Giustizia: 77 morti in carcere da gennaio al 2 luglio, 27 i detenuti suicidi (ad oggi sono 30) Public Policy, 13 luglio 2012 Da inizio anno fino al 2 luglio sono morte in carcere 77 persone, 50 per cause naturali e 27 suicide. Lo ha detto in commissione Giustizia alla Camera, il sottosegretario Antonino Gullo, rispondendo a un’interrogazione della deputata radicale Rita Bernardini (eletta nelle fila del Pd). L’interrogazione prende spunto dalla vicenda del detenuto Sakhiri El Mustafa, morto il 14 gennaio 2012 nel pronto soccorso dell’ospedale civico di Palermo dopo essersi sentito male nel carcere dell’Ucciardone. Non sarebbe ora - ha chiesto Bernardini - di “fornire elementi sulla reale consistenza del fenomeno delle morti in carcere, in modo che possano essere concretamente distinti i suicidi dalle morti per cause naturali e da quelle, invece, avvenute per cause sospette?”. E non sarebbe “necessario e indifferibile” creare “un osservatorio (in cui siano presenti anche le associazioni per i diritti di detenuti e migranti) per il monitoraggio delle morti che avvengono in situazioni di privazione o limitazione della libertà personale, anche al di fuori del sistema penitenziario?”. La risposta del governo Oltre a dare i numeri sui decessi, Gullo ha ricordato alla Bernardini come “in Italia sia già previsto un organo indipendente, rappresentato dalla magistratura di sorveglianza, la quale è istituzionalmente investita della vigilanza sull’organizzazione degli istituti penitenziari e sulla corretta esecuzione della pena. A ciò si aggiunga che sono state presentate diverse proposte di legge riguardanti l’istituzione della figura del Garante nazionale dei detenuti”. Inoltre, ha aggiunto il neo sottosegretario, “per ogni suicidio viene sempre disposta un’apposita visita ispettiva (normalmente affidata al provveditore della Regione dove si è verificato l’evento), che interessa anche i casi di morte naturale, ogni qualvolta che risultino necessari ulteriori approfondimenti”. La replica di rita Bernardini La deputata radicale si è detta “insoddisfatta della risposta, ritenendo tra l’altro sgradevole che il Governo abbia ritenuto di elencare i reati commessi da un detenuto deceduto in carcere (Gullo ha elencato, nella sua risposta, alcuni reati compiuti da Sakhiri El Mustafa; ndr) visto che non costituiva oggetto della mia interrogazione”. E sulla magistratura di sorveglianza: “A me risulta che solo in rarissimi casi visita le celle ed è realmente consapevole delle reali condizioni di detenzione”. Giustizia: Severino; amnistia difficile da approvare, ci sono troppe divisioni politiche Agi, 13 luglio 2012 “Al momento le divisioni politiche non rendono ottimistiche le previsioni”. Così il ministro della Giustizia, Paola Severino, intervistata a “Prima di tutto” su Radio1, risponde alle domande su un’eventuale approvazione di un provvedimento di amnistia. “Io confido che su temi importanti come il carcere e le condizioni dei detenuti - ha aggiunto il ministro - vi sia una seria riflessione politica”. A tal proposito il ministro ha ribadito di considerare “priorità assoluta” il disegno di legge sulle sanzioni alternative al carcere, attualmente all’esame della commissione Giustizia della Camera. “Le misure alternative sono una soluzione per il problema carcere - ha spiegato Severino - in questi giorni nelle mie visite nei penitenziari ho rilevato come, ad esempio, il caldo soffocante, in alcuni casi la scarsità di acqua, non contribuiscono a dare la possibilità di un reinserimento sociale del detenuto, né a portare ad un calo di recidiva”. Quanto all’ipotesi di privatizzazione delle carceri, il ministro della Giustizia ha spiegato: “‘Ho visitato diversi paesi in cui gli istituti sono privatizzati e le risposte sono state negative. La risocializzazione di un detenuto è un percorso complesso e costoso che non può essere affidato a un privato che, naturalmente e giustamente, cerca invece di trarre un profitto”. Giustizia: un messaggio appeso al Colle di Valentina Ascione Gli Altri, 13 luglio 2012 “Se e non ora, quando? Se non così, come?”, con questi versi di leviana memoria si conclude una lunga e dettagliata lettera - appello al Presidente della Repubblica firmata da oltre cento docenti universitari, tra costituzionalisti e penalisti, che a Napolitano chiedono di far ricorso allo strumento del messaggio alle Camere, “affinché il Parlamento eserciti finalmente le proprie prerogative, per dare una contestuale risposta, concreta e non più dilazionabile, sia alla crisi della giustizia italiana che al suo più drammatico punto di ricaduta, le carceri”. Sì, perché l’ormai nota questione di prepotente urgenza, sollevata un anno fa dal Capo dello Stato in persona, nei mesi a seguire è stata miseramente lasciata cadere da chi, nelle sedi istituzionali competenti, avrebbe invece dovuto raccoglierla e poi affrontarla, con provvedimenti drastici e immediati. Tuttavia bisogna riconoscere che è stata apparentemente accantonata, la prepotente urgenza, anche dallo stesso inquilino del Quirinale. Che nell’ultimo anno è intervenuto con decisione e in maniera spesso determinante sulle vicende politiche del paese, ma mai con toni e parole ugualmente gravi sulla bancarotta della giustizia e l’emergenza carceraria, verso le quali ha invece prevalso un atteggiamento timido. Dolosamente timido, sarebbe da dire, visto che in questi mesi Napolitano è stato più e più volte sollecitato, soprattutto dai Radicali e dal loro instancabile leader. Pannella. Chiamato a farsi carico, in quanto Garante della Costituzione, di una situazione che da tempo ormai ha sconfinato il perimetro della legalità costituzionale. Situazione puntualmente descritta dai cento accademici, che nella loro lettera passano in rassegna le numerosissime violazioni della legge e dei diritti umani determinate dalla crisi della giustizia e dalle condizioni vergognose delle nostre prigioni, e sanzionate dagli organismi sia interni che internazionali di garanzia. E infine spiegano perché tecnicamente l’amnistia accompagnata da un provvedimento complementare di indulto rappresenti il solo strumento in grado di riportare il sistema della giustizia italiana e la sua appendice penitenziaria nei paletti della legalità. Come? Ripristinando il diritto a un processo dalla durata ragionevole riconosciuto dalla Costituzione e dalla Corte Europea dei Diritti Umani - e il principio di eguaglianza nell’esercizio dell’azione penale; favorendo una riorganizzazione degli uffici giudiziari e una redistribuzione dei carichi di lavoro tra giustizia penale e giustizia civile. Oltre a produrre un effetto deflattivo sulle carceri sovraffollate. Non un atto di clemenza, dunque, ma una grande proposta di riforma che Marco Pannella e il Partito radicale rilanceranno il prossimo 18 luglio con quattro giorni “di nonviolenza, di sciopero della fame e di silenzio”. Perché il silenzio non vinca. Giustizia: nelle carceri, una barbarie preventiva di Mario Mauro www.ilsussidiario.net, 13 luglio 2012 La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta dell’Ue) contiene una serie di norme alle quali tutti gli Stati membri dovrebbero conformarsi quando attuano il diritto dell’Ue. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che condizioni inaccettabili di detenzione possono costituire una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo. L’articolo 4 della Carta dell’Ue è formulato in modo identico all’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e queste due disposizioni hanno lo stesso ambito di applicazione e lo stesso significato. L’articolo 19, paragrafo 2, della Carta dell’Ue stabilisce inoltre che nessuno può essere consegnato a uno Stato in cui esista un elevato rischio di essere sottoposto tra l’altro a un trattamento inumano o degradante. Nonostante il fatto che il diritto e le procedure penali di tutti gli Stati membri siano soggetti alle disposizioni della Cedu e debbano conformarsi alla Carta dell’Ue quando applicano la normativa europea, ci sono ancora dubbi sul modo in cui le norme sono applicate nell’Ue. Le condizioni in cui versano le carceri italiane, alla luce di queste normative, sono a dir poco inaccettabili. Nessuna delle disposizioni sopracitate è rispettata: basti pensare che, come è risaputo, nelle nostre carceri c’è spazio per meno di 46 mila dei quasi 68 mila detenuti attualmente. In Italia non si compiono più reati rispetto agli altri paesi, non c’è un tasso di criminalità più preoccupante rispetto agli altri paesi membri Ue. Ci sono forse strutture obsolete ed occorrono ingenti risorse finanziarie per rinnovarle. Ma questo non è il problema principale. Se le persone incarcerate senza una condanna definitiva sono quasi la metà del totale, significa che si può fare molto soprattutto da questo punto di vista. Ciò dipende in primis dai giudici, che seppur non vincolati direttamente dalle normative europee, potrebbero utilizzare in moltissimi casi pene alternative al carcere, interpretando tra l’altro al meglio le disposizioni riguardanti la carcerazione preventiva. “Il tempo che una persona può trascorrere in stato di detenzione prima di essere sottoposta a giudizio e durante il procedimento giudiziario varia considerevolmente da uno Stato membro all’altro. Periodi di detenzione preventiva eccessivamente lunghi sono dannosi per le persone, possono pregiudicare la cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri e non corrispondono ai valori propugnati dall’Unione europea”. Questo è quanto afferma una recente presa di posizione del Consiglio europeo. La carcerazione è un provvedimento di natura eccezionale nei sistemi giudiziari di tutti gli Stati membri dell’Unione europea. Deve essere messa in atto solo quando tutte le altre misure risultano insufficienti. Tutti gli organi giurisprudenziali europei sono giustamente molto inclini a preferire le misure cautelari non detentive, con un’attenzione particolare nei confronti del diritto alla libertà, conformemente alla presunzione di non colpevolezza. Le condizioni di detenzione devono rispettare la dignità umana e i diritti delle persone sospettate o accusate di un crimine. Per la maggior parte delle migliaia di persone, che come Antonio Simone, (del quale ho personalmente appurato l’inumano trattamento a San Vittore), sono incarcerate preventivamente nel nostro paese, sfido qualunque esperto di giustizia a provare l’esistenza del rischio di essere ostacolo alle indagini, oppure un elevato rischio di fuga oppure che l’imputato sia una minaccia per la sicurezza dei cittadini. Questi cittadini non sono per forza innocenti. Ma sono innocenti fino al giorno in cui vengono condannati in via definitiva. L’abuso della misura di custodia cautelare preventiva in Italia dovrebbe destare scandalo. E invece no. Perché tutto ciò che è stato deciso da un giudice va sempre bene, anche se è palesemente violazione dei diritti umani. Anche se una persona riceve un trattamento da Stato di polizia. E non importa se noi, con un sistema di giustizia del genere, non potremmo neanche starci in Europa. Non abbiamo i requisiti, perché non rispettiamo i diritti fondamentali dell’uomo. Fa niente se la Corte europea dei diritti dell’uomo ci mette in fondo a tutte le classifiche per l’efficienza della giustizia, fa niente se anche la Commissione europea, nel suo Libro verde del 2011 ha citato l’Italia insieme alla Bulgaria e ad altri paesi, come esempio negativo per il sovraffollamento delle carceri. Spesso i governi dei paesi membri lamentano una mancanza di fondi per far fronte all’emergenza carceraria. Il bilancio comunitario deve dotarsi di una linea ad hoc per incoraggiare le autorità nazionali a migliorare le condizioni di detenzione. Questo deve essere solo il primo passo di una strategia che porti ad una reale armonizzazione dei sistemi di giustizia nell’Ue. Come succede per le regole sul patto di stabilità, è urgente che anche per quanto riguarda l’efficienza della giustizia si arrivi a delineare un sistema di vincoli che, nell’interesse dei cittadini europei, metta fine allo scempio sotto i nostri occhi. Giustizia: quella italiana è la vergogna d’Europa di Dimitri Buffa L’Opinione, 13 luglio 2012 Il caso di Renato Farina può fare gridare di indignazione per due ordini di motivi: il primo è legato alla persecuzione contro una persona scomoda che sicuramente ha fatto errori in passato, peraltro pagandoli a caro prezzo; il secondo concerne la cosiddetta tempistica di una giustizia che conta tante velocità quante tipologie umane ci sono da colpire o da salvare. L’Italia però nella giustizia penale e civile continua a essere il disastro d’Europa, come testimonia anche la recente relazione al Parlamento per il 2011 da parte dell’ufficio contenzioso della Presidenza del consiglio a proposito delle sentenze di condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Più precisamente, l’Italia si colloca al terzo posto per maggior numero dei ricorsi pendenti dinanzi alla Corte europea con circa 13.750 casi, a fronte dei 10.208 affari presenti nel 2010. Registrando così un incremento del contenzioso di circa il 26%, imputabile pressoché esclusivamente “ai ricorsi seriali in materia di violazione delle disposizioni sull’equo processo sotto il profilo dell’irragionevole durata”. La Corte (Cedu) ha più volte posto l’accento sul “carattere continuativo e diffuso della violazione dell’articolo 6, paragrafo l, concernente l’eccessiva durata dei procedimenti”. Evidenziando anche, “come elemento che aggrava la violazione della Convenzione”, la “dimostrata incapacità, da parte dello stato italiano, di assicurare un processo di ragionevole durata e di apprestare rimedi adeguati di indennizzo”. Farina però, è stato condannato in sei mesi per un quasi non reato a due anni e otto mesi, pena che non si commina neanche ai rapinatori non incensurati. Quando invece veniva portato Cofferati in visita a Sofri da un deputato dell’estrema sinistra, facendolo entrare come proprio collaboratore, nessuno zelante Pm aveva accusato chicchessia di falso materiale. Forse anche questa ferocia burocratica è un rovescio della stessa medaglia dell’inefficienza? Intanto un punto fermo: i mali della giustizia vengono quasi sempre dalla sinistra e dalle proprie leggi “furbette”. Si prenda la legge Pinto voluta dal governo Amato ed entrata in vigore nei primi giorni del governo Berlusconi (24 marzo 2001) per filtrare in Italia i ricorsi europei e dare in loco le compensazioni economiche per i processi troppo lunghi: il Cedu certifica nella relazione su menzionata che ormai non funziona più. “Il giudizio della Corte e del Consiglio di Europa sulla legge destinata a regolare gli indennizzi da eccessiva durata dei procedimenti (24 marzo 2001, numero 89, nota come legge Pinto) è assolutamente negativo”. Ormai siamo ai “ritardi nel pagamento degli indennizzi” (anche di anni, ndr), che “determinano altri ricorsi alla Corte di Strasburgo”. Il contenzioso interno pendente avanti alle corti d’appello “è tale da generare ritardi sulla definizione di altri procedimenti” e, dunque, “è esso stesso un gravissimo elemento che concorre a rallentare la macchina giudiziaria”. Nella relazione presentata dal Comitato dei Ministri del 9 ottobre 2010 si legge che l’eccessiva durata dei procedimenti giurisdizionali in Italia è un “serious systemic or structural problem” e che è valutato come “one of the most problematic issues facing the Strasbourg Court”. L’inglese, volutamente burocratico - maccheronico per farlo capire anche ai politici italioti, non ha bisogno di traduzione. Nella stessa relazione si legge che i casi riguardanti l’eccessiva durata dei processi in Italia rivelano “the inadequacy of the domestic remedy for cases of excessive length of judicial proceeding”. E questo “in funzione sia dell’entità degli indennizzi che dei tempi di corresponsione delle somme”. In tale prospettiva “viene auspicata una radicale riforma della legge Pinto”. Per il resto, si conferma anche per il 2011 il trend degli ultimi anni che vede un incremento costante del numero dei casi pendenti dinanzi alla Corte europea. Il totale dei ricorsi da tutta l’Europa a 27 alla data del 31 dicembre 2011 registra infatti una crescita di circa 8 punti percentuali, attestandosi a 151.600 “affairs”, a fronte dei 139.650 dell’ anno precedente. In questo contesto, l’Italia peggiora la propria posizione, collocandosi, con 13.750 casi, al terzo posto per maggior numero di ricorsi pendenti, rispetto al quinto posto raggiunto nel 2010, con 10.200. Siamo nella zona “champions” della vergogna della malagiustizia in Europa. “Deve dunque rilevarsi - si legge nel rapporto - che in Italia vi è una elevatissima propensione a ricorrere alla Corte di Strasburgo, da considerarsi in crescita costante”. Quanto ai ricorsi non manifestamente irricevibili e che, in quanto tali, sono stati comunicati al Governo italiano, “ai fini della difesa rispetto alle doglianze di controparte”, tale dato ammonta nel 2011 a 1095 casi. Sempre con riferimento al carico di lavoro della Corte, per quanto concerne gli affari contenziosi contro l’ Italia, risultano essere stati dichiarati ricevibili 34 casi, mentre 3114 sono stati assegnati al Giudice unico e ad un Comitato, come pure altri 9.498 sono stati attribuiti all’attenzione di una Camera e del Comitato “per un attento primo esame”. Le sentenze pronunciate nei confronti dell’Italia sono state 45 (erano 98 nel 2010), di cui 34 hanno constatato la violazione di almeno un articolo della Convenzione, 3 non hanno accertato alcuna violazione (2 delle quali pronunciate dalla Grande Camera), 7 hanno determinato soltanto l’equa soddisfazione e con una è stata disposta la cancellazione della causa dal ruolo. In relazione al numero delle sentenze con almeno una violazione, l’Italia, nell’ambito dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa, “migliora” la propria posizione rispetto all’anno 2010, passando dal settimo all’ottavo posto. Peggio di noi? Turchia (159 condanne), Russia (121), Ucraina (105), Grecia (69), Romania (58), Polonia (54). Meglio di noi? Ungheria, con 33 sentenze negative del Cedu, e Germania con 31. Possiamo quindi sempre consolarci così. Con l’aglietto. Il cittadino a questo punto si domanda anche se non abbia per caso ragione Marco Pannella a proporre la grande amnistia per la repubblica per azzerare il contenzioso penale e di conseguenza anche parte di quello civile, e se non sia giusto aderire ai quattro giorni di digiuno e di silenzio stampa (a partire dai microfoni di Radio radicale) organizzato dal 18 al 22 luglio prossimi. Giustizia: l’Italia senza una legge sulla tortura tradisce la convenzione europea da Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 13 luglio 2012 Cesare Beccaria non avrebbe mai immaginato che due secoli e mezzo dopo il suo Dei delitti e delle pene l’Italia sarebbe stata ancora priva di una legge contro la tortura. E la lettera che Amnesty International ha inviato al governo ricordandogli l’impegno a introdurre il reato, impegno violato da 25 lunghissimi anni, è un atto d’accusa che ci umilia. Era il 1987, quando l’Europa invitò gli Stati membri a ratificare la convenzione contro la tortura. Alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan, al Cremlino Michail Gorbaciov, la Dc aveva il 34% dei voti, Napoli era in delirio per lo scudetto vinto grazie a Maradona, mezza Italia era innamorata di una Whitney Houston apparsa bellissima a Sanremo e i membri di un gruppo di ricerca di Pisa giravano gli atenei per spiegare come avevano fatto a collegarsi per la prima volta a Internet, di cui quasi tutti ignoravano l’esistenza. Insomma, era tantissimo tempo fa. Già il 7 marzo 1988 l’Ansa segnalava che il governo maltese aveva provveduto a ratificare la convenzione europea e spiegava che “il governo italiano l’ha firmata ma non ha ancora proceduto alla sua ratifica”. Quattro anni dopo, la stessa agenzia titolava “Onu: Italia assolta con riserva” e raccontava lo stupore del giurista svizzero Jospeh Voyame, presidente del comitato internazionale: “Siamo stati molto sorpresi nell’apprendere che lo Stato italiano non è responsabile degli atti illegali eventualmente compiuti dai suoi agenti”. Altri sette anni e nel 1999 ecco un altro flash: “Diritti umani: Italia sotto esame al comitato contro la tortura”. La cronaca: “I giuristi del Comitato da anni premono perché nei codici penali italiani sia inserito il reato di “tortura”“. In quello stesso anno Silvio Berlusconi, all’opposizione contro una sinistra assai distratta sul tema, firmava un’interrogazione parlamentare: “Perché nell’ordinamento italiano non è stato ancora introdotto il reato di tortura?”. Indignatissimo, sosteneva: “Severe critiche sono state mosse all’Italia, nell’ultimo rapporto del Comitato per i diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, a causa di tale mancanza...”. Due anni dopo andava al potere, salvo la parentesi prodiana, per un decennio. E il reato di tortura? Ciao. Peggio, il 6 febbraio 2009 il Consiglio italiano per i rifugiati registrava amaro: “Ieri il Senato, durante le votazioni riguardanti il cd “Pacchetto sicurezza 2” ha respinto per appena 6 voti (123 sì, 129 no, 15 astenuti su 268 votanti) l’emendamento sostenuto dalla sen. Poretti e dal sen. Perduca insieme ad altri 70 senatori di opposizione e maggioranza per l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale...”. La risposta del governo fu indimenticabile: la definizione del reato era “troppo vaga”. Si trattava della traduzione letterale della Convenzione Onu. Già adottata da tutti i Paesi civili. È una lunga storia proprio brutta, quella della legge sulla tortura italiana. Che ha gettato sale sulle ferite di uomini come Luciano Rapotez, che a 93 anni ancora aspetta che qualcuno gli chieda scusa (anche il Quirinale potrebbe ben battere un colpo...) per le torture subite, con danni permanenti, nel lontano 1955. O come i ragazzi vittime delle violenze nella caserma di Bolzaneto e nell’irruzione alla scuola Diaz durante il G8 genovese del 2001, ragazzi che secondo i giudici furono trattati in modo “inumano e degradante ma non esistendo una norma penale, l’accusa è stata costretta a contestare agli imputati l’abuso d’ufficio”. Per non dire di altri casi come quello di Federico Aldrovandi alla cui madre nei giorni scorsi il capo della polizia Antonio Manganelli ha inviato quella lettera così importante: “È giunto il momento di farvi avere le nostre scuse”. Per questo, dopo tanti anni, sarebbe importante se Paola Severino rispondesse con atti concreti alla lettera ricevuta dalla direttrice italiana di Amnesty International Carlotta Sami, che invita il ministro della Giustizia a “esercitare un ruolo fondamentale nell’assicurare che l’Italia introduca finalmente nel codice penale il reato di tortura” e in particolare ad “assicurare l’attuazione della Convenzione in tutte le sue parti, inclusa quella fondamentale di introdurre il reato di tortura nel codice penale, un preciso obbligo del governo italiano, sinora disatteso, con effetti pratici molto negativi che non hanno mancato di farsi sentire in processi in cui le responsabilità di funzionari e agenti dello Stato erano soggette ad accertamento”. Come, appunto, i casi genovesi già citati per i quali, ha scritto su La Stampa Vladimiro Zagrebelsky, a lungo giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, “se fosse previsto il delitto di tortura, necessariamente le pene sarebbero ben più gravi e la prescrizione non si applicherebbe o avrebbe un termine molto lungo”. C’è chi dirà che “in fondo cosa sarà mai, tanto non c’è più la ferocia di una volta”. Quella che ne Le rane Aristofane elenca con amaro sarcasmo: “Crocifiggilo, appendilo, frustalo, scuoialo, torturalo, mettigli l’aceto nel naso...”. Quella esercitata contro i due poveretti giustiziati come “untori” durante la peste del 1630 la cui sorte è ricordata in Storia della colonna infame da Alessandro Manzoni: “A) Il Barbiero Gio. Giacomo Mora et il Commissario Guglielmo Piazza posti sopra un carro sono ferragliati nei luoghi più pubblici della città. B) Nel corso detto il Carrobbio è loro tagliata la mano destra. C) Nel luogo della giustizia sono spogliati nudi. D) Con la rota se gli rompendo le ossa delle gambe, delle cosce, delle braccia. E) Si alza sopra un palo la rota, nella quale sono intrecciati, e vi stanno vivi per lo spazio di sei hore. F) Sono scannati. G) Abbruggiati...”. È vero, fino a quegli abissi di malvagità non si spinge più nessuno. Ma vivere in un Paese in cui non è previsto quel reato è diventato, 234 anni dopo la pubblicazione delle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, insopportabile. Giustizia: Papa (Pdl), serve un’amnistia, la carcerazione preventiva è peggio dell’inquisizione Tempi, 13 luglio 2012 “Proseguo il mio tour estivo nelle carceri italiane, luogo che ho conosciuto e di cui mi vergogno profondamente come uomo delle istituzioni”: è quanto afferma in una nota il deputato del Pdl Alfonso Papa, che oggi aveva in programma una visita nel carcere di Rimini. “Se quasi un detenuto su due è in attesa di giudizio e dietro le sbarre avviene un suicidio ogni cinque giorni, esiste un Caso Italia col quale la politica deve fare i conti - continua Papa - Serve un’amnistia per ridare fiato agli istituti penitenziari e liberare le scrivanie dei magistrati. Per questa ragione mi unirò alla mobilitazione straordinaria indetta dai Radicali con quattro giorni di sciopero della fame tra il 18 e il 22 luglio”. “La prossima settimana ci sarà anche un anniversario per me importante - conclude Papa. Il 20 luglio segnerà un anno dal mio arresto. In tale occasione mi recherò di nuovo a Poggioreale e lancerò una nuova iniziativa di monitoraggio sulle condizioni detentive italiane nel quadro internazionale”. Papa, arrestato il 20 luglio 2011 nell’ambito dell’inchiesta sulla P4, ha trascorso 101 giorni nel carcere di Poggioreale per poi tornare in libertà lo scorso 23 dicembre. Carcerazione preventiva? Peggio dell’Inquisizione Il deputato Alfonso Papa, che ha vissuto sulla sua pelle l’abuso della custodia cautelare, condanna l’uso che i magistrati ne fanno per “estorcere confessioni”. E su Farina dichiara: “Condanna intimidatoria”. Renato Farina? “Una condanna abnorme e intimidatoria che dovrebbe fare riflettere tutti i parlamentari”. Antonio Simone? “La carcerazione preventiva non può essere utilizzata per acquisire le prove, Simone è vittima di una mostruosità”. Lele Mora? “Ha perso 50 chili, per quello che so la sua carcerazione preventiva è stata assolutamente sproporzionata rispetto ai fatti”. Alfonso Papa, deputato del Pdl che ha subito sulla sua pelle l’abuso della custodia cautelare e che oggi visita il carcere di Rimini su iniziativa dell’associazione di volontari Papillon Onlus, spiega a tempi.it perché è importante “denunciare quella mostruosità che è la carcerazione preventiva, spesso usata per estorcere confessioni, peggio dell’Inquisizione”. Perché oggi visita il carcere di Rimini? È dal Natale del 2011 che testimonio la situazione delle carceri, che è sotto gli occhi di tutti e viene denunciata anche a livello internazionale, ad esempio, dal Guardian. Papillon è una associazione con la quale ho deciso di coordinarmi e il 20 luglio, a un anno da quello che mi è successo (lo scorso anno Papa entrò in carcere, dopo la votazione favorevole al suo arresto alla Camera, ndr), visiterò Poggio Reale. Il 19 luglio, invece, presenteremo un osservatorio sulle carceri, che vorremmo diffondere anche alla stampa internazionale e in cui confluiscono anche i risultati della visita di oggi. Lei ha presentato anche una proposta di legge contro la carcerazione preventiva. Di che cosa si tratta e chi l’ha appoggiata? La battaglia delle carceri non ha colore politico, è una battaglia di civiltà. Per la proposta di legge ho raccolto 300 firme tra gli esponenti di tutti i partiti e sono colpito da come Silvio Berlusconi sia stato sensibile a questa battaglia e mi abbia spronato a proseguirla. Vogliamo impedire che il carcere preventivo sia uno strumento di tortura e di pressione. Noi, infatti, la riteniamo una forma velata di tortura, che provoca un vero stupro esistenziale, per fare pressione. Vorremmo dunque che la custodia cautelare fosse limitata ai reati di sangue, di terrorismo e di mafia e che non durasse più di sei mesi. Vogliamo che il soggetto sottoposto a custodia cautelare abbia più garanzie e sia presente un giudice ogni volta che viene interrogato. Mi duole l’assenza del Pd in questa battaglia, mi sarei aspettato una maggiore sensibilità, ma andiamo avanti convinti che serva a dare un aspetto più civile e umano al nostro paese. Nella 25esima lettera pubblicata da tempi.it, Antonio Simone, detenuto a San Vittore, scrive: “Sono in carcere da tre mesi perché per i pm non dico “tutto”, cioè non confermo le loro ipotesi accusatorie”. Cosa ne pensa? Le sue lettere confermano la mostruosità che si consuma quotidianamente nelle carceri. Il codice di procedura penale, la Cassazione e la Corte costituzionale hanno ribadito a più riprese che la carcerazione preventiva non è un mezzo di acquisizione della prova. Non si può sottoporre una persona a custodia cautelare per ottenere la confessione, ma solo per la tutela della comunità. Anzi, di fronte a confessioni fatte durante la custodia cautelare bisognerebbe chiedersi con quale consapevolezza siano state rese, perché è una forma di tortura. Bisogna denunciare in tutte le sedi che ormai si usa la custodia per supplire a inefficienze investigative. È peggio dell’Inquisizione spagnola. Oggi abbiamo dei pm che si atteggiano come gli inquisitori e la carcerazione preventiva è accompagnata da una gogna mediatica che non ha nulla da invidiare ai gabbiotti medievali a cui le persone venivano appese per essere esposti al pubblico ludibrio. Come sta Lele Mora, detenuto a Opera? Ho incontrato Lele Mora come ho visto altre centinaia di detenuti. Ho potuto constatare che ha perso 50 chili: durante la mia visita, mi ha comunicato la decisione di unirsi a questa battaglia contro la carcerazione preventiva, per un carcere più umano. Mora ha vissuto un profondo percorso di fede: come me è un credente e questo l’ha aiutato molto in carcere. Ovviamente la durezza della carcerazione preventiva, che per lui è durata un anno, rimane. Oggi si è arreso, chiede di essere affidato ai servizi sociali: pur non conoscendo nel dettaglio tutta la sua vicenda giudiziaria, penso abbia subito una carcerazione preventiva assolutamente sproporzionata rispetto ai fatti. Si parla da vent’anni degli abusi della custodia cautelare, eppure nulla cambia. Perché? Perché c’è una profonda insensibilità da parte di gran parte della classe politica per mancanza di cultura sul carcere. In secondo luogo perché la magistratura, in modo improprio e poco corretto, attraverso il suo sindacato, l’Anm, si è sempre opposta ad una riforma seria. In terzo luogo perché chiunque conosca il sistema sa bene che solo riformando il carcere si può cambiare davvero la giustizia. Bisogna agire subito: innanzitutto con l’amnistia, poi con la modifica della carcerazione preventiva e infine con una riforma della giustizia. Questo sarà l’oggetto della campagna elettorale che Berlusconi si appresta a fare, ma dovrebbe essere oggetto di tutte le campagne elettorali. Qualche giorno fa abbiamo avuto un ultimo atto esemplare. Si riferisce alla recente condanna di Renato Farina? Sì, perché è stato condannato un gentiluomo, un parlamentare e questo deve essere di monito a tutti i parlamentari che vanno in visita nelle carceri per denunciare quello che succede. C’è qualche magistrato in Italia che non vuole che giornalisti, parlamentari e società entrino dentro le carceri per raccontare all’opinione pubblica che cosa accade dentro. Anche questo lo denuncerò in tutte le sedi, dato che è previsto dalla legge che il parlamentare porti con sé delle persone, questa condanna è solo abnorme e intimidatoria, e personalmente la vivo come una violenza per chi entra nelle carceri. Emilia Romagna: 142 detenute, il 50% sono straniere, molte sieropositive e tossicodipendenti Dire, 13 luglio 2012 Sono 142 le donne detenute nei cinque istituti penitenziari regionali che hanno una sezione femminile (circa il 5% della popolazione carceraria totale). La presenza maggiore è a Bologna, dove le donne sono 60, le altre sono suddivise tra Modena, Reggio Emilia, Piacenza e Forlì. Il 50% è straniero. È quanto è emerso dall’audizione della garante regionale per i diritti dei detenuti, Desi Bruno, in commissione pari opportunità in Regione. La garante ha riferito che sono molte le detenute sieropositive e con problemi di tossicodipendenza, anche se con il passaggio delle prestazioni al Servizio sanitario regionale sono aumentate le attività di prevenzione e cura. E che molte rischiano di perdere la potestà dei figli. Al momento non ci sono bambini in carcere e nessuna minorenne al Pratello. Quattro le donne transitate dal Cie di Modena nel 2011 e 127 da quello di Bologna nei primi sei mesi del 2012. “In una fase di riduzione dei finanziamenti - dice Bruno - la situazione delle donne va peggiorando rispetto alle opportunità di istruzione superiore, formazione professionale e lavoro, fondamentali se si vuole che la pena abbia un’effettiva funzione di recupero e di reinserimento”. La legge prevede forme attenuate per le donne in gravidanza o con figli minori di sei anni (legge 40/2001 poi modificata dalla legge 62/2011) per le quali non dovrebbe essere applicata la custodia cautelare in carcere. “Alle detenute spesso si associa una situazione di abbandono dei figli che rischia di portare alla perdita della potestà genitoriale su di loro - continua Bruno - anche se attualmente non ci sono bambini nelle carceri regionali, va rilanciata la necessità di costruire luoghi idonei all’incontro periodico fra genitori e figli: il volontariato fa il possibile per preparare questi incontri e in alcuni istituti ci sono spazi appositi”. La legge 62/2011 prevede anche che il giudice possa disporre la custodia cautelare presso istituti a custodia attenuata, sempre che non ci sia un giudizio di pericolosità sociale. “Purtroppo, oggi in Italia - precisa la garante - esiste un solo istituto con queste caratteristiche, a Milano, con personale non penitenziario al suo interno”. Dal primo gennaio 2014 dovrebbero esserne previsti altri. Le 142 donne detenute sono dentro per reati legati alla droga (spaccio), prostituzione, contro il patrimonio. Una esigua minoranza di donne sconta una pena per reati di sangue (delitti contro la persona). Da quando è stata chiusa l’apposita sezione della Dozza nel 2009, in regione non ci sono più donne detenute per reati di stampo mafioso. Per quanto riguarda i Cie, delle 127 donne transitate per quello di Bologna dal primo gennaio al 10 luglio 2012 la maggior parte erano nigeriane (41), seguite dalle cinesi (10). “Solo quattro delle 127 donne provenivano dal carcere - precisa Bruno - dunque la quasi totalità non ha commesso reati, se non la presenza irregolare sul territorio”. In particolare, la garante ha ricordato il caso di 45 donne (in gran parte, badanti) finite al Cie perché hanno perso il lavoro e di conseguenza il permesso di soggiorno e “dovrebbero essere rimpatriate in Paesi che hanno abbandonato da diversi anni e nei quali non hanno più nessuna relazione”. L’assunzione dei dati relativi alla popolazione femminile nelle carceri regionali è, come ha precisato la presidente della commissione Pari opportunità, Roberta Mori, preliminare alla predisposizione di una risoluzione che la commissione intende sottoporre all’aula. Nell’audizione sono intervenuti i consiglieri Franco Grillini (Idv), Monica Donini (Fds), Thomas Casadei (Pd), Palma Costi (Pd), Giovanni Favia (M5S) e Mauro Malaguti (Pdl). Tutti gli interventi hanno posto il problema di rilanciare iniziative finalizzate a offrire occasioni di recupero e reinserimento, con una particolare attenzione alla formazione e al lavoro. Lombardia: telemedicina per detenuti; esperimenti per consentire analisi e visite senza trasferirli Adnkronos, 13 luglio 2012 La Commissione speciale sul sistema carcerario lombardo, presieduta da Stefano Carugo (Pdl), prosegue il suo lavoro orientato a valutare possibili interventi istituzionali da segnalare alla Giunta: oggi gli incontri con i rappresentanti del mondo della sanità, dai direttori generali delle Asl all’assessore regionale alla Sanità della Regione Lombardia, Luciano Bresciani, che ha tratteggiato le potenzialità future dell’assistenza sanitaria dietro le sbarre, chiamando in causa la telemedicina. L’obiettivo della Commissione era conoscere i servizi attivati per gli istituti di pena. Bresciani ha posto l’attenzione sul modello dell’ospedale San Paolo di Milano, dove è stato creato un reparto ad hoc per detenuti malati gravi (circa 22 - 23 posti letto). E ha sottolineato l’importanza di avviare esperimenti di telemedicina. L’idea sarebbe quella di sfruttare la trasmissione telematica di dati per consentire analisi e approfondimenti clinici sullo stato di salute dei detenuti che ne hanno bisogno direttamente in carcere senza la necessità di organizzare trasferimenti da un ospedale all’altro. Questo potrebbe essere lo scenario futuro. Ma la situazione di oggi mostra delle carenze. A segnalarle i rappresentanti delle Asl all’interno degli istituti penitenziari che hanno parlato di carenza di alcune strutture, di impianti obsoleti, la cui manutenzione o rifacimento avrebbero costi onerosi. “In un momento di difficoltà come questo - riflette Carugo - la Regione Lombardia mantiene investimenti sul sistema carcerario senza tornare indietro. Va in questa direzione l’ordine del giorno approvato in Consiglio regionale, che chiede uno stanziamento di 50 mila euro per le emergenze carcerarie”. “Il lavoro della Commissione - prosegue Carugo - è importante per capire come stanno realmente le cose e anche per prendere atto di iniziative positive, come quella dell’ospedale San Paolo, modello unico che andrebbe replicato in altre Province lombarde”. “Certamente - aggiunge Fabio Pizzul (Pd) - il passaggio di competenze dal sistema giudiziario a quello sanitario è positivo. Quel che auspico è un’ulteriore attenzione a livello soprattutto di prevenzione, affinché le carceri non siano generatrici di emergenze igienico - sanitarie, tanto più in questo momento contingente dove il caldo si aggiunge a una situazione intollerabile per quanto riguarda il sovraffollamento delle celle. È senz’altro importante la proposta di ampliare il reparto del San Paolo e riprodurre questa esperienza in altre Province. Spiace che non ci siano fondi per attuarla”. Bollate (Mi): bilanci e progetti nell’intervista a Massimo Parisi, direttore della Casa Reclusione di Susanna Ripamonti (Carte Bollate) Ristretti Orizzonti, 13 luglio 2012 È passato un anno da quando Massimo Parisi prese il posto di Lucia Castellano alla direzione del carcere di Bollate. Un cambio al timone del penitenziario più avanzato d’Italia, che era anche una scommessa sul futuro dell’Istituto e che aveva lasciato tutti con il fiato sospeso. La rivoluzione sarebbe continuata? O saremmo andati incontro a una normalizzazione? Parisi disse subito, proprio dalle colonne di questo giornale, che non si sarebbe arretrati di un centimetro e che al contrario si sarebbero fatti nuovi passi in avanti e ha mantenuto la promessa. Direttore, a un anno dal suo insediamento a Bollate possiamo fare un primo bilancio? Diciamo subito che a livello personale questa è un’esperienza stimolante e oserei dire entusiasmante. Appena arrivato, senza conoscere il contesto in cui avrei operato, mi ero ripromesso tre cose: la prima, fare in modo che Bollate non fosse più una sperimentazione ma che diventasse patrimonio dell’Amministrazione penitenziaria e in quanto tale, che diventasse un patrimonio esportabile, anche a prescindere dalle persone. E questo primo obiettivo è stato raggiunto? Direi di si, visto che le ultime circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria vanno in questa direzione. Il capo del Dap, Giovanni Tamburino, invita a creare istituti con regime aperto, come il nostro appunto, con personale più impegnato nella conoscenza e nel lavoro con i detenuti e non solo con funzioni di sorveglianza. Il nuovo provveditore Aldo Fabozzi ha fatto di recente una riunione con tutti i direttori delle carceri della Lombardia dando tassativamente l’indicazione di andare verso regimi aperti, come prevede l’ordinamento penitenziario. Il fatto che Bollate sia citata come modello è ovviamente una soddisfazione per noi che ci lavoriamo, perché non solo abbiamo mantenuto l’esistente, ma siamo andati avanti. Veniamo al secondo obiettivo, che era quello di rafforzare e portare a regime le attività esistenti. Traguardo raggiunto? Per quanto riguarda le attività interne direi che educatori e polizia penitenziaria si sono mossi bene, mantenendo lo stesso dinamismo e la stessa vivacità. L’unico rammarico è che non siamo riusciti ad aumentare le possibilità di lavoro all’interno dell’istituto, coinvolgendo nuove aziende. Qualche proposta c’è: l’idea di aprire una tipografia, il maneggio che potrebbe avere un’evoluzione produttiva, ma la mia aspettativa era maggiore e per questa voce il bilancio è in rosso. Bene la scuola, con un rafforzamento delle attività universitarie e la prospettiva a breve termine di avviare una scuola alberghiera. Bollate è il carcere italiano che ha il maggior numero di detenuti ammessi al lavoro esterno. E per quanto riguarda le altre misure alternative? Direi che abbiamo in generale dei numeri alti: solo nei primi quindici giorni di giugno sono stati scarcerati trenta detenuti, prevalentemente in misura alternativa e dunque in affidamento o trasferiti in comunità. Quelli in articolo 21 (lavoro esterno) sono 120, di cui 8 donne. A cosa è dovuto questo record, soprattutto per quanto riguarda il lavoro esterno: al fatto che lei ha il coraggio di assumersene la responsabilità? C’è una filosofia di fondo già impostata, che prevede ovviamente un margine di rischio, ma non di azzardo. È previsto un controllo capillare dei detenuti ammessi al lavoro esterno e generalmente i problemi si limitano a piccole infrazioni delle regole. Questo dipende dal fatto che c’è un investimento sulla persona e chi è destinatario di questa opportunità non se la gioca incautamente. Per quanto riguarda il profilo disciplinare possiamo dire che Bollate è un carcere tranquillo, a “bassa tensione”? Prendiamo un dato, che rivela anche un buon rapporto tra detenuti e polizia penitenziaria: nei primi quattro mesi del 2012 i detenuti che hanno preso dei rapporti disciplinari sono stati solo 88 e di questi trenta sono stati archiviati. È una percentuale del 5% circa, decisamente bassa. C’è forse una maggiore possibilità di dialogo tra poliziotti e detenuti, una maggiore democrazia interna? Noi cerchiamo di andare in questa direzione. Quest’anno si è cercato di dare maggiore legittimità alle richieste dei detenuti, creando le commissioni di reparto… In pratica un organismo sindacale? Diciamo un organismo di rappresentanza sostanziale. Il suo terzo obiettivo era quello di occuparsi dei suoi ospiti anche dopo la scarcerazione, creando una rete per il loro reinserimento. Cosa si è fatto? La cosa più importante è che abbiamo firmato un accordo di programma con l’Asl , creando all’interno una commissione dimittendi, che si occupa appunto di chi sta per lasciare il carcere, che viene preso in carico da operatori sia interni che esterni. La commissione ha avuto un riconoscimento da parte dell’Asl, con una legge regionale, la legge 8, che regola questa materia. Si è anche fatto un bando che prevede il ripristino degli agenti di rete, una figura professionale che ha il compito specifico di mantenere una connessione tra carcere e territorio: erano stati aboliti ma da settembre saranno di nuovo operativi. Oltre all’accompagnamento del detenuto che sta per diventare “ex” è previsto un lavoro di sensibilizzazione del territorio che lo dovrà accogliere. E invece cosa non ha funzionato? Avrei voluto avere un contatto più diretto con i detenuti, sentirli personalmente e singolarmente. Questo per quanto mi riguarda. Ci sono poi difficoltà oggettive che si ripercuotono su tutto il nostro lavoro, a partire dai tagli finanziari e dalle risorse economiche ridotte e i tagli delle forniture. Dovremo porci l’obiettivo dell’auto - sostentamento del detenuto, che però è possibile solo se tutti possono lavorare. La crisi generale si riflette anche all’interno, aumentano prezzi e disoccupazione, mentre un potenziamento delle attività lavorative sarebbe un volano per tutto il resto. E gli psicologi? Sempre in calo? Erano insufficienti e sono ulteriormente diminuiti. Si tenga conto che per alcune tipologie di detenuti questa presenza è obbligatoria, ad esempio per i sex offender, che a Bollate sono 350. Nella geografia delle carceri Lombarde Bollate è destinato a diventare il carcere che accoglie tutti gli autori di reati sessuali? Bollate è diventato uno dei poli per la detenzione dei sex offender, che in altre carceri devono essere rinchiusi in reparti protetti. Qui, anche con loro, possiamo mettere in atto programmi di graduale apertura. Questo è un ruolo che ci consente di essere utili anche agli altri istituti ed è bene che Bollate sia percepito così. Nello scorso numero di carte Bollate abbiamo parlato soprattutto di donne, dicendo che sono più recluse degli uomini. Anche qui le differenze ci sono. È d’accordo? Uno dei nostri obiettivi è proprio quello di superare questa emarginazione. Abbiamo fatto un investimento in questa direzione, mettendo tre educatori al posto di uno a occuparsi del reparto femminile, Cerchiamo di dare loro le stesse opportunità di studio e di lavoro, proprio perché ogni anello dell’Istituto deve obbedire alla stessa politica generale, altrimenti il meccanismo si inceppa. Perché è così difficile esportare il modello Bollate? È solo un problema di mezzi e strutture, o c’è un problema culturale più profondo? Bollate dall’inizio è stato impostato per essere quello che è. Cambiare dove c’è invece una lunga storia che va in direzioni opposte è molto più difficile, mi metto nei panni dei miei colleghi, che hanno gravi difficoltà strutturali e di gestione dei detenuti. Però ritengo che ci sia la necessità di un rinnovamento culturale: si tratta di metter in moto un lungo processo, che comporta l’abbattimento di barriere che qui non sono mai esistite. Si può fare, ma bisogna crederci, proprio per trasmettere a tutto il personale la fiducia in un cambiamento di rotta. Progetti di Bollate: obiettivo auto-sostentamento detenuto (Redattore Sociale) Il direttore della struttura, Massimo Parisi, rivela i progetti in cantiere: aprire una tipografia, trasformare il maneggio in un’attività imprenditoriale, creare una scuola alberghiera. Il tutto con budget comunque ridotto “tra il 5 e il 10%”. Aprire una tipografia entro la fine dell’anno, trasformare il maneggio in un’attività imprenditoriale, creare una scuola alberghiera. E ripristinare, a partire da settembre, tre “agenti di rete” (uno per gli stranieri), che si occupino di accompagnare i detenuti nella scarcerazione. Ecco alcuni dei progetti in cantiere nel carcere di Bollate (Mi). Li rivela Massimo Parisi, direttore della struttura, in un’intervista a “Carte Bollate”, la rivista scritta dai detenuti. Parisi tira le fila a un anno dal suo insediamento. L’obiettivo comune di tutte le carceri è “di andare verso regimi aperti - afferma. Il fatto che Bollate sia citata come modello è ovviamente una soddisfazione”. La crisi però non risparmia nessuno: quest’anno il budget è stato ridotto “tra il 5 e il 10%”, spiega il direttore. Per fare di necessità virtù, ogni attività è pensata perché crei occupazione e sia proficua. L’obiettivo, sottolinea Parisi, è “l’auto - sostentamento del detenuto, che però è possibile solo se tutti possono lavorare”. Dei 1.150 detenuti di Bollate, 128 (11 donne), sono occupati al di fuori del carcere e circa 350 all’interno, per conto di ditte esterne. I progetti presentati da Parisi hanno l’obiettivo di creare nuovi posti di lavoro. “In tipografia impiegheremo quattro o cinque persone - spiega. Per quanto riguarda il maneggio, dove oggi lavorano cinque detenuti più i volontari, vorremmo aprirlo ai cavalli esterni e creare una sorta di pensionato”. Infine la scuola alberghiera, che dovrebbe diventare realtà nel 2013, in collaborazione con l’istituto “P. Frisi” di Quarto Oggiaro (Mi), “sarà un bacino da cui attingere per il servizio di catering “Abc sapienza in tavola”, che già esiste all’interno del carcere”. Da settembre invece, annuncia Parisi, torneranno gli agenti di rete, sospesi nel dicembre del 2011. “Collaboreranno con la Commissione dimittendi (un organo creato sei mesi fa, composto da operatori del carcere e da esterni come il Comune e l’Asl, ndr), per trovare soluzioni abitative e lavorative ai detenuti in fase di scarcerazione” aggiunge. Progetti che devono fare i conti con le difficoltà finanziarie. I tagli hanno colpito anche i cosiddetti “psicologi esperti”, ossia gli specialisti che seguono i casi più delicati. “Sono state eliminate una decina di ore - dice Parisi. Per alcune tipologie di detenuti questa presenza è obbligatoria, per esempio per i ‘sex offender’, che a Bollate sono 350”. Nonostante la scarsità di risorse però, afferma il direttore, “non sono state ridotte le attività, né il numero di educatori (che attualmente sono 14, ndr)”. Al contrario nel caso delle donne l’assistenza è stata potenziata. “Abbiamo fatto un investimento in questa direzione, mettendo tre educatori al posto di uno a occuparsi del reparto femminile (dove vivono 72 detenute) - conclude Parisi - . Cerchiamo di dare loro le stesse opportunità di studio e di lavoro, proprio perché ogni anello dell’istituto deve obbedire alla stessa politica generale, altrimenti il meccanismo si inceppa”. Lucca: la denuncia dei detenuti “chi è senza soldi è costretto a digiunare” La Nazione, 13 luglio 2012 Chi non ha soldi, in pratica, digiuna. Una sola ora d’aria al giorno per i detenuti del sovraffollato carcere di “San Giorgio” che adesso si sono decisi a inviare anche una lettera di denuncia al Ministero e ad altre autorità. Una pagina e mezzo manoscritta e nove punti in evidenza per descrivere una situazione oltre ogni limite. Che rischia di esplodere, come ammettono anche alcuni agenti della polizia penitenziaria. “Ho lavorato al canile e posso tranquillamente affermare che i cani vivono assai meglio dei nostri detenuti - si spinge ad affermare Monica S., compagna di uno di loro e portavoce della protesta. Nessuno pretende che si stia in carcere come nel salotto di casa. Si capisce che il contesto deve in qualche modo avere carattere punitivo, ma credo che stiamo andando decisamente oltre, nonostante la buona volontà delle guardie, che si adoperano al massimo, e il fondamentale supporto del cappellano don Beppe e dello psicologo dottor Cornacchia”. Nella lettera si denuncia la situazione che vede quattro detenuti chiusi in ogni cella, di 7 metri quadrati, per 23 ore al giorno perché non ci sarebbe personale sufficiente a garantire la sorveglianza su un orario più esteso. Si punta il dito su un servizio mensa a singhiozzo, fermo la domenica e il sabato sera, che fa il paio con il divieto di ricevere pacchi alimentari dall’esterno. “L’unico modo per mangiare è quello di acquistare allo spaccio interno. Il problema - dice Monica - è che le stesse merendine che al discount costano 90 centesimi per un pacco da 6 lì hanno un prezzo di 3,50 euro. Sono prezzi esagerati e alla fine non bastano 50 euro alla settimana. Succede che qualcuno aiuta i compagni di cella che non hanno familiari fuori. Come potrebbero mangiare altrimenti?”. Il divieto di rifornire di generi alimentari i detenuti discende direttamente dal rischio che in questo modo si individui un facile veicolo per la droga. “Si dice che ci sono stati episodi in passato, ma una soluzione deve essere trovata. Anche perché le case circondariali di Firenze e Pisa invece permettono di portare cibo ai detenuti”. La denuncia si sofferma anche sulla situazione strutturale, con una sala colloqui sorretta da tubi innocenti e crepe con pericolo di crollo, sporcizia in cucina, celle anguste, cibo scadente. La risposta è attesa, magari con la disposizione di un sopralluogo da Roma. Altrimenti la reazione sarà quella di uno sciopero generalizzato della fame, anche a costo di giocarsi i giorni premio. Marcucci (Pd): carcere al collasso, le istituzioni intervengano “Il carcere di Lucca è al collasso. Il sottodimensionamento degli organici della polizia penitenziaria, il sovraffollamento delle celle, la chiusura della mensa il sabato sera e la domenica, il divieto di ricevere pacchi alimentari, la cronica fatiscenza della struttura, l’assoluta mancanza di attività ricreative, creano di fatto una situazione non più tollerabile. Invito il garante della Regione Toscana Alessandro Margara, i sindaci, le istituzioni e le associazioni, a mobilitarsi e ad intervenire”. Lo afferma, in una nota, il senatore del Pd Andrea Marcucci, preannunciando una prossima visita all’istituto San Giorgio di Lucca. “Un carcere vetusto e completamente inadeguato che non riceve praticamente fondi neanche per la manutenzione ordinaria - spiega il parlamentare Pd - annulla automaticamente la sicurezza degli operatori da una parte e la dignità dei detenuti dall’altra . Pongo nuovamente la questione al Governo ma è necessario anche uno scatto d’orgoglio della nostra comunità per migliorare le condizioni di vita all’interno dell’istituto. La situazione è davvero esplosiva - conclude Marcucci - mi auguro che gli appelli diffusi in queste ore dagli agenti di custodia e dai parenti dei detenuti non cadano nel vuoto”. Piacenza: Ugl; il Dap promette nuovi agenti, ma solo a padiglione ultimato e collaudato www.piacenza24.eu, 13 luglio 2012 Si è tenuto ieri mattina ed è durato per l’intera giornata il tanto atteso incontro richiesto dal sindacato della Polizia Penitenziaria Ugl, composto per l’occasione anche da una delegazione piacentina con Gennaro Narducci e Antonio Lasorsa al seguito del segretario nazionale Giuseppe Moretti. I rappresentanti dei lavoratori si sono recati al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per avere risposte adeguate e certezze sul presente e futuro del carcere piacentino delle Novate. Ad accogliere la Delegazione c’era Giovanni Centrella, segretario generale dell’Ugl che ha personalmente preso a cuore la situazione dei poliziotti penitenziari tra i quali quelli piacentini che stanno vivendo, parole loro, “una delle situazione più critiche degli ultimi anni”. Dalla riunione con il vicecapo del dipartimento e con il direttore del Personale e della Formazione , è emersa solo una certezza: che i trenta nuovi agenti attesi a Piacenza arriveranno solamente quando saranno terminati i lavori per il nuovo padiglione, ovvero non prima del 31 dicembre 2012. E sul punto Narducci ci tiene a fare una precisazione: “Il carcere nuovo aprirà soltanto se passerà il “collaudo” con tempi previsti molto lunghi, ovvero si passa da un minimo di 7 - 8 mesi a un massimo di un anno come è avvenuto per i nuovi padiglioni di Modena, Verona, Cremona: sono ultimati da oltre un anno ma non sono ancora aperti”. “L’organico della Polizia Penitenziaria di Piacenza - ha spiegato direttore del personale - è costantemente tenuto sotto controllo dal Dap e le varie segnalazioni giunte a questi Uffici Superiori faranno sì che la pianta organica non solo di Piacenza ma di tutti gli istituti d’Italia saranno oggetto di discussione sulle variazione da apportare, soprattutto con l’apertura di nuovi padiglioni, già finiti da un anno e che vanno aperti con precedenza rispetto a Piacenza, ancora in fase di costruzione, nel prossimo incontro che avverrà il 16 luglio con tutti i provveditori regionali”. Il segretario regionale Gennaro Narducci ha quindi chiesto quanti uomini l’amministrazione intenda inviare a Piacenza e se in effetti arriveranno a padiglione ultimato. La risposta è stata affermativa: 5 - 6 uomini andranno a sanare la vecchia pianta organica ferma al 2001. Ma non solo, hanno spiegato i dirigenti ministeriali: è già in via sperimentale nei nuovi istituti la cosiddetta “vigilanza dinamica”. Ma su questo punto netta è stata la posizione espressa dal segretario nazionale Giuseppe Moretti: “In questo contesto, i sogni e le fantasticherie dell’Amministrazione penitenziaria che, anziché adottare misure correttive concrete per il miglior funzionamento degli istituti penitenziari, con almeno il ripianamento della pianta organica del 2001, utilizza escamotages come la famosa “vigilanza dinamica” e dell’ardito patto di responsabilità”, non sembrano certo migliorare la precaria condizione, per l’assenza di contenuti di questo nuovo modello interpretativo di tutela e della sicurezza, degli istituti penitenziari”. E ancora: “Queste due creature di ultima generazione prevedono, da un lato, che il personale di Polizia Penitenziaria si debba sobbarcare la responsabilità e l’impegno della gestione di più posti di servizio durante un solo turno di lavoro (sorveglianza dinamica) e che ai detenuti, tra l’altro, si chiede di firmare un foglio di due pagine dove gli stessi dichiarano che si comporteranno bene durante la loro permanenza in carcere e lo Stato italiano gli conferisce il premio di sistemarli in più confortevoli carceri lasciandoli fuori dalle loro celle per quasi tutta la giornata (patto di responsabilità)”. L’UGL Polizia Penitenziaria - si legge in una nota - non è contraria ad un certo tipo di provvedimenti deflattivi della popolazione detenuta (ad esempio, quelli relativi ad un corretto svolgimento delle procedure di convalida degli arresti) ma chiede a gran voce che la pena si caratterizzi per la sua certezza , come diceva oltre tre secoli fa Cesare Beccaria. Al 31 maggio 2012, prosegue il segretario della Ugl - i detenuti presenti nei 206 carceri italiani risultano essere 66.487. La carenza d’organico del personale di Polizia Penitenziaria è toccata ad arrivare la soglia di 7mila unità mancanti, rispetto ad una pianta organica fissata con decreto ministeriale del 2001, quando i detenuti avevano raggiunto quota 45mila unità. Oggi, quindi, con 21.500 detenuti in più, il Personale di Polizia Penitenziaria deve assicurare (per legge) il mantenimento dell’ordine e della sicurezza interni agli istituti penitenziari con 7mila agenti in meno rispetto a quelli previsti (per legge). Le stime per il personale occorrente per il corretto funzionamento delle nuove strutture ammontano a 9mila unità di personale di Polizia Penitenziaria. Se a questi dati si aggiungono i mille poliziotti penitenziari che l’Ugl stima andranno in pensione, prima della strozzatura del cappio del mutato sistema previdenziale, ecco che il risultato sarà di meno 17mils unità di Polizia Penitenziaria. “Non si può assistere inermi alla solita campagna elettorale italiana di ogni estate - dice l’Ugl - che promette a chi ha commesso un reato che sarà rimandato a casa con indulti e amnistie dal sapore ferragostano, senza pensare a chi non ha commesso alcun tipo di reato come il poliziotto penitenziario e invece si trova in carcere scontando una pena che diventa ogni giorno sempre più lunga e sempre più definitiva, sia per il numero elevatissimo di ore di lavoro straordinario effettuate e non pagate sia perché, non considerando che esiste una legge dello Stato italiano che individua questo come una dei “lavori usuranti”, lo si costringe a correre dietro i delinquenti fino a 65 anni di età”. “Tutto questo è assurdo - conclude Moretti - e per contrastare tutto questo l’Ugl Polizia Penitenziaria cercherà di fare le barricate per restituire la dignità al lavoro di rappresentanti delle forze dell’ordine che svolgono una professione delicata e che ogni giorno, con l’impegno costante e silente, assicurano la legalità e la sicurezza nelle 206 carceri italiane”. Carini (Pd): i problemi delle Novate all’attenzione del garante regionale I problemi più urgenti e ancora irrisolti del carcere di Piacenza delle Novate sono stati portati all’attenzione delle commissioni Politiche per la salute e Statuto e regolamento, riunite in seduta congiunta, dal consigliere regionale piacentino del Pd Marco Carini. Tra i temi trattati, naturalmente quello del sovraffollamento, della carenza di agenti di custodia, ancora in numero insufficiente per far funzionare il nuovo reparto di osservazione psichiatrica, e l’esigenza di attivare gli spazi di incontro tra genitori e bambini. Nel corso della seduta è stata esaminata la relazione annuale della Giunta sulle carceri in Emilia - Romagna con il quadro della situazione degli 12 istituti penitenziari: confermato per Piacenza il dato di uno dei più alti indici di sovraffollamento d’Italia, con 187 presenze su 100 posti di capienza regolamentare. “Ho evidenziato alcune delle problematiche più urgenti delle Novate - spiega Carini - alla garante regionale delle carceri Desi Bruno. A Piacenza il sovraffollamento provoca un’applicazione ancora del tutto parziale della recente circolare ministeriale sulle celle aperte e costringe i detenuti a trascorrere 21 - 22 ore rinchiusi: con questa situazione è assai difficile impostare qualunque tipo di interventi riabilitazione”. “L’altro tema che ho posto riguarda l’attivazione degli spazi di incontro tra i genitori ei bambini: creare le condizioni per questa modalità di incontro sarebbe un segnale importante di umanizzazione delle relazioni all’interno della struttura, anche per dare seguito ad iniziative estemporanee avvenute in passato, come la giornata dei papà detenuti”. “Il tema della carenza degli agenti di polizia penitenziaria - fa notare - s’incrocia con la piena funzionalità del nuovo reparto per l’osservazione psichiatrica. Infine abbiamo ragionato della comunicazione e della sensibilizzazione all’esterno della realtà penitenziaria piacentina. Ci sono esperienze, come lo straordinario lavoro svolto dalla cooperativa sociale Futura o la redazione del giornale Sosta Forzata, di grande valore. Ma occorre fare di più anche con le scuole e le istituzioni culturali per cercare di ridurre la distanza tra il carcere e la città: temi che sottoporrò al garante locale dei carcerati Alberto Gromi in un prossimo incontro. Dal canto suo, la garante regionale Bruno si è impegnata a farsi carico in tempi rapidi di tutte le problematiche sollevate, alcune delle quali - ha rassicurato - sono in via di risoluzione”. Napoli: nel carcere femminile di Pozzuoli solo 60 poliziotte per sorvegliare 208 recluse di Gennaro Del Giudice Giornale di Napoli, 13 luglio 2012 “Nel carcere femminile di Pozzuoli le detenute sono costrette a stare a letto perché non c’è spazio per stare in piedi”. La denuncia - choc arriva dall’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) che nei giorni scorsi ha scritto al Presidente della Repubblica, al presidente del Senato e al presidente della Camera denunciando le precarie condizioni di detenzione alle quali sono soggette le recluse e per sensibilizzarli sulle “gravissime condizioni di lavoro del personale di polizia penitenziaria e in particolare del personale femminile del Corpo” nelle carceri italiane. Nella missiva viene citato anche il “caso - Pozzuoli”, il carcere di femminile di via Pergolesi che secondo il sindacato risulta essere tra le carceri italiane che hanno un rapporto poliziotte - detenute tra i più bassi del Paese. Infatti, nel carcere puteolano secondo in Italia per rilevanza, Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp e firmatario della missiva, denuncia la presenza di solo 60 poliziotte per 208 recluse. Un’esigua presenza di polizia penitenziaria alla quale si aggiunge la “grave fatiscenza dell’infrastruttura” e il “sovraffollamento della struttura” con celle piene a tal punto da costringere le detenute a stare a letto a causa della mancanza di spazio. “A Pozzuoli - continua Beneduci - dove il sindacato si è recato in vista di recente e come nella maggior parte delle sezioni e degli istituti destinate alle detenute, oltre alla grave fatiscenza dell’infrastruttura, si può parlare di vera e propria “detenzione da letto” per l’impossibilità di permanere all’impiedi nelle celle a causa del sovraffollamento”. Una denuncia, quella del segretario generale dell’Osapp, che accende i riflettori sulla realtà del carcere femminile di Pozzuoli già in passato al centro di polemiche e proteste. Livorno: nelle carceri di Porto Azzurro e della Gorgona manca l’assistenza sanitaria www.nove.firenze.it, 13 luglio 2012 Quanti fondi sono stati assegnati all’assistenza sanitaria in carcere, Asl per Asl, e quanti sono stati effettivamente utilizzati e come? C’è congruità fra la situazione che si verifica nelle carceri di Elba e Gorgona e le normative nazionali e regionali? Sono sostanzialmente queste le domande che i Consiglieri regionali del Pdl Marco Taradash e Stefano Mugnai (Vicepresidente della Commissione Sanità) rivolgono alla Regione Toscana. I due esponenti del Pdl intervengono così, attraverso un’interrogazione a risposta scritta, sulla “situazione di estrema gravità per quanto concerne l’assistenza sanitaria ai detenuti e al personale dei penitenziari di Gorgona e Porto Azzurro” di cui sono venuti a conoscenza tramite segnalazioni reiterate e circostanziate. In particolare, raccontano Taradash e Mugnai: “La direzione generale della Asl 6 di Livorno ha recentemente sollevato dal suo incarico il medico incaricato di Gorgona, dottor Leonessi, e ha affidato l’incarico al dottor Domenico Tiso, referente aziendale per i carcere, il quale espleta questa funzione da Livorno senza risiedere, come d’obbligo, all’isola di Gorgona. Nel maggio scorso - si legge ancora nell’interrogazione - l’unico medico incaricato del carcere di Porto Azzurro, isola d’Elba, Dr. Luciano Rossi, è andato in pensione e non è stato sostituito, tanto che la direttrice generale della Asl 6 dottoressa Monica Calamai ha affidato anche il coordinamento di Porto Azzurro (500 detenuti) allo stesso Dr. Tiso che, a quanto risulta, gestisce tutto da Livorno, senza risiedere in prossimità del carcere di Porto Azzurro”. Il fatto che il dottor Tiso non risieda in prossimità delle strutture penitenziarie è rilevante: “L’incarico di referente aziendale del dr. Tiso - spiegano infatti Taradash e Mugnai nel loro documento - appare incompatibile con quello di Coordinatore Sanitario di Gorgona e Porto Azzurro, poiché l’art. 15 della legge 740/70 recita che “Il medico incaricato deve risiedere nella sede ove è situato l’istituto o servizio cui è addetto. Tuttavia può essere autorizzato dal Ministero, per particolari motivi, sentito il direttore dell’istituto o servizio stessi, a risiedere altrove, quando ciò sia conciliabile col pieno e regolare adempimento di ogni altro suo dovere”. Conciliabilità che appare difficile da garantire quando il carcere sia su un’isola lontana dalla terraferma come Gorgona o distante da Livorno come l’Elba”. Stabilire come e quando sanare la questione ora spetterà alla giunta regionale a cui i due Consiglieri del Pdl nello specifico domandano “se siano state seguite con correttezza le normative regionali e statali” e “come e in che tempi si intenda porre rimedio a una situazione che appare del tutto incompatibile con l’assistenza sanitaria che la Asl 6 deve assicurare alla popolazione carceraria”. Non solo, perché Taradash e Mugnai chiedono di sapere dettagliatamente “quanti fondi sono stati stanziati per le aziende sanitarie alla luce della riforma della medicina penitenziaria e quanti risultano spesi o impegnati sulle carceri toscane, suddivisi per azienda sanitaria”. Rimini: l’On. Papa in visita al carcere; punte d’eccellenza… ma anche situazione sconvolgente www.newsrimini.it, 13 luglio 2012 Sovraffollamento, strutture fatiscenti, mancanza di assistenza sanitaria, impossibilità di attuare percorsi lavorativi di recupero dei detenuti. Questa mattina l’onorevole Alfonso Papa del Pdl e la sua collaboratrice Annalisa Chirico, hanno visitato il carcere di Rimini. La visita organizzata dall’associazione culturale Papillon. Presente anche la Papa Giovanni XXIII. C’è il reparto Andromeda, per gli attenuati, esempio d’eccellenza in Italia, ma c’è anche la prima sezione, che i detenuti chiamano ‘Bronx’. Attualmente nel carcere di Rimini ci sono 191 persone, la capienza è 120. 94 sono in carcerazione preventiva. La metà stranieri. In 12 in una cella in meno di 20 mq, finestre chiuse, condizioni igieniche indecenti, come nelle celle singole del reparto transessuali. Stamattina nel carcere di Rimini è entrato solo l’onorevole Alfonso Papa del Pdl Deputato del Pdl, quasi esattamente un anno fa finito nell’inchiesta sulla P4 e arrestato con l’accusa di corruzione, favoreggiamento e rivelazione di segreti d’ufficio. Papa ha passato 103 giorni in carcere a Poggio Reale. Rilasciato, ha cominciato la sua battaglia che oggi ha fatto tappa a Rimini: “Devo dire che Rimini rappresenta un caleidoscopio della situazione italiana. Siamo stati accolti in maniera molto cordiale - ha detto il deputato Pdl - ma accanto ad esempi d’eccellenza, ho visto cose sconvolgenti. Ho visto persone costrette a defecare nelle celle, in particolare sono rimasto sconvolto dalla sezione transessuali. La mia è una battaglia personale ma anche di tutto il Popolo delle Libertà affinché il governo s’impegni a cambiare la legge sulla carcerazione preventiva e sull’amnistia”. In Italia non c’è la pena di morte ma in Italia di carcere e in carcere si muore. E non solo i detenuti. non bisogna dimenticarsi infatti che il dramma dei suicidi riguarda anche le guardie penitenziarie. Nel carcere di Rimini 200 persone sono morte dal 2000. Sono rimaste chiuse le porte dei Casetti per i rappresentanti della Papa Giovanni xxiii di don Benzi e dell’associazione Papillon che però conoscono bene la realtà riminese: “sappiamo che la prima sezione andrebbe chiusa per le condizioni indecenti in cui versano i detenuti” ha detto Claudio Marcantoni, presidente associazione papillon Rimini. Al carcere di Rimini il wc è in mezzo alla cella (Il Giornale) Forse non sarà il peggiore d’Italia ma sicuramente è l’unico carcere, tra quelli visitati fin qui dal deputato Alfonso Papa nel suo giro d’Italia tra le sbarre, dove la promiscuità forzata è spinta fino al punto più abbruttito e inverosimile: i bisogni si fanno davanti a tutti. Rimini… e vengono in mente le file di ombrelloni, la movida delle notti bianche, l’Adriatico placido e verde, il divertimentificio più lungo d’Italia. Ma c’è una strada che si chiama Santa Cristina e dal centro della città va verso l’interno, verso le campagne coltivate a pesche e viti. E qui c’è il carcere. Nelle serate di vento, si può sentire l’odore del mare. Ma nelle celle della prima sezione del carcere di Rimini quell’odore non lo possono sentire. Perché è sopraffatto dall’odore dei corpi, del sudore di uomini pigiati insieme uno sull’altro. E, quel che è peggio, dall’odore dei loro scarichi. Benvenuti nel carcere di Rimini. Forse non il peggiore dei carceri d’Italia, soprattutto nelle due sezioni rimodernate. Ma sicuramente l’unico carcere, tra quelli visitati fin qui dal deputato Alfonso Papa nel suo giro d’Italia tra le sbarre, dove la promiscuità forzata è spinta fino al punto più abbruttito e inverosimile. Per le loro necessità fisiologiche i detenuti non hanno un gabinetto, non hanno un angolo che separi almeno la loro vista - se non gli odori e i rumori - da quella dei compagni di cella. No. La tazza è in un angolo della cella, accanto alle brande. Quando scappa, il detenuto si siede. I compagni di cella un po’ si girano, un po’ fanno finta di niente, un po’ - perché alla fine l’essere umano riesce ad abituarsi a quasi tutto - scherzano e chiacchierano. Un’abitudine forzata alla convivenza che non cancella l’assurdità, il disprezzo per l’essere umano sottintese ad un simile trattamento. Alfonso Papa ha conosciuto di persona, e da detenuto, una delle facce peggiori dell’universo carcerario italiano, la prigione napoletana di Poggioreale. Ce lo chiusero l’anno scorso di questi tempi, il 20 luglio, col voto favorevole della Camera, per l’accusa di concussione per l’inchiesta P4. Lo scarcerarono alla fine di ottobre. Una settimana dopo, la Cassazione stabilì che in cella non ci sarebbe dovuto mai finire. Da allora, Papa si è dedicato a tempo pieno alla causa dei detenuti, soprattutto a quelli in attesa di giudizio. Ha visto prigionieri eccellenti come Lele Mora e disperati senza nome e senza avvocato. Non si impressiona facilmente. Ma ieri, quando esce dal carcere romagnolo insieme a Claudio Marcantoni dell’associazione Papillon, nella sua voce si sente l’indignazione: “Se in Italia fosse stato ratificato il reato di tortura, questo ne sarebbe l’esempio più lampante”. Il carcere di Rimini è, cronologicamente parlando, un carcere moderno: anno di nascita 1972, nel pieno dell’emergenza carceri. Costruito con tutti i crismi dalla tangente e del lavoro malfatto, vent’anni dopo cadeva già a pezzi. Oggi due sezioni sono state ristrutturate, e sono posti civili. Un piccolo reparto a custodia attenuata è un esperimento avanzato e dal volto umano. Ma una intera sezione, la seconda, è stata chiusa per cause di forza maggiore, “perché non c’erano le condizioni minime di vivibilità e di decoro”, spiega Papa. E vengono i brividi a pensare che dovesse essere, se invece viene tenuta aperta la prima sezione, quella dei cessi in piena cella. Non bisogna pensare, oltretutto, che il sordido rito delle deiezioni in pubblico avvenga tra pochi intimi. Nelle celle della prima sezione ci sono celle da quattro persone che ne ospitano dodici. A turno si alzano dalla branda, a turno si sgranchiscono le gambe. A turno si siedono sulla tazza. E se qualcuno riesce a essere così bestia da pensare “ben gli sta”, e che anche fare i bisogni davanti a tutti faccia parte delle punizioni che uno Stato può infliggere, Papa ricorda che “anche nel carcere di Rimini più della metà dei detenuti, 90 su 193, è in stato di custodia cautelare. Non hanno avuto una condanna definitiva, quindi per la nostra Costituzione sono innocenti”. Cagliari: Sdr; aggravato disabile cardiopatico detenuto a Buoncammino Ristretti Orizzonti, 13 luglio 2012 “Si sono ulteriormente aggravate e destano molta preoccupazione le condizioni di salute di A.P. 66 anni, detenuto nel Centro Diagnostico Terapeutico di Buoncammino. L’uomo, originario di Suelli, con un grave handicap motorio che lo costringe su una sedia a rotelle, è in sciopero della fame da circa 2 mesi per protesta. Affetto da vascolopatia cerebrale e da cardiopatia manifesta una incapacità di rendersi conto dei rischi per la sua vita”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che ha effettuato alcuni colloqui con il cittadino privato della libertà ristretto nella Casa Circondariale cagliaritana dallo scorso mese di gennaio”. L’istanza di differimento pena, presentata dal legale Amedeo Meloni al Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, lo scorso mese di aprile, è ancora senza esito. Secondo i medici di Buoncammino, che hanno segnalato più volte il caso, le condizioni del detenuto consiglierebbero una misura alternativa alla restrizione in ambiente carcerario. L’uomo, che si trovava in differimento pena da un anno, era tornato in carcere l’11 gennaio 2012 in seguito a una perizia con la quale si attestava il miglioramento delle condizioni di salute. Le attuali condizioni, con una perdita di peso di circa 27 chilogrammi (pesava 87 chili attualmente 60), gli rendono quasi impossibile lasciare la branda della cella. Dal 4 luglio, data dell’ultimo rilevamento del peso, rifiuta le prestazioni mediche. “È evidente che una persona anziana con gravi patologie irreversibili non può stare in una struttura penitenziaria. Ciò nonostante il costante monitoraggio, effettuato dai medici e dagli infermieri, e l’impegno e la sensibilità degli Agenti della Polizia Penitenziaria. Occorre, in considerazione delle evidenti condizioni di salute, un atto di umanità concedendo all’uomo gli arresti domiciliari. La pena non può consistere in trattamenti disumani e tenere una persona reclusa con patologie gravi si configura come una violazione del principio costituzionale. Parma: mio padre è molto malato e sta morendo in carcere… Gazzetta di Parma, 13 luglio 2012 “Ogni giorno che passa, ogni ora, ormai sono di troppo. Se si aspetterà ancora mio padre potrebbe morire in carcere”. Il figlio di A.P., detenuto da qualche tempo nel carcere di via Burla parla con tono concitato: “non c’è tempo da perdere, non aggiungiamo il nome di mio padre a quello dell’ennesimo morto in carcere”. Un appello straziante reso più doloroso dalle foto dell’uomo recluso da più di una decina di anni e con una lunga pena da scontare. Ma ormai distrutto nel corpo e nello spirito. “Dal 1996 al 2008 mio padre è stato scarcerato sette volte per incompatibilità tra la sua condizione fisica e il regime carcerario fino a quanto, nel 2008, ha raggiunto i 38 chili di peso e, per questo, ne è stato deciso il trasferimento agli arresti domiciliari. Questo beneficio è durato sino al 6 dicembre 2011 quando è stato nuovamente internato a Secondigliano. E da li è cominciato il nostro calvario”. L’uomo infatti, nonostante sia stato descritto da uno specialista di psichiatria forense in una perizia di parte come “affetto da psicosi cronica atipica con atteggiamento autistico e tendenza all’anoressia mentale” è stato negli ultimi mesi spostato in diverse case di reclusione: da Opera a Parma e quindi all’Ospedale Psichiatrico giudiziario di Livorno. E ora di nuovo a Parma. “Queste continue traduzioni ci impediscono di attivare la procedura per ottenerne il ritorno ai domiciliari: non abbiamo tempo di poter mandare un avvocato a discutere con il giudice di sorveglianza che mio padre viene trasferito in un altro carcere”. Esigenze che il figlio sottolinea sono in contrasto con il peggioramento ulteriore delle condizioni di salute dell’uomo che deve fare i conti oltre che con un fine pena fissato al 2028 con il suo corpo devastato. “Che mio padre stia male lo certifica il fatto che è stato riconosciuto invalido civile al 100% con indennità di accompagnamento da parte dell’Inps - prosegue il figlio - mentre la perizia di parte lo definisce come “disorientato nel tempo e nello spazio, estremamente balbuziente nelle poche parole incomprensibili che tenta di dire e non in grado di deambulare autonomamente”. Un quadro in effetti difficilmente conciliabile con i limiti della assistenza in una cella come peraltro ribadito nell’ultima perizia. “Ecco perché chiediamo che si faccia qualcosa per mio padre: l’unica cosa che può rendere meno drammatiche le sue condizioni è trovarsi in un contesto familiare, tra persone che conosce e riconosce. Per questo speriamo che i responsabili decidano velocemente e consentano i domiciliari. ma si deve fare presto: ogni giorno o ogni ora che si aspetta può essere fatale per mio padre”. Spoleto (Pg): Sdr, ergastolano di Nuoro chiede inutilmente da 8 anni trasferimento in Sardegna Ristretti Orizzonti, 13 luglio 2012 “Il mancato rispetto del principio della territorialità della pena costituisce un fattore discriminante per i detenuti sardi. Penalizza affettivamente le loro famiglie, impone un dispendio di energie fisiche e un peso economico non indifferente. È una pratica del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non più accettabile specialmente quando la situazione è ancora più difficile per l’età e per le condizioni di salute dei cittadini privati della libertà e dei loro parenti”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” ricordando, tra gli altri, il caso di Mario Trudu, in carcere da 32 anni. “ È assurdo - sottolinea - che dopo 8 anni di continue richieste, non abbia ancora avuto esito positivo il suo trasferimento in una struttura penitenziaria dell’isola, in particolare a Nuoro. Mario Trudu, ergastolano, arzanese di 62 anni, attualmente ristretto nella Casa di Reclusione di Spoleto, ha inoltrato l’ennesima domanda di trasferimento nel mese di settembre 2011. Ha invece ottenuto dal Dap di fruire tra aprile e maggio di un mese di permanenza a Badu e Carros in quanto non vedeva la sorella ammalata dal 2004. La presenza a Nuoro di quattro settimane si è risolta quasi in una beffa non essendo riuscito con le poche ore a disposizione neppure ad effettuare un colloquio con tutti i parenti più stretti avendo anche per la limitazione di poter incontrare non più di tre familiari per volta”. “Nel sollecito, inviato all’Ufficio Centrale dei Detenuti del Ministero della Giustizia, Trudu ricorda di aver corredato la domanda di trasferimento con l’ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza di Perugia invita il Dap a “adottare ogni provvedimento amministrativo necessario a tutelare l’esigenza di regolari colloqui con i familiari”. Sorprende quindi da un lato la scarsa considerazione in cui è stato tenuto il dispositivo dei Magistrati e dall’altro anche il poco peso che viene attribuito ai costi delle traduzioni. È evidente infatti che la pratica dell’andirivieni aggrava i costi dello Stato ai danni - conclude Caligaris - dei cittadini. Risulta poi inspiegabile l’accanimento verso alcuni cittadini privati della libertà a cui non sembra siano riservati trattamenti ispirati all’umanità come recita l’articolo 27 della Costituzione”. Lazio: detenuta tenta il suicidio tagliandosi le vene dei polsi e la trachea con una lametta Adnkronos, 13 luglio 2012 Ha tentato di togliersi la vita tagliandosi le vene dei polsi e la trachea con una lametta, ma è stata salvata dal tempestivo intervento delle altre detenute, degli agenti di polizia penitenziaria e dei sanitari del carcere. Dopo essere stata soccorsa, è stata subito trasferita in Ospedale. Protagonista di questa vicenda, la seconda in pochi giorni all’interno delle carceri del Lazio, una detenuta italiana 30enne reclusa nel carcere di Rebibbia Femminile. A segnalare l’accaduto è stato Angiolo Marroni, Garante dei detenuti del Lazio. Secondo quanto riferito ai collaboratori del Garante, questa mattina la donna ha chiesto di poter fare una doccia ma, una volta all’interno del locale, si è chiusa la porta alle spalle e si è ferita più volte con una lametta da barba. Ad accorgersi di quanto stava accadendo sono state le compagne di cella che hanno subito dato l’allarme. “Alla fine di giugno a Viterbo un detenuto romeno tentò di togliersi la vita in circostanze analoghe ed anche quella volta solo per un caso non finì in tragedia - ha detto il Garante, Angiolo Marroni - ma la professionalità degli operatori e la solidarietà mostrata dalle altre detenute non può farci dimenticare che nelle carceri del Lazio si vive una situazione estremamente critica. L’estate è un periodo particolarmente delicato per i detenuti. Il gran caldo, il sovraffollamento e la riduzione delle attività rendono insopportabile la vita all’interno delle celle. In questa situazione non è purtroppo infrequente che le persone più deboli dal punto di vista psicologico vedano, in un gesto disperato, la soluzione a tutti i loro problemi”. Firenze: “gravi irregolarità” nei corsi per i detenuti, in quattro nel mirino della Corte dei conti La Repubblica, 13 luglio 2012 “Gravi irregolarità” nella organizzazione e nella gestione dei corsi di studio per detenuti che l’Istituto professionale Sassetti Peruzzi tiene all’interno del carcere di Sollicciano. È quanto sostiene la procura regionale presso la Corte dei Conti, che ha chiesto la condanna per danno erariale di due dirigenti del carcere addetti all’area educativa e di due dirigenti scolastici che si sono succeduti alla guida dell’Istituto Sassetti Peruzzi. Secondo la procura, il danno patrimoniale causato al Ministero della Istruzione è pari a 852 mila euro. Ieri si è tenuta l’udienza pubblica, durante la quale accusa e difesa si sono confrontate. La procura regionale, che si è mossa sulla base di una serie di rapporti dell’Ufficio scolastico regionale cui sono seguite indagini della Guardia di Finanza, contesta sia le indicazioni sugli iscritti (che sarebbero decisamente superiori rispetto al numero effettivo dei detenuti che hanno frequentato i corsi), sia il mancato controllo dei requisiti necessari per l’iscrizione: in particolare mancherebbero, secondo le accuse, sia i certificati relativi ai titoli di studio posseduti dai detenuti - studenti, in maggioranza stranieri, sia adeguate verifiche dei loro livelli di scolarità pregressa. Secondo la procura, non possono essere sufficienti le autocertificazioni e “il più grave aspetto di irregolarità/illegittimità” della procedura sarebbe costituito proprio dal mancato possesso o comunque dalla mancata documentazione di un idoneo titolo di studio di scuola media inferiore e della pregressa carriera scolastica. I verbali di colloquio per l’ammissione risultano talvolta firmati da un solo docente, talvolta senza firma e anche senza data. E se gli iscritti agli anni scolastici 20072008, 2008 - 2009 e 2009 - 2010 risultano rispettivamente 54, 69 e 67, e su tale base sono state costituite le classi e retribuiti gli insegnanti, un controllo eseguito dalla Finanza il 3 febbraio 2010 ha rilevato la presenza di 2 allievi nell’aula della III classe, di 6 in quella della II e di 5 nell’aula della I. La difesa ha ribattuto che i corsi sono stati regolarmente tenuti, che la stessa normativa sulla istruzione scolastica nelle carceri raccomanda una particolare flessibilità e che sono particolarmente difficoltosi sia l’accertamento dei livelli di scolarità pregressa, visto che molti detenuti sono stranieri, sia la previsione della effettiva frequenza alle lezioni degli iscritti, che possono essere trasferiti o affidati in prova. La corte renderà note le decisioni fra alcune settimane. Bologna: ecco il coro dei detenuti della Dozza.. la musica ti fa evadere dalle celle di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 13 luglio 2012 Si chiama “Papageno”, è un progetto della direzione del carcere e dell’Orchestra Mozart e coinvolge 8 detenute e 20 detenuti, italiani e stranieri. A novembre ci sarà la “prima” davanti a un pubblico esterno. Attaccano i baritoni e i bassi, in maglietta e bermuda, con Alì con gli scarponi ai piedi, perché in questa torrida estate “non ha altro da mettere”. Poi, al cenno del maestro, si inseriscono i tenori. “Io parto per l’America, parto sul bastimento. Io canto e son contento di non vederti più”. Speranze, voglia e necessità di lasciarsi il passato alle spalle, il sogno di un futuro altrove. Carcere della Dozza, sezione penale, piano terra. La musica deborda dalla cappella affacciata sul cortile per le ore d’aria, un campo da calcio spelacchiato, detenuti a torso nudo che vanno avanti e indietro sotto il sole e usano bottiglie piene d’acqua per allenare i muscoli delle braccia. In semicerchio di fronte all’altare di legno, su cui è poggiata la tastiera, le “voci dentro” provano le canzoni del repertorio, dopo dieci minuti di ginnastica per i polmoni e altri dieci di riscaldamento delle corde vocali. “Io parto per l’America” è una passeggiata. “A round of three country dances” mette allegria. “Rumelaj” aggiunge ritmo e tamburelli. Il difficile arriva con il latino e con le asperità cromatiche di “Ave Verum Corpus”, composto da Mozart poco prima di morire, opera K618. “Non è da primo anno - riconosce il maestro - ma ci farà bene studiarlo”. Da ottobre - grazie alla sinergia tra l’Orchestra Mozart, la direzione dell’istituto e una squadra di volontari e volontarie - nel carcere di Bologna c’è un coro polifonico, “il primo in Italia per uomini e donne”, sottolineano dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Si chiama Papageno, come il celebre e simbolico protagonista de “Il flauto magico”, personaggio inizialmente codardo e bugiardo e poi saggio e di buon cuore. È il “mettersi in gioco partecipando a un progetto collettivo, con aspetti educativi e sociali sottesi all’appartenenza a un gruppo” cementato da obbiettivi condivisi. Venti detenuti - italiani e stranieri, giovani e meno giovani, definitivi e in attesa di giudizio - due volte la settimana lasciano le celle e le altre attività, si raccolgono nella stanza destinata al culto cattolico e si esercitano, aiutati dai “rinforzi” esterni. A orari sfasati provano anche le otto compagne di avventura del femminile. Repertorio consolidato e partiture nuove. Brani classici. Canzoni popolari italiane e straniere. “Shalom”, per chiudere le sessioni di prova e salutarsi. Una volta al mese uomini e donne cantano insieme per sincronizzare le voci e le parti imparate separatamente, a distanza, con la promiscuità che resta ancora un tabù. A dirigerli, dopo aver insegnato loro a leggere uno spartito, a contare le battute, a capire la differenza tra un sol diesis e un sol bequadro, è un paziente professionista quarantenne, Michele Napolitano, anima e motore di altri cinque cori cittadini. Non ha bisogno di dirlo. Si vede. I detenuti lo sentono a pelle. Questo per lui è più che un lavoro. È scommessa, umanità, crescita, scambio, fatica, soddisfazione, sperimentazione. “Quando abbiamo cominciato - racconta la direttrice dell’istituto, Ione Toccafondi - c’era abbastanza scetticismo. Ma ci abbiamo creduto e abbiamo vinto la sfida, in un percorso che porterà ancora più lontano. A giugno è andato in scena un concerto, applauditissimo, per il pubblico interno. A novembre pensiamo di organizzare una esibizione aperta alla cittadinanza, a ospiti esterni”. Per questo, “diligenti, costanti e concentrati”, coristi e coriste cercano di non perdersi nemmeno una prova. “La musica - spiega il perché Marilena, 28 anni, bandana, tatuaggi e l’entusiasmo scritto nel sorriso - ti porta fuori da qui. Io cantavo da piccola, quando ero negli scout, e strimpello la chitarra. Mi sono buttata nel coro per scelta, non tanto per fare. E guardo avanti. Ho già detto al maestro che voglio proseguire quando uscirò, l’anno prossimo, magari in uno degli altri gruppi che lui segue”. Marco, fine pena nel 2035, ha scoperto a 56 anni che il canto polifonico può cambiare la vita. “Sono sempre stato intonato, però non avevo mai studiato musica. All’ispettore che girava per i reparti, cercando volontari per il Papageno, ho detto di sì. Con i tagli dei fondi, dentro riesco a lavorare solo part-time, come tutti. Un mese sì e un mese no. Pensavo di riempire un po’ tempo. Poi ci ho preso gusto. Venire al coro non è un pretesto per passare le ore, è molto altro. C’è più allegria. Sono migliorati i rapporti personali. E chi non partecipa, apprezzati i risultati, ha smesso con gli sfottò”. Mesi fa, lo esemplifica il maestro, alcuni allievi - detenuti non si sarebbero salutati incrociandosi in corridoio. “Adesso si siedono fianco a fianco”. Domenico, 39 anni e quasi cinque ancora da scontare, conferma: “Siamo più coesi. La musica tende a includere, porta a galla le capacità dei singoli, le moltiplica. E rappresenta un modo per “evadere” da questo posto”, lontano mille chilometri dalle sue origini e dai suoi affetti. Lui è l’unico con esperienze musicali alle spalle, studente autodidatta dopo l’approccio con il pianoforte alle scuole medie e la folgorazione giovanile per Bach. Nicola, Ilir e compagni sono stati contagiati dietro le sbarre. “Prima non avevamo alcun interesse per il canto, non ci sentivamo portati. Abbiamo scoperto il contrario, superando lo scetticismo dei nostri familiari”. Ornella e Giovanna, le voci esterne che alle prove supportano quelle interne, per raccontare del Papageno prendono in prestito una frase di José Antonio Abreu, il rivoluzionario educatore venezuelano: “Cantare in un coro è molto più che studiare la musica. Significa entrare in una comunità che si riconosce come interdipendente e persegue insieme uno scopo. È un formidabile mezzo di relazione che ti coinvolge a livello intellettuale, emotivo e fisico”. Droghe: il Pg di Firenze Deidda; sì alla liberalizzazione, per controllare qualità e prezzi Ansa, 13 luglio 2012 “Una cauta liberalizzazione farebbe calare il consumo delle droghe leggere”. È questa l’opinione di Beniamino Deidda, procuratore generale di Firenze, intervenuto a “24 Mattino” su Radio 24 sul dibattito rilanciato di recente. “Nessuno ha mai consumato alcol in America come quando è stato proibito - ha aggiunto Deidda. La capacità della criminalità di diffondere i consumi è molto maggiore di quella che il mercato, con le sue virtù intrinseche, potrebbe fare. Tutto ciò che è illegale e proibito ha qualche fascino”. Deidda ha detto di essere favorevole a “una progressiva e cauta depenalizzazione da un lato e liberalizzazione dall’altro. Controllare il mercato significa anche controllare la qualità della droga, cioè garantire ai consumatori che non saranno vittime di qualità scadenti di droghe. La qualità è controllata oggi soltanto dai trafficanti. I quali hanno mano libera senza che nessuno possa seriamente intervenire”. Per Deidda questo argomento in Italia è tabù perché “c’è un po’ di fariseismo e l’ideologia prevale su una serena valutazione dei fatti. E quando i fatti vengono costretti nelle maglie delle ideologie non si va lontanissimo. Io vorrei abbandonare il piano dell’etica. C’è un secondo inevitabile effetto del proibizionismo ed è la lievitazione dei prezzi. Così i più deboli, quelli privi di risorse, sono costretti a procurarsi il denaro con mezzi illeciti. Aumentano i furti, aumenta la piccola criminalità. Il fenomeno si ridurrebbe se il mercato fosse controllato e i prezzi contenuti”. Nel suo intervento a Radio 24 Deidda ha precisato di parlare a titolo personale perché “la legge oggi è quella che è e i magistrati hanno il dovere di applicarla nella maniera più scrupolosa possibile. Ma mi limito a notare che le norme vigenti non sono state in grado di impedire il prosperare delle droghe. Abbiamo le carceri piene di piccoli e piccolissimi spacciatori, e sappiamo che uno spacciatore arrestato viene subito sostituito da un altro. Finora il divieto generalizzato non ha prodotto gli effetti sperati”. Deidda ha detto che la liberalizzazione dovrebbe essere “accompagnata dalla prevenzione con l’educazione. Bisogna incidere sulle cause che inducono il consumo di droghe, cioè esattamente quello che finora non si è fatto”. Infine alla domanda del conduttore di Radio 24 Alessandro Milan se abbia mai provato una canna Deidda ha risposto: “No, ma solo perché non ho tempo durante la giornata”. Birmania: detenuti 10 operatori dell’Onu e di Ong come Medici Senza Frontiere Ansa, 13 luglio 2012 L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati Antonio Guterres ha affrontato il caso dei dieci operatori di organizzazioni internazionali detenuti in Birmania con il presidente birmano Thein Sein, durante la sua visita ieri nel paese asiatico. “Nei suoi incontri con le autorità, l’Alto commissario ha chiesto chiarimenti sulle accuse” mosse contro di loro ed ha chiesto che l’Onu possa avere accesso agli impiegati detenuti, ha detto la portavoce dell’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifulgiti) Melissa Fleming. “Speriamo che tali richieste siano ascoltate”, ha aggiunto precisando di non avere maggiori dettagli sulle imputazioni. Secondo una nota dell’Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha) del 5 luglio, si tratta di 10 impiegati dell’Onu e di organizzazioni non governative internazionali detenuti dalle autorità dello stato di Rakhine, teatro di recenti scontri settari. Tra i dieci anche tre “impiegati locali dell’Unhcr”, ha detto Fleming. Nel gruppo figurerebbero inoltre operatori di Medici senza frontiere (Msf) e del Programma alimentare mondiale (Pam).