La tossicodipendenza non distrugge solo chi si fa, logora anche intere famiglie Il Mattino di Padova, 16 luglio 2012 Quando si parla di droga, dei danni che produce nella vita delle persone, si pensa sempre a chi ne fa uso, e prima o poi incontra sulla sua strada la galera. In realtà, sono intere famiglie che spesso vengono travolte quando un figlio finisce nella tossicodipendenza, famiglie che vivono nell’angoscia, nella paura, nel sospetto, che non sono più in grado di credere a niente, che passano dall’illusione che il problema sia risolto, alla delusione di scontrarsi con le continue ricadute, alla rabbia nel vedere una persona cara autodistruggersi. Le testimonianze di due detenuti tossicodipendenti raccontano in modo spietato tutto il dramma vissuto dalle loro famiglie. La droga ha stravolto i miei legami affettivi Scrivere per me di questo argomento molto importante, gli affetti nelle carceri sovraffollate, e farlo all’interno di una situazione estremamente segregante è molto difficile e debbo per forza partire da lontano, ma prima cercherò di spiegare brevemente la mia situazione personale in questa carcerazione. Io sono in carcere da quasi 4 anni e mezzo (non è la mia prima carcerazione, ma la più lunga in un'unica soluzione questo si), per problemi indissolubilmente legati all’uso di droga. Credo che la stessa abbia contribuito decisamente ed in modo sostanziale a “stravolgere” non solo me, ma anche tutti i legami affettivi miei e delle persone che mi sono state più o meno vicine. Questo anche se nei primi anni da adolescente apparentemente, sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, divenivo più disinibito, affettuoso e disponibile alle relazioni, ma poi passato l’effetto (breve), inebriante dell’eroina, tornavo con tutti i miei grossi problemi esistenziali di adolescente. Va da sé che subito riandavo alla ricerca di ciò che era riuscito finalmente a “farmi star bene”, almeno per un breve lasso di tempo, inizialmente non conoscevo certo il prezzo che avrei dovuto pagare per questo senso illusorio di benessere, in generale ma soprattutto in termini di affetti. Nel periodo prima dell’ultimo mio arresto, stavo faticosamente cercando di ricostruirmi “uno straccio di vita”, quando ho avuto una prepotente ricaduta con le droghe. Tanto per essere chiari, la mia situazione è questa perché è il risultato di una mia precisa responsabilità soprattutto di omissione, nel senso che ho lasciato che tutta la sfera di vitale importanza rappresentata dagli affetti venisse dopo, molto dopo la droga, e piano, piano un pezzo qua ed un altro là, sfumasse. Quest’ultima carcerazione è così, ma in passato non è andata sempre in questo modo, mi sono perso i “pezzi per strada”. Mia madre per decenni mi è stata dietro, mi è venuta a trovare in carcere, mi ha supportato ed aiutato, molto spesso per farmi andare in una comunità terapeutica, mettendomi in contatto con questa o quell’altra persona, poi nel 2002 è morta in un incidente automobilistico, proprio il giorno dopo che, come tutte le settimane, aveva accompagnato la mia compagna a trovarmi in una comunità dove vivevo. Lei raramente mi ha fatto mancare l’affetto e la presenza anche epistolare, che probabilmente io non ho corrisposto adeguatamente, e solo dopo la sua scomparsa mi sono accorto del valore che lei aveva per me (ma questo vale un po’ per tutte le persone che mi son fatto scivolare via!). Mio padre (anche se i miei si erano divisi e poi divorziati da molti anni), è venuto solo un paio di volte in carcere, in una di queste con mia sorella. È strano come ci si accorga delle persone alle quali si tiene, solo quando non ci sono più, per un motivo o per l’altro. Per esempio mi è capitato di attendere impaziente e con il batticuore dietro le sbarre della cella, l’agente che consegna la posta in carcere, aspettando le lettere di una persona alla quale ho voluto molto bene ed il fatto che “l’agente postino” avesse per me una sua lettera mi cambiava in positivo la giornata, se non addirittura la settimana. Io talvolta ho pensato che non ho mai voluto fare il cosiddetto “salto di qualità” nel crimine, forse perché non ne sono tagliato, ma nei primi decenni quello che molto spesso mi ha frenato sono stati proprio i legami affettivo - famigliari (nonostante tutto il loro disgregarsi), e a impedirmi di commettere reati ben più gravi un decennio fa è stata la compagna con la quale allora non c’era solo un legame affettivo, vivevamo assieme, ed il nostro volerci bene mi ha letteralmente fermato sulla strada del commettere appunto reati ben più gravi. Posso provare ad immaginare cosa possano pensare le persone libere che, fortunatamente, non sono mai state in carcere riguardo alla richiesta di chi è detenuto di poter mantenere ed intensificare i legami affettivi con le proprie famiglie, che oggi sono limitati a sei misere ore di colloquio al mese: la prima reazione è sempre di ricordarci che è troppo tardi, che ai nostri cari dovevamo pensarci al momento in cui andavamo a commettere reati… Ma è sempre il solito discorso, parecchi di noi prima o poi usciranno e più vuoto affettivo troveranno, peggio sarà… per tutti. Filippo F. Incapace di ribellarmi, l’eroina mi comandava I miei lunghi trascorsi di tossicodipendenza sono iniziati mentre frequentavo le scuole medie con delle piccole trasgressioni, per esempio fumare uno spinello il fine settimana, o rubare l’automobile al padre di un amico per andare a divertirci, cose a cui non davamo molta importanza. Poco a poco, senza rendercene conto, entrammo in una spirale di trasgressioni più pesanti, che purtroppo hanno portato me in galera e qualcuno dei miei compagni alla morte. In un paio d’anni, da ragazzini un po’ ribelli, teste calde e senza principi, ci eravamo convertiti in ladri. Appena compiuti i 18 anni mi arrestarono, lì conobbi il carcere e l’astinenza. Fu uno shock, ma il peggio è stato quello che successe nella mia famiglia, mio padre per la vergogna cadde in una depressione che in un paio d’anni lo portò alla morte in un incidente inspiegabile. Nel frattempo ero entrato ed uscito due o tre volte dal carcere. Vedevo la disperazione di mia madre, e mia sorella, che aveva solo 12 anni e fu costretta a maturare molto in fretta, notando la mia apparente indifferenza per la loro sofferenza penso mi abbia odiato per anni. Mia madre mi diceva che ero cattivo, senza cuore, irrecuperabile, che non volevo cambiare, e il peggio è che non provavo pena per lei. Sapendo quello che soffriva per la morte di mio padre e una bambina da crescere da sola, anche un animale avrebbe fatto il possibile per cambiare ed io niente, apparentemente indifferente. La realtà era ben diversa, soffrivo, eccome se soffrivo, ma ero incapace di ribellarmi, l’eroina mi comandava e cominciavo a rendermi conto che il problema era più che serio, ma speravo sempre, magari con un miracolo, che prima o poi avrei smesso. Il carcere a me personalmente non solo non mi ha fatto capire niente, ma al contrario mi è servito come trampolino di lancio, da semplice ladruncolo per necessità, in qualche anno mi sono convertito in un delinquente ed ero in contatto con i peggiori criminali e trafficanti di quel tempo. Quando rimanevo da solo tornavo da mia madre che, a malincuore e con il parere contrario di mia sorella, mi accettava pur sapendo che cosa significasse vivere con me: visite notturne, perquisizioni, e spesso il rischio di trovarmi collassato. Però pensava che se dovevo morire era meglio a casa che per strada su una panchina. Dopo circa 15 anni fui costretto ad espatriare in un posto, dove speravo che, non conoscendo nessuno, avrei smesso per forza, e in parte ci riuscii. Ben presto però seppi che non potevo rientrare in Italia perché ero ricercato dalle forze dell’ordine. Sono rimasto all’estero per 15 lunghi anni illudendomi di poter sfuggire alle mie responsabilità per tutta la vita, anche se spesso avevo delle enormi depressioni: volevo rivedere mia madre che non era più tanto giovane, mia sorella, curarmi, cosa che la situazione di clandestinità non mi permetteva. A un certo punto non ho più sopportato lo stress e la paura di essere arrestato in ogni momento, e ho dovuto trovare il coraggio di affrontare la realtà e tornare. Ora sono in carcere da quasi tre anni e anche se me ne mancano più o meno cinque, ogni notte penso le stesse cose: cosa farò quando uscirò? Mi meriterò tanto amore e fiducia? E se per l’ennesima volta dovessi ricadere nella droga? Il solo pensiero mi fa rabbrividire, spero tanto di avere la forza e la voglia di affrontare una vita normale lavorando e senza usare nessun tipo di droga, perché altrimenti significherebbe dare il colpo di grazia all’unico familiare che mi è rimasto al mondo, e questa volta non me lo potrei perdonare nemmeno io stesso. Marco C. Giustizia: le punizioni e i benefici devono essere “uguali per tutti”… di Carlo Federico Grosso La Stampa, 16 luglio 2012 La Cassazione ha confermato l’impianto della condanna dei dieci manifestanti accusati di devastazione e saccheggio” in occasione del G8: le condanne sono state tutte rese definitive, soltanto alcune delle pene originariamente comminate sono state ridotte (con annullamento con rinvio in taluni casi, con ridefinizione da parte della stessa Corte in altri). A pochi giorni di distanza, dunque, per una strana coincidenza, la Suprema Corte si è pronunciata sia sulla vicenda a carico dei poliziotti responsabili dei fatti commessi alla scuola Diaz, sia su quella a carico dei giovani accusati di avere messo a ferro e fuoco la città. La decisione assunta riaprirà inevitabilmente le polemiche, numerosi intellettuali abbiano sottoscritto, nei giorni scorsi, un appello nel quale si chiedeva alla Cassazione l’annullamento di tale sentenza. Da un lato si contestava la legittimità dell’imputazione per “devastazione e saccheggio”, un reato, si sosteneva, ereditato dal fascismo, punito con una pena troppo elevata, non adeguatamente definito sul terreno della individuazione delle condotte punibili, sempre più utilizzato contro chi manifesta, protesta, si oppone. Dall’altro ci si domandava se era giusto fare dei dieci imputati condannati i “capri espiatori” della moltitudine d’incappucciati che aveva partecipato ai disordini (perché proprio quei dieci, e non altri?),e se era giusto, soprattutto, condannarli per un reato che prevedeva una pena molto più elevata di quella prevista per i reati per i quali erano stati a loro volta incriminati i poliziotti autori di violenze e crudeltà nei confronti di manifestanti inermi. Si poneva in fine un’ultima questione: se a dieci anni di distanza dai fatti fosse ragionevole infliggere sanzioni così devastanti a persone che nel frattempo erano cambiate, si erano inserite nella società, avevano trovato lavoro, si erano sposate, avevano avuto figli: persone che non possedevano pertanto più la “pericolosità” (eventualmente) posseduta al momento dei fatti e che esigevano pertanto tutt’altro trattamento. Ciascuna delle questioni poste merita attenzione. È possibile che la pesantezza della pena prevista per il delitto di devastazione e saccheggio risenta dello spirito autoritario del codice penale Rocco del 1930. I fatti di “devastazione”, cioè di distruzione sistematica, carica d’odio, di cose e luoghi della città da parte di gruppi organizzati, travisati, armati di mazze, spranghe e bombe molotov, sono in ogni caso gravissimi: non hanno nulla a che vedere con i semplici “danneggiamenti”, sono espressione di guerriglia eversiva, costituiscono un attentato all’ordine pubblico e alla sicurezza dei cittadini. In questa prospettiva mi sembra che, di conseguenza, anche in uno Stato democratico essi debbano trovare una collocazione adeguata alla loro oggettiva gravità. Osservazioni analoghe possono essere formulate con riferimento al concetto di “saccheggio”, che non è semplice sottrazione di cose altrui (furto), bensì asportazione sistematica di ogni bene rinvenuto in determinati luoghi o circostanze. È vero invece che non è ragionevole che i manifestanti autori di devastazioni e saccheggi siano puniti in modo tanto più pesante di chi, dovendo operare in nome della legge, ha commesso invece, nell’esercizio della funzione, indebite violenze o cagionato lesioni personali a cittadini inermi. L’abnormità è dovuta tuttavia al fatto che il Parlamento, nonostante gli impegni internazionali assunti, non ha ancora previsto il delitto di tortura. Se tale delitto fosse stato introdotto, ben diverso sarebbe stato l’epilogo del processo concernente le violenze perpetrate. Nessun problema di disparità di trattamento avrebbe avuto, pertanto, ragione di essere posto. In ogni caso, questa è la nostra legge. Che poteva fare, a questo punto, la Cassazione: annullare la sentenza contro i manifestanti condannati per devastazione e saccheggio perché i poliziotti, in un altro processo, non sarebbero stati adeguatamente puniti per le violenze perpetrate alla scuola Diaz? Quanto al rischio di fare, dei dieci ragazzi condannati, i “capri espiatori” della moltitudine di persone che nel 2001 ha messo Genova a ferro e fuoco, è agevole obbiettare che, anzi, la circostanza che soltanto nei confronti di dieci persone si sia giunti alla condanna per il delitto di devastazione e saccheggio rivela, positivamente, l’attenzione dell’autorità giudiziaria a non coinvolgere nell’imputazione persone nei confronti delle quali non erano emerse prove specifiche di responsabilità penale. Rimane l’ultima questione: gli imputati, oggi, a oltre dieci anni di distanza, sono persone diverse. Non ha pertanto senso applicare loro una sanzione che poteva, tutt’al più, essere giustificata al tempo del commesso reato. Il problema non è di poco conto. Esso si pone tutte le volte in cui il processo dura troppo a lungo, e si finisce per eseguire una condanna a eccessiva distanza dal momento della commissione del reato. Se l’autore del fatto non presenta più i profili criminogeni che lo hanno condotto a delinquere, sostiene una corrente di pensiero, è giocoforza rinunciare alla pena; altrimenti sarebbe contraddetta la stessa funzione rieducativa che la Costituzione assegna alla sanzione penale, che verrebbe applicata a chi, essendo di fatto già “rieducato”, dovrebbe essere per tale ragione rimesso immediatamente in libertà. Altri risponde, a mio avviso a ragione, che il problema non riguarda l’applicazione della pena, che è assolutamente inderogabile, ma, eventualmente, la sua esecuzione, che nei limiti stabiliti dalla legge dovrà tenere comunque conto della già avvenuta rieducazione del condannato. Nel caso di specie stupisce, comunque, che il richiamo della personalità cambiata, che giustificherebbe la rinuncia alla punizione, sia stata invocata soltanto nei confronti dei manifestanti, non nei confronti dei poliziotti, che anch’essi, a distanza di dieci anni, possono essere diventati “diversi”, e alcuni dei quali, nel frattempo, sono stati protagonisti di brillanti operazioni. Se si ritiene che un beneficio debba essere concesso, esso dovrebbe essere infatti preteso per tutti, e non soltanto per qualcuno. Giustizia: è giunta l’ora dell’antiproibizionismo di Patrizio Gonnella www.linkontro.info, 16 luglio 2012 Beniamino Deidda è il procuratore generale di Firenze. Intervistato da una emittente radiofonica ha detto senza troppi giri si parole quanto segue: “Nessuno ha mai consumato alcool in America come quando è stato proibito. La capacità della criminalità di diffondere i consumi è molto maggiore di quella che il mercato, con le sue virtù intrinseche, potrebbe fare. Tutto ciò che è illegale e proibito ha qualche fascino. Sono favorevole a una progressiva e cauta depenalizzazione da un lato e liberalizzazione dall’altro. Controllare il mercato significa anche controllare la qualità della droga, cioè garantire ai consumatori che non saranno vittime di qualità scadenti di droghe. La qualità è controllata oggi soltanto dai trafficanti. I quali hanno mano libera senza che nessuno possa seriamente intervenire. C’è un po’ di fariseismo e l’ideologia prevale su una serena valutazione dei fatti. E quando i fatti vengono costretti nelle maglie delle ideologie non si va lontanissimo. Io vorrei abbandonare il piano dell’etica. C’è un secondo inevitabile effetto del proibizionismo ed è la lievitazione dei prezzi. Così i più deboli, quelli privi di risorse, sono costretti a procurarsi il denaro con mezzi illeciti. Aumentano i furti, aumenta la piccola criminalità. Il fenomeno si ridurrebbe se il mercato fosse controllato e i prezzi contenuti. La legge oggi è quella che è e i magistrati hanno il dovere di applicarla nella maniera più scrupolosa possibile. Ma mi limito a notare che le norme vigenti non sono state in grado di impedire il prosperare delle droghe. Abbiamo le carceri piene di piccoli e piccolissimi spacciatori, e sappiamo che uno spacciatore arrestato viene subito sostituito da un altro. Finora il divieto generalizzato non ha prodotto gli effetti sperati”. Deidda infine ha detto che non è un consumatore di sostanze. Neanche io lo sono e né lo sono mai stato. Pier Paolo Pasolini in una lettera inviata a Pannella scrisse che i tossicodipendenti gli erano antipatici ma l’antipatia non giustifica che li si metta in galera. Deidda si è mosso nel solco di Saviano e Veronesi nell’avviare un ragionamento pubblico sulla legalizzazione. Ha ragione Luigi Nieri nel sostenere che bisognerebbe avviare una iniziativa legislativa popolare che si sovrapponga alla campagna elettorale. Vanno coinvolti giudici, criminologi, poliziotti, organizzazioni sociali e partiti della sinistra. Il proibizionismo ha fallito. La war on drugs ha prodotto tragedie umane e politiche. La Fini-Giovanardi va abrogata. Le mafie vanno contrastate con intelligenza, togliendo loro le fonti di guadagno. Il dibattito va de-ideologizzato. È giunta l’ora dell’anti-proibizionismo. In epoca di spending review farebbe risparmiare un sacco di soldi oggi buttati nella repressione dei consumi individuali. Giustizia: Clemenza e Dignità; nelle carceri condizioni terribili, ma società è indifferente Agenparl, 16 luglio 2012 “I suicidi non si fermano, le condizioni di disumanità delle nostre carceri sono da anni sotto gli occhi di tutti, eppure ancora oggi si fa fatica a rintracciare uno sdegno unanime e convinto, una volontà comune per risolvere veramente questa situazione”. È quanto afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità. “Il primo fattore di resistenza a delle possibili soluzioni, - prosegue - è costituito dall’elementare quanto giusto principio per cui chi ha infranto la legge, deve poi scontare la sua pena. I tanti che si arroccano dietro questa incontestabile considerazione, dimenticano, però, che la legge non è sospesa e non cessa di esistere una volta entrati nei penitenziari, ma continua ad espletare ugualmente e perfettamente la sua efficacia anche per tutto il periodo della detenzione”. “In questo modo, - rileva - sarebbe estremamente utile alla loro lucidità di ragionamento, rintracciare mentalmente quante possibili violazioni di legge vadano concretizzandosi in un siffatto ed atroce regime di detenzione. Tuttavia - aggiunge - per onestà intellettuale, va detto che, anche inducendo questi stessi a tale riflessione, si garantirebbe loro una maggiore logicità di pensiero, mentre, probabilmente e nei fatti, non si andrebbe oltre tale risultato meramente teorico”. “Esiste, infatti, - osserva - un secondo fattore di resistenza a delle possibili soluzioni, un dato che è ugualmente giuridico e che non incoraggia certo l’attenzione e la sollecitudine delle Istituzioni a fermare la tragedia. Si tratta - conclude - del dato per cui dell’odierna tragedia delle carceri, tutti sono responsabili, ma nessuno è veramente responsabile: si tratta del principio per cui “societas delinquere non potest”, si tratta del principio per cui le pene debbono tendere alla rieducazione del condannato, si tratta del principio per cui la responsabilità penale è personale”. Giustizia: sindacati Polizia penitenziaria temono tagli spending review, pronti a proteste Ansa, 16 luglio 2012 Sindacati di polizia penitenziaria pronti a usare “tutti gli strumenti sindacali di protesta consentiti dalla legge” se non arriveranno risposte concrete per risolvere i problemi delle carceri e per arginare le “pesanti decisioni assunte dal Governo con il decreto 95, quello sulla cosiddetta spending review che bloccherà il turn over della polizia penitenziaria”. È quanto affermano in una nota Osapp, Sinappe, Cisl-Fns, Ugl Pol. Pen ed Fp-Cgil Pol. Pen. che hanno scritto al ministro della Giustizia, Paola Severino per motivare la mancata partecipazione a un incontro convocato per stamattina al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. I sindacati tornano a chiedere al Guardasigilli di poter discutere del “blocco del turn over imposto al corpo polizia penitenziaria ritenendo inaccettabile - si legge in una nota unitaria - la previsione di una ulteriore riduzione del contingente, a fronte di una carenza organica che già oggi supera le 7.000 unità. Ne mancano in tutto 9.000 per fronteggiare l’apertura delle nuove sedi penitenziarie e dei nuovi padiglioni interni alle carceri esistenti e, al netto dei proclami, tanto il Ministero quanto il Dap non sembrano intenzionati ad affrontare la pesante emergenza in corso e continuano a sottovalutare la situazione o, peggio ancora, a ignorarla”. Le sigle sindacali “restano in attesa di ricevere una convocazione e in assenza di una risposta e di impegni concreti per arginare la crisi umanitaria vissuta nelle carceri italiane, di un tangibile impegno per migliorare le condizioni di lavoro della Polizia Penitenziaria negli istituti di pena, a partire dai prossimi giorni faremo ricorso a tutti gli strumenti sindacali di protesta consentiti dalla legge”. Osapp: su agenti Penitenziari cancellieri più attenta di Severino Parole di elogio da parte del presidente dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria (Osapp), Leo Beneduci, nei confronti del ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, per l’attenzione rivolta alle forze dell’ordine nelle carceri. Critiche invece verso il ministro della Giustizia Severino”. Che la Guardasigilli Severino - ha dichiarato Leo Beneduci - a parte le dichiarazioni, non dimostrasse eccessiva attenzione confronti del personale, in particolare della Polizia Penitenziaria, era da tempo evidente, ma che non trovasse nulla da comunicare ai rappresentanti dei propri dipendenti neanche rispetto agli ingentissimi tagli degli organici disposti dal provvedimento sulla spending review, proprio non ce l’aspettavamo”. “Ben diversa dalla disattenzione del Ministro della Giustizia - ha proseguito Beneduci - l’atteggiamento del ministro dell’Interno Cancellieri, che nel frattempo ha convocato ben tre incontri e in un caso dopo essere stata costretta ad interromperne uno, perché chiamata dal Presidente Monti, ha ripreso il dialogo dopo due giorni. Del resto - ha concluso il segretario Osapp - se ben poco è cambiato in un anno rispetto alle drammatiche condizioni di vita e di lavoro nelle carceri italiane, un motivo dovrà pur esserci”. Giustizia: Br e mafia… “lo Stato deve saper mediare” di Lanfranco Caminiti Gli Altri, 16 luglio 2012 In una delle telefonate fra Nicola Mancino e il magistrato Loris D’Ambrosio, uno dei principali consiglieri di Giorgio Napolitano, si sente dire al senatore: “Anche per la storia del Paese... ma che razza di Paese è... se non tratta con le Brigate rosse fa morire uno statista, tratta con la mafia e fa morire vittime innocenti. Non so... o tuteliamo lo Stato oppure...”. La grottesca locuzione verbale di Mancino - “tutelare lo Stato”, come fosse roba loro - è in realtà proprio il cuore dell’iniziativa del procuratore antimafia di Palermo Ingroia, che dal canto suo, pur ammettendo che se eventuale trattativa ci fu questo non è un reato, dichiara di voler accertare la verità, anche contro la ragion di Stato. Mancino sembra sovrapporre quell’opinione che considera l’assoluta indisponibilità alla trattativa con le Br durante il sequestro Moro - sostenuta dall’asse politico fra i comunisti e la dirigenza democristiana che la consideravano un “cedimento dello Stato” - come la causa della morte del presidente Dc, a quella vulgata che considera la morte di Falcone e Borsellino e gli attentati successivi come provocati da un segreto patto fra pezzi di Stato e mafia. Ora, io credo che sia un’assoluta sciocchezza - qualcosa di paragonabile solo a chi dice che gli attentati dell’I 1 settembre alle Torri gemelle furono orditi da una trama della Cia e del Mossad - pensare che Aldo Moro sia stato ucciso da Berlinguer e Zaccagnini, dal compromesso storico, che era la forma-Stato di quel periodo storico: Aldo Moro è stato ucciso dalle Brigate rosse. Fallita ogni possibilità di trattativa, cosa che la Direzione strategica delle Br considerava praticamente già scontata sin dall’inizio e quindi perseguiva senza determinazione, le Brigate rosse - considerando pure che tenere il prigioniero diventava sempre più complicato e pericoloso - si consultarono al proprio interno coinvolgendo soprattutto il gruppo storico che era detenuto su quale potesse .essere la conclusione del sequestro: se rilasciare Aldo Moro, ormai senza contropartita, o ucciderlo. Non sappiamo le percentuali di quell’orribile consultazione referendaria, ma di certo le Brigate rosse, dentro e fuori il carcere, votarono per l’uccisione di Moro. Il sequestro Moro fu un’operazione militare straordinaria senza alcuna intelligenza politica, senza alcuna potenza, perché l’opzione militare - il confronto sul monopolio della violenza - aveva ormai sostituito la politica. E quale “disegno politico” poteva mai reggere quella forza, poteva governare quella forza fino a trasformare lo sgomento in consenso? Il suo esito era obbligato. Io credo pure che sia un’assoluta sciocchezza pensare che Falcone e Borsellino siano stati uccisi da una congiura mostruosa fra una parte deviata dei Servizi, agli ordini di un’imprecisata gestione politica, e la mafia. Falcone e Borsellino furono uccisi dai corleonesi di Totò Riina, anche contro il parere di diversi dei loro sodali di crimine, che avevano ormai dichiarato apertamente guerra allo Stato - rottisi definitivamente gli equilibri che avevano consentito loro di prosperare, rafforzarsi e fare affari, e intendevano eliminare due magistrati che invece, in modo assolutamente diverso, avevano inferto durissimi colpi alla mafia. La strage di Capaci come quella di via D’Amelio mostrava, senz’ombra di dubbio, che il monopolio della violenza- non era più prerogativa dello Stato: un’esibizione di forza volta a incutere paura nei nemici, rendendoli ovunque insicuri e in ogni momento dei bersagli raggiungibili. Le stragi del ‘92 furono operazioni militari straordinarie condotte senza alcuna intelligenza politica. E quale “disegno politico” poteva mai reggere quella forza, poteva governare quella violenza? I suoi esiti erano obbligati. Nei fatti, le uniche concrete determinazioni per una “trattativa”, cioè per una mediazione politica fra i nemici - nell’un caso, si parlò di possibile grazia per Paola Besuschio e Alberto Buonoconto, due prigionieri politici malati che abbisognavano già da tempo di cure adeguate fuori dal carcere, e nell’altro, l’allentamento di alcune misure dell’art. 41 bis e da quanto si addita al ministro di Giustizia e alla Direzione penitenziaria del tempo, si trattò di qualche decina di mafiosi di secondo piano -, erano cose risibili, rispetto l’enormità della violenza messa in campo. E questo che vorrei dire: non solo lo Stato non era in grado di offrire una qualunque contropartita che potesse mediare lo scontro, ma neppure i suoi nemici erano in grado di presentare una qualche proposta che facesse da misura rispetto al livello dello scontro e potesse essere considerata una contropartita soddisfacente per una tregua. Che senso poteva avere quella richiesta, contenuta nel famoso papello di Ciancimino, della defiscalizzzazione della benzina in Sicilia? Nell’un caso e nell’altro, non c’era quindi “materia” per una trattativa, perché nell’un caso e nell’altro la guerra era assoluta, rabbiosa per gli uni o ideologica per gli altri. E quando una guerra è ideologica o rabbiosa, non c’è alcun margine di trattativa, mai. Queste mie considerazioni non significano che non vi siano state responsabilità politiche nella morte di Moro come nelle stragi di mafia: le responsabilità politiche sono state tutte nel considerare orribile, ingiuriosa, inammissibile qualsiasi mediazione, cioè proprio nella rinuncia della politica a fare il proprio mestiere. Nel delegare il proprio mestiere, che non è solo di disegnare scenari ma di gestirli tatticamente. Così, nel caso di Moro, si attivarono canali leciti e illeciti - militanti, palestinesi, preti, camorristi, ndranghetisti - affidando i contatti a persone discutibili, lasciando ampio margine di chiacchiera proprio perché non c’erano i termini politici di una manovra. E lo stesso è presumibile, e molti elementi finora lo lasciano supporre, accadde in Sicilia. Ma chi agì per la trattativa lo fece sempre in modo “privato”, anche quando investito di un ruolo pubblico, e non come mandatario dell’una parte o dell’altra. La politica - ritornano le parole grottesche di Mancino - divenne una cosa sola con lo Stato, con un’astrazione di Stato, una cosa che se va bene nella filosofia tedesca, funziona disastrosamente nell’organizzazione della vita sociale libera e democratica. Così, quelli che con astuzia politica erano per la trattativa, in parte per ricavarne un proprio vantaggio oltre che per allentare uno scontro sanguinario che sgomentava la società, furono schiacciati nell’un caso - e questo accadde a Craxi - e agirono nell’ombra, nell’altro: nessuno ebbe il coraggio di “inventare” una politica all’altezza del livello dello scontro. E chi spezzò il monopolio della violenza, che è il presupposto del potere politico, non sapeva come gestire il “giorno dopo”. Il costo per la società italiana è stato altissimo: il vuoto e l’oscurità della politica. Giustizia: caso Moro: bastava un po’ di umanità per salvare la vita del presidente della Dc di Sandro Padula Gli Altri, 16 luglio 2012 È interessante l’articolo di Lanfranco Caminiti dal titolo “Br e mafia, lo Stato deve saper mediare”. La tesi di fondo, sintetizzata nel titolo stesso del pezzo, è condivisibile ma la sua argomentazione presenta alcuni errori rispetto alla verità storica. Caminiti ritiene che nell’Italia dei governi Andreotti III, IV e V il “compromesso storico” auspicato dal Pci di Berlinguer fin dal settembre 1973 avrebbe costituito una vera e propria forma-Stato mentre allora quest’ultima, se vogliamo essere precisi, era solo ed esclusivamente la “solidarietà nazionale” avallata dal presidente Usa Jimmy Carter e di cui era egemone la Dc. L’errore più grave è però un altro. Caminiti ritiene che nella primavera del 1978 le Br non avrebbero perseguito “con determinazione” una trattativa per salvare la vita di Aldo Moro, il presidente della Dc da loro sequestrato. Ciò è falso sul piano storico e politico. Le Br sapevano fin dall’inizio che c’erano pochi spazi oggettivi per una soluzione politica del sequestro Moro ma, con determinazione, la cercarono fino all’ultimo. Ciò è dimostrato dai contenuti dei comunicati delle Br, dalle lettere di Moro e dalla telefonata fatta il 30 aprile dal brigatista Mario Moretti ai familiari di Moro stesso. Ci fu infatti un canale autorizzato dalle Br che operava in quella direzione. Era quello, attivato nella seconda metà di aprile e protrattosi fino al 7 maggio, fra i brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda e il loro amico Lanfranco Pace. Quest’ultimo allora si incontrava di nascosto con alcuni dirigenti del Psi nel tentativo di trovare una soluzione positiva al sequestro del presidente della Dc. In questo senso si può dire che ci fu un canale di comunicazione indiretto e mai diretto fra Br e Psi. A tale proposito è utile leggere la ricostruzione presente nel libro intitolato “Storia delle Br” dello storico Marco Clementi (Roma, 2007, casa editrice Odradek). D’altra parte, in Italia non comandava il Psi ma la Dc e quindi era il principale partito italiano a dover dare delle risposte chiare e precise alle richieste delle Br e non qualcun altro. Nella primavera del 1978 le Br avevano posto il problema della liberazione di un gruppo di prigionieri politici. In quel contesto il Psi propose di compiere un gesto unilaterale e ipotizzò la liberazione dal carcere di un compagno, come l’ex militante dei Nap Alberto Buonoconto che nell’ottobre 1975 fu torturato dalla squadretta di poliziotti guidata dal “professor de tormentis”, o di una compagna come la brigatista Paola Besuschio, anche lei con pochi anni di detenzione da scontare e non buone condizioni di salute. Nella Dc prevalse invece il “partito della fermezza”, sostenuto anche dal Pci di Berlinguer, e al dramma delle carceri speciali e della prigionia politica se ne aggiunse un altro favorito dall’incoscienza e dalla totale insensibilità della maggioranza delle forze politiche istituzionali, alcune delle quali erano le stesse che trattavano con la mafia e da cui successivamente furono partorite quelle disposte a trovare accordi diplomatici perfino con i talebani! Nella primavera del 1978 il governo italiano dimostrò di non avere la forza per fare politica e negli anni successivi, soprattutto con la fine formale della Prima Repubblica, il sangue di Moro ricadde soprattutto su quei politici della Democrazia Cristiana che avevano definito inattendibili i testi scritti dal Presidente della Dc nella base brigatista di Roma sita in via Montalcini. In realtà, per la liberazione di Moro bastavano delle parole della DC o del governo a proposito del riconoscimento ufficiale della necessità di risolvere il problema dei prigionieri politici. Bastava un pizzico di umanità da parte della Dc e del governo per salvare la vita di Aldo Moro. Bastava qualcosa di simile al comportamento che nel dicembre 1980 fu adottato dal governo e portò alla chiusura del carcere speciale dell’Asinara! Giustizia: recensione a “Una modica quantità di crimine”, di Nils Christie di Vincenzo Guagliardo www.wordpress.com, 16 luglio 2012 Uno dei padri fondatori delle teorie per l’abolizione del sistema penale, il norvegese Nils Christie, si è recentemente ricreduto e sostiene ora un diritto penale minimalista: “una modica quantità di crimine” si intitola il suo libro in italiano (ma la traduzione più letterale per suitable non sarebbe “modica”, bensì “sostenibile”). Definisce il minimalismo “una posizione vicina a quella abolizionista, ma che accetta in certi casi l’inevitabilità della punizione”. A suo parere: “Tanto gli abolizionisti quanto i minimalisti assumono gli atti indesiderati come punto di partenza, non come crimini, e si chiedono come questi atti debbano essere trattati”. A questo punto egli può perciò vedere il minimalismo non più solo come la corrente moderata del pensiero penalista contro l’eccesso di diritto penale, ma anche come la versione moderata… dell’abolizionismo. E anzi, la pena, se minima, e con relativo contorno di discussioni non solo aridamente “tecniche” (cioè giuridiche e quindi riduttive), ma affiancata dai contributi di altri professionisti (quali sociologi, psicologi, criminologi, mediatori eccetera) che trasformano il caso in ricca “narrazione”, la pena - dicevo - diventa cosa completamente diversa: “Assumendo come punto di partenza l’intera sequenza di eventi che conducono all’atto indesiderato, la punizione diventa una, ma solo una, tra diverse opzioni. Permettere che l’analisi discenda dai conflitti, piuttosto che dal crimine, apre a una prospettiva liberatoria. Significa che noi non siamo rinchiusi in una “necessità penale”, ma siamo liberi di scegliere”. Personalmente, diversamente da Christie, non ho mai avuto troppi problemi ad accettare per certi fattacci l’uso della parola “crimini”. Si può sempre discutere del particolare conflitto chiamato “crimine” secondo le proprie visioni, l’epoca, il paese ecc. Ma devo aggiungere che non ho mai assunto il crimine come punto di partenza del ragionamento, bensì proprio l’idea di pena, massima o minima, considerandola il primo problema e non l’ultima soluzione. La pena non è mai la riposta adeguata al crimine per la sua soluzione; si limita a fabbricarlo, e aiuta a insorgere il fattaccio. Bisogna trovare la lunga via per un’altra filosofia della sanzione rispetto a questa che, ipocritamente, barbaramente e miracolisticamente, infliggendo sofferenza legale, pretende di spiritualizzare chi soffre e renderlo santo. È proprio la pena, in quanto tale, a negare il conflitto in sé, non la mancanza di professionisti delle scienze umane da porre in tribunale accanto ai giudici, agli accusatori, agli avvocati, alla polizia, ai carcerieri, ai giuristi, ai legislatori, alle università… I giudici non sono ciechi, hanno un compito vincolante: quello di erogare sofferenza legale. Partendo dal crimine invece che dalla pena, Christie ragiona da criminologo invece di ridiscutere criticamente il “punto di partenza” della sua professione. Il ruolo dei criminologi (e dunque di se stesso) è così definito da Christie: “professionisti nel campo della devianza e del controllo”. Giusto. Il loro compito è, giustamente: “vergogna e reinserimento. Sono due concetti centrali nell’attività di controllo della devianza: le tue azioni erano deplorevoli, cattive, sbagliate. Dobbiamo dirtelo: vergognati! Ma per il resto tu sei ok. Smettila di agire in modo sba­gliato, torna a casa e noi uccideremo l’agnello, faremo un grande pranzo per festeggiare il tuo ritorno”. E se non si trattasse solo di tornare a casa - come premio - pentendosi? Ma date queste premesse, ecco che di fronte a quei casi (minimi!) in cui la punizione sarebbe inevitabile e non già un’illusione che nulla risolve e dai tragici effetti, diventa inevitabile anche pensare addirittura che: “Per queste situazioni e per queste persone abbiamo le istituzioni penali come un tesoro nella società”. Non solo “nella” società, ma anche “per”: “Finché coloro che sono considerati come devianti estremi o come fondamentalmente criminali a causa del loro comportamento sono pochi, il processo e la punizione possono aumentare la coesione della società nel suo complesso. Con una piccola popolazione carce­raria è possibile pensare alla devianza come a una eccezione”. Insomma, se non ci sono, bisognerebbe inventarseli, questi quattro gatti, in nome della coesione sociale. Ed è in questo contesto esaltante che: “Come ha di recente affermato Patricia Rawlinson, i criminologi devono diventare la Greenpeace dei sistemi sociali!” In un mondo ormai ideale perché “La punizione dovrebbe quindi essere l’ultima opzione, non la prima”. E va bene, il reo, vergognandosi, deve “soggettivizzare la pena”, come dice il linguaggio giuridico d’oggi, e così saremmo a posto. Ma chi può decidere la quantità minima di delitto sostenibile che (a parte l’inevitabile sofferenza dei quattro gatti all’interno del “tesoro”) rafforzerebbe la “coesione sociale”? Chi ha questo potere? E può mai esistere? Il sistema penale (dalla criminologia alla reclusione) da sempre funziona come una cellula malata che si moltiplica automaticamente e fuori da ogni controllo. È l’esperimento in vitro che a seconda delle circostanze storiche esterne ad esso - nelle società - si trova sempre pronto all’uso, si dilata, o restringe, invade nuovi campi, può diventare lager o imprimere la sua logica punitiva anche fuori dalla reclusione. Uno strumento prezioso per dirottare l’attenzione da altri sguardi possibili della realtà, pur di mantenere quella coesione sociale che non metta in discussione l’esistente. Una morale. Ma anche un inganno, un’illusione, e oggi un pericolo per tutti e non soltanto per i soliti noti. Peccato che la scoperta di Christie tale non sia: il sistema penale nasce come centro morale della pretesa coesione sociale, e peccato che i quattro gatti non bastino mai. È per questo che l’abolizionismo non è, come crede ora il convertito Christie (finalmente uscito da tante ambiguità e carenze che lo contraddistinguevano anche in passato), una speranza irrealistica, un’utopia alla quale affiancare il suo presunto realismo per andare avanti, ma una politica concreta e immediata della disillusione che si rivolge anzitutto alle vittime. In modo semplice e magistrale il defunto Louk Hulsman non diceva al reo “vergognati e ti reinseriamo”, ma si rivolgeva alla vittima, dicendole: Che tu voglia vendetta va bene, ma guarda che di fatto il diritto penale ti darà solo illusioni, mentre in un diritto civile avresti molto da guadagnare, persino sul piano della vendetta, anche se magari non tanto quanto desideri. In parole povere, l’abolizionismo non è una nuova criminologia ma una politica attiva nel presente che ci liberi gradualmente e, in prospettiva, secondo i tempi indefinibili di una nuova coscienza collettiva, dalla cultura della colpa, con precisi criteri orientativi. È cioè evidente che già nell’immediato presente le sue proposte o le sue lotte si differenziano dal nuovo Christie. Qualche esempio. Secondo Christie: “Almeno in Russia pare evidente, fatta eccezione per i più anziani dissidenti politici, lo sviluppo di un sistema estremamente stratificato che immobilizza i perdenti al punto più basso. A causa delle migliori condizioni materiali, delle maggiori possibilità di individualizzazione del trattamento e del più elevato numero di guardie per ogni carcerato, forse va diversamente nella maggior parte delle prigioni statunitensi, anche se numerosi rapporti sulle guerre tra gang rivelano che le autorità penitenziarie sono ben lungi dall’avere un completo controllo”. “…basandomi sulle osservazioni fatte in Paesi che somigliano a Cuba, potrei almeno sugge­rire quali sono le linee di sviluppo consuete dei grandi sistemi penitenziari: con un tale numero di prigionieri e con un sistema che cresce rapidamente, le prigioni saranno ovviamente grandi e sovraffollate. Avranno relativamente poche guardie carcerarie. Questo significa che saranno gli stessi prigionieri a gestire la vita interna delle prigioni. Ciò condurrà allo sviluppo di un sistema gerarchico tra i reclusi. In cima avremo un re, circondato dalla sua corte. Un gruppo di criminali al suo servizio controllerà i prigionieri di rango più basso. Quindi ci sarà un gran numero di prigionieri di livello ancora inferiore. E al fondo troveremo gli intoccabili, quelli relegati ai compiti servili, che fanno alla fine da prostitute per quanti detengono la posizione migliore fra i prigionieri. Viene creato un sistema di casta all’interno delle carceri, un sistema che è in netto contrasto con quanto Cuba si sforza di creare per la società nel suo insieme”. L’armamentario proposto è il solito che ha portato all’attuale espansione totalitaria del sistema penale: più trattamento individualizzato (per la soggettivizazione della pena), più guardie per ogni carcerato, più controllo contro le forme di auto-organizzazione dei detenuti… Ad ogni “più” di Christie, si tratta semplicemente di contrapporre un “meno”. Egli ignora che le vecchie gerarchie interne ai carcerati erano funzionali all’interno del vecchio sistema penale e non ai reclusi, e che proprio con le misure che egli propone, esse vengono ormai sostituite dov’è possibile dalle stratificazioni trattamentali create dalle nuove équipe previste dal diritto premiale in un modo ritenuto meno rozzo e più efficace. Quello che è sempre mancato a Christie è ogni attenzione ai modi in cui la pena si raffina insidiosamente per meglio estendersi fino al ritorno dei tribunali della coscienza dei tempi dell’Inquisizione, nel quadro di una “società terapeutica” dove la dignità umana scompare e gli individui dovrebbero ridursi a pazienti da curare, dove l’unica pratica che prevale è lo scatenamento del principio vittimario. Il premio non diminuisce il diritto penale, ma lo potenzia contro ogni diritto tout court. Nel mondo italiano e anglosassone questo processo ha fatto passi giganteschi. Uscito dall’ambiguità Christie lancia un appello perché trovi un nuovo ruolo il criminologo che non ha mai smesso di essere: “Uscite dalla torre d’avorio, dicono tanti. Ma noi ne siamo già fuori. Lasciateci rientrare, potrebbe essere la mia risposta. Come minimo, lasciateci anche avere la torre d’avorio. Non possiamo limitarci ad abitarla, ma la distanza è necessaria per cogliere la prospettiva nella sua interezza”. Più potere: la Greenpeace criminologica è in realtà un panzer. In difesa delle torri d’avorio. Carinola (Ce): tragedia in carcere, pentito di camorra si toglie la vita Tm News, 16 luglio 2012 Pentito di camorra si è suicidato impiccandosi nel carcere di Carinola, nel casertano, lo riferisce l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, che avverte: da inizio anno sono 31 i detenuti suicidi, mentre in altri 22 casi le cause del decesso non sono ancora state accertate. E Teramo e Sulmona, risultano le “carceri dei suicidi”: 25 casi in sette anni. Il pentito di camorra Angelo Ferrara, 41 anni, si è suicidato impiccandosi con i lacci delle scarpe nel carcere di Carinola, nel casertano. Alle 11 di ieri mattina gli agenti della polizia penitenziaria lo hanno trovato riverso a terra, senza vita, coi lacci stretti intorno al collo. Sul corpo, secondo i primi rilievi, nessun segno di colluttazione. La salma è stata trasferita al dipartimento di medicina legale dell`ospedale di Caserta, dove sarà condotta l’autopsia, disposta dal magistrato di turno. Le dichiarazioni di Ferrara, nel 2008 - ricorda l’osservatorio - hanno portato alla condanna di numerosi esponenti della camorra napoletana afferenti al clan Moccia di Afragola. Posto in “programma di protezione” dall’apposita Commissione del ministero degli Interni, si era stabilito con una nuova identità a Ronchi dei Legionari, in provincia di Gorizia. Ma il 27 maggio 2009, con alcuni complici, mette a segno una rapina alla filiale del Monte dei Paschi di Siena di Portogruaro e nel settembre 2010 rapina altre due banche a Rimini. Scoperto grazie alle immagini riprese dalle telecamere istallate negli istituti di credito, gli viene revocato il “programma di protezione” e finisce in carcere a Carinola, dove ieri si è tolto la vita. Nel 2012 si contano già 31 detenuti suicidi: 10 erano stranieri, il più giovane aveva solo 21 anni, morto il 14 febbraio nel carcere di Milano San Vittore, il più anziano 58 anni, morto nel carcere di Milano Opera. L’età media dei detenuti suicidi è di 37,7 anni. Tre le donne, un’italiana morta a Firenze e due straniere, una morta a Teramo, l’altra a Trieste. L’intervento del Sappe “Ieri a Carinola (Caserta) un altro detenuto si è tolto la vita nonostante gli encomiabili sforzi che quotidianamente svolge la Polizia Penitenziaria per evitare che le nostre carceri sprofondino nel baratro della civiltà. Questo ennesimo suicidio ci preoccupa, come ci preoccupano le voci che dicono che dal prossimo 18 luglio le carceri campane saranno coinvolte in una serie di proteste con battitura delle inferriate”. Lo scrive in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). “La carenza di personale di Polizia Penitenziaria e di educatori, di psicologi e di Personale medico specializzato, il pesante sovraffollamento dei carceri italiani (67mila detenuti in carceri che ne potrebbero ospitare 43mila,con le conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate oltre ogni limite tenuto anche conto che più del 40% di chi è detenuto è in attesa di un giudizio definitivo) sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi. Spesso, come a Carinola, il personale di Polizia Penitenziaria è stato ed è lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensione, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Le tensioni in carcere crescono non più di giorno in giorno, ma di ora in ora: bisogna intervenire tempestivamente per garantire adeguata sicurezza agli agenti e alle strutture ed impedire l’implosione del sistema”, ricorda Capece, sottolineando che “la situazione è ben oltre il limite della tolleranza”. Cagliari: in gravi condizioni al Buoncammino, appello per un detenuto disabile Dire, 16 luglio 2012 L’uomo, costretto alla sedia a rotelle da una grave disabilità motoria, è in sciopero della fame da circa 2 mesi per protesta. A lanciare l’allarme è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che coi propri volontari opera nel penitenziario del capoluogo sardo “Si sono ulteriormente aggravate e destano molta preoccupazione le condizioni di salute di A.P. 66 anni, detenuto nel Centro diagnostico terapeutico del carcere di Buoncammino a Cagliari. L’uomo, originario di Suelli, con un grave handicap motorio che lo costringe su una sedia a rotelle, è in sciopero della fame da circa 2 mesi per protesta. Affetto da vasculopatia cerebrale e da cardiopatia manifesta una incapacità di rendersi conto dei rischi per la sua vita”. A lanciare l’allarme è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che coi propri volontari opera quotidianamente nel penitenziario del capoluogo sardo. Da gennaio, gli operatori dell’associazione hanno effettuato vari colloqui col detenuto che sta protestando. L’avvocato Amedeo Meloni ha presentato un’istanza di differimento della pena al Tribunale di Sorveglianza di Cagliari già nel mese di aprile, ma ancora la risposta non sarebbe arrivata. Il detenuto era tornato in carcere a gennaio per una perizia che aveva attestato il miglioramento delle sue condizioni di salute, visto che in precedenza aveva già ottenuto un differimento della pena. Ora, stando a quanto denuncia “Socialismo diritti e riforme” avrebbe già perso circa 27 chili (è entrato in carcere che pesava 87 chili e ora ne peserebbe 60), situazione che gli impedirebbe di alzarsi dal letto. Dal 4 luglio, poi, sembra stia rifiutando le prestazioni mediche. “È evidente che una persona anziana con gravi patologie irreversibili non possa stare in una struttura penitenziaria. Ciò - ha rimarcato Maria Grazia Caligaris - nonostante il costante monitoraggio, effettuato dai medici e dagli infermieri, e l’impegno e la sensibilità degli agenti della Polizia Penitenziaria. Occorre, in considerazione delle evidenti condizioni di salute, un atto di umanità concedendo all’uomo gli arresti domiciliari. La pena non può consistere in trattamenti disumani e tenere una persona reclusa con patologie gravi si configura come una violazione del principio costituzionale”. Milano: a settembre seduta del Consiglio comunale si terrà a San Vittore Tempi, 16 luglio 2012 Sovraffollamento, caldo, condizioni igieniche carenti, storie drammatiche di ingiustizia o carcerazione preventiva. Tanti i problemi all’ordine del giorno. Martedì la sottocomissione carceri del Comune di Milano, insieme a chi lo desidera tra gli altri consiglieri che non ne fanno parte, farà un sopralluogo al carcere milanese di San Vittore. E dopo la pausa estiva a settembre la prima seduta si terrà nello stesso penitenziario, questa volta anche alla presenza del sindaco Giuliano Pisapia. A Tempi ne parla il capogruppo Pdl in Consiglio comunale, Carlo Masseroli. Lei non fa parte della sottocommissione carceri. Domani, però, sarà a San Vittore. Sì, ho chiesto io stesso alla sottocomissione di far in modo che qualunque consigliere potesse entrare. Perché una visita a San Vittore? Cosa succederà domani? La sottocommissione carceri esiste da tanti anni, per trovare un’ipotesi di risposta alla situazione drammatica di San Vittore. Sul tavolo c’è anche quella di un trasferimento del carcere di cui si parla da anni e a cui abbiamo lavorato, anche con le precedenti giunte. La situazione drammatica che si vive nelle carceri oggi è nota a tutti, e c’è una particolare attenzione anche grazie alle particolari sollecitazioni che ci arrivano dai giornali. Questo ci ha spinto a pensare alla visita di domani, come all’organizzazione del consiglio comunale a San Vittore per settembre. Il Pdl ha aderito volentieri ad entrambe le iniziative perché l’obiettivo è condiviso: sensibilizzare la cittadinanza su un tema che la gente fa finta di non conoscere, o – effettivamente – conosce poco. Si tratta di un percorso che non ha carattere politico, perché tutti i partiti lavorano con attenzione per trovare soluzioni condivise. Mi auguro che domani la sottocommissione carceri, oltre a riconoscere la situazione terribile, porti alcune soluzioni concrete, come quella dell’istituzione del garante per i diritti dei detenuti, o un dialogo stabile con le istituzioni, anche diverse dal comune. Com’è nata l’iniziativa? Sono venuto a conoscenza del fatto che stava per iniziare uno sciopero della fame a San Vittore, e ho sollecitato il vicepresidente della sottocommissione, Mirko Mazzali (Sel), a capire cosa stesse accadendo e trovare delle soluzioni. Mazzali stava lavorando già a delle ipotesi di miglioramento, come quella del garante, e ci siamo trovati d’accordo. L’idea è quella di saldare i diversi livelli istituzionali (anche la Regione infatti sta lavorando per trovare delle soluzioni) con il carcere, in modo da essere più efficaci. Il mondo dei radicali ci lavora con grande attenzione da tempo: e oggi penso sia necessario dare una risposta anche dal punto del reinserimento lavorativo, perché c’è il grave rischio che chi entra in carcere ne esca peggiore di come è entrato. C’è poi da affrontare il grande nodo della carcerazione preventiva, una forma di non rispetto alla persona che rasenta l’incivilità. Bologna. detenuto del Pratello evade dall’ospedale ma viene ripreso in stazione Dire, 16 luglio 2012 Ne approfitta del ricovero in ospedale per evadere, ma viene riacciuffato poco dopo in stazione. È successo ieri a Bologna, dove un detenuto del carcere minorile del Pratello è scappato dall’ospedale Maggiore, dove era stato portato dopo aver ingerito un accendino. A riferire l’episodio, in una nota Giovanni Battista Durante, del Sappe. Il detenuto nordafricano ha aggredito i due agenti che lo controllavano ed è scappato, ma la fuga è durata meno di tre ore perché un altro agente del reparto del Pratello lo ha arrestato nei pressi della stazione e ricondotto in carcere, con l’aiuto di altri colleghi. “Non capiamo il motivo per cui il detenuto sia stato ricoverato all’ospedale Maggiore che non è dotato del reparto detentivo e non al Sant’Orsola, dove invece il reparto c’è. Ci è stato riferito che non è la prima volta che lo stesso detenuto tentava di ingerire l’accendino, forse sempre con il proposito di tentare poi la fuga”, scrive Durante. “Ciò dimostra come anche negli istituti per minori non si debba mai abbassare la guardia per quanto concerne la sicurezza; l’esito positivo della vicenda, con la cattura dell’evaso, dimostra tutta la professionalità della polizia penitenziaria in servizio a Pratello”, conclude. Cisl: poco personale, mancano anche strutture detentive ospedaliere Un detenuto minorenne è scappato ieri dall’Ospedale Maggiore dove era ricoverato per aver ingerito un accendino. È stato ripreso qualche ora dopo dalla Polizia Penitenziaria in stazione. L’episodio secondo Gianluca Giliberti, segretario regionale della Fns Cisl, “deve far riflettere sullo stato della sanità penitenziaria che non sembra aver tratto particolari benefici dal passaggio al Servizio sanitario nazionale e, nello specifico, sulla mancanza di strutture detentive ospedaliere, nonostante ciò sia espressamente previsto dalla vigente legislazione in materia”. Il giovane è stato nuovamente assicurato alla giustizia, grazie “alla professionalità degli agenti del Pratello che, fuori servizio, si sono messi alla ricerca del fuggitivo”. L’episodio mette in luce anche un altro problema del Pratello: la mancanza di organico tra la Polizia Penitenziaria. “Il detenuto era piantonato da appena 2 agenti- afferma Giliberti- in una stanza ordinaria con tanto di finestre che danno sull’esterno”. Sono 50 i detenuti evasi dal 2009 a oggi dagli istituti per adulti e per minori, mentre all’incirca sono 40 le tentate evasioni. “In precedenza si contavano 1 o 2 evasioni all’anno- precisa Giliberti- Il numero delle evasioni sembra, quindi, aumentare in relazione alla crescente carenza d’organico e alla conseguente diminuzione dei livelli di sicurezza garantiti nei vari istituti di pena”. Visite e ricoveri ospedalieri o udienze in aule di giustizia costituiscono, pertanto, momenti di rischio. “Le unità di personale impiegate in tali servizi sono, nella stragrande maggioranza dei casi, sottodimensionate rispetto ai livelli minimi di sicurezza previsti”. Marsala (Tp): il sottosegretario Mazzamuto visita il carcere; prevista la chiusura, ma… Ansa, 16 luglio 2012 “Il decreto di chiusura c’è. Ma ci sono anche degli elementi importanti che dovranno essere considerati. Primo fra tutti, l’interazione fra il Tribunale e la struttura penitenziaria a suo servizio, che sono molto vicini. Certo, non è una struttura moderna, ma pur tuttavia è ben tenuta, efficiente e idonea a poter ospitare persone che devono scontare pene brevi o detenuti in attesa di giudizio”. Lo ha affermato Salvatore Mazzamuto, sottosegretario alla Giustizia, dopo il sopralluogo effettuato oggi nel carcere di Marsala, per il quale il ministro Paola Severino ha già firmato il decreto di chiusura. Un provvedimento, però, contestato dagli avvocati, dal procuratore Alberto Di Pisa, dal sindaco di Marsala Giulia Adamo e dalla Uil penitenziari. Contro la chiusura del carcere di Marsala, con interrogazioni parlamentari, si sono già espressi, inoltre, anche il gruppo dei Radicali alla Camera e il senatore dell’Udc Gianpiero D’Alia. Nel penitenziario sono attualmente reclusi 48 detenuti. Cuneo: Capece (Sappe); proteste gruppi anarchici e no Tav sintomo di tensione nel paese Adnkronos, 16 luglio 2012 “La manifestazione di gruppi anarchici e no Tav sabato pomeriggio davanti al carcere di Cuneo, è sintomatica della crescente tensione nel sistema carcere del Paese. Sono stati esposti striscioni contro i poliziotti penitenziari, sono state gridate frasi ingiuriose ed offensive e lanciate pietre che hanno danneggiato le auto dei nostri colleghi: è il caso di tenere alta l’attenzione, intensificando le misure di sicurezza, al fine di garantire l’incolumità di quanti operano all’interno del carcere, ma anche dei cittadini”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), sulla manifestazione tenutasi sabato pomeriggio davanti al carcere di Cuneo. “Circa duecento persone - aggiunge Capece - per lo più appartenenti a gruppi anarchici e No Tav, ha manifestato davanti la Casa Circondariale di Cuneo. La manifestazione si è caratterizzata per ripetuti slogan contro il governo e l’Amministrazione Penitenziaria. Le manifestazioni di intolleranza verso l’Istituzione penitenziaria sono purtroppo sempre più frequenti ed il crescente sovraffollamento non aiuta certo a rasserenare gli animi, anche dei reclusi”. “Da parte nostra - conclude Capece - come Polizia Penitenziaria, dobbiamo ovviamente garantire, oltre a quella interna, anche la sicurezza esterna delle strutture carcerarie con una attenta vigilanza, ma con carenze di organico così evidenti (a livello nazionale mancano ben 7mila agenti) sono palesi ed evidenti le nostre difficoltà. Ritengo allora che una prima soluzione urgente potrebbe essere quella di impiegare i militari per i servizi di vigilanza esterna degli istituti penitenziari”. Salerno: “Leggere nel libro”, ieri terzo appuntamento con le detenute di Fuorni Notizie Radicali, 16 luglio 2012 Ieri mattina il 3° appuntamento fra le detenute della sezione femminile del carcere di Fuorni con il service di sensibilizzazione alla lettura “Leggere nel libro”, ideato e pensato nell’abito della manifestazione “le donne dentro, un altro 8 marzo,”, tenutasi in occasione della scorsa festa della donna all’interno della Casa Circondariale di Salerno alla presenza del Sindaco di Salerno Vincenzo De Luca e del direttore Alfredo Stendardo, voluto da Paky Memoli consigliera comunale dell’Udc e dall’Associazione delle “Soroptimiste” salernitane, sostenuto da Donato Salzano e dai Radicali/Salerno, da Giulia Formosa e dall’Ass. “È ora legale”, patrocinato dalle Commissioni Consiliari Politiche Sociali e Cultura dei Presidenti Luciano Provenza e Rosa Scannapieco, dai consiglieri comunali Salvatore Telese, Marco Petillo ed Emiliano Torre, ed ha visto per la prima volta la presenza e il sostegno di Anna Paola Gentile di Fli. Dichiarazione di Paky Memoli consigliera comunale e responsabile provinciale donne Udc: “Leggere è più importante che scrivere, anche se l’ho presuppone, se non si scrive non succederebbe nulla di grave, mentre se nessuno leggesse niente, la caduta, umana prima ancora che intellettuale, sarebbe rovinosa. La carta dei diritti alla lettura ideata dall’associazione “Donne di carta”, rivendica appunto l’attività del leggere quale primario diritto umano. Dichiarazione di Donato Salzano segretario di Radicali Salerno: “Iniziative come quelle di Paky Memoli e delle Soroptimiste, insieme ai progetti di formazione per il lavoro finalizzati alla micro impresa interna e all’accompagnamento al lavoro esterno per i ristretti e le ristrette di Fuorni, sono i preziosissimi strumenti che stanno mettendo in campo l’amministrazione comunale insieme a tutta la Comunità Penitenziaria, tali da ridurre in parte il danno causato dal sovraffollamento e riportare l’istituto ad uno stato di legalità più vicino all’art. 27 della Costituzione. Anche la recente visita del Regente Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Salerno al Carcere di Fuorni ha sottolineato l’importanza di tali percorsi di recupero, ancora in fase di start-up, proprio per questo da sostenere in ogni modo in questo momento di forte criticità da chiunque può”. Lodi: Uisp; “Giochi senza Frontiere” in carcere, impazzano tiro alla fune e Limbo Il Cittadino, 16 luglio 2012 Uomini e donne riuniti sotto lo stesso cielo, senza distinzioni di sesso, colore e ceto sociale. Tutti insieme per partecipare ad un grande evento di solidarietà e integrazione. Sono gli obiettivi che si pone il Progetto Carcere 2012 promosso dalla Uisp; Unione Italiana Sport per Tutti, del comitato di Lodi. “L’iniziativa di coinvolgere i detenuti nel carcere in attività di gioco e sport è nata cinque anni fa - spiega Giuseppe Torriani, consigliere della Uisp - la forza del nostro gruppo è coinvolgere le minoranze al fine di permettere a tutti di praticare lo sport e farne conoscere i valori di correttezza e uguaglianza”. La giornata ha preso il via proprio con un discorso di Torriani, accolto dai detenuti con un tifo da stadio, il quale ha salutato affettuosamente tutti augurando buona fortuna alle squadre. È stata dunque la volta di Vittorio Porcelli, vera anima dell’iniziativa in quanto organizzatore dei giochi e vigilante corretto e attento. I Giochi senza Frontiere del carcere giunti alla loro 5ª edizione non hanno nulla da invidiare ai ben più famosi cugini televisivi. “Per quest’anno abbiamo previsto la presenza di ben sei squadre, una interna dei detenuti e altre cinque esterne. Allo scopo di allentare le tensioni dei detenuti e far conoscere, a chi proviene dall’esterno, la dura realtà del carcere”, continua Torriani. Le squadre che hanno partecipato sono state la Bolivia, L’Italia, il Senegal, Comunità Islamica, Tutto il Mondo e i Terribili. I giochi svolti sono stati bizzarri e creativi e hanno messo alla prova le capacità degli atleti coinvolti. Facendone venire fuori il lato competitivo e ambizioso, ma sempre nei limiti del rispetto e della correttezza reciproca. Particolarmente divertente il gioco della corsa ad ostacoli con l’uovo. I concorrenti delle squadre, con un cucchiaio tenuto in bocca con sopra una pallina, hanno dovuto zig zigare per il percorso mentre le altre squadre lanciavano palloncini a d acqua nel tentativo di farli sbagliare, costringendoli a ricominciare da capo. Tradizionale invece, ma sempre ben accolto, il gioco del tiro alla fune. Le squadre, in particolar modo Italia e Terribili, hanno dato vita ad uno spettacolo avvincente con un mix di forza, potenza e riflessi che non ha deluso il pubblico presente. Cavalleresco e corretto l’accoglimento del gentil sesso nella competizione. “La nostra realtà è un dato di fatto - spiega Torriani - mettiamo a disposizione la nostra capacità per la solidarietà”. Un traguardo raggiunto a pieni voti e la buona riuscita dei giochi di oggi ne è la prova. L’iniziativa è stata resa possibile grazie anche al sostegno di Stefania Mussio, direttrice della Casa Circondariale. Israele: dopo 5 anni palestinesi ottengono permesso di visitare i loro congiunti in carcere Ansa, 16 luglio 2012 Un’atmosfera elettrizzata ha accompagnato a Gaza la partenza verso Israele di decine di palestinesi che - per la prima volta dal 2007 - hanno ottenuto oggi il permesso di visitare i loro congiunti reclusi nello Stato ebraico. Il primo gruppo comprendeva una cinquantina di persone, che sono state autorizzate a visitare 25 detenuti. In tutto in Israele sono detenuti 473 palestinesi originari di Gaza, i quali pure riceveranno visite familiari, in scaglioni successivi. Il prossimo è stato fissato per il 23 luglio. Il blocco delle visite è stato una delle ripercussioni del colpo di mano armato con cui Hamas nel 2007 ha espulso da Gaza il regime di Abu Mazen, creando di fatto una enclave autonoma in stato di conflitto permanente con Israele. Il Cicr sta facilitando il viaggio da Gaza alla prigione di Ramon, precisa una nota. Per il Cicr, la visita in programma oggi è “un primo passo. Speriamo che le visite da parte dei residenti di Gaza riprenderanno pienamente”, ha affermato Juan Pedro Schaerer, capo della delegazione del Cicr in Israele e nei territori occupati. Secondo il diritto umanitario internazionale, le autorità israeliane hanno l’obbligo di consentire ai detenuti di ricevere visite dei familiari, afferma il Cicr che ha ripetutamente chiesto a Israele la ripresa di tali visite. “Sono un’ancora di salvezza per i detenuti e le loro famiglie”, ha osservato Schaerer. La sospensione di tutte le visite ai detenuti da parte di residenti della Striscia di Gaza decisa da Israele cinque anni fa, nel giugno 2007, ha colpito più di 800 detenuti. Attualmente, 554 uomini di cui le famiglie sono dalla Striscia di Gaza sono ancora detenuti nelle prigioni israeliane. Dal 1968, il Cicr ha agevolato le visite di familiari, ricorda la nota. Durante la sospensione delle visite, i delegati dell’organizzazione hanno facilitato lo scambio di migliaia di messaggi e saluti tra i detenuti e le loro famiglie. Egitto: Human Rights Watch; presidente conceda grazia a condannati da corti militari Ansa, 16 luglio 2012 Il nuovo presidente egiziano Mohamed Morsi conceda la grazia a tutti i condannati dalle corti militari come primo test dal passaggio di poteri all’autorità civile. Lo sollecita Human Rights Watch, l’Ong per i diritti umani con sede a New York, che sollecita Morsi a porre una fine immediata dell’uso della giustizia militare per i civili e di disporre il rinvio a giudizio davanti a corti civili degli imputati sui quali esistono prove solide. Hrw cita le cifre fornite dal comitato istituito dallo stesso presidente egiziano per verificare lo stato dei condannati dalla giustizia militare secondo il quale sono ancora 2165 i civili in prigione dopo essere stati processati da tribunali militari dal gennaio dell’anno scorso. Fra gli interrogati, anche 54 bambini alcuni dei quali condannati fino a 15 anni di reclusione, denuncia l’Ong, secondo la quale i processi davanti a tribunali militari e l’arresto di civili sono proseguiti anche dopo il 30 giugno, giorno del giuramento di Morsi. Il 12 luglio, afferma Hrw, agenti in borghese hanno arrestato tre attivisti del partito socialdemocratico durante una protesta di fronte all’abitazione del capo della polizia militare. “La legge internazionale è chiarissima: nessun civile, a prescindere dal reato, può essere processato da un tribunale militare”, ha affermato Sarah Leah Whitson, direttore per il Medio Oriente di Hrw. Procura generale: Mubarak sta meglio, ora torni in prigione La Procura generale egiziana ha deciso che l’ex rais, Hosni Mubarak, deve tornare in prigione: la decisione arriva un mese dopo il trasferimento dell’ex presidente in un ospedale militare del Cairo, perché colpito da un ictus subito dopo la sua condanna all’ergastolo per le vittime durante le proteste che portarono poi alle sue dimissioni. Il procuratore generale, Abdel Meguid Mahmud, ha emesso un ordine di trasferimento dell’ex presidente dall’ospedale militare Maadi al carcere di Tora, “in seguito al miglioramento -si legge in un comunicato- del suo stato di salute”. Emirati Arabi: graziati 873 detenuti, in vista dell'inizio del mese di Ramadan Aki, 16 luglio 2012 Il presidente degli Emirati Arabi Uniti, l'emiro Khalifa Bin Zayad Al Nahiyan, ha deciso di graziare 873 detenuti in vista dell'inizio del mese di Ramadan, mese di digiuno e penitenza per i musulmani il cui primo giorno sarà il 19 luglio. Lo riferisce l'agenzia di stampa emiratina Wam. Il decreto di grazia, si legge, riguarda non solo i detenuti cittadini del paese arabo, ma anche gli stranieri e ha l'obiettivo di "dare la possibilità a chi ha sbagliato di farsi una nuova vita".