazione sulla vita in carcere. Ma questo non deve sminuire, credo, la forza di quanto descrivo. Volevo parlare della vita in queste condizioni in una modalità che fosse nuova. Ho scelto la prima persona per avere da parte del lettore una maggiore attenzione e insieme dei margini in cui i pensieri più intimi di un detenuto potessero venire alla luce”. Lei restituisce grande dignità a chi vive in cella. “So che l’uomo può sbagliare. Ho conosciuto persone degnissime che sono incappate in guai giudiziari per i motivi di più diversi. So per certo che le condizioni nelle quali maturano violazioni della legge spesso sono sovra dominanti rispetto alla natura dell’uomo, diventano quasi un fattore inevitabile”. Nelle sue pagine i muri del carcere sono talmente realistici che il lettore ha la sensazione di andarci a sbattere. “I muri sono una costante del nostro presente. In carcere, ma per esempio anche nei territori occupati in Palestina. Ma il muro in cui si imbatte l’io narrante di “Dentro” è anche ideologico, fattore che ritengo una componente, se non preponderante, di uguale impatto rispetto alla sua consistenza fisica”. Il fatto che lei, laureato in filosofia, lavori in una trattoria significa che a sua volta s’è trovato di fronte a un muro? “Ho fatto ovviamente una scelta residuale, non ho potuto fare quello che volevo ma la mia vita va avanti, serenamente. È stata una scelta di sopravvivenza ma non me ne pento, il lavoro che faccio mi lascia libero di dedicarmi alla scrittura. Lavoro in un ambiente piacevole, e non ho dovuto fare compromessi”. India: caso marò italiani; De Mistura chiede riconoscimento giurisdizione internazionale Ansa, 1 luglio 2012 Otto familiari dei due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone detenuti in India con l’accusa di aver ucciso due pescatori sono in partenza per il Paese asiatico per far visita ai loro congiunti. Dopo aver atteso in una sala riservata, la partenza dall’aeroporto di Fiumicino è fissata poco dopo mezzogiorno con un volo di linea via Doha, in Qatar. Del gruppo, accompagnato da un ufficiale di Marina psicologo, fanno parte due sorelle, una figlia e un nipote di Latorre e due sorelle, un cognato e un fratello di Girone. In vista della prossima udienza del processo fissata al 10 luglio ha parlato il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura, che raggiungerà l’India nei prossimi giorni e che ha accolto i familiari dei fucilieri di Marina allo scalo romano. “È molto importante il morale dei nostri marò e dei loro cari - ha detto - ed è importante che le loro famiglie possono andare a fargli visita. Ed è quello che sta accadendo con la partenza di oggi. È fondamentale - sottolinea De Mistura - che vada avanti la pressione affinché la giurisdizione internazionale venga riconosciuta: due giorni fa ero a Dubai per la conferenza sulla pirateria, dove 50 nazioni hanno concordato con noi la dichiarazione finale in cui si diceva che, quando avvengono incidenti in acque internazionali, per quel che riguarda la pirateria vale la giurisdizione internazionale. Vediamo cosa accadrà il 10 luglio - ha proseguito De Mistura: noi andremo avanti perché siano riconosciute la giurisdizione e soprattutto l’immunità funzionale, ovvero che quando i militari fanno il loro dovere la propria nazione vanno giudicati, in caso di errori, soltanto nella nazione madre. Ed è questo il nostro punto fermo sul quale, devo dire, la Comunità internazionale è d’accordo. I marò - conclude De Mistura - devono sapere che noi siamo lì e continueremo ad essere lì. Iran: ex deputato moderato Samad Qasempour rischia impiccagione per droga Aki, 1 luglio 2012 L’ex deputato iraniano Samad Qasempour rischia di essere impiccato nelle prossime settimane nella città di Tabriz. Lo riferisce il quotidiano filo-conservatore “Mellate-ma”, spiegando che Qasempour, recluso nel carcere di Tabriz, è stato condannato a morte dal Tribunale della Rivoluzione della stessa città perché riconosciuto colpevole di traffico di droga. La condanna a morte è stata da poco confermata anche dalla Corte Suprema. Le autorità iraniane non hanno rilasciato al momento alcuna dichiarazione al riguardo. Qasempour era schierato, durante la sua attività politica, con il fronte moderato vicino all’ex Presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. La notizia dell’imminente impiccagione dell’ex deputato iraniano è rimbalzata su numerosi siti d’informazione, sia in Iran sia all’estero. In Iran, a partire dalla rivoluzione del 1979 e dall’istituzione della Repubblica Islamica, vige il diritto penale islamico sciita, che prevede la pena capitale per una serie di reati, tra i quali alcune ipotesi di traffico di droga. Tibet: scomparsa dall’ospedale ragazza di 17 anni, era ricoverata dopo pestaggio polizia Ansa, 1 luglio 2012 Una ragazza tibetana di 17 anni è scomparsa dall’ospedale dove era stata ricoverata dopo essere stata picchiata dalla polizia per aver protestato per strada contro l’occupazione cinese del Tibet. Lo riferiscono fonti di organizzazioni non governative che si battono per i diritti dei tibetani. Jigme Dolma lo scorso 24 giugno, era scesa in piazza a Kardze, nel Tibet orientale, urlando slogan per l’indipendenza del Tibet e per il ritorno del Dalai Lama. Secondo quanto riferiscono le fonti, Dolma sarebbe stata picchiata dalla polizia sul posto, ricavandone fratture alle gambe e alle braccia, prima di essere stata portata in ospedale. Qui non ha potuto ricevere la visita di nessuno ed è stata poi successivamente prelevata e nessuno sa dove sia. A Dartsedo, invece è ancora in carcere senza formali accuse o sentenza, un tibetano di 40 anni arrestato il 24 gennaio quando, insieme a circa 600 persone, manifestò pacificamente a Serthar, ma i manifestanti furono attaccati dalla polizia che, secondo testimoni, sparò anche ad altezza d’uomo uccidendo cinque manifestanti e ferendone 40.