Giustizia: il ministro Severino; più fantasia nelle pene… questo aiuta la sicurezza collettiva di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2012 “C’è molta più fantasia nel crimine che nella pena” scrive Sandro Bonvissuto nel suo bellissimo “Dentro” (Einaudi), da qualche giorno in libreria, “In carcere è come se dessero la stessa medicina a tutti i malati, anche se affetti da malattie diverse. La stessa cura per tutti” osserva nel raccontare l’inutilità di una pena uguale per tutti (deboli, forti, molto forti), che non rieduca (se non chi è già educato) e che, semmai, fa assomigliare ogni detenuto al suo reato. Ministro, l’ha letto? “Non ancora, ma me lo hanno appena regalato e lo leggerò certamente” risponde Paola Severino, reduce da un lungo giro nelle carceri e da ieri in partenza per la Russia. Non l’ha letto ancora ma sottoscrive in pieno quelle parole, lei che al Parlamento ha chiesto proprio uno sforzo di fantasia. Finora senza risposta. Tant’è che giovedì scorso ha sollecitato la commissione Giustizia della Camera ad accelerare l’iter del ddl del governo su depenalizzazione, messa alla prova, ricorso a misure alternative al carcere, vecchie e nuove. “Quel ddl si sforza di portare un pizzico di fantasia nel catalogo delle pene”, dice con rammarico, visto l’esito. “Martedì ci sarà la Capigruppo e ho pregato il ministro Giarda di sottolineare l’urgenza del provvedimento”. Anche perché “la fantasia aiuta la sicurezza dei cittadini”. Ma politica e fantasia spesso non si conciliano se in ballo c’è un tema impopolare come il carcere. A maggior ragione in campagna elettorale. Quindi, quanto più il ddl slitterà a ridosso del voto, tanto più sarà difficile che tagli il traguardo. “Certo, però penso che, se in campagna elettorale l’atmosfera non si surriscalderà, ci sarà modo di spiegare ai cittadini che quelle misure abbattono enormemente la recidiva. Tutte le statistiche ci dicono che se i detenuti lavorano c’è un calo di 2/3 della recidiva e che chi usufruisce delle misure alterative torna molto meno a delinquere. Le misure all’esame del Parlamento, quindi, aumentano la sicurezza collettiva”. Più carcere, insomma, non significa più sicurezza. Ma la politica teme la sfida (in termini di consensi). Che dire, altrimenti, del ddl sulla “tenuità del fatto”, che evita l’ingresso nelle patrie galere per reati bagatellari? Approvato quasi all’unanimità in commissione, diversi mesi fa, ora è desaparecido. E quello sul lavoro in carcere? “Lo stiamo recuperando - dice Severino azzardando un po’ di ottimismo: forse siamo riusciti a risparmiare qualcosa che ci consentirà di rifinanziarlo con danaro del Dap”. Il 12 luglio c’erano 66.528 detenuti (26.307 imputati e 38.771 condannati), meno dell’anno scorso ma 18mila in più dei posti regolamentari. E dall’inizio dell’anno già si contano 28 suicidi. In galera c’è “tanto tempo ma poco spazio”, scrive Bonvissuto, ed è quello “il corto circuito che ti fa impazzire. Venti ore al giorno dentro tre metri per due in quattro persone”. “Io l’ho visto” dice Severino, testimoniando un dolore che quasi mai riesce a scavalcare il muro di cinta. Nel suo giro, più di una volta ha lasciato la guida rossa e ha messo piedi, naso, occhi e bocca là dove non era previsto. “Ho visto la sofferenza e con il caldo torrido si soffre ancora di più. Ho voluto portare un po’ di conforto ma ogni volta sono andata via pensando che fosse troppo poco. Quando sono uscita datino dei raggi di San Vittore c’è stato un applauso che mi ha commosso ma che penso di non meritare finché, almeno, non sarò riuscita a sbloccare il ddl in Parlamento”. Severino chiede uno sforzo di fantasia anche all’Amministrazione penitenziaria. Giovanni Tamburino e Luigi Pagano - capo e vicecapo del Dap - lo stanno facendo, attingendo peraltro alla fantasia delle riforme del 1975 e del 2000 in cui già c’era la consapevolezza che ai detenuti non va data la stessa medicina, ma bisogna diversificare tenendo conto dei reati e delle persone. “Che è poi la fantasia che ho visto ai carcere di Bollate, a Milano, e all’Icam (istituto per le detenute madri, ndr)” dice Severino. Tamburino e Pagano furono tra i “padri” del progetto Bollate, rimasto però una vetrina perché la prassi è andata ostinatamente in senso opposto. Ora, invece, si riparte da lì. Una recente circolare del Dap stabilisce quindi che i detenuti di “media sicurezza” (la stragrande maggioranza dei clienti del carcere) vivano più tempo in spazi più ampi, che i loro diritti fondamentali siano garantiti, le iniziative trattamentali (finalizzate al reinserimento sociale) incentivate, e così pure i rapporti con il mondo esterno. Le misure alternative alla detenzione devono diventare la “la prosecuzione naturale” di quanto avviene dentro. Corsi scolastici, formazione professionale, attività lavorative, culturali, ricreative, sportive e, dove è possibile, in ogni regione un carcere o una sezione “totalmente” aperti per ospitare chi è a un passo (18 mesi) dalla libertà. Il tutto sancito da un “patto” con i detenuti disposti ad accettare questa pena e questa responsabilità. Giustizia: quattro giorni di digiuno… di Dimitri Buffa L’Opinione, 15 luglio 2012 In questo momento in tutta Italia un terzo della popolazione è coinvolto nelle secche della giustizia penale o di quella civile. Se ci mettiamo le famiglie e gli amici, praticamente ogni cittadino. Quando Marco Pannella recentemente ha avuto a disposizione due minuti e un secondo nel Tg5 della sera ha esordito così. E con questa affermazione ha praticamente già spiegato il senso dell’iniziativa straordinaria, cioè i quattro giorni di nonviolenza, di sciopero della fame e di silenzio che inizieranno mercoledì 18 luglio. Non sfugga poi un altro anniversario: quello del 28 luglio 2011. Pannella sente il bisogno di celebrare quella iniziativa, cioè il convegno “Giustizia! In nome della Legge e del popolo sovrano”, per ricordare al capo dello Stato, Giorgio Napolitano le parole dette in quella occasione e poi ossessivamente riproposte e rievocate per quasi un anno da Radio Radicale: “Una condizione carceraria che ci umilia in Europa” e che è “urgente” da riportare alla legalità. Pannella da un anno ogni domenica che Dio manda in terra, e lo farà probabilmente anche oggi, nella propria conversazione pomeridiana, vuoi con Massimo Bordin vuoi con Valter Vecellio, non manca mai di ricordare proprio al presidente della Repubblica che dopo quell’intervento in quel convegno (“che ci è stato reso possibile grazie all’opera di Renato Schifani presidente del Senato”) Napolitano non ha fatto praticamente nulla. Tanto meno l’unica cosa che la Costituzione gli imponeva di fare: un bel messaggio alle Camere sulla situazione di illegalità costituzionale, e anche dal punto di vista della Corte europea dei diritti dell’uomo, delle patrie galere. Se del caso sollecitando lui stesso il Parlamento a prendersi la responsabilità di un provvedimento di amnistia. Che, previsto dalla Costituzione, in questo momento non sarebbe affatto di clemenza ma di ripristino della legalità costituzionale in materia di giustizia. Vale la pena a questo punto di rievocare alcune aride cifre: numero capienza detenuti al massimo regime tollerabile? 45mila. Attuali ospiti delle carceri italiane? Mai meno di 67mila nell’ultimo biennio. Persone scarcerate con il decreto “salva carceri” di Paola Severino, ministro tecnico della giustizia? Poco più di 300. Numero di detenuti suicidi da inizio del 2012? Trentuno. Morti in carcere? Ottantasette. Operatori e agenti penitenziari suicidi dall’inizio dell’anno? Dodici. Poi dal rapporto della Corte europea dei diritti dell’uomo al governo, e da questo trasmesso al Parlamento, possiamo estrapolare le seguenti circostanze: l’Italia si colloca al terzo posto per maggior numero dei ricorsi pendenti dinanzi alla Corte europea con circa 13.750 casi, a fronte dei 10.208 affari presenti nel 2010. Registrando così un incremento del contenzioso di circa il 26%, imputabile pressoché esclusivamente “ai ricorsi seriali in materia di violazione delle disposizioni sull’equo processo sotto il profilo dell’irragionevole durata”. La Corte (Cedu) ha più volte posto l’accento sul “carattere continuativo e diffuso della violazione dell’articolo 6, paragrafo l, concernente l’eccessiva durata dei procedimenti”. Evidenziando anche, “come elemento che aggrava la violazione della Convenzione”, la “dimostrata incapacità, da parte dello Stato italiano, di assicurare un processo di ragionevole durata e di apprestare rimedi adeguati di indennizzo”. In queste condizioni, il progetto di amnistia ipotizzato e proposto da Pannella, e per sostenere il quale dal 18 al 22 luglio ci potrebbe essere la novità di una Radio Radicale con i microfoni spenti, o forse aperti agli ascoltatori come ai tempi di “radio parolaccia” (quando gli italiani scoprirono il leghismo prima della nascita della Lega, ndr), è ormai una necessità istituzionale prima che politica. Non un gesto di clemenza come l’indulto votato nel 2006 e all’epoca richiesto anche dall’ormai prossimo alla morte Papa Woytila durante la propria visita in parlamento due anni prima. Pannella, che vuole subordinare la amnistia al risarcimento del danno per la vittima laddove il reato abbia una vittima, chiede a Napolitano un supremo sforzo per mandare questo benedetto messaggio alle Camere. Al contempo limitando invece al massimo le esternazioni mediatiche del tutto extra costituzionali, che sortiscono l’unico effetto di far fare qualche titolo sui giornali il giorno dopo. Il sacrificio alimentare e di silenzio dei radicali, e di quanti vorranno partecipare a questa quattro giorni tra il 18 e il 22 luglio prossimi, dovrà quindi servire ad aiutare anche e soprattutto Napolitano a ritrovare sé stesso. Giustizia: l’amnistia conviene (anche a te che sei stato rapinato) di Renato Farina Tempi, 15 luglio 2012 Renato Farina appoggia i Radicali e i giuristi che invitano il Quirinale a intervenire su “un’emergenza assoluta” per risanare la giustizia. Partecipo ed invito a partecipare all’iniziativa promossa dai radicali e da Tempi per l’amnistia, e che dal 18 luglio propone quattro giorni di mobilitazione. Aderisco alla chiamata di Alfonso Papa che il 20 luglio invita i deputati a una visita a Poggioreale, dove le condizioni sono disastrose e urlano al cospetto di Dio e dell’Autorità. Appoggio la lettera che cento costituzionalisti hanno spedito al capo dello Stato, dove si mostrano le ragioni inderogabili per cui a Napolitano tocca, come puro dovere, di investire il Parlamento della questione così che deliberi in merito ad amnistia e indulto. Le ragioni attengono al fatto che oggi la giustizia in Italia è sia nella sua fase processuale sia in quella della pena un crimine in sé, valutato per tale dalle Corti europee, ma prima ancora dagli occhi di chiunque abbia un po’ di coscienza. Il senso comune, che secondo me è un altro nome del diavolo, sibila: “Amnistia? Povero pirla”. Non sarai tu a spiantare il falansterio orripilante della giustizia italiana e delle sue galere. Lo dicono a me, figurati se non l’ho ridetto ad Amicone. Stare dalla parte dell’amnistia, e in generale di un risanamento della giustizia che preveda l’umanizzazione della pena, fa perdere voti e consensi ai partiti e ai politici, non fa vendere una copia di Tempi in più. E allora che senso ha una testimonianza perdente per definizione? Non è un’estetica della bella morte? Ecco, io credo che se una testimonianza è “perdente per definizione” non è una testimonianza. C’è differenza tra essere testimoni perseguitati e testimoni perdenti. La persecuzione uno la mette in conto, del resto prendere qualche cazzotto è sempre meno brutto che infilarsi nel gruppo degli ignavi, nell’acquiescenza al non-senso fatto passare per buon senso. Detto questo. Visto che abbiamo bisogno di voti, come conquistarli alla causa? Esiste un marketing della verità e del bene? Un sistema per venderli meglio al pubblico? C’è solo un modo, mostrare che verità e bene coincidono con gli interessi grandi e piccoli di chi ascolta. Insomma, si tratta di testimoniare la convenienza profonda della verità e del bene. Non tanto per il premio e il castigo nell’aldilà (anche se pure un pensierino bisognerebbe farcelo), ma proprio per una vita buona adesso. Sia chiaro. Sgombriamo il campo a un qualsiasi equivoco di superiorità morale. Non è che chi è per l’amnistia è buono e sensibile e gli altri invece hanno meno sviluppato il senso dell’umanità. Il fatto è che nella vita si cambia, si decide per un bene, grazie a degli incontri, a qualcuno sulla cui faccia tu leggi che sarebbe bello essere come lui. È anche un fatto di furbizia Per questo sono per l’amnistia e invito ad esserlo. È bello esserlo, ed è utile. Esistono per dimostrarlo argomenti di pura ragione, la quale è sempre mescolata alle cose ultime, altrimenti sarebbe la ragione nel senso di ragioneria. L’eterna matematica dell’universo non è fatta solo di numeri. La lettera dei costituzionalisti a Napolitano spiega magnificamente il perché. Tra l’altro oggi abbiamo dieci milioni di processi in corso, un ingorgo terrificante, che impone una riforma della giustizia, la quale a sua volta avrà la spinta decisiva se finalmente, grazie all’amnistia, si spazza via il ciarpame che intasa il motore e impastoia qualsiasi gesto di rinnovamento. Soprattutto c’è la situazione carceraria a essere una infamia, un delitto in sé. Vado spesso nelle carceri, credo di aver fatto circa cento e più visite in giro per l’Italia, e non va bene come van le cose. Lo faccio per ragioni di pura mia convenienza. Questi incontri mi fanno scoprire uomo vedendo l’umanità altrui e attingendovi. Un’umanità che ha sbagliato, ma non è un buon motivo perché sbagliamo anche noi attraverso la sostituzione della giustizia con la vendetta. Chi parla di prigioni somiglianti a Grand Hotel, mente o non ha visto niente: essere in sei in un buco senz’aria, con letti a castello su tre piani, senza possibilità di lavoro… Non esiste. È emergenza assoluta. Conviene l’amnistia, conviene l’indulto, anche a te che hai subìto un furto oppure una rapina. Oggi questa è una misura dolorosamente necessaria. Altrimenti diventa impossibile incrementare l’inizio di una novità di vita carceraria che qui e là per l’Italia apre prospettive di speranza e di sicurezza. La prigione della speranza - ha scritto Nicolò Amato. È un ossimoro, certo. Carcere viene dall’aramaico carcàr che ha che fare con seppellire, eppure - noi cristiani lo sappiamo bene - dalla tomba è venuta la resurrezione. La pena deve esistere! Certo. La giustizia è anche retributiva. Ma perché non ci siano più ricadute nel delitto, occorre che si sia più acuti del tizio che tira un sasso all’alveare perché è stato punto da un’ape. Il lavoro nelle carceri consentirebbe un risparmio enorme nel senso del crollo delle spese di giustizia, e con una pace sociale e una sicurezza maggiori. Per me un testo decisivo sul dovere dell’umanizzazione delle carceri e dunque - oggi - dell’amnistia resta la trascrizione del dialogo tra papa Ratzinger e i detenuti di Rebibbia, il 18 dicembre scorso. Benedetto XVI dice alcune cose a braccio. “Questa visita, che vuole essere personale a voi, è anche un gesto pubblico che ricorda ai nostri concittadini, al nostro governo, il fatto che ci sono dei grandi problemi e delle difficoltà nelle carceri italiane. E certamente, il senso di queste carceri è proprio quello di aiutare la giustizia, e la giustizia implica come primo fatto la dignità umana. Quindi devono essere costruite così che cresca la dignità, sia rispettata la dignità e voi possiate rinnovare in voi stessi il senso della dignità per meglio rispondere a questa nostra vocazione intima… Quindi, io in quanto posso vorrei sempre dare segni di quanto sia importante che queste carceri rispondano al loro senso di rinnovare la dignità umana e non di attaccare questa dignità, e di migliorarne la condizione”. Ancora: “Vorrei seguire le parole del Signore che mi toccano sempre, dove dice nell’ultimo giudizio: “Mi avete visitato nel carcere e sono stato io che vi ho aspettato”. Questa identificazione del Signore con i carcerati ci obbliga profondamente”. Un po’ di gioia in tempi tremendi A un detenuto avvilito perché si sente circondato da odio, il Papa dice: “Si parla in modo feroce di voi, purtroppo è vero, ma vorrei dire non solo questo, ci sono anche altri che parlano bene di voi e pensano di voi. Io penso alla mia piccola famiglia papale, sono circondato da quattro suore laiche e parliamo spesso di questo problema, loro hanno amici in diverse carceri, riceviamo anche doni da loro e diamo da parte nostra il nostro dono, quindi questa realtà è in modo molto positivo presente nella mia famiglia e penso in tante altre. Dobbiamo sopportare che alcuni parlano in modo feroce, parlano in modo feroce anche contro il Papa e tuttavia andiamo avanti. Mi sembra importante incoraggiare tutti che pensino bene, che abbiano il senso delle vostre sofferenze, abbiano il senso di aiutare nel processo di rialzamento e diciamo che io farò il mio per invitare tutti a pensare in questo modo giusto, non in modo dispregiativo, ma in modo umano, pensando che ognuno può cadere, ma Dio vuole che tutti arrivino da Lui, e noi dobbiamo cooperare con lo Spirito di fraternità e di riconoscimento anche della propria fragilità, perché possano realmente rialzarsi e andare avanti con dignità e trovare sempre rispettata la propria dignità, perché cresca, e possano così anche trovare gioia nella vita”. Amnistia per recuperare un po’ di gioia della vita, in questi tempi tremendi, conviene. Giustizia: il primato dei diritti di Luigi Manconi Il Messaggero, 15 luglio 2012 Poco più di una settimana fa sono accaduti alcuni fatti di grande importanza per una istituzione delegata a svolgere un ruolo tra i più delicati e cruciali: la Polizia di Stato. La Corte di Cassazione ha confermato in via definitiva la sentenza di condanna, a carico di funzionari e altissimi dirigenti di quel corpo per i “fatti di Genova” del 2001. A distanza di meno di 24 ore il ministro dell’Interno. Anna Viaria Cancellieri, ha dichiarato: “Il G8 di Genova è una pagina dolorosa per la polizia. Ho visto le immagini di quello che è accaduto all’interno della Diaz e non condivido nulla di quell’operazione”. E l’attuale capo della Polizia. Antonio Manganelli: “È il momento delle scuse ai cittadini che hanno subito danni e anche a quelli che, avendo fiducia nell’istituzione-polizia, l’hanno vista in difficoltà per qualche comportamento errato”. A voler essere pignoli - ma qui la pignoleria corrisponde all’osservanza più rigorosa delle norme dello stato di diritto - la dichiarazione di Manganelli potrebbe essere contestata: quel “qualche comportamento errato” non dà conto certamente del gran numero di abusi e di violenze commessi dalle forze dell’ordine nei giorni del G8. Ma qui. in primo luogo, va apprezzata la novità: tanto più eclatante perché in un Paese come il nostro, dove i comportamenti illegali di appartenenti alle forze dell’ordine si sono ripetuti costantemente. pressoché mai c’è stato il riconoscimento pubblico dei soprusi commessi. Per questo valgono cosi tanto le parole pronunciate una settimana la da Anna Maria Cancellieri e da Antonio Manganelli. I quali, subito dopo, hanno trovato anche il modo di esprimere la propria solidarietà nei confronti di Patrizia Moretti. madre di Federico Aldrovandi, il giovane di Ferrara ammazzato nel 2005 da quattro poliziotti, condannati in via definitiva. Va ricordato che il prefetto Manganelli non è nuovo a simili gesti: meno di un anno fa incontrò riservatamente i genitori di Aldrovandi e, ancor prima, non esitò a riconoscere l’enorme gravità del comportamento di quell’agente della polizia stradale che portò alla morte di Gabriele Sandri. Tutto ciò annuncia una svolta nel tormentato rapporto tra corpi di polizia e cittadini? E, ancor prima, una autentica riforma culturale all’interno delle forze dell’ordine, della loro mentalità del loro sistema di valori? È davvero troppo presto per dirlo: e molti segnali vanno nella direzione opposta. Al di là della maggiore sensibilità dei vertici istituzionali, sono gli episodi di strada, l’ordinaria amministrazione nel controllo del territorio, le vicende quotidiane di piccoli e grandi abusi che preoccupano. Qui il discorso si fa complicato perché riguarda, in parallelo, anche l’Arma dei carabinieri e altre forze, che dipendono da altre autorità politiche; e perché non va dimenticato, neanche per un attimo, in quale quadro di gigantesche difficoltà e di costanti insidie si svolga l’attività di prevenzione e repressione dei reati. Ma tutto ciò può esser dato per presupposto, in quanto incontestabile. E, tuttavia non deve indurre a sottovalutare (anzi!) come quel lavoro così pericoloso e così poco remunerato presenti zone d’ombra, buchi neri, tendenze all’illegalità e alla sopraffazione. Con effetti micidiali e, talvolta, letali. Come i casi di Vittorino Morneghini (Milano, maggio 2012) e quello di Cristian De Cupis (Roma, Novembre 2011); quello di Michele Fermili (Milano, luglio 2011); quello di Filippo Narducci (Cesena, aprile 2010); quello di Stefano Gugliotta (Roma, maggio 2010); e ancora i casi di Luciano Diaz (Voghera, aprile 2009); quello di Nicolò e Tommaso De Micheli (Venezia, aprile 2009) e quello di Giuseppe Uva (Varese, giugno 2008). Si tratta, come è evidente, di episodi l’uno diverso dall’altro, sui quali la magistratura deve ancora svolgere o completare le sue indagini: e di vicende che coinvolgono anche altri corpi dello Stato. E si può aggiungere che, sul piano statistico, rappresentano una percentuale assai ridotta. Ma - ecco il punto - quelli ricordati sono solo gli episodi venuti alla luce rispetto ai tantissimi dei quali si hanno informazioni approssimative (e magari fallaci), ma che segnalano un clima pesante, avvertibile dall’esperienza quotidiana di molti cittadini. A un numero crescente di agenti capaci di intrattenere relazioni civili, si affiancano molti che riproducono un atteggiamento autoritario, se non prepotente. nei confronti del comune cittadino. Non solo: dal G8 di Genova sono passati più di dieci anni e si può dire che il mondo sia cambiato (anche all’interno delle caserme), ma se quegli episodi di “sadismo collettivo” si sono verificati, non li si può attribuire a una sorta di occasionale follia e di esplosione patologica. Ci sì deve chiedere, piuttosto, quale tipo di formazione ricevano, quale senso comune venga alimentato nelle caserme. quali valori di riferimento siano trasmessi. Un decennio trascorso da quel G8 è stato sufficiente a modificare il paesaggio mentale delle forze dell’ordine? C’è da dubitarne se si considera, appunto, quanti sono i fermi approssimativamente motivati da “resistenza a pubblico ufficiale”, quanti gli arresti considerati illegali da parte della magistratura, quanti i casi poco chiari denunciati e troppi) sbrigativamente archiviati. Non solo. C’è da considerare che il potere di polizia può prevedere la deroga. e il ricorso all’uso della forza anche “eccezionale”, in nome della sicurezza pubblica e dell’ordine sociale: e nella misura in cui quella disponibilità alla deroga è introiettata nel corpo e nei suoi appartenenti come una specifica qualità professionale (capire come e quando si può e si deve “eccedere”), è facile che l’emergenza si mangi il diritto, e le regole dello Stato di diritto. O che il singolo si senta onnipotente arbitro del bene e del male. Si tratta, certamente, di questioni delicatissime, che quasi mai sono entrate nell’agenda politica e nella discussione pubblica. E sono state proprio le recentissime parole del ministro dell’Interno e del capo della Polizia a suggerirci di riproporle. E proprio perché se “un cittadino entra vivo in questura e ne esce cadavere” (come ebbe modo di dire l’allora ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro quando, nel 1985, un fermato trovò la morte nei locali della Squadra mobile di Palermo) è l’intero sistema di diritti e garanzie che risulta lesionato in profondità, È lo stesso regime democratico che subisce una crudele offesa. Perché, giova ricordarlo, quando un individuo è nella custodia dello Stato, dei suoi apparati e dei suoi uomini - una pattuglia della polizia, una caserma, un carcere, un centro di identificazione e di espulsione - l’incolumità e l’integrità di quell’individuo è, per lo Stato, il bene più prezioso. Giustizia: l’enormità di una sentenza che fa pena di Luce Manara Il Manifesto, 15 luglio 2012 Chissà perché le sentenze non si devono commentare. Questa poi... L’esito della sentenza della Cassazione che ha confermato le pene per i dieci manifestanti di Genova accusati di devastazione e saccheggio è una tale enormità che richiederebbe una rivolta popolare, almeno sul piano verbale, senza acrimonia, solo per rendere giustizia al buon senso violato. Ieri, su ordine della procura generale di Genova, sono scattate le “manette immediate”, dice l’Ansa, per quattro condannati: Alberto Funaro (10 anni), Vincenzo Vecchi (12 anni e 6 mesi), Marina Cugnaschi (12 anni) e Francesco Puglisi (14 anni). Per Ines Moresca (6 anni e 6 mesi) invece l’esecuzione della pena potrebbe essere sospesa. Ma solo perché ha una bambina piccola. Sono vite distrutte senza aver fatto male a nessuno, forse a un bancomat o a una vetrina, undici anni fa Forse. Eppure nessuno si scandalizza. Deve essere perché i giornali stranamente hanno insistito soprattutto sul lieve sconto di pena rispetto alla sentenza precedente, come se 10 o 6 anni non fossero abbastanza. L’incredibile è che i più inferociti per quelle attenuanti irrilevanti sono i sindacati di polizia che sul Corriere della Sera si sono indignati perché la giustizia sa prendersela solo con i poliziotti. Nicola Tanzi, segretario generale del Sap, parla di “una disparità che ci indigna”. Il suo ragionamento fa paura come una minaccia. “Tutto questo - insiste Tanzi - crea disagio tra le forze dell’ordine, il governo lo deve sapere, perché in autunno arriveranno nuove manifestazioni di piazza ed è chiaro che noi siamo poco tutelati”. Felice Romano, segretario generale del Siulp, non è da meno. “Perché davanti all’accertamento giudiziario di responsabilità per entrambi, succede che ad alcuni, i no-global, la Cassazione riconosca delle attenuanti e ad altri, i poliziotti, no?” E giù ringraziamenti ai vertici della polizia condannati che hanno servito il paese (Gilberto Caldarozzi e Francesco Gratteri). La stessa domanda toglie il sonno anche a Enzo Letizia, segretario dell’associazione nazionale funzionari di polizia, “perché per i nostri nessuno sconto di pena mentre lo sconto invece è arrivato per chi attentò alla sicurezza del paese?”. Insomma, questi poliziotti hanno il coraggio di invocare pene più dure di 10 o 15 anni per “devastazione e saccheggio”. Forse l’ergastolo. Non tocca a loro giudicare i delinquenti - li devono solo acciuffare - ma visto che in qualche modo sono “del ramo” è strano che non si rendano conto di una cosa piuttosto semplice. Ma lo sanno chi di solito è costretto a trascorrere parte della propria vita nelle carceri italiane, per quali reati e per quanto tempo? Lasciamo stare, per esempio, Mario Placanica, il carabiniere che quel 21 luglio uccise Carlo Giuliani e poi finì prosciolto per legittima difesa (adesso deve rispondere di un altro reato, violenza sessuale nei confronti di una undicenne). Consideriamo altre sentenze, e vediamo se i “no-global” meritano tutti questi anni di carcere. I quattro poliziotti che il 25 settembre 2005 hanno massacrato - per “eccesso dei mezzi di contenimento” - il diciottenne Federico Aldrovandi sono stati condannati a 3 anni e 6 mesi. Un terzo della pena inflitta al più pericoloso spaccatore di bancomat ammanettato ieri. Michele Ferulli, 51 anni, lo scorso 30 giugno, a Milano, è morto in seguito a un controllo piuttosto violento di una volante della polizia. I quattro poliziotti rinviati a giudizio sono accusati di omicidio colposo e rischiano una pena che va dai 6 mesi a 5 anni. Nella peggiore delle ipotesi, meno della ragazza che ieri non è andata in carcere perché mamma. Poi c’è anche chi indossa una divisa e uccide volontariamente una persona, stando al rinvio a giudizio. Alessandro Amigoni, il vigile “rambo” milanese, che il 13 febbraio scorso ha ucciso con un colpo alle spalle il 28enne cileno Marcelo Valentino Gomez Cortes: con ricorso al rito immediato (sconto di un terzo della pena) rischia massimo 10 anni di carcere. Più o meno gli stessi anni di carcere che se l’avessero fotografato a Genova durante gli scontri che stavano coinvolgendo decine di migliaia di persone. L’elenco potrebbe essere infinito, tanto sono assurde le condanne confermate ieri dalla Corte di Cassazione. Un pedofilo come don Riccardo Seppia, l’ex parroco di Sestri Levante, ha appena preso 9 anni e sei mesi, ma per tentata violenza su un minore, induzione alla prostituzione minorile e cessione di droga. Annamaria Franzoni, riconosciuta colpevole di aver ucciso il figlio Samuele, è stata condannata a 16 anni. La polizia può dire quello che vuole, ma possibile che nessun altro abbia qualcosa da ridire? Giustizia: manicomi e altri disastri… di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 15 luglio 2012 Nel 1996 gli ispettori del ministero della Sanità avevano scoperto che, a dispetto della legge Basaglia, restavano ancora in funzione 63 ospedali psichiatrici. L’allora ministro della Sanità Rosy Bindi aveva stabilito con un decreto non solo la dismissione di questi ospedali ma anche che i loro beni mobili e immobili fossero destinati alla produzione di reddito, attraverso la vendita o l’affitto. Il reddito doveva servire alla tutela della salute mentale. Oggi la Commissione d’Inchiesta del Senato sulla sanità pubblica ha potuto constatare che la legge in molti casi non è stata applicata. Le strutture dismesse non sono state riutilizzate o sono state date in comodato d’uso gratuito. Spesso i proventi della vendita o dell’affitto sono stati usati in altro modo da quello previsto. Ignazio Marino, presidente della Commissione del Senato, è indignato.Tuttavia la cosa non sorprende neanche un po’. È noto che la psichiatria è la Cenerentola della Sanità Pubblica. I costi dei servizi psichiatrici sono alti: le terapie, spesso infruttuose, sono lunghe, complesse e richiedono un impiego considerevole di risorse umane (infermieri, assistenti sociali, psichiatri, psicoterapeuti). La cura dei pazienti psichiatrici è un cattivo affare per lo Stato: un investimento a perdere. È indubbio che rispetto all’epoca dei manicomi lager la situazione è migliorata. Riconoscere a Basaglia gran parte del merito di questo cambiamento è questione di gratitudine. È necessario, nondimeno, nel valutare complessivamente la riforma basagliana tener presenti i suoi limiti. Un certo irrigidimento ideologico ha impedito all’antipsichiatria di investire adeguatamente nella cura. L’insistenza sul rischio di alienazione insito in ogni forma codificata di cura ha sviato l’attenzione dal dolore del paziente psicotico. Il dolore, che nasce dall’impossibilità di costituzione del desiderio piuttosto che dalla sua alienazione, restato privo di cura adeguata ha finito per imbrigliare e in gran parte vanificare un movimento di emancipazione liberatorio. La trasformazione del paziente in oggetto di indagine sociologica ha fatto perdere di vista l’importanza dello spazio privato interno come fondamento della soggettività. La dimensione privata della sofferenza è stata considerata frettolosamente come derivato della cultura borghese e la terapia farmacologica ha finito in molti casi per essere privilegiata, perché considerata più neutrale e meno invasiva della psicoanalisi. Non si è capito in tempo l’effetto spersonalizzante di questa impostazione (in una fase di incomprensione reciproca tra antipsichiatri e psicoanalisti) e questo ha favorito lo sviluppo di una controriforma strisciante che ha riproposto metodi manicomiali più asettici che dominano le strutture residenziali e semiresidenziali private e pubbliche (eredi dei vecchi manicomi). Una volta i pazienti psichiatrici erano violentati nei loro diritti, reclusi ma facevano scandalo, agitavano il nostro sonno. Oggi sono più rispettati come cittadini, accuditi nei loro bisogni materiali ma sono diventati più invisibili. Tutto è finalizzato al loro adattamento sociale e il loro nuovo statuto di soggetti sociali riabilitati non ammette privilegi. Se la cura del loro dolore è costosa che se lo tengano. Il conflitto tra alienazione e soggettivazione dell’esperienza nella sua forma più lacerante è meglio che resti lontano da noi. Umbria: Radicali; nessuna risposta per prevenzione di autolesionismo e suicidi in carcere di Andrea Maori Il Centro, 15 luglio 2012 I fondi per la copertura dei servizi sanitari penitenziari non sono sufficienti per le necessità operative. Nei giorni scorsi presso la Casa penale di Maiano di Spoleto si è tenuto un seminario sulla salute in carcere organizzato dal forum per il Diritto alla Salute in Carcere. In un documento finale, una copia del quale Radicali Perugia è venuto in possesso, viene denunciato un quadro problematico: in generale al di là delle intenzioni espresse attraverso protocolli di intesa, mancano risposte concrete agli accordi della Conferenza Stato-Regioni relativi all’istituzione di un gruppo di lavoro, composto da operatori sanitari e penitenziari, per prevenire il disagio psichico ed i rischi autolesivo e suicidario. Se si fa eccezione per il carcere di Perugia, vi è scarsa integrazione tra area sanitaria e le altre aree all’interno degli istituti, che rende frammentato e quindi poco efficace l’intervento sull’utente. Il servizio per i detenuti tossicodipendenti è carente, mentre per gli altri detenuti l’assistenza psicologica è addirittura assente. È da sottolineare che tali servizi rappresentano risposte a problematiche specifiche degli utenti e sono necessari sia sotto il profilo della prevenzione del disagio psichico che della elaborazione dell’esperienza di vita, compresa la revisione critica di trascorsi devianti, richiesta dalla magistratura per la concessione di benefici. L’iniziativa ha evidenziato in maniera inequivocabile come alcune necessità non trovino risposta a causa di difficoltà, per chi oggi è responsabile della Salute in carcere, ad entrare nelle problematiche di un contesto così delicato e complesso, in parte fisiologiche ad ogni processo che si avvia. Ci pare particolarmente interessante notare che nel documento finale è stata rilevata come la carenza di risorse economiche renda difficoltoso declinare il concetto di salute nei termini stabiliti dall’organizzazione mondiale della sanità e come questo, in un ambiente come il carcere - dove le domande di salute sono prevalentemente di carattere psicologico e sociale - costituisca un ostacolo ulteriore nel rispondere ai bisogni di salute degli utenti. Una forte denuncia riguarda la nuova gestione della Sanità Penitenziaria: come da più parti sottolineato i fondi necessari per la copertura dei servizi sanitari penitenziari non sono sufficienti per le necessità. Addirittura è emerso che i fondi destinati alla salute siano stati utilizzati per la copertura di alcuni “buchi” nel budget delle Asl. Molti operatori hanno fatto capire come che il passaggio al Servizio sanitario nazionale con la legge 230/99 non abbia sostanzialmente cambiato una cultura che colloca il detenuto, in quanto responsabile di azioni con le quali tutta la sua persona tende ad essere identificata, in una posizione subalterna. Cultura che risponde più ad un pregiudizio che ad evidenze scientifiche, le quali mostrano come la mente umana non è statica. Le cellule neuronali stesse si rigenerano, a condizione che vengano offerte esperienze in grado di modificare il comportamento, espressione esteriore della personalità. Tali presupposti marcano la differenza tra una punizione come vendetta sociale ed una pena giusta, in quanto retributiva ma anche strumento riparativo e di recupero della persona. Veneto: la Regione autorizza l’uso della cannabis a scopo terapeutico Notizie Radicali, 15 luglio 2012 Sì della Quinta Commissione consiliare all’uso a scopo terapeutico della sostanza base della marijuana. I farmaci saranno gratuiti, stanziati 100mila euro. Dopo la Toscana, che è stata la prima Regione italiana ad autorizzare l’uso della cannabis a scopo terapeutico, adesso tocca al Veneto. Ieri, praticamente all’unanimità, la quinta commissione consiliare presieduta da Leonardo Padrin (Pdl) ha approvato la proposta di legge di Pietrangelo Pettenò (Sinistra) che consente la distribuzione gratuita negli ospedali e nelle farmacie di farmaci e preparati galenici a base di cannabinoidi. La stessa pianta che viene utilizzata per produrre alcune droghe, la marijuana e l’hashish, ora potrà essere usata dai malati per alleviare i dolori. Va detto che Padrin ha dato una astensione “tecnica” al provvedimento per poter svolgere in aula il ruolo di relatore di minoranza, come prevede il nuovo statuto, e dunque poter presentare eventuali emendamenti migliorativi al testo. Uno di questi l’ha già presentato lo stesso Pettenò fissando un tetto finanziario per il 2012 di 100mila euro. “Una delle obiezioni della giunta regionale - spiega Pettenò - riguardava l’applicazione e i costi della legge. Così abbiamo corretto il testo, aggiungendo un nuovo articolo in base al quale spetta alla giunta definire le procedure e i criteri”. Per quanto riguarda i costi, è stato ipotizzato che 100 malati di sclerosi multipla costerebbero alla Regione 500mila euro all’anno: di qui la previsione di spesa per gli ultimi mesi del 2012 di 100mila euro. Dettagli che ai malati probabilmente interesseranno poco. Quel che conta è la sostanza: i farmaci derivati dalla cannabis adesso saranno gratuiti, li pagherà la Regione. Ovviamente il testo dovrà essere approvato dal consiglio regionale e poi dovrà passare il vaglio dell’esame governativo. Ma sia nell’uno che nell’altro caso le prospettive sono positive: in commissione consiliare, ieri riunita a Palazzo Ferro Fini, tutte le forze politiche si sono dette d’accordo. Uno dei più convinti è stato tra l’altro il vicepresidente del consiglio regionale Matteo Toscani (Lega) che ha condiviso in toto ispirazione e obiettivi del provvedimento. Quanto al rischio dell’impugnazione, per la Toscana - che ha approvato un’analoga legge, la prima in assoluto a livello nazionale, il 2 maggio scorso - il Governo non ha trovato nulla da eccepire. “L’uso della cannabis a scopo terapeutico in Italia è già possibile dal 2007 - ha detto in commissione il consigliere Pettenò - ma non esistono farmaci di produzione nazionale, bisogna importarli e i pazienti se li devono pagare. In attesa che lo Stato decida in quale fascia inserire questi farmaci, la proposta è che sia la Regione Veneto a disciplinarne l’uso. E spetterà alla giunta stabilire i criteri e le procedure. Dotare il Veneto di una legge applicativa in tale senso rappresenta una scelta di civiltà che consentirà ai malati e al servizio pubblico della nostra regione di non dipendere esclusivamente dalle importazioni dall’estero per l’approvvigionamento della cannabis medicinale, con grandi risparmi di tempo e di costi e riduzione degli enormi disagi ai quali sono sottoposti i malati che necessitano di tale tipo di farmaci”. Il progetto di legge prevede la stipula di una convenzione con il Centro di ricerca per le colture industriali di Rovigo e lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, per la produzione e l’acquisizione diretta dei cannabinoidi ad uso terapeutico, utilizzati in particolare nella terapia del dolore e nelle cure palliative, ma anche dai malati di Sla e di distrofia muscolare. Bollate (Mi): anche ai detenuti piace fare i sindacalisti di Luca Fazzo Il Giornale, 15 luglio 2012 E la democrazia sbarcò in carcere. Nel luogo simbolo della costrizione e della disciplina, può sembrare un paradosso. Ma c’è un carcere italiano dove i detenuti eleggono i loro rappresentanti, come si fa a scuola o in fabbrica: e sono poi i detenuti-sindacalisti a trattare con la direzione i problemi collettivi dei compagni di cella. Il carcere con i delegati di raggio è quello milanese di Bollate: l’esempio più avanzato d’Italia di prigione a sicurezza attenuata, una delle poche carceri italiane dove di giorno le celle hanno le porte aperte. E dove si stanno conducendo alcuni degli esperimenti più innovativi sul trattamento dei condannati: a partire dalla rieducazione dei colpevoli di crimini sessuali, che costituiscono da soli quasi un terzo degli ospiti di Bollate (350 su 1.150), e che solo a Bollate vengono a contatto con gli altri detenuti senza che scattino spedizioni punitive. Così era praticamente inevitabile che anche il primo tentativo di democrazia carceraria sbocciasse a Bollate. D’altronde sulla responsabilizzazione dei detenuti si è giocata dall’inizio buona parte della scommessa di questo carcere: chi viene destinato a scontare la sua pena a Bollate sa di essere un privilegiato dell’universo carcerario, e che per mantenere questo privilegio deve accettare e fare proprie alcune regole, il cosiddetto “patto di responsabilità”. Una rivoluzione rispetto al vecchio pianeta carcere, dove l’unico rapporto con l’istituzione era l’obbedienza al “superiore”, inteso come guardia carceraria, e ogni richiesta doveva passare per la burocrazia della “domandina”.A rendere nota l’istituzione dei Cobas di cella è stato lo stesso direttore della prigione, Massimo Parisi (che ha preso il posto di Lucia Castellano, diventata assessore della giunta Pisapia) in un’intervista a Carte Bollate, il giornale realizzato all’interno della prigione. “Quest’anno - ha dichiarato Parisi - si è cercato di dare maggiore legittimità alle richieste dei detenuti, creando le commissioni di reparto”. In pratica un organismo sindacale?, gli hanno chiesto. “Diciamo un organismo di rappresentanza sostanziale”. E ieri Parisi conferma e aggiunge dettagli. “Ognuno degli otto reparti elegge democraticamente un suo delegato, che affronta i problemi specifici di quel reparto; inoltre, gli otto delegati di reparto formano un organismo di rappresentanza generale che noi chiamiamo ?commissioni riunite? che tratta con l’amministrazione i problemi generali della struttura”. Per esempio? “Il mese scorso abbiamo discusso dell’organizzazione dei colloqui con i familiari, la volta prima del servizio sanitario. E poi della cucina, del sopravvitto (i beni che i detenuti possono acquistare allo spaccio interno, ndr), in genere tutto quello che costituisce un problema collettivo e non individuale”. Ma chi sono i leader sindacali dei detenuti? Chi viene eletto a rappresentare i compagni di cella? “Di solito - spiega il direttore - la preferenza viene data ai più anziani, non nel senso anagrafico e neppure a chi ha più esperienza carceraria complessiva, ma a chi è da più tempo qui a Bollate, e conosce meglio l’istituto. Che poi sono spesso i detenuti che fanno anche da tutor ai nuovi giunti, aiutandoli a orientarsi in una struttura grande e complessa come questa”. “Sia chiaro - aggiunge Parisi - che nessuno abdica al proprio ruolo. Però questa sorta di rappresentanza sindacale è utile a noi, all’amministrazione, perché ci permette di dialogare in modo più efficace con i detenuti. Ed è utile a loro, perché si responsabilizzano e imparano a formulare proposte concrete”. Caltanissetta: rubavano la spesa dei detenuti, arrestati due agenti di Polizia penitenziaria Ansa, 15 luglio 2012 Due sottufficiali di Polizia penitenziaria e il dipendente di un’azienda che si occupa della distribuzione degli alimenti per i detenuti del carcere Malaspina, sono stati arrestati e posti ai domiciliari con l’accusa di peculato, per essersi impossessati dei prodotti alimentari da vendere agli stessi reclusi. La misura cautelare è stata disposta dal sostituto procuratore Roberto Condorelli nei confronti di Cristoforo Bosco e Vincenzo Ippolito, e di Angelo Fausciana, dipendente della Morgante Srl, la società triestina che in appalto gestisce la fornitura di prodotti alimentari in molte carceri italiane. I due sottufficiali della Polizia penitenziaria - attualmente sospesi dal servizio - erano addetti al sopravvitto della casa circondariale di via Messina. Per confermare le accuse è stato necessario posizionare una telecamera nello spaccio della casa circondariale che ha ripreso le fasi della consegna dello scatolame e di altri generi alimentari in eccesso che i due agenti di custodia trattenevano per loro, mentre il resto della merce veniva assegnato ai detenuti che ne avevano fatto richiesta dopo avere compilato i moduli. “Portavamo a casa gli alimenti che i detenuti non consumavano” (La Sicilia) I due agenti di custodia hanno ammesso che gli alimenti non consumati dai detenuti del “Malaspina” li portavano a casa, piuttosto che buttarli al macero. Ma nessuno guadagnava rivendendo scatolame e altri alimenti. È su questa linea che hanno chiarito le loro posizioni Cristoforo Bosco, l’assistente capo della Penitenziaria finito agli arresti domiciliari come il parigrado Vincenzo Ippolito. Agli arresti in casa pure Angelo Fausciana, dipendente della ditta fornitrice del vitto al carcere di via Messina. Ieri mattina s’è svolta l’udienza di convalida ma il Gip Marcello Testaquadra lunedì scioglierà la riserva sulla convalida degli arresti disposti dal pm Roberto Condorelli. Bosco è stato il primo ad essere interrogato: “Abbiamo preso gli alimenti ma non dovevamo lucrarci, non abbiamo venduto nulla. Ho portato gli alimenti alla mia famiglia, ma per necessità perché sono monoreddito, ho cinque figli e nessuno di loro lavora”. L’avv. Dino Milazzo ha chiesto di non convalidare l’arresto in flagranza perché Bosco, a differenza di Fausciana e Ippolito, è stato fermato dai suoi colleghi fuori dal carcere. Ha confessato pure Ippolito: “È vero che distribuivamo la merce fra di noi, ma era quella che avanzava. Ad esempio di recente i detenuti hanno proclamato lo sciopero della fame per protestare contro il Governo e non hanno mangiato, così i pasti dovevano essere buttati”. L’avv. Vincenzo Milazzo (che difende Ippolito) ha voluto replicare al direttore del carcere Angelo Belfiore che aveva parlato di “mele marce”, sottolineando che il suo assistito “non è un delinquente, ma un agente di custodia che in servizio ha avuto sempre giudizi positivi e anche con la lode”. Pure Fausciana (difeso dall’avv. Massimiliano Bellini) ha chiarito la sua posizione: “Si trattava di merce in eccedenza, che si deteriorava se non si consumava. Ma non c’è stato nessun danno economico per la ditta e per l’Amministrazione penitenziaria. Non ho mai portato merce a casa. Sono stato uno stupido, ma non ho preso soldi da nessuno dei due, né so se vi sono altri complici”. Marsala (Tp): il sottosegretario Mazzamuto… ultima chance per il carcere La Sicilia, 15 luglio 2012 È l’ultimo tentativo per cercare di scongiurare la già decretata chiusura del carcere di piazza Castello. Al sottosegretario alla Giustizia Salvatore Mazzamuto sarà mostrata, oggi, una struttura che, a dispetto dell’età, ha i requisiti per essere mantenuta attiva. Come constatato, mercoledì dalla delegazione composta dai vertici locali della classe forense (gli avvocati Gianfranco Zarzana, presidente del Consiglio dell’Ordine, e Diego Tranchida, presidente della Camera penale) e da tre giornalisti. Una visita nel corso della quale si è potuto constatare che la casa circondariale marsalese non soffre di gravi deficit igienico-strutturali. Le celle sono spaziose e i servizi (docce, infermeria, cucina, lavanderia, etc.) sono in buone condizioni. Ampio anche l’atrio per le ore d’aria. E tutto ciò, oggi, potrà essere constatato de visu dal sottosegretario Mazzamuto, invitato a Marsala nel corso dell’incontro svoltosi il 6 giugno al Ministero della Giustizia. Con Mazzamuto, a varcare il cancello d’ingresso saranno anche il senatore, ed ex prefetto, Achille Serra, il sindaco Giulia Adamo, il suo vice Antonio Vinci, gli avvocati Zarzana e Tranchida e l’ex deputato del Psi Egidio Alagna. A fare gli onori di casa sarà il direttore Paolo Malato. “Di carceri ne ho viste tante - dice Zarzana - e molti sono in condizioni peggiori di quello di Marsala, che anzi è a misura d’uomo. Sarebbe sufficiente una spesa minima, da 30 a 40 mila euro, per eliminare quei modesti problemi strutturali che attualmente ci sono”. Contraria alla chiusura anche la Uil penitenziari, il cui coordinatore regionale, Gioacchino Veneziano, evidenziando che Marsala è sede di Tribunale e Procura, ha inviato un documento di protesta al ministro della Giustizia Paola Severino. “Per la Uil - si afferma - ogni circoscrizione di legalità che viene soppressa è una sconfitta per lo Stato, a maggior ragione in un territorio citato come “lo zoccolo duro della mafia”. E quello che lascia amareggiati è il fatto che ad oggi nessuno sa davvero la verità sul perché la casa circondariale di Marsala deve essere eliminata. È stato, infatti, riscontrato che è in linea con gli standard di vivibilità. Basta visitare l’Ucciardone per scoprire che il carcere di Capo Boeo può rimanere ancora perfettamente operativo. Poi, è stato spiegato che bisognava entrare nella cultura dello spending review, ma anche questa motivazione non è quella giusta”. Per il sindacato, dunque, la verità è che si vuole “rimpolpare” gli organici del personale “carenti” in altre carceri della provincia con una “mobilità forzata e pilotata”. Immigrazione: Italia disumana con i richiedenti asilo… la Germania blocca i rinvii di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 15 luglio 2012 In Italia i profughi sono trattati in maniera inaccettabile. Lo dice il tribunale amministrativo di Stoccarda, che nei giorni scorsi ha accettato il ricorso di una famiglia palestinese. Entrati in Europa attraverso il nostro Paese e arrivati in Germania, due coniugi con tre bambini provenienti dalla Siria dovevano essere rispediti in Italia, secondo le leggi che regolano il diritto di asilo. Ma a causa delle “sistematiche manchevolezze” del nostro sistema di accoglienza e del modo in cui viene applicato il diritto d’asilo, i cinque erano a rischio di “trattamento inumano o mortificante”. Perciò, niente rinvio: sarà la Repubblica federale a valutare la richiesta d’asilo della famiglia. Non è la prima volta che i tribunali amministrativi fanno questa valutazione, ha detto ai giornalisti la portavoce della corte di Stoccarda. Sentenze simili sono state emesse a Luneburg, Friburgo, Karlsruhe, Dusseldorf, Augusta, Gelsènkirchen e Magdeburgo. A convincere i giudici del Baden-Wurttemberg è stato il racconto dei cinque profughi: l’Italia li aveva accolti in un centro di accoglienza, chiusi in una stanza assieme a un’altra famiglia, senza letti né coperte, con un pasto al giorno e nient’altro. Dopo una sommaria raccolta di informazioni, le autorità italiane gli avrebbero chiesto di lasciare il paese. Secondo i giudici, la grande maggioranza dei richiedenti asilo in Italia non trova protezione o riparo, né accesso sicuro ad acqua, cibo ed elettricità, per non parlare delle condizioni sanitarie. Insomma, in tema di richiedenti asilo l’Italia non è in grado di adempiere agli impegni presi: secondo la sentenza, “le strutture di accoglienza per i profughi sono totalmente sovraccariche di lavoro”. Questa condizione non migliorerà in breve, sostiene il tribunale di Stoccarda, e dopo la “primavera araba” si può pensare piuttosto a un peggioramento. In Italia la famiglia palestinese sarebbe spinta a condurre “una vita sotto il livello minimo di sussistenza” e “a rischio di restare senza tetto”. Sono valutazioni pesantissime: l’ufficio federale per le Migrazioni ha cercato di alleviarle sottolineando con Der Spiegel che “sia pure con qualche mancanza, l’Italia adempie gli standard europei sul diritto di asilo”. Ma i lettori hanno riempito il sito web del settimanale con commenti sdegnati. C’è chi chiede che il conto finale delle spese per i profughi sia spedito al governo di Roma, chi lascerebbe “gli italiani sotto la pioggia”, chi accusa il nostro Paese di “buttare fuori bordo il diritto internazionale” e chi riconosce chela Germania “usa il sud Europa come zona cuscinetto” per non affrontare il problema migrazioni. Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, taglia corto: “La sentenza di Stoccarda non è la prima in questo senso. Anche se, a differenza di quello che accade per la Grecia, l’Alto commissariato non chiede agli stati di evitare di rimandare in Italia chi chiede asilo, ma di valutare caso per caso, nell’interesse dei rifugiati”. Libia: Human Rights Watch; il Governo si occupi dei 5.000 detenuti in mano alle milizie Tm News, 15 luglio 2012 Le autorità libiche dovrebbero prendere iniziative immediate per garantirsi la custodia di migliaia di detenuti ancora in mano alle milizie locali, dopo la scadenza del termine ultimo per il passaggio di consegne. È la posizione espressa oggi dall’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch, che ha sottolineato il “mancato controllo da parte delle autorità libiche di circa 5.000 persone ancora arbitrariamente detenute dai gruppi armati e soggette a pesanti torture”. “Questi detenuti, assieme ad altri circa 4.000 già sotto custodia delle autorità statali, dovrebbero essere sottoposti a un processo giusto”, ha sottolineato Human Rights Watch. La maggior parte di loro faceva parte delle forze fedeli a Muammar Gheddafi: alcuni sono stati individuati come mercenari stranieri o migranti dell’Africa sub-sahariana. “Le autorità hanno mostrato una scarsa volontà politica di sfidare i gruppi armati che hanno combattuto contro Gheddafi”, ha precisato Human Rights Watch. Alcuni prigionieri sono stati trattenuti con la forza per oltre un anno senza essere portati davanti a un giudice, come richiedono le leggi internazionali, ha insistito l’organizzazione per i diritti umani. “In molti casi, sembra che non ci siano le condizioni legali per la loro detenzione”, ha reso noto Human Rights Watch. Turchia: marcia per Ocalan, guerriglia urbana a Diyarbakir Ansa, 15 luglio 2012 È stata una giornata di guerriglia urbana a Diyarbakir, capitale del Kurdistan turco, fra militanti separatisti e polizia a margine di una marcia convocata per chiedere la liberazione del Pkk Abdullah Ocalan e vietata dalle autorità turche. Per ore 5 mila agenti delle forze antisommossa si sono scontrati con migliaia di manifestanti che cercavano di penetrare nella grande Piazza della Stazione di Diyarbakir, luogo di partenza della marcia, che secondo gli organizzatori avrebbe dovuto riunire decine, se non centinaia, di migliaia di persone. La polizia ha attaccato con gas lacrimogeni e cannoni a acqua i separatisti, che hanno risposto con pietre e bottiglie incendiarie. Ci sono state decine di feriti, fra cui almeno 5 poliziotti e un deputato del partito curdo Bdp, che aveva convocato la manifestazione. Gli incidenti si sono allargati a tutto il centro della città, con macchine incendiate, vetrine distrutte. Abdullah Ocalan, 64 anni, detto Apo, leader storico del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), il gruppo armato separatista in lotta da 30 anni contro lo Stato turco, è stato condannato a morte nel 1999, una pena poi commutata in prigione a vita. È detenuto in isolamento nell’isola carcere di Imrali. Diversi politici e intellettuali curdi hanno chiesto che gli vengano concessi gli arresti domiciliari in vista dell’avvio di un possibile processo di pace con lo Stato turco. Una richiesta formulata nei giorni scorsi anche dalla pasionaria curda Leyla Zapa in uno ‘storicò colloquio ad Ankara con il premier islamico nazionalista turco Recep Tayyip Erdogan. Negli ultimi due mesi è stato registrato un brusco aumento della violenza nel Kurdistan turco, dove si sono moltiplicati gli scontri armati fra miliziani Pkk e militari turchi, che hanno fatto decine di morti. I caccia turchi hanno anche attaccato le basi del Pkk nelle montagne del Nord Iraq. In 30 anni il conflitto curdo ha fatto oltre 40 mila morti e provocato secondo la stampa miliardi di dollari di danni. Fra il 2009 e il 2011 elementi dei servizi segreti turchi del Mit hanno avuto colloqui segreti a Oslo con esponenti del Pkk all’estero, di cui il premier era a conoscenza secondo la stampa. Le conversazioni sono state interrotte dopo un sanguinoso attacco dei miliziani del Pkk il 14 luglio 2011 contro un avamposto militare vicino a Diyarbakir costato la vita a 13 soldati. Ieri Erdogan ha escluso una trattativa diretta con il Pkk lasciando però, dopo il colloquio storico con Leyla Zana, la porta aperta a possibili trattative con esponenti curdi “sotto il tetto del Parlamento”. Tunisia: nipote di Ben Ali condannato a 40 anni di carcere per truffa Adnkronos, 15 luglio 2012 Imed Trabelsi, nipote della moglie dell’ex presidente tunisino Zine el-Abidine Ben Ali, il primo della regione a essere destituito dalla Primavera Araba, è stato condannato dal tribunale di Tunisi a 40 anni di carcere per truffa. Lo riferisce l’agenzia ufficiale Tap, spiegando che la sentenza risale a ieri e riguarda l’emissione di assegni a vuoto. Trebelsi è in carcere da gennaio 2011, pochi giorni dopo la caduta del regime, e ha già subito altre condanne alla detenzione. Nei giorni successivi alla “Rivoluzione dei gelsomini”, avevano fatto scalpore le immagini delle sue auto di lusso, tra le quali alcune Lamborghini, messe sotto sequestro.