Giustizia: l’ergastolo “ostativo” è una strada senza via d’uscita di Nello Scavo Avvenire, 12 luglio 2012 Circa un centinaio i carcerati cui è stata inflitta questa irreversibile punizione. Associazione mafiosa e reati favoriti dall’ambiente mafiogeno le accuse che prevedono il ricorso a una misura da cui sono esclusi solo i pentiti. “Morto che parla”, ironizza amaramente una voce da dentro una cella. Sono gli “ergastolani ostativi”. Murati vivi perché, a giudicare dal regime carcerario che gli è imposto, essi sono il peggio, la feccia, i “mostri” a cui non deve neanche essere concesso di poter sperare, un giorno, di scoprirsi finalmente cambiati e meritevoli di un’altra possibilità. Perciò, espulsi per sempre dal consesso umano. Non tutti sanno che nel nostro Paese coesistono l’ergastolo ordinario e quello ostativo ai benefici. Il primo concede al condannato la possibilità di usufruire di permessi premio, semilibertà o liberazione condizionale, tanto che la grande maggioranza dei 1.546 ergastolani rimarranno in cella per non più di ventisei anni, quando scatta la possibilità della cosiddetta “liberazione anticipata”. Il secondo, al contrario, nega fin dalla sentenza e in modo perpetuo ogni vantaggio penitenziario. Nessuna redenzione. Nato negli anni 90, quale muscolare risposta dello Stato alla guerra dichiarata da Cosa nostra con le stragi di Capaci, Via d’Amelio, e poi le bombe di Milano, Roma e Firenze, l’ergastolo ostativo è la pena prevista per tutti gli imputati condannati per associazione mafiosa o per reati assimilabili, cioè favoriti dall’ambiente mafiogeno. Una definizione che si rivelerà ambigua. Sono circa un centinaio i re -elusi rassegnati all’idea di uscire di prigione solo a bordo di un carro funebre. Ma non tutti sono “mafiosi” così come li intendiamo di solito. “Un rapinatore preso in flagrante a Scampia viene giudicato secondo criteri di contiguità ambientale alla camorra - osserva Carlo Fiorio, docente di Procedura penale all’Università di Perugia, mentre lo stesso reato commesso a Trento viene inquadrato in modo differente e meno rigido”. Per effetto di alcune norme anche ammettere la propria colpa, ma tacere le responsabilità altrui, è causa di ergastolo perenne. “Il dettato costituzionale è chiaro, quindi se l’ordinamento non prevede la possibilità di uscire dal carcere a condizioni raggiungibili, la pena dell’ergastolo va contro l’articolo 27 della Costituzione”, ha detto Valerio Onida, presidente della Corte Costituzionale dal 1996 al 2005, in una riflessione apparsa sull’ultimo numero della rivista del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Le Due Città. Gli “ostativi”, dunque, sono colpevoli due volte: per aver commesso un reato e per non aver cooperato alle indagini. “Alle volte la scelta di collaborare o no con la giustizia può non dipendere esclusivamente dall’individuo - arguisce Onida. Non si può generalizzare perché le fattispecie sono tantissime”. Ci sono detenuti che tacciono perché questo potrebbe significare mettere a repentaglio la vita dei loro cari, “oppure perché non hanno modo di collaborare, non hanno informazioni, o altro. Alle volte quindi la mancata collaborazione non dipende dalla volontà dell’individuo”. Fatti i dovuti calcoli “questo significa che, anche dopo 26 anni, risulta impossibile concedere la libertà condizionata, come invece avviene per gli altri detenuti che scontano l’ergastolo”. La storia simbolo è quella di Carmelo Musumeci, capo di una banda di biscazzieri-rapinatori-spacciatori catanesi attivi in Versilia. Entra in carcere vent’anni fa ma, secondo le sentenze, si rifiuta di fare il nome di un complice. Nell’automobile usata per compiere un delitto (Musumeci è stato giudicato colpevole di omicidio in qualità di mandante) vengono rinvenuti quattro passamontagna. Gli inquirenti di banditi ne acciufferanno solo tre, manca il quarto. Secondo la difesa, però, questi non esisterebbe, semplicemente perché quel copricapo sarebbe stato solo “di scorta”. Comunque siano andate le cose, Musumeci si ritrova prima rinchiuso all’Asinara. Ci arriva che aveva la quinta elementare. Pur non essendo mai uscito dal carcere, attualmente a Spoleto, si è diplomato, laureato in Giurisprudenza e pubblicato testi anche per Mondadori. Il profilo tracciato dagli operatori carcerari racconta di un detenuto esemplare, un uomo che non ha niente a che fare con il ragazzo scapestrato degli anni 80. Al momento della sentenza venne giudicato “ostativo”. E tanto è bastato a gettar via la chiave della sua cella. In vigore dal 1992 in risposta alle stragi di Cosa nostra L’ergastolo ostativo ai benefici è una pena “senza fine” che in base all’art 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, nega ogni misura alternativa al carcere e ogni beneficio penitenziario ai chi è stato condannato per reati associativi. Per meglio comprendere la questione bisogna avere presente la legge 356/92 che introduce nel sistema di esecuzione delle pene detentive una sorta di doppio binario. Per taluni delitti ritenuti di particolare allarme sociale, il legislatore h; previsto un regime speciale, che esclude dal trattamento “extra murario” i condannati, a meno che questi collaborine con la giustizia. Per questo motivo molti ergastolani non possono godere di alcun beneficio penitenziario e di fatto sono condannati a morire in carcere. Ostativo vuol dire che è negato ogni beneficio penitenziario: permessi premio, semilibertà, liberazione condizionale, a meno che non si collabori con la giustizia per l’arresto di altre persone. Ogni progresso nella condotta del detenuto, dalle attività formative a quelle rieducative, non contribuisce in alcun modo ad un alleggerimento del regime detentivo. In Europa, a parte l’Italia, non esiste l’ergastolo come condanna perpetua. La pena è soggetta a riesame periodico: Gran Bretagna 20-25 anni; Grecia 20 anni; Francia 5 anni; Germania 5 anni; Austria 14 anni; Svizzera 14 anni; Olanda 14 anni; Norvegia 2 anni; Danimarca 10-12 anni; Belgio 10-14 anni; Cipro 10 anni; Irlanda 7 anni; Islanda nessun ergastolano; Portogallo e Spagna non esiste l’ergastolo. Luciano Eusebi: una legge non costituzionale La disciplina normativa manifesta risvolti particolari e drammatici nel caso di condanna all’ergastolo: si verrebbe infatti a configurare l’unica ipotesi, nell’ordinamento penale vigente, in cui l’ergastolo risulterebbe insuscettibile di permettere non soltanto il fine pena, ma addirittura qualsiasi mutamento del regime di esecuzione”. Luciano Eusebi, docente di Diritto Penale alla Cattolica di Milano, è uno tra i giuristi che vorrebbero riaprire il dibattito sul tema dell’ergastolo, e in particolare di quello “ostativo”. Professore, ammetterà che stiamo parlando di protagonisti di crimini gravissimi. Non si trascura certamente la gravità dei delitti ricompresi nella norma in questione e per i quali sia stata inflitta una condanna all’ergastolo, né si discute dell’esigenza di valutare, ai fini della concessione di determinati benefici, l’atteggiamento del detenuto verso il patto di fedeltà che lo abbia legato a una data organizzazione criminosa. Ciò che viene in considerazione, piuttosto, è l’impossibilità, derivante dalla richiamata lettura dell’impianto normativo, di operare un qualsiasi giudizio rilevante per il diritto circa gli eventuali percorsi risocializzativi dei condannati all’ergastolo i quali non abbiano “collaborato”. Anche se un’auspicabile interpretazione della legge 94/2009 potrebbe aprire all’applicabilità di alcuni, almeno, fra quei cosiddetti benefici. Perché la costruzione normativa così come s’è applicata finora non la convince? La presunzione di non avvenuta rieducazione per il mero persistere della condotta “non collaborante” è in palese contrasto col rilievo che dev’essere attribuito al conseguimento del fine rieducativo della detenzione (art. 27, comma 3 della Costituzione). Ciò tanto più nel caso in cui la scelta di non collaborare sia riferita a vicende criminose ormai del tutto concluse nel tempo e abbia la motivazione del non guadagnare opportunisticamente propri vantaggi, con la privazione della libertà di persone non più legate a quelle attività criminose. Oppure, quando la non collaborazione sia ricollegabile al pericolo concreto di ritorsioni irrimediabili verso i familiari dell’eventuale dichiarante. Cos’altro non va? È incomprensibile la disparità di trattamento in rapporto alle normative che solo pochi anni orsono attribuirono rilievo premiale - senza esigere alcuna collaborazione di giustizia - a condotte di dissociazione da attività criminose (e in particolare dal terrorismo). Peraltro, prese di posizione dissociative credibili potrebbero essere riscontrate anche tra condannati all’ergastolo “non collaboranti”. Del resto non favorire, rendendoli irrilevanti per il detenuto, percorsi di effettiva rottura con l’attività criminale non giova alla prevenzione. Messa così, non le sembra una sofisticata tortura psicologica per costringere il detenuto a vuotare il sacco? Ribadisco che non potrà mai ritenersi costituzionalmente ammissibile un regime giuridico che annulli gli effetti di una rieducazione effettivamente realizzatasi. Che d’altra parte l’attività collaborativa non costituisca necessariamente un indizio di avvenuta rieducazione (e, pertanto, non risulti indispensabile a quel fine) viene riconosciuto dalla stessa suprema Corte. Altro, comunque, è premiare la collaborazione, altro è sanzionare la “non collaborazione”. C’è poi un altro aspetto con risvolti drammatici. Quale? Il fatto che la disciplina per questo tipo di ergastolo finirebbe per presupporre in modo implicito un ordinamento penale il quale sia esente, senza eccezione, da errori giudiziari, come invece risulta smentito, per esempio, nella vicenda relativa ai tragici fatti di via d’Amelio a Palermo. In caso di errore sarebbe a priori impossibile per il condannato innocente una collaborazione di giustizia veritiera e dunque la modificazione del regime esecutivo, nonché, di conseguenza, il fine pena. Giustizia: c’è una “prepotente urgenza” a cui occorre dar corpo con opere e azioni di Maurizio Bolognetti (Radicali Italiani) Notizie Radicali, 12 luglio 2012 Amnistia riforma strutturale per affrontare la bancarotta della Giustizia: dal 18 al 22 luglio, 4 giorni di nonviolenza, di sciopero della fame e di silenzio. C’è una prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile a cui occorre dar corpo con opere e azioni. C’è, per dirla con Marco Pannella, la necessità, l’urgenza di interrompere una ultra trentennale “flagranza di reato contro i diritti umani e la costituzione repubblicana”. Per chi non lo avesse ancora capito, la questione giustizia con il suo putrido percolato rappresentato da carceri indegne di un paese civile è questione che attiene il rispetto del dettato costituzionale e il rispetto di convenzioni internazionali quali la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. Forse non ci sarà un giudice a Berlino, ma di certo ci sono oltre cento costituzionalisti e penalisti che hanno sottoscritto una lettera/appello redatta dal Prof. Andrea Pugiotto e indirizzata al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nella lettera, promossa dal Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito, si chiede al Presidente della Repubblica, in qualità di garante della legalità costituzionale, di inviare un messaggio alle Camere “affinché il Parlamento eserciti finalmente le proprie prerogative per dare una contestuale risposta, concreta e non più dilazionabile, sia alla crisi della giustizia italiana, che al suo più drammatico punto di ricaduta: le carceri”. I firmatari dell’appello hanno scritto che occorre “trasformare la crisi della giustizia e delle carceri in una opportunità di cambiamento strutturale” e che affrontare la questione giustizia-carceri “è, per il Parlamento, un vero e proprio obbligo costituzionale”. Un obbligo che deriva dalla constatazione che il nostro Stato, la nostra Repubblica, non rispetta la sua propria legalità, arrivando ad essere rispetto al diritto, ai diritti, alla Costituzione e alle Convezioni internazionali un delinquente abituale, anzi un delinquente professionale. E sono gli stessi costituzionalisti in un testo, che come ha giustamente detto Marco Pannella è uno “straordinario documento culturale, scientifico e politico”, a ricordarci che “la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo vede l’Italia reiteratamente condannata per le sistematiche violazioni dell’art. 6 Cedu, sotto il profilo della durata non ragionevole dei suoi processi” e che “analogamente, sono già più d’una le condanne dell’Italia per l’accertata violazione dell’art. 3 Cedu, sotto il profilo delle condizioni inumane e degradanti cui sono stati costretti in carcere alcuni detenuti”. Per dirla con i professori: “tutto questo già si traduce in una attuale violazione della Costituzione italiana”. È questa la flagranza di reato contro i diritti umani e la Costituzione di cui da tempo parla Marco Pannella. È questa la prepotente urgenza invocata e poi dimenticata - ahimè - dallo stesso supremo garante del legalità costituzionale. È questo il “j’accuse” dei direttori del Si.Di.Pe., che mesi fa affermavano: “siamo stati in verità ricacciati negli angoli più bui di uno Stato che non sembra in grado di mantenere fede agli impegni ed alle promesse solenni celebrate nelle sue leggi”. Non vorremmo che le voci che si sono levate in questi mesi restino “Urla del silenzio”. Voci travolte dal dibattito che non c’è. Abbiamo bisogno di verità; è necessario poter spiegare perché andiamo ripetendo come un mantra che la questione giustizia è la più grande questione sociale che c’è in questo nostro paese. Ne siamo certi, gli italiani, se adeguatamente informati, capirebbero che occorre un’amnistia per questa nostra Repubblica. Marco Pannella, nel corso dell’ultima puntata di Radio Carcere, ha citato ancora una volta Hannah Arendt e la banalità del male. Ed è questo che dobbiamo combattere: la banalità di un “male” che ci sta consumando e che fa sì che il disastro, la bancarotta della giustizia, i suicidi di detenuti e agenti, l’illegalità nemmeno vengano percepite. La banalità del male è quella che esplode prepotente nelle parole espresse da Adolf Eichmann a Gerusalemme, quando nel parlare di un suo viaggio a Bratislava racconta di una partita a bocce, ma non della ragione di un viaggio nel quale venne discussa l’evacuazione degli ebrei slovacchi. Quando il giudice istruttore glielo ricorda, Eichmann afferma “è vero, è vero, era un ordine di Berlino non mi mandarono là per giocare a bocce!” Ed è quanto mai significativo il commento della Arendt all’episodio: “Aveva mentito due volte con gran coerenza? Probabilmente no. Evacuare e deportare ebrei era ormai un lavoro comune, per lui, e le cose che si erano impresse nella sua mente erano il gioco delle bocce, il fatto di essere stato ospite di un ministro, la notizia dell’attentato ad Heydrich”. La banalità del male, appunto. Qualche giorno fa Marco Pannella ha annunciato 4 giorni di mobilitazione straordinaria. Quattro giorni di nonviolenza, di sciopero della fame e di silenzio. Di silenzio - ha chiarito Pannella - “come nelle chiese di un tempo…di silenzio e di raccoglimento”. Silenzio per tentare di innescare una riflessione collettiva. Silenzio per pensare e per riflettere su quanto di grave accade in questo paese e ci accade. Un silenzio che possa esplodere e rompere, si spera, il muro che fino ad oggi ha impedito al Parlamento di affrontare la questione giustizia. Lo stesso Pannella, rispondendo ad una sollecitazione di Valter Vecellio, ha parlato di “una settimana di lotta per una radicale riforma di struttura della infamante giustizia italiana che è - ha detto - in termini tecnici causa di una condizione letteralmente criminale dello Stato e della Repubblica Italiana”. Insomma, 4 giorni di mobilitazione per l’amnistia e la riforma della giustizia e a sostegno della lettera/appello firmata da oltre cento costituzionalisti e penalisti. Una lettera che “ci ha ridato ulteriormente il senso della urgenza necessaria e possibile per la nostra battaglia per la grande Riforma della Giustizia, riforma strutturale che può essere realizzata, su tutti i fronti, con la proposta di un’amnistia”. Qualche mese fa, i vescovi di Basilicata, nell’esprimere il loro sostegno alla marcia del 25 aprile, ebbero a scrivere: “La chiesa sente che l’impegno per l’amnistia, la giustizia e la libertà rappresenta un fatto che va nella direzione di una possibile, necessaria riconciliazione”. Con fiducia - e nella certezza che il nostro appello sarà raccolto - ci rivolgiamo alle massime cariche istituzionali della Regione Basilicata, ad iniziare dal Presidente Vito De Filippo, per chiedere un aperto sostegno alla lettera/appello del Prof. Andrea Pugiotto e ai 4 giorni di mobilitazione annunciati da Marco Pannella e dal Partito Radicale. Da questa terra può arrivare ancora una volta un segnale importante. Del resto è davvero il caso di dire “se non ora, quando? Se non così, come?”. Giustizia: risarcimenti dallo Stato se la cella è troppo piccola di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 12 luglio 2012 Da ora in poi l’amministrazione penitenziaria dovrà risarcire economicamente i detenuti che vivono in carceri dove vi è una condizione di grave sovraffollamento. La Cassazione ha infatti dato ragione al giudice di sorveglianza di Lecce Luigi Tarantino che aveva previsto un risarcimento del danno a favore del detenuto tunisino Slimani Abdelaziz, costretto a soggiornare nell’istituto salentino in condizioni ritenute lesive della sua dignità umana. Nei giorni scorsi la Corte di legittimità ha rigettato il ricorso dell’Avvocatura di Stato. Ora il detenuto maghrebino potrà finalmente riscuotere quei 220 euro che il magistrato di sorveglianza leccese gli aveva assicurato nell’ordinanza storica dello scorso 9 giugno 2011, la prima di questo tipo nella giurisprudenza italiana, seguita da un’altra dello stesso giudice del successivo febbraio 2012. Nella legge penitenziaria italiana non è infatti codificato un potere di questo tipo nelle mani dei giudici di sorveglianza. Slimani Abdelaziz, difeso dall’avvocato Alessandro Stomeo, doveva condividere con altri due detenuti una cella di poco più di 11 metri quadri, dotata di una sola finestra e un bagno cieco nonché sprovvisto di acqua calda. Il riscaldamento era fortemente razionato anche durante l’inverno. Era acceso per una sola ora al giorno anche quando faceva molto freddo. I letti a castello erano a tre piani e quello più in alto si trovava inoltre a soli 50 centimetri dal soffitto, così costringendo il detenuto a stare quasi a contatto con il muro in una condizione a dir poco claustrofobica. In quella cella il ricorrente doveva starci per ben 18 ore al giorno. Inoltre, non aveva a propria disposizione alcuno spazio per la socialità, la lettura, la preghiera, l’esercizio fisico. Non era mai accaduto prima che un detenuto fosse risarcito economicamente, seppur in modo simbolico, a causa del sovraffollamento. I dati statistici più recenti, risalenti allo scorso 31 maggio 2012, ci dicono che i detenuti presenti nelle 206 carceri italiane sono oggi circa 66mila e 500 mentre i posti letto sono 21 mila di meno. Rispetto alla decisione del giudice leccese, l’unico precedente era di tipo europeo. Risaliva al luglio del 2009 la decisione della Corte europea dei diritti umani (caso Sulejmanovic) quando un detenuto bosniaco recluso nel carcere romano di Rebibbia ottenne mille euro di risarcimento perché costretto a vivere in meno di tre metri quadri. Dopo la decisione della Cassazione si potrebbe aprire una stagione di ricorsi e richieste di risarcimento alla magistratura di sorveglianza da parte di migliaia di detenuti costretti a vivere in pochi metri quadri e in condizioni simili se non peggiori a quelle presenti nel carcere salentino. Si pensi che pendono oltre cento ricorsi collettivi presso la Corte di Strasburgo per vicende analoghe. Giustizia: i magistrati del “bel paese” che amministrano la pena senza conoscere il carcere di Domenico Corradini Notizie Radicali, 12 luglio 2012 I nostri magistrati del penale spesso sono fantastici. Spesso hanno le manette facili. Spesso sbattono in carcere per custodire in maniera cautelare persone che potrebbero mandare ai domiciliari. Spesso vedono dovunque un qualche pericolo di fuga e d’inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Eppure le prove non ci sono ancora: come si fa ad inquinare una prova che ancora non c’è? Eppure il reato non è stato ancora accertato: come si fa a reiterare un reato che ancora non è stato accertato? Il termine è dolce: “custodia”. Richiama l’Angelo Custode che secondo i cristiani ciascuno di noi ha. Richiama l’attività del prendersi cura o dell’avere a cuore. Richiama la diligenza con cui ciascuno di noi deve custodire le proprie cose o le altrui che ha ricevuto, che so io, come inquilino mediante un contratto di locazione o come depositario mediante un contratto di deposito. E invece quelle persone sbattute in carcere, in carcere non sono custodite né con diligenza né con perizia. E si sa che nel diritto la negligenza e l’imperizia costituiscono le forme principali della “colpa”, lieve o grave o gravissima che sia. E dunque quelle persone sbattute in carcere, in carcere rimangono incustodite, nel senso che di loro non ci si prende cura e nel senso che non li si ha a cuore. Lo stesso vale per gli sbattuti in carcere dopo una sentenza di condanna, giusta o ingiusta che sia, emessa per prove consistenti o per pochi indizi, non importa. Una “colpa” c’è. Solo che i nostri fantastici magistrati del penale non se ne occupano quasi. Non si occupano quasi delle conseguenze delle misure restrittive che adottano, “beccati questo, Beccaria”. E Beccaria si becca la tortura. E Beccaria si becca anche la più tortura delle torture carcerarie, il regime del 41 bis che sospende le normali regole di trattamento previste dall’ordinamento penitenziario e le sospende per incrudelire questo trattamento. Come se il sottoposto al regime del 41 bis non ha “dignità sociale” che la Costituzione riconosce a ogni cittadino senza distinzione. Come se a niente sia valsa la diagnosi compiuta nel lontano 1995 da una delegazione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti, che invano chiese delucidazioni al governo d’allora e dovette accontentarsi con sconcerto della dichiarazione rilasciata dalle autorità italiane il 15 luglio 1995 all’Onu, Doc. CCPR/C/SR. 1330, § 21: “Grazie a questa misura speciale un numero crescente di detenuti hanno deciso di collaborare con le autorità giudiziarie fornendo spiegazioni sulle organizzazioni delle quali essi facevano parte”. L’obiettivo era ed è chiaro: non una misura di prevenzione dissuasiva nei confronti di potenziali criminali in potenza affiliabili a cosche e mafie, ma una misura che proprio utilizzando la più tortura delle torture tendeva e tende a coartare la volontà e a estorcere il consenso alla collaborazione e alla delazione. A quali condizioni di bestialità siano ridotti i sottoposti al 41 bis, lo disse bene il magistrato di sorveglianza di Livorno Aldo Merani nella sua relazione del 5 settembre 1992 redatta dopo una visita al carcere di Pianosa. E disse delle condizioni di bestialità di tutti i detenuti: “Nel corso della permanenza in sezione si è notato l’utilizzazione di metodiche di trattamento nei confronti dei ristretti sicuramente non improntate al rispetto della persona ed ai principi di umanità. In particolare si è riscontrato personalmente: a) i detenuti vengono movimentati all’interno della sezione […] tenuti per le braccia a destra e a sinistra da due agenti e non affiancati e seguiti da tre agenti come previsto dalle circolari inerenti le massime sicurezze; b) nel camminare, i detenuti vengono obbligati a tenere la testa bassa e lo sguardo fisso a terra; c) nel caso che sia in transito un detenuto dall’atrio di accesso [..] un eventuale altro detenuto in rientro o in uscita viene fermato davanti ad una parete, dovendo egli tenere la testa bassa e poggiata contro di essa, con gli occhi a terra; c) al momento in cui i ristretti vengono inviati al cortile di passeggio, aperta la porta che vi dà accesso, devono andare di corsa e senza fermarsi direttamente dallo spazio antistante la loro cella sino ad infilarsi nel corridoio che conduce al cortile: di tale pratica si è chiesto conto ad un sottufficiale che ha risposto, per verità in modo seccato e iattante, che trattasi di scelta dei detenuti: il che francamente appare quanto meno poco credibile. […] Da informazioni assunte [..] si è avuto notizia che due detenuti sono stati recati fuori dalla sezione, l’uno all’interno di una carriola da muratore, certamente non in grado di camminare da solo, l’altro ammanettato e trascinato per le braccia: entrambi venivano portati verso il blocco centrale dove non è dato sapere cosa sia successo poi. Si è avuto notizia dell’uso di manganelli all’interno della sezione, evidentemente non in relazione a situazioni di pericolo reale che altrimenti ne sarebbe seguita adeguata e completa informazione a quest’ufficio dal parte della Direzione: i manganelli sarebbero stati adoperati sia per sollecitare nelle gambe i detenuti o negli spostamenti all’interno della sezione, sia per effettuare veri e propri pestaggi in cella. [..] Altri episodi di iattanza e violenza, psichica più che fisica, nonché una serie di umiliazioni tanto inutili quanto ingiustificate, sono state inflitte a detenuti comuni impegnati nei lavori di ristrutturazione della diramazione. Il quadro si presenta pertanto non solo fosco e preoccupante, ma anche con caratteristiche delittuose”. Parole attuali. Chiedete a Marco Pannella o a Rita Benardini o Marco Perduca o a Valter Vecellio o a Riccardo Arena o a Deborah Cianfanelli, giusto per fare qualche nome, e confermeranno che quelle parole sono attuali. Merani fu un’eccezione tra i magistrati di sorveglianza. Non si limitava a esercitare la giurisdizione, metteva piede nelle carceri, parlava con i detenuti dei loro problemi, se a un detenuto mancava lo spazzolino da denti si adoperava a procurarglielo: “Credo che […] un magistrato di sorveglianza che non si occupasse, direttamente e senza vincolo di giurisdizionalità, del carcere in qualche misura potrebbe anche finire con lo sparire. Cerco di spiegarmi: […] mi domando qual è la differenza tra il magistrato di sorveglianza e gli altri giudici che si occupano dei diritti. Io credo che la differenza è che, mi si consenta, non è terzo; io questa terzietà nel magistrato di sorveglianza l’ho sempre sentita nel senso della indipendenza delle mie decisioni, della libertà intellettuale, culturale, giuridica, giudiziaria di ciò che facevo ma mi sono sempre seduto al tavolino con davanti un detenuto e ho cercato in qualche modo di trarre direttamente da lui la decisione, quale che essa fosse, se mandarlo in permesso, se mandarlo in affidamento in prova, se mandarlo in semilibertà, se tenerlo ben legato con la palla al piede; quale che fosse la decisione non poteva che scaturire da lui. […] Il magistrato di sorveglianza entra in carcere, sta in carcere, vive la sua professione all’interno del carcere, e dice alla guardia: “c’è il detenuto che afferma che non gli avete dato lo spazzolino, lui non ce l’ha, sul libretto ha trenta lire, gli trovate uno spazzolino?”. E, in un modo o in un altro, la guardia lo spazzolino lo trova. Mi direte che lo spazzolino è una stupidaggine ma in galera sono tutte stupidaggini che in galera diventano grosse cose; ogni passaggio da una condizione deteriore a una condizione migliorativa, per quanto piccola sia, per quanto essa possa entrare nei particolari delle necessità del singolo, è una cosa enorme, perché il detenuto non ha nulla e tutto deve chiedere, deve fare la domandina, deve sollecitare”. I nostri magistrati del penale spesso sono fantastici pure in questo: non mettono piede nelle carceri se non per convalidare arresti o interrogare, e se magistrati di sorveglianza vigilano sull’esecuzione della pena seduti a tavolino nei propri uffici pur quando si tratti del 41 bis. Per loro vale il “ius quia iussum” e non il “ius quia iustum”. E avete mai visto i vertici dell’Anm proporre un qualcosa per la tortura in carcere e per la più tortura delle torture carcerarie, per il 41 bis? I vertici dell’Anm, in nome dell’intera magistratura italiana, entrano a gamba tesa nel dibattito politico e nelle stanze di ministri e presidenti delle Camere solo per difendere i propri privilegi corporativi, per chiedere che l’emendamento Pini sulla responsabilità civile dei magistrati sia fermato e messo nel cestino della carta straccia, e non c’è differenza in questo tra un Rodolfo Sabelli e un Cosimo Maria Ferri e neppure c’è differenza tra il giornalismo che sostiene l’uno e il giornalismo che sostiene l’altro. Da Gherardo Colombo, “Il perdono responsabile”, Ponte alle Grazie, Firenze 2011: “Il carcere, per come è congegnato, confligge con la dignità, con l’appartenenza al genere umano di chi vi è sottoposto, perché esclude dalla comunità e dalle relazioni con gli altri”. Figuriamoci se con la dignità della persona non confligge il 41 bis. Alla Severino questi problemi non interessano. Dopo il “decreto affossa carceri”, si è messa l’anima in pace. Quel che ho potuto fare o fatto e di più non potevo fare, ha detto qualche giorno fa in un video diffuso dall’Ansa. Né questi problemi interessano al Napolitano della “prepotenza urgenza”: acqua passata sul greto di uno spot. Da quando si è insediata al ministero dell’Ingiustizia, la Severino continua a ripetere sull’amnistia una sciocchezza giuridica. Continua a ripetere che l’iniziativa per l’amnistia spetta solo al Parlamento. Ma la conosce la Costituzione, la Severino? Lo sa che sull’amnistia il governo ben potrebbe presentare alle Camere un disegno di legge? Sia allora il “silenzio” dei detenuti e nostro l’arma non violenta per protestare contro il collasso della giustizia e l’atrocità con cui nelle nostre carceri viene somministrata la pena sotto lo sguardo spesso distratto dei magistrati di sorveglianza. Giustizia: Urso (Uil-Pa); la “sorveglianza dinamica”, primo passo per riformare le carceri di Gianmaria Roberti La Discussione, 12 luglio 2012 “Il sistema non reggerà a lungo”, quindi occorrono subito “soluzioni” all’emergenza carceri, dice Angelo Urso, segretario nazionale della Uil-Pa Penitenziari. Una di queste può essere la “sorveglianza dinamica”, nel quadro del progressivo avanzare di “patti di responsabilità” tra amministrazione penitenziaria e detenuti, con padiglioni e circuiti carcerari differenziati per alcune categorie di reclusi. Come può concretamente svolgersi la sorveglianza dinamica? Il concetto vuole sostituirsi a quello tradizionale e statico, storicamente consolidatosi all’interno degli Istituti, direttamente collegato all’erronea e peraltro accresciuta esigenza di avere il controllo assoluto della persona detenuta, con tutte le conseguenze che ne sono derivate, testimoniate dagli impraticabili carichi di lavoro della polizia penitenziaria. Il personale non è fisso, ma si muove, in una sorta di replica del poliziotto di quartiere che si muove all’interno del reparto e garantisce la sicurezza della struttura. È un nuovo modello di responsabilizzazione del detenuto. Lo si inserisce nel contesto purché accetti determinate regole basate sulla civile convivenza. Tutto quel che è connesso ad una maglia più larga nei controlli va però coordinato con le regole chiare e certe, e quanto sono più certe tanto più devono essere rispettate. Quali vantaggi porta questa modalità? Per il detenuto c’è una condizione di vita diversa, una presenza meno opprimente del personale di sorveglianza, maggiore autonomia e più senso di responsabilità, una partecipazione più attiva alle attività all’interno dell’istituto, che presuppone un coinvolgimento degli enti territoriali nella promozione anzitutto di attività lavorative. E per la polizia penitenziaria cosa cambia? Per la polizia, non essendo vincolante la copertura, ci sono vantaggi in termini di carichi di lavoro, di fruizione di diritti. E viene valorizzata la figura del poliziotto penitenziario, che non è il classico agente che apre e chiude i cancelli, ma così partecipa in maniera più dinamica alle attività del carcere. In poche parole, più intelligence, rispetto alla canonica sicurezza del guardare a vista i detenuti. Il ministro Severino ha definito una “priorità” la legge sulle carceri. Pensa sia vicina una soluzione? Le riposte date fino ad oggi non hanno mai sortito gli effetti sperati, e partiamo dalle fasi precedenti all’indulto. Di fatto le carceri si sono svuotate per qualche mese nel 2006, e poi riempite nuovamente. Il problema vero sono le leggi: se non si impedisce che la gente entri in carcere per reati socialmente non pericolosi o poco gravi, è chiaro che poi scoppiano. Due le scelte possibili: o si depenalizzano alcuni reati o si costruiscono nuove carceri con più agenti di custodia, ma in questo momento di crisi economica è un’utopia. Quindi ben vengano le modifiche e le soluzioni alternative alla detenzione, come ha proposto il ministro. Quali misure alternative alla detenzione ritiene percorribili? La detenzione domiciliare, che consente al condannato di scontare alcuni periodi di pena presso la propria abitazione, potrebbe essere una soluzione, una evoluzione della sorveglianza dinamica: quelle responsabilità di cui abbiamo detto potrebbero essere trasferite all’estenuo del circuito carcerario, senza creare disagio alla sicurezza sociale e determinando un risparmio economico. Quali penitenziari patiscono più di tutti l’emergenza in Italia? Non si può parlare di un istituto in condizioni più gravi di altri, il tasso di sovraffollamento è alto dappertutto. Quel che può esasperare i toni è la stagione estiva perché il caldo porta all’inasprimento di situazioni critiche. Le realtà più preoccupanti, in tal senso, sono i grossi bacini, come San Vittore, Poggioreale e Ucciardone. Giustizia: Ucpi; penalisti pronti allo sciopero, dal governo esiti insoddisfacenti su riforme Adnkronos, 12 luglio 2012 I penalisti hanno in mente “prese di posizioni nette” contro gli “esiti insoddisfacenti” in materia di riforme sulla giustizia da parte del governo. E si dicono pronti anche allo sciopero. A non escludere una presa di posizione “netta” è Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione camere penali, ai margini del convegno organizzato alla Cassa forense sulle piccole e grandi riforme del processo penale. A detta dei penalisti, “alcune delle diagnosi elaborate dal governo, come sulla custodia cautelare di un sistema sanzionatorio e sul problema delle carceri, erano buone. Poi -osserva Spigarelli - abbiamo avuto esiti insoddisfacenti. Il resto ci sembra bloccato in Parlamento e, in generale, spesso registriamo delle prese di posizione che non comprendiamo”. Il presidente dell’Ucpi pensa ad esempio alla mancata approvazione del reato di tortura. I penalisti sono arrabbiati soprattutto sulla riforma dell’ordinamento delle professioni: “La legge afferma Spigarelli- potrebbe essere approvata ma il governo dice che preferisce operare per regolamento. Per noi questo è un motivo di grande dissenso perché alla politica abbiamo chiesto di far marciare la riforma ma registriamo melina governativa”. L’altra nota dolente è quella che riguarda il pianeta carceri: “Si continua a dire che sono in emergenza istituzionale -afferma Spigarelli- ma non si vede nulla”. I penalisti rimarcano che qualsiasi forma di protesta per loro sarebbe dolorosa: “Noi non amiamo molto le astensioni”, ma per convincerli a fare marcia indietro, per dirla con Spigarelli, “dovremmo vedere che qualcosa in Parlamento cammina”. Quanto meno sulla riforma della professione forense. Non che i penalisti si sentano di serie B rispetto ai magistrati, tuttavia il leader dell’Ucpi deve registrare “un atteggiamento sorprendente da parte del governo sulla Avvocatura. Si direbbe -dice- che l’unico sindacato che pare avere successo sia quello della magistratura. Verifico che il governo non fa concertazioni ma è molto sensibile a ciò che dice l’Anm”. In definitiva i penalisti vorrebbero sapere “come mai su questioni di principio non si faccia nulla”. Un caso su tutti: la riforma costituzionale della giustizia. “È completamente scomparso questo tema -denuncia Spigarelli-. Non aprire mai bocca su questo tema è una scelta profondamente sbagliata”. Conclude Spigarelli: “I penalisti hanno sempre mantenuto un atteggiamento di serietà e di proposta” ma se non vedranno azioni concrete da parte del governo si dicono pronti anche alla più estrema delle proteste, vale a dire lo sciopero. Giustizia: Confsal Unsa; 18 luglio sit-in alla Camera, contro tagli al personale delle carceri Adnkronos, 12 luglio 2012 Il segretario generale della Federazione Confsal-Unsa, Massimo Battaglia, “per scongiurare i tagli del personale penitenziario e minorile previsti dal decreto legge sulla spending review, che - avverte - porteranno esuberi, mobilità, collocamenti in disponibilità per 2 anni con l’80% di stipendio e indennità integrativa speciale, e persino licenziamenti”, ha indetto per il 18 luglio, dalle 9,30 alle 12, davanti alla Camera dei deputati, in piazza Montecitorio, un sit-in di protesta del personale penitenziario e minorile. Il sit-in intende rafforzare la proposta di emendamento al dl numero 95/2012 avanzata dalla Federazione Confsal-Unsa di deroga dei tagli alle dotazioni organiche dell’amministrazione penitenziaria e minorile. Unitamente al sit-in sarà indetta un’assemblea cittadina straordinaria. Giustizia: Bernardini e Perduca; la condanna di Renato Farina? Incredibile e lunare” di Leone Grotti Notizie Radicali, 12 luglio 2012 “È una sentenza che ha dell’incredibile, la definirei lunare”. È deciso il commento a della parlamentare radicale Rita Bernardini sulla condanna a due anni e otto mesi, senza la sospensione condizionale della pena, comminata dal giudice del tribunale di Milano Elisabetta Meyer al deputato del Pdl Renato Farina per “falso in atto pubblico”. Dello stesso avviso il senatore radicale, all’interno del gruppo del Pd, Marco Perduca: “Non so se si possa parlare di persecuzione nei confronti di Farina - dichiara a tempi.it - ma di sicuro non ho mai visto una sentenza del genere”. Il “falso” di Farina risalirebbe al 12 febbraio scorso, quando il deputato è entrato a San Vittore a fare visita al detenuto Lele Mora accompagnato da un ventenne non implicato nelle inchieste riguardanti il detenuto, ma pur sempre non figurante tra i collaboratori ufficiali di Farina. “La condanna mi sembra lunare - commenta Bernardini - perché grazie all’art. 67 dell’Ordinamento penitenziario (Legge 26 luglio 1975 n. 354) gli istituti penitenziari possono essere visitati “senza autorizzazione” da figure istituzionali precise, tra cui i parlamentari, come me o Farina. Il comma 2 dello stesso art. 67 precisa poi che “l’autorizzazione non occorre” nemmeno per coloro che accompagnano le persone di cui al comma precedente per ragioni del loro ufficio”. Esiste una circolare del ministero della Giustizia che richiede che le persone che accompagnano i parlamentari siano collaboratori con contratto a prestazione continuativa. “Questo non solo varia da carcere a carcere - continua Bernardini - ma soprattutto non c’entra niente con la legge. Infatti io, che ho fatto quasi 200 visite in carcere, quasi sempre porto con me i radicali del luogo dove si trova il penitenziario, che evidentemente non sono miei dipendenti. Di più, tra questi spesso c’è anche “Io sono entrato a San Vittore a maggio - aggiunge Perduca - avevo tre persone al seguito, nessuna di queste era un mio collaboratore, eppure non è successo niente, nessuno ha detto niente. Se Farina ha infranto la legge, anch’io infrango sempre la legge perché pur non avendo collaboratori, ogni volta che entro in carcere lo faccio sempre accompagnato da alcune persone”. Anche se si trattasse di infrazione, sarebbe un’infrazione “opportuna” per Perduca: “Chi lavora nella commissione diritti umani e visita i penitenziari che sono sparsi per l’Italia non si porta sempre dietro il portaborse romano. Prima di tutto perché queste carceri non sono solo a Roma ma in tutto il paese e poi perché è più importante avere al seguito una persona del luogo, che conosce il territorio e che quindi ha una sensibilità maggiore e fa più attenzione ai dettagli. Noi radicali, poi, non abbiamo collaboratori fissi”. A Farina, conclude Perduca, “gli hanno tirato davvero un bello scherzetto, neanche la sospensione condizionale della pena gli hanno dato. Io faccio come lui da quattro anni, eppure nessuno mi ha mai detto niente”. Pdl: Alfano, condanna di Farina ingiusta e sproporzionata “La condanna che pesa sull’on. Renato Farina - che rischia tre anni di carcere senza condizionale - appare gravemente ingiusta e sproporzionata rispetto al reato configurato a lui contestato. Nel merito, la sproporzione è tale da rappresentare un errore senza precedenti, soprattutto se si rapporta al ruolo istituzionale che, da anni, l’on. Renato Farina svolge con impegno e coscienza, sula condizione delle carceri in Italia visitando i detenuti, oltre che per portare una parola di conforto, per verificare il loro stato di salute e le condizioni delle carceri”. È quanto dichiara il segretario politico del Pdl, Angelino Alfano. Puglia: Odg per migliorare le condizioni delle carceri approvato dalla giunta regionale Lecce Prima, 12 luglio 2012 Ordine del giorno approvato all’unanimità dalla giunta regionale per affrontare il sovraffollamento e migliorare l’assistenza sanitaria. Il sindacato autonomo di polizia penitenziaria chiede di accelerare i tempi burocratici. Il sindacato autonomo polizia penitenziaria, maggior sindacato di categoria, esprime viva soddisfazione per l’ordine del giorno approvato all’unanimità dalla giunta regionale di Puglia in merito ad interventi per affrontare il problema del sovraffollamento delle carceri pugliesi. Proprio nei giorni scorsi il Sappe aveva lanciato l’ennesimo grido di allarme all’indirizzo del presidente della Regione, Nichi Vendola, e dell’assessore alla sanità, Ettore Attolini, stante la grave emergenza sanitaria che si vive nelle carceri pugliesi. Il Sappe, attraverso il segretario nazionale, Federico Pilagati, ritiene che per quanto riguarda la sanità la Regione Puglia possa fare molto aumentando le risorse ed i mezzi a disposizione: poco, invece, potrà fare per “un graduale svuotamento degli istituti di pena ed un’attenta riabilitazione sociale” poiché tali meccanismi sono demandanti a leggi nazionali e a provvedimenti della magistratura. “Comunque - afferma Pilagati - ben vengano tutte le iniziative tese a portare all’attenzione il grave problema della carceri pugliesi che si ricorda, sono le più affollate d’Italia in percentuale con oltre 4500 detenuti a fronte di 2350 posti disponibili”. Come pure il Sappe ritiene che gli interventi non debbano essere mirati per portare sollievo a questo o quel carcere in particolare, ma per comprendere un progetto più generale che investa tutte le realtà penitenziarie della regione, che sono tutte in una situazione di estrema sofferenza. “Il Sappe - precisa - si augura che negli incontri che il presidente Introna avrà a breve sulla questione, vengano incluse anche le rappresentanze sindacali dei lavoratori penitenziari, poiché portatori di conoscenze che potrebbero contribuire a portare a soluzione talune problematiche. Comunque la speranza del Sappe è che si faccia presto poiché la situazione nelle carceri continua a deteriorarsi e potrebbe esplodere in qualsiasi momento”. Palermo: inferno Ucciardone, tra sovraffollamento e blatte di Romina Marceca La Repubblica, 12 luglio 2012 L’inferno è qui, al carcere Ucciardone. Il 40 per cento di detenuti in più, rinchiusi in celle al limite della sopravvivenza, tra scarafaggi, caldo insopportabile, spazi angusti. “Viviamo ai confini del mondo ed è impossibile andare avanti”, ha detto un detenuto dell’Ucciardone ai nove componenti dell’Unione camere penali che dall’inizio dell’anno visitano le carceri d’Italia per monitorare le condizioni di vivibilità. Un progetto che è approdato ieri in Sicilia con la visita all’Ucciardone, richiesta dalla Camera penale “Conca D’Oro” presieduta da Giorgio Bisagna. Al termine della visita al penitenziario i commissari hanno stilato un report. I numeri rivelano una situazione “drammatica”, come l’ha definita Valerio Spigarelli, il presidente nazionale dell’Unione camere penali. I detenuti ammassati nelle celle sono 531, a fronte di una capienza massima di 381, gli psicologi sono solo quattro e con contratti di 5 ore mensili ciascuno, gli educatori, invece, sono cinque. In uno dei bracci del penitenziario, al quarto, su sette docce solo due sono funzionanti e il tetto si sgretola di continuo. “C’è un padiglione nuovo e civile e altri neppure da terzo mondo”, aggiunge Spigarelli. “La polizia penitenziaria ha un ottimo rapporto con i detenuti, ma non può fare miracoli rispetto a situazioni che sono al limite della tollerabilità”. In celle da tre ci sono anche sei detenuti, sistemati su letti a castello. E proprio in estate, quando il caldo diventa un complice pericoloso, raddoppiano i suicidi. Ieri un detenuto di 28 anni si è ucciso nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto inalando gas da una bomboletta. “Il problema delle morti in carcere è tra i più importanti. È un’indecenza incivile”, spiega Spigarelli. Altri due i punti sui quali l’osservatorio dell’Ucp sta preparando un documento. La richiesta di una riforma del sistema carcerario, con una maggiore applicazione delle forme alternative alla detenzione. “C’è un abuso della custodia cautelare preventiva, il 50 per cento dei detenuti all’Ucciardone è in attesa di giudizio”, dice l’avvocato Bisagna. Altro punto è la ristrutturazione dei penitenziari. All’Ucciardone i due terzi della struttura sono inutilizzati, se fosse resa tutta fruibile la capienza reale del penitenziario salirebbe a 721 posti. Il 19 luglio tappa all’istituto penale di Bicocca a Catania. Dal novembre del 2010 è stata inaugurata una class action da 60 detenuti siciliani. Si sono rivolti alla Corte europea per i diritti umani, assistiti dall’avvocato Maximillian Molfettini. L’idea di un libro bianco delle carceri, invece, è stata lanciata dall’avvocato Ermanno Zancla, in qualità di coordinatore per la Sicilia dell’Unione Forense per la tutela dei diritti umani. Il libro bianco di chi sta dentro “Viviamo in condizioni disumane” “In una cella di tre metri e mezzo viviamo in sette persone. Poi nel bagno c’è la muffa e l’acqua calda solo un’ora al giorno per tutti. Siamo blindati, c’è solo una piccola apertura per passare il cibo. Siamo come cani chiusi in gabbia”. Sono le parole di un detenuto del carcere Ucciardone, arrivate nero su bianco, con tanto di piantina della cella realizzata a mano, all’avvocato Ermanno Zancla che da mesi insieme ai colleghi Gino Arnone e Stefano Bertone, raccoglie le testimonianze di detenuti siciliani, tramite i rispettivi legali, per andare avanti con una class action contro il sovraffollamento e i lunghi tempi di inattività in cella. Sulla base dei dati raccolti, oggi saranno notificate le prime venti cause di risarcimento danni contro il ministero della Giustizia per le condizioni disumane in cui sono costretti i detenuti delle carceri palermitane dell’Ucciardone e del Pagliarelli. E i casi sono davvero tanti. “La cella - scrive un detenuto di 22 anni dell’Ucciardone - in questi mesi è una fornace. In inverno, invece, riscaldiamo l’acqua e ci portiamo le bottigliette di acqua bollente a letto”. Mentre un altro detenuto di 32 anni dell’Ucciardone racconta: “Siamo in quattro, i muri sono tutti scrostati, il bagno è minuscolo e non abbiamo spazio per muoverci, stiamo tutto il giorno a letto”. E c’è anche chi consuma i pasti a letto, perché in cella non c’è spazio per tavolini e comodino. Ma la class action è soltanto all’inizio: “Le prime cause - dice Ermanno Zancla, coordinatore per la Sicilia dell’Unione Forense per la tutela dei diritti umani - potrebbero dare il via a una valanga di ricorsi. Il comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa e la Corte europea dei diritti dell’uomo, hanno già condannato l’Italia per casi del genere. Invito per questo tutti i colleghi a collaborare”. La class action siciliana, prende il via da una sentenza europea che ha condannato recentemente lo Stato italiano, con conferma della Corte di Cassazione, a risarcire un detenuto tunisino, costretto a vivere nel carcere di Lecce, secondo la Corte europea, in condizioni di tortura. In questione, non c’è soltanto l’ampiezza della cella, ma anche la prolungata inattività del detenuto, la brevità dell’ora d’aria e la mancanza di privacy per la presenza del bagno in cella. E poi l’assistenza medica che riguarda, per esempio, un detenuto di 62 anni del Pagliarelli, ischemico, cardiopatico e diabetico che da tre anni non riceve le giuste cure. “È un soggetto - dice Zancla - sovrappeso e quasi cieco. In questi anni, sono stati saltuari anche i controlli della pressione e della glicemia che, per un soggetto del genere, dovrebbero essere quotidiani. Se la condizione dei detenuti è disumana, lo è ancora di più quella dei detenuti malati. Anche trovare un farmaco in carcere può essere impossibile”. La raccolta dati per il Libro bianco continua attraverso la compilazione di alcune schede con voci specifiche sulla condizione detentiva. Per maggiori informazioni è possibile consultare la pagina di Facebook sul Libro bianco delle carceri. Roma: costrinse detenuto a intervento sanitario immotivato, chiesta condanna per medico Ansa, 12 luglio 2012 La Procura di Roma ha chiesto una condanna a 3 anni e sei mesi di reclusione per Rolando Degli Angioli, il medico in servizio presso il carcere romano di Regina Coeli, accusato di aver costretto, il 20 luglio 2008,un detenuto a subire “un trattamento sanitario illegittimo e immotivato”. La parte lesa nella vicenda è Julien Monnet, il cittadino francese accusato di aver scaraventato la figlia contro la scalinata dell’Altare della Patria a Roma. La richiesta è stata fatta dal pm Francesco Scavo nel corso dell’udienza del procedimento, con rito abbreviato, davanti al Gup. Degli Angioli risponde di falso, abuso di ufficio e di concorso in violenza privata assieme all’infermiere Luigi Di Paolo (che sarà giudicato con rito ordinario), con l’aggravante dell’abuso dei poteri. In base all’accusa i due imputati avrebbero inserito in modo indebito “un catetere vescicale” durante una visita medica. Un’azione messa in atto senza un “quadro clinico di riferimento” come scrivono i pm nel capo di imputazione. Degli Angioli, che era il medico di guardia, avrebbe poi falsamente omesso di trascrivere l’intervento eseguito nell’apposito registro, anche al fine di non renderlo pubblico, “così causando un danno ingiusto alla vittima”. Monnet, che nel febbraio del 2011 è stato assolto perché ritenuto incapace di intendere e di volere nel momento in cui gli cadde a terra la figlioletta di 5 anni, si costituirà parte civile attraverso gli avvocati Michele e Alessandro Gentiloni. Taranto: troppo caldo, malori e svenimenti in carcere; 40 detenuti ricoverati in ospedale La Repubblica, 12 luglio 2012 Oltre 40 gradi nelle celle del penitenziario super affollato, dove sono rinchiuse 700 persone a fronte dei 315 posti disponibili. La struttura è la stessa dove poche settimane fa saltarono acqua e luce. Un caldo asfissiante in una delle strutture penitenziare più affollate d’Italia. Malori e svenimenti nel carcere di Taranto, dove la scorsa notte una quarantina di detenuti hanno dovuto far ricorso alle cure del 118 e dell’ospedale cittadino. Lo rende noto il sindacato di polizia penitenziaria Osapp, sottolineando che nel penitenziario ionico rispetto a una capienza di 315 posti sono rinchiuse oltre 700 persone. Si tratta della stessa struttura dove solo alcune settimane fa i detenuti hanno protestato per la mancanza di acqua e luce, una situazione diventata incandescente viste le condizioni del carcere in questa estate rovente. A quanto fa sapere Domenico Mastrulli, vicesegretario generale del sindacato, nella tarda serata di ieri una quarantina di detenuti, a causa delle alte temperature (intorno ai 40 gradi) e del sovraffollamento hanno accusato malori e anche perdita di conoscenza. Molti di coloro che si sono sentiti male sono stati portati con le ambulanze in ospedale. I poliziotti hanno dovuto assicurare servizi di scorta, e questo - sottolineano dal sindacato - nonostante la criticità degli organici. Ribadendo ancora una volta la pessima situazione delle carceri pugliesi e delle condizioni di vita di detenuti e poliziotti penitenziari, Mastrulli sottolinea che “per il Sindacato di polizia Osapp le responsabilità sono attribuibili all’attuale amministrazione regionale del Provveditorato regionale Puglia di cui si è chiesto e si ribadisce l’avvicendamento totale per assenze di iniziative”. Como: situazione di emergenza al Bassone... i politici locali dibattono sul da farsi Corriere di Como, 12 luglio 2012 I parlamentari lariani chiedono che si trovi una “soluzione strutturale”. Emergenza senza fine al Bassone. Dopo l’ennesimo episodio di violenza avvenuto lunedì scorso - nove agenti feriti nel tentativo di placare l’ira di un detenuto - tornano d’attualità tutti i problemi della struttura di detenzione comasca. Ma non solo. Poche settimane fa l’ira dei carcerati era scoppiata per la mancanza d’acqua. Rabbia trasformatasi in una vera e propria rivolta che ha messo a dura prova gli agenti di polizia penitenziaria, che da anni denunciano carenze di organico e chiedono interventi strutturali sull’edificio. Condizioni di vita difficili e precarie che spesso hanno spinto anche i parenti dei detenuti a organizzare manifestazioni di protesta fuori dal Bassone. “Abbiamo sotto controllo la situazione. Siamo in contatto con le istituzioni carcerarie - interviene il prefetto di Como, Michele Tortora - Di recente abbiamo avuto un incontro con gli agenti di polizia penitenziaria che ci hanno segnalato i problemi. Noi vigiliamo. Controlliamo, ad esempio, che le manifestazioni organizzate all’esterno non generino problemi”. Il recente susseguirsi di questi episodi di violenza torna a far riflettere su come poter intervenire per garantire la dignità ai detenuti e migliorare le condizioni di lavoro agli agenti penitenziari. “È una situazione paradossale e insostenibile - interviene il senatore lariano del Pdl, Alessio Butti. La soluzione però non deve essere il ricorso all’amnistia o all’indulto. Ci vogliono, innanzitutto, nuove strutture”. E puntuale arriva la precisazione. “Anche se ciò non deve costituire un alibi - prosegue il senatore. Vanno, ad esempio, studiate misure alternative per i reati minori. Inoltre le carceri sovraffollate, come il Bassone, sono anche una conseguenza del ricorso della magistratura allo strumento della carcerazione preventiva e alle lungaggini eccessive della giustizia. E a farne le spese sono agenti e detenuti stessi”. Parole dure arrivano dal deputato della Lega Nord, Nicola Molteni. “Ho più volte sollecitato il ministro con delle interrogazioni. Soprattutto non sta funzionando l’indulto mascherato che manda ai domiciliari chi deve scontare, solo per certi reati, gli ultimi 18 mesi di pena - spiega Nicola Molteni. Nei primi 3 mesi del 2012 ciò ha portato 3mila detenuti fuori dalle carceri ma la situazione è sempre identica e di assoluta emergenza. Ci vogliono interventi strutturali”. “I problemi purtroppo non sono di oggi. Forse scontiamo anche la bassa incidenza nel ricorso a misure alternative al carcere - spiega l’onorevole del Pd, Chiara Braga - che potrebbero alleggerire la pressione. Inoltre le carenze strutturali e di risorse incidono pesantemente sulla realtà”. Tempio Pausania: apre nuovo carcere, in arrivo i primi detenuti, ma direttore è part-time di Giampiero Cocco La Nuova Sardegna, 12 luglio 2012 La tabella di marcia per aprire ufficialmente la nuova casa circondariale di Nuchis, dopo la chiusura del vetusto carcere della “Rotonda”, prosegue. Ieri mattina il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Sardegna, Gianfranco De Gesu, era in Gallura, nella nuova struttura penitenziaria, per il passaggio di consegne tra il direttore uscente Francesco Frontirré, che è anche titolare del carcere di Sanremo, e l’insediamento del nuovo direttore, Antonio Galati, che mantiene anche l’incarico di direttore del penitenziario di Vibo Valentia. Una prassi, questa delle doppia direzione, imposta dalla carenza di funzionari del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che ormai da 15 anni non bandisce concorsi per i posti direzionali. La prima sezione sarà aperta il 18 luglio prossimo con il trasferimento, da due sezioni in chiusura del carcere sassarese di San Sebastiano, di una trentina di detenuti sottoposti a “vigilanza attenuata”, mentre per avere la piena operatività della nuova struttura bisognerà attendere il mese di settembre, quando sarà inviato a Tempio il grosso del personale della polizia penitenziaria, una sessantina di agenti in attesa di mobilità dalle attuali sedi. L’arrivo a Nuchis del parlamentare del Pdl Mauro Pili per una visita ispettiva ha creato non pochi malumori tra le fila di diverse sigle sindacali che non erano state avvertite della presenza del parlamentare nel carcere. Osapp, Sappe e le sigle sindacali nazionali Cgil Cisl e Uil funzione pubblica non hanno gradito che fossero presenti soltanto due sigle sindacali - Ugl e Sinappe - ma non intendono polemizzare. “Lavoriamo per dare al personale e ai detenuti il massimo della assistenza, e in questo momento è necessaria la coesione”, dicono le rappresentanze sindacali che ieri hanno preso atto dell’insediamento del nuovo direttore, al quale presenteranno le diverse problematiche, “tutte risolvibili con un impegno economico risibile”, che rappresenta l’avvio di una struttura complessa e ipertecnologica come quella di Nuchis. Il problema di fondo sta nella diaria che gli agenti dovrebbero percepire per prestare servizio a Nuchis, non inclusa negli incarichi di missione con la quale sono stati destinati alla nuova struttura. Poche decine di euro al giorno che però incidono pesantemente sullo stipendio, già magro, di un agente della polizia penitenziaria che deve giornalmente viaggiare da diversi centri del Nord Sardegna per prendere servizio a Nuchis. Basterebbe dirottare le risorse impiegate per le traduzioni da Sassari verso Tempio, visto che nel nuovo carcere non possono, ancora, essere ospitati gli arrestati in attesa di giudizio. Marsala (Tp): carcere in buone condizioni, servirebbe solo una spesa minima La Sicilia, 12 luglio 2012 Se il presupposto per la chiusura del carcere di piazza Castello, disposta dal ministro della Giustizia con decreto del 6 marzo scorso, sono le “carenze igienico-strutturali”, allora non c’è motivo di far chiudere i battenti al penitenziario, È quanto è emerso nel corso della visita che ieri mattina è stata effettuata da una delegazione composta dal presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, Gianfranco Zarzana, dal presidente della Camera penale, Diego Tranchida, e da alcuni giornalisti. Accompagnati dal capo degli agenti di polizia penitenziaria Baldassare Di Bono e dal cappellano Jean Paoul Barro, la delegazione ha potuto vedere uffici, celle e servizi igienici per i detenuti. Ed inoltre, la sala per i colloqui con familiari e avvocati, la sala polivalente che funge da palestra, scuola e chiesa, la stanza per gli interrogatori e le udienze di convalida degli arresti la cucina, rifatta di recente, come pure la lavanderia, l’infermeria, accanto alla quale c’è anche un gabinetto dentistico. La struttura, si sa, non è nuova. È il vecchio carcere di epoca federiciana, adibito a carcere dal 1818. Da allora, però, ha subito parecchie ristrutturazioni. “E sarebbe sufficiente una spesa minima, da 30 a 40 mila euro - dice l’avvocato Zarzana - per eliminare quei modesti problemi strutturali che attualmente ci sono”. Le pareti, intanto, sono state tinteggiate di recente. Le quattro docce a servizio delle celle al primo piano, dove sono reclusi la maggior parte dei detenuti (in media, sono sempre una cinquantina), sono quasi nuove. Decenti anche i servizi igienici delle celle, separati da una struttura in muratura dalla stanza in cui ci sono i letti (a castello). “Gli spazi per i detenuti - fa notare Di Bono - sono a norma di legge, che prevede almeno tre metri quadri per ogni persona”. Spazi che, talvolta, neppure le carceri costruite di recente garantiscono. Come conferma un carcerato che in passato è stato al “Pagliarelli” di Palermo. Ampio anche l’atrio per le ore d’aria, la cui alta parete è stata affrescata da un ex detenuto con scene di paradisi tropicali (mare, spiagge e palme). “È chiaro - dice l’avv. Zarzana - che qui manca la libertà, ma questo è un carcere a misura d’uomo ed è stato lo stesso direttore del Dap, Alfonso Sabella, a dire che è sicuro e in buone condizioni igieniche”. E anche l’avvocato Tranchida ribadisce che il carcere “non può essere chiuso”. Domenica, intanto, per constatare de visu le condizioni della struttura, arriverà il sottosegretario alla Giustizia Salvatore Mazzamuto. Bologna: alla Dozza lavora solo il 15% dei detenuti, una ventina all’esterno del carcere Affari Italiani, 12 luglio 2012 Poco lavoro e poco qualificato. Ecco com’è il lavoro dei detenuti dentro la Dozza. E quello esterno è ancora meno. Su 900 detenuti presenti nella Casa circondariale, di cui la metà in attesa di giudizio (su 490 posti) sono meno di 120 quelli che lavorano dentro il carcere e una ventina all’esterno (circa il 15% in totale). È quanto è emerso dalla seduta congiunta delle Commissioni delle elette e sanità sull’udienza conoscitiva su lavoro e formazione all’interno della Dozza chiesta dal consigliere comunale Francesco Errani. “Tra gli elementi che recepiscono i principi della Costituzione che punta alla rieducazione della pena il lavoro è quello più importante - ha detto Ione Toccafondi, direttrice della Dozza - Lo dimostra il fatto che gli atti di autolesionismo aumentano il primo giorno del mese, quando un detenuto scopre che non lavorerà nemmeno per quel mese”. Per far lavorare più persone, infatti, i lavori interni sono svolti per 3 ore al giorno e a turni mensili. Si tratta, comunque, di lavori poco qualificati di preparazione pasti, pulizie o lavanderia che, continua Toccafondi, “mantengono la struttura ma non insegnano un mestiere spendibile all’esterno”. La situazione, però, è in lieve miglioramento. “Il numero dei detenuti è calato - ha spiegato Desi Bruno, garante regionale dei diritti dei detenuti - In regione siamo scesi sotto i 4.000, quindi i problemi di lavoro legati al sovraffollamento potrebbero ridimensionarsi e ciò potrebbe anche favorire l’ingresso delle imprese”. Cambiare punto di vista sul lavoro. È il passo ulteriore che bisogna compiere, secondo la garante, per sbloccare la situazione. Alla Dozza c’è un esempio virtuoso: il laboratorio Raee di recupero dei rifiuti elettrici ed elettronici della Cooperativa It2 occupa 3 detenuti part-time (18 ore alla settimana) che guadagnano circa 500 euro al mese. “In 3 anni sono 6 i detenuti che hanno lavorato con noi - ha raccontato Daniele Steccanella della cooperativa - e per 1 di loro siamo riusciti a fare la transizione verso l’esterno: è stato assunto da una ditta di Marzabotto e ogni giorno esce e va a lavorare fuori, facendo il mestiere che ha imparato con noi”. L’importanza di esperienze come quella del laboratorio Raee è fondamentale. “Ci dimostra che si può fare altro - ha detto Bruno -facendo formazione non fine a se stessa ma legandola alla richiesta di lavoro effettivo all’esterno”. La garante ha anche ricordato la recente firma di un Protocollo tra Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) che prevede la creazione di una sorta di help desk tra Comune e direzione del carcere per individuare le possibilità di lavoro esterno (lavori utili per la collettività, lavori artigianali in disuso, lavori umili per i quali non c’è offerta) e metterle in collegamento con i detenuti. “Si tratta di creare un punto di incontro tra domanda e offerta - ha chiarito Bruno - puntando sull’articolo 21 che permette alla direzione del carcere di individuare i detenuti che possono lavorare e individuando quelli che possono uscire per cessata pericolosità sociale”. Poi naturalmente c’è anche la questione dei lavori di pubblica utilità (possibili solo per la guida in stato di ebbrezza) per i quali la direttrice ha chiesto “un intervento degli Enti locali”. E quindi, in primis, del Comune. Api e abiti. Altri 2 progetti attivi all’interno della Dozza sono quello della Sartoria Gomito a Gomito nella sezione femminile e quello di formazione sull’apicoltura e la produzione di miele promosso da Conapi insieme ad Alcenero, con la collaborazione del Cefal. Anche in questo caso si tratta di progetti attraverso i quali i detenuti imparano un mestiere spendibile all’esterno. Si tratta però di progetti in difficoltà. “Alla sartoria lavorano 4 detenute più la sarta - racconta Martino della cooperativa Siamo Qua - ma abbiamo difficoltà economiche: le vendite sono andate bene a maggio ma sono calate a giugno e poi avremmo bisogno di un luogo fisso in cui poter vendere abiti e borse”. Nel 2011 il laboratorio ha avuto perdite per diverse migliaia di euro, mentre nel 2012 le spese saranno coperte dai fondi raccolti attraverso l’iniziativa “Tagliatelle in piazza” promossa dall’associazione Panificatori bolognesi, Unione cuochi e sfogline. Per quanto riguarda l’apicoltura il corso è stato attivato nel 2011 e ha permesso di produrre 680 chilogrammi di miele che è stato confezionato ed è in vendita in alcuni negozi (tra cui quello di Alcenero). Nel 2012 ci sono difficoltà anche se le api sono ancora in carcere e con il ricavato della vendita del miele si auspica di poter portare avanti il progetto. Dopo l’estate riprenderanno le attività del Comitato Carcere locale che, come ha annunciato l’assessore al Welfare Amelia Frascaroli, “si articolerà in gruppi di lavoro di cui uno dedicato alla salute, uno ai rapporti con il territorio e uno a formazione e lavoro”. Bologna: rilanciare la sartoria della Dozza, lo chiede la Garante regionale dei detenuti Ristretti Orizzonti, 12 luglio 2012 All’interno del carcere della Dozza (Bo), dal dicembre 2010 si è sviluppata un’attività di sartoria coordinata dalla coop. sociale “Siamo Qua”, dopo un percorso di formazione professionale per le detenute, promosso dalla direzione della Casa circondariale in collaborazione con il Cefal. Avviato grazie all’utilizzo di borse-lavoro, il progetto “Gomito a gomito” occupa stabilmente tre donne detenute ed è in previsione l’assunzione di una quarta (al momento in borsa-lavoro). Abiti e borse, sporte e grembiuli, i prodotti sartoriali realizzati dalle donne detenute, sono di ottima qualità e vengono distribuiti attraverso banchetti organizzati dai volontari: il sabato mattina in via Ugo Bassi (angolo Nazario Sauro) e il lunedì sera dalle 17.30 alle 21.00 al Mercato della Terra (via Azzo Gardino nel cortile della cineteca). Inoltre, nel periodo estivo, questi prodotti vengono messi in vendita all’interno di alcune fiere o feste parrocchiali. Ma la sopravvivenza dell’esperienza è ancora a rischio. Può procedere, svilupparsi e rafforzarsi, offrendo concrete opportunità di lavoro, solo se se ne garantisce la sostenibilità economica, i cui costi non possono essere sostenuti solo dalla cooperativa sociale. Inevitabili le difficoltà alla partenza: il bilancio 2011 si è chiuso in rosso, mentre l’anno in corso sta avendo un andamento positivo, con un picco nei mesi di aprile e maggio, anche grazie al contributo dell’Associazioni panificatori di Bologna, che hanno organizzato una iniziativa a sostegno, nell’ambito dell’iniziativa “Tagliatelle in piazza”, in piazza del Nettuno. Nelle ultime settimane, invece, le entrate appaiono in flessione. Perciò Desi Bruno, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per la Regione Emilia-Romagna, ritiene necessario rilanciare la diffusione di informazioni su questa vicenda, una comunicazione d’utilità sociale per la quale chiede la collaborazione di tutti gli organi di informazione. Quella del lavoro è una strada da percorrere fino in fondo per favorire il reinserimento e la qualità della vita delle donne detenute; Desi Bruno rilancia un appello alle imprese di pelletteria e di abbigliamento, e ai magazzini all’ingrosso del settore: alla sartoria del carcere servono stoffe (anche campionature e scampoli), bottoni, passamaneria, pizzi, eccetera. Secondo la Garante - intervenuta ieri a una seduta congiunta di due commissioni del Comune di Bologna - un ulteriore salto di qualità potrà venire dal concretizzare la disponibilità, annunciata del Comune, di un piccolo spazio per poter aprire un negozio visibile e in un luogo di passaggio dove vendere più agevolmente e per tutto il periodo dell’anno i prodotti della sartoria, nonché gli altri prodotti realizzati o che potranno essere realizzati all’interno del carcere della Dozza (per esempio il miele, frutto delle attività di apicoltura). Bologna: oltre 100 richieste per andare a scuola… anche alla Dozza c’è lista attesa Dire, 12 luglio 2012 Nel carcere della Dozza chi vuole frequentare la scuola superiore deve mettersi in lista di attesa. Se poi parliamo di detenute, proprio non c’è possibilità perché le classi di scuola superiore non esistono. Nella sezione maschile, invece, le classi sono passate da sei a tre, di cui una in alta sicurezza che fa tutti e cinque gli anni. Ma le richieste sono tante e non si riescono a soddisfare tutte. “L’anno scorso sono state più di 100 - racconta una delle insegnanti dell’Istituto Keynes che tiene corsi - ma le classi sono da 18 persone e in tanti sono rimasti fuori”. In difficoltà anche i corsi professionali. Alla Dozza ci sono quelli organizzati dall’Iiple (Istituto di istruzione professionale per lavoratori edili), dalle Aldini Valeriani e dal Cefal che ha creato uno sportello di orientamento professionale interno al carcere e gestisce il Centro per l’impiego aperto dalla Provincia. “Nonostante la richiesta - racconta Giacomo Sarti del Cefal - l’attività è rallentata negli ultimi due anni e negli ultimi sei mesi non siamo riusciti a far partire i corsi perché mancano le autorizzazioni all’ingresso dei docenti, per difficoltà amministrative soprattutto del Tribunale di sorveglianza”. Al ‘femminilè non c’è la scuola superiore, ma ci sono donne che vogliono studiare. “Basterebbe istituire una sezione con due classi- spiega la docente- una per il biennio e una per il triennio, come avviene nella sezione maschile”. Le richieste, a quanto pare, ci sono. Quest’anno sono stati gli stessi insegnanti a preparare volontariamente otto ragazze, anche se “riusciremo a presentarne solo una per l’idoneità perché abbiamo avuto molte difficoltà, soprattutto a far entrare i docenti”. Nella sezione maschile, invece, le classi ci sono ma sono in molti a rimanere fuori. “In alta sicurezza poi facciamo cinque anni in una classe - continua la docente - è veramente difficile, ma per loro è importante anche perché è praticamente l’unica attività presente in quella sezione del carcere”. La Provincia sostiene le attività formative in carcere con finanziamenti costanti. Per l’anno 2011-2012 sono stati stanziati poco più di 173.000 euro per 102 allievi e 1.422 ore di lezione per 5 interventi formativi di cui tre alla Dozza e due al Pratello. “La formazione in carcere non si può improvvisare - ha affermato Giuseppe De Biasi, assessore provinciale alla Scuola - e alla Dozza ci sono diverse esperienze consolidate negli anni e si è creata una rete sul territorio che funziona: la ripresa del Comitato Carcere locale è un segnale importante”. Lamezia: terminato il corso ceramica per i detenuti della Casa circondariale Redattore Sociale, 12 luglio 2012 Il percorso formativo è stato condotto dagli operatori del Centro territoriale permanente. Vescio: “Il Ctp rappresenta un’occasione per la crescita e la formazione dei detenuti”. Consegnati gli attestati di partecipazione al corso di ceramica promosso dal Centro territoriale permanente (Ctp) di Lamezia. A ricevere i riconoscimenti i detenuti della casa circondariale lametina che sono stati i protagonisti del percorso formativo. A volere fortemente il progetto la direttrice dell’istituto di pena, Maria Luisa Mendicino e il comandante della polizia penitenziaria Massimiliano Carnevale che hanno operato in piena sinergia col coordinatore del Centro, Aldo Antonio Mercuri. Gli aspiranti ceramisti sono stati guidati dall’educatrice Stefania Stratoti e dal tutor del Ctp, Antonio Torquato. La premiazione si è tenuta in una sala del carcere, in pratica un’antica ala dell’ex convento francescano, all’interno del quale è stata costruita la casa circondariale lametina. Una cornice storico-architettonica del tutto unica, per la presentazione dei manufatti in ceramica realizzati dai detenuti ed aventi una ricca e variegata pluralità di tematiche: dalle maschere apotropaiche, ai vasi, ai piatti decorati, e tanto altro ancora. Soddisfatti i docenti del Centro e i responsabili della casa circondariale che sono riusciti a lavorare in piena sinergia. “Il Ctp rappresenta un’occasione per la crescita e la formazione dei detenuti - spiega Ninfa Marilena Vescio, docente responsabile del Centro territoriale permanente. Nel percorso formativo che abbiamo realizzato, sono stati di fondamentale importanza la fattiva collaborazione e gli incontri con gli operatori dell’istituzione penitenziaria”. La rappresentante del Ctp puntualizza che “ le quattro mura di una cella sono il luogo dove si deve accogliere rabbia, disagio, dolore, dove il docente deve credere comunque nella bellezza, nonostante tutto. E deve cercarla anche lì tra quelle mura: perché la bellezza in carcere - rimarca Ninfa Vescio - è la solidarietà”. Con il corso di ceramica, è stato confermato che “anche i detenuti hanno qualcosa di buono da dire e da dimostrare - rimarca ancora la docente del Ctp - anche quelli che sembrano più corazzati, con la scorza più dura e impenetrabile, hanno lavorato attivamente riuscendo a concretizzare dei manufatti di pregio. Anche con queste attività - conclude Ninfa Vescio - si può iniziare ad intraprendere quel cammino di recupero che è basilare per reintegrarsi nella società civile, dopo che aver scontato la propria pena”. La docente ringrazia particolarmente il coordinatore del Ctp, Aldo Antonio Mercuri, “per aver sapientemente guidato tutti gli operatori del Centro territoriale con un obiettivo prioritario: mettere a disposizione la propria esperienza umana ed offrire la propria competenza professionale, per la promozione sociale di persone che hanno avuto e continuano ad avere un’esistenza molto travagliata e per le quali il rientro nel contesto sociale è sempre molto difficile a livello esistenziale e lavorativo”. Roma: la Provincia organizza corsi lingua italiana per minori stranieri detenuti Asca, 12 luglio 2012 Dopo il positivo riscontro ottenuto negli anni precedenti anche quest’anno la Provincia di Roma interviene a sostegno dei minori stranieri detenuti nell’Istituto penale Casal del Marmo organizzando corsi di lingua italiana. L’Assessorato alle Politiche della scuola nell’ambito delle attività di educazione degli adulti ed in particolare quelle rivolte alle categorie più a rischio di emarginazione come i detenuti e gli immigrati, intende dare una risposta alle richieste avanzate dal Dipartimento di Giustizia minorile del Ministero di Giustizia per sopperire alla mancanza di attività formative all’interno del carcere durante il periodo estivo. L’intervento nasce a seguito del Protocollo di intesa firmato tra la Provincia di Roma e l’Università popolare di Roma (Upter), i cui docenti svolgeranno i corsi di lingua italiana a partire dal mese di luglio 2012 fino al 15 settembre 2012. Il Protocollo prevede che i corrispettivi dovuti dall’Upter alla Provincia di Roma per la concessione delle aule scolastiche degli Istituti superiori siano compensati con lo svolgimento di moduli formativi da parte dell’Upter. “Grazie all’Amministrazione Zingaretti è possibile dare un momento formativo ai detenuti stranieri dell’Istituto penale di Casal del Marmo - afferma l’assessore alle Politiche scolastiche della Provincia di Roma, Paola Rita Stella. Sosteniamo la necessità di insegnare la lingua italiana a chi vive nel nostro Paese per fornire a queste ragazze a questi ragazzi e uno strumento in più per poter affrontare al meglio le occasioni di reinserimento nella vita quotidiana, per un percorso di riabilitazione sociale dei detenuti che passa anche attraverso una pena educativa”. Firenze: inaugurata la ludoteca all’interno del carcere di Solliccianino met.provincia.fi.it, 12 luglio 2012 Il nuovo spazio dedicato all’incontro padri-figli. Presenti gli assessori Saccardi e Givone. Una piccola ludoteca con annesso giardino dedicato ai figli dei detenuti dell’Istituto Mario Gozzini. Il nuovo spazio, dove i bambini possono incontrare e giocare con i padri, è stato inaugurato questa mattina. Per l’Amministrazione comunale erano presenti gli assessori al Welfare Stefania Saccardi e alla cultura Sergio Givone. A fare gli onori di casa il direttore di Solliccianino Margherita Michelini, Daniela Calzelunghe dirigente dell’ufficio esecuzioni penali esterne (Uepe) di Firenze, Prato, Pistoia e Arezzo e vari operatori che lavorano in carcere. “Siamo contenti dell’apertura di un nuovo spazio umanizzante in una struttura carceraria di Firenze - ha dichiarato l’assessore Saccardi. L’esigenza di un luogo piacevole dove i padri possano incontrare i loro bambini era particolarmente sentita e la direzione dell’Istituto Gozzini ha avuto la sensibilità di lavorare per realizzazione questo spazio, insieme ai detenuti e alle associazioni impegnate nel carcere. Da parte nostra quindi solo un grazie a tutti e un’espressione di soddisfazione per questo intervento che avvicina ulteriormente il carcere alla città. “Questo spazio dedicato ai più piccoli è un luogo vivo e vitale, che consente loro di giocare e stare con i propri genitori liberamente e senza costrizioni - ha aggiunto l’assessore Givone. È molto importante in un contesto come il carcere, caratterizzato per sua natura dalla mancanza di libertà”. Attualmente i detenuti del Gozzini sono 70 cui se ne aggiungono 20 in semilibertà. I padri con figli minori sono 10 per un totale 12 bambini. In realtà negli ultimi tre mesi i bambini che sono stati a Sollicciano per i colloqui sono stati il doppio perché ai figli si aggiungono anche i nipoti. Fino ad oggi gli incontri avvenivano nei normali spazi dedicati ai colloqui con i famigliari. Questo spazio invece vuole offrire un luogo più allegro e meno impressionante per i bambini dove possono giocare con i padri in un ambiente diverso da quello tipico del carcere. Per questo sono ci sono arredi colorati a misura di bambino, giocattoli, libri e presto arriveranno anche le decorazioni e i murales alle pareti. Trapani: il turismo lo promuovono i detenuti… costruendo una trireme romana La Sicilia, 12 luglio 2012 Per favorire i viaggi sulle isole Egadi e sul territorio di Marsala, un’associazione di Trapani e le istituzioni siciliane hanno avviato un progetto che coinvolge un gruppo di persone rinchiuse nel carcere di Favignana: la realizzazione di un’imbarcazione di epoca romana. Una trireme romana costruita dai detenuti del carcere di Favignana come punto di partenza di una nuova economia del turismo sulle isole dell’arcipelago delle Egadi e sul territorio di Marsala. È questo l’ambizioso progetto ideato dall’Associazione Vela Latina di Trapani, che si propone la realizzazione di un modello in scala, lungo 1.80 metri e alto 1.30 metri, dell’imbarcazione che fu protagonista nel 241 a.C. della battaglia delle Egadi, nel corso della prima guerra punica. Gli organizzatori non escludono che in futuro si possa costruire una nave di dimensioni reali, di circa 35 metri. La realizzazione dell’opera sarà completata entro il mese di luglio e vedrà la collaborazione di sei detenuti della casa circondariale di Favignana e del maestro ebanista Battista Balistreri, sotto la direzione di Antonio Fragapane, laureando del corso di Archeologia Marina e Navale dell’Università di Trapani e con la supervisione dei professori dell’Università di Bologna, Franco Torre e Marco Bonino. L’iniziativa è sostenuta dalla Regione Sicilia, dalla Soprintendenza ai Beni Culturali di Trapani, dal Comune, dalla Casa di Reclusione di Favignana e dalla cantina marsalese Caruso & Minini, dove verrà poi conservato il modellino al termine di un viaggio itinerante nelle gallerie nazionali e internazionali, ma non prima di essere esposto per un breve periodo nell’ex stabilimento Florio delle Tonnare di Favignana e Formica, in modo da poter essere a disposizione del turista di passaggio. L’idea di costruire un modellino della storica trireme, spiega Tonino Sposito, socio fondatore dell’Associazione Vela Latina Trapani, “è venuto dopo il ritrovamento di un rostro a largo di Levanzo. E poi la nostra Associazione è da sempre impegnata a far conoscere la storia e le bellezze delle Isole”. Nonostante le difficoltà iniziali, l’entusiasmo, soprattutto da parte dei detenuti, è stato immediatamente grande. “Con questa iniziativa - aggiunge Sposito - regaliamo ai sei reclusi la sensazione di sentirsi per una volta protagonisti e la possibilità di distrarsi, anche se per poche settimane, dalla difficile vita carceraria. Con la fantasia salperanno anche loro”. Lo scopo del progetto non si limita soltanto all’aspetto turistico e didattico per promuovere la storia e la cultura del territorio, valorizzandone bellezza, origini ed energie, ma si arricchisce di un’importante valenza sociale. Con questa iniziativa si vuole dare ai detenuti l’opportunità di imparare un’arte che sia anche una risorsa di reinserimento sociale. Il professor Torre sottolinea infatti la “necessità di porgere una mano a chi ha bisogno di una nuova possibilità e di ridare una speranza”. Barletta: presentato “Del Racconto la Reclusione”… il disagio nelle carceri di Dora Dibenedetto www.ilquotidianoitaliano.it, 12 luglio 2012 Nella rinascimentale cornice di Palazzo della Marra a Barletta, ieri sera è stato presentato “Del racconto la Reclusione” uno dei tanti appuntamenti itineranti della terza edizione del Festival di Cinema e Letteratura “Del racconto il Film”. La rassegna, già iniziata il 16 giugno e che proseguirà fino al 25 agosto, facendo tappa a Mola di Bari, Bitritto, Putignano e Barletta, unisce musica, cinema e sociale attraverso una serie di temi legati al territorio, ai cittadini, alle istituzioni; la manifestazione diretta da Giancarlo Visitilli, presidente della cooperativa sociale di Bitritto “I Bambini di Truffaut” in collaborazione con la giornalista Annamaria Minunno, è organizzata da Michele Campanella con l’ausilio della libreria ufficiale Culture Club Cafè di Mola di Bari. “Del racconto la Reclusione” è stato un evento realizzato grazie al sostegno dell’Associazione Nazionale Magistrati, dell’associazione barlettana “La Democrazia delle Parole”, del presidio del libro di Barletta “Liberincipit” e del Cinema Opera della città. La serata, condotta e moderata dalla giornalista Minunno, è stata un momento per riflettere sulla situazione inerente il sovraffollamento delle carceri di Bari, e della fondamentale importanza di rieducare e reinserire nel contesto sociale gli ex detenuti o comunque quelle persone che si trovino in una situazione di grave rischio di emarginazione sociale o che siano sottoposte a misure restrittive della libertà personale. A discutere e analizzare tali tematiche, sono pertanto intervenuti il procuratore della Repubblica di Brindisi Marco Dinapoli, i magistrati Marco Guida ed Angela Arbore entrambi componenti della giunta afferente l’ Associazione Nazionale Magistrati e l’avvocato barese Piero Rossi autore del libro “Cape Guastate”. “Un romanzo come resoconto verosimile di un iniziativa di inclusione sociale, attraverso il lavoro di ex detenuti e dei loro famigliari” questo è un può ciò che sintetizza “Cape Guastate”. “Nel libro parlo di reclusi che trovano il proprio riscatto sociale grazie al lavoro. I componenti della cooperativa sociale verosimile di cui parlo nel testo, non sono solo pregiudicati - ha affermato l’autore Rossi - Voltare pagina, ricominciare a vivere, per queste persone è molto importante, e lo si può fare anche grazie l’ausilio delle istituzioni, non a caso nel mio libro ho citato anche il sindaco Toscano e di come si trovi a reinterpretare il suo ruolo da magistrato ad amministratore della città - ha proseguito l’avvocato. A seguire l’intervento del procuratore Dinapoli, analizza la situazione disumana dei detenuti presenti nelle carceri dell’intera regione Puglia, soffermandosi soprattutto sulla penosa situazione dei detenuti immigrati : “Queste persone non hanno qua in Italia le proprie famiglie, e pertanto vivono con maggior drammaticità la propria detenzione”. Il magistrato Marco Giuda, prosegue sostenendo: “È difficile coniugare il nostro lavoro con i propri valori umani. Ritengo che sia necessario rispettare i principi costituzionali basati sul rispetto della persona, applicandoli a tutti i cittadini, ai detenuti prescindendo dal fatto che siano o che non siano immigrati . Visitando il carcere di Bari abbiamo riscontrato che in ogni cella con bagno a vista ci sono sedici detenuti! E questa situazione è inaccettabile”. Il giudice Angela Arbore ha ribadito il concetto di Giuda, sottolineando piuttosto che: “ A Bari il problema del sovraffollamento delle carceri è davvero difficile. Abbiamo avuto un’esperienza devastante nel carcere di Bari; a differenza di Turi che piuttosto si pone come istituto modello, il carcere di Bari presenta una situazione di vero degrado”. Ultime le battute di Rossi, il quale ha concluso l’incontro ribadendo l’importanza del ruolo di “Garante del detenuto” figura del resto analizzata nel suo libro, senza tralasciare anche l’importanza della famiglia e di come bisogna far leva su essa, affinché possa esserci il pieno recupero della persona : “tutto si fonda sulla fidelizzazione che si crea tra garante e detenuto; lo stesso garante può agire non solo sul detenuto ma anche sui suoi famigliari”. Sulla scia del dibattito era stata prevista la proiezione del film “Bronson” avente come trama la storia di un detenuto condannato all’ergastolo, ma per problemi tecnici la visione del film non è stata più possibile. Intanto stasera alle 20.30 sempre presso Palazzo della Marra sarà la volta “Del racconto di Michel Gondry”. Eboli (Sa): il 16 luglio presentazione del Progetto Chef per i detenuti dell’Icatt Ristretti Orizzonti, 12 luglio 2012 Si terrà lunedì 16 luglio alle 10.00 presso la Casa di Reclusione di Eboli, la presentazione del Progetto Chef, ai 50 detenuti attualmente presenti attualmente nella struttura. La Casa di Reclusione di Eboli accoglie, come si sa, profili legati alla tossicodipendenza e all’alcolismo in una visione di recupero attivo. Il progetto mira, nell’ottica di questo recupero, ad individuare, creandone le condizioni, con una formazione semplice, efficace, puntuale e fortemente stimolante, un progetto di vita da parte dei detenuti che, anche se già all’interno di un programma, hanno bisogno di ritrovare forti motivazioni per considerarsi ed essere considerati recuperabili e recuperati. L’idea, voluta fortemente dalla direttrice dott.ssa Rita Romano, si compone di due fasi, una teorica ed una pratica e sarà libera scelta dei detenuti decidere di iniziarne il percorso. Il progetto, nel caso se ne individuassero le condizioni, potrebbe avere una sua appendice esterna, nella fase pratica, dove i “formati” riceveranno un maggiore e significativo approfondimento. Questo percorso mira ad individuare figure come quella dello Chef e di tutte quelle altre realtà che formano una “Ristorazione” evidenziando tutte quelle particolarità di questa attività. Saranno messe in primo piano tutte quelle azioni, quelle logiche e quelle caratteristiche che fanno di uno Chef un buon ristoratore, un buon professionista ed un esperto dell’accoglienza. Il programma, che sarà presentato Lunedì prossimo, sarà illustrato dai due professionisti, ideatori e conduttori dell’iniziativa, lo Chef Antonio Raimondo formatore enogastronomico e titolare del Ristorante Vico Venezia a Montecorvino Rovella ed il dott. Umberto Flauto esperto di marketing e di formazione agroalimentare. La dott.ssa Romano illustrerà le finalità dell’iniziativa. È prevista, alla fine del corso, una serata con cena di Gala, dove gli attori principali saranno tutti “i novelli ristoratori” che avendo seguito il corso, saranno in grado di realizzare e presentare, tutti insieme, un Menu appositamente dedicato all’evento. Il Direttore Dr.ssa Rita Romano Cagliari: portò cocaina e hashish a un detenuto, avvocato patteggia 3 anni La Nuova Sardegna, 12 luglio 2012 Ha patteggiato, ieri, davanti al giudice dell’udienza preliminare di Cagliari una pena di tre anni l’avvocato Domenico Alessandrini, arrestato lo scorso febbraio con l’accusa di aver ceduto droga a un suo assistito detenuto. Il legale, difeso dal collega Fernando Vignes, era finito sotto inchiesta per aver ceduto cocaina e hashish a Renzo Cogoni, durante un colloquio nel carcere di Buoncammino. Stando alle indagini, la droga era destinata ad alimentare un giro di spaccio tra le sbarre del carcere cagliaritano. Domenico Alessandrini era stato arrestato il primo febbraio 2011 dai carabinieri con l’accusa di aver introdotto droga nel penitenziario di Buoncammino, consegnandola al suo assistito che era detenuto. Le indagini dei militari dell’Arma erano cominciate quasi un anno prima dopo che il detenuto Renzo Cogoni era stato trovato in possesso di centoventi dosi di hascisc e venti di cocaina durante un controllo seguito ad un colloquio con l’avvocato difensore Domenico Alessandrini. Oristano: violenze sul compagno di cella, processo per quattro detenuti La Nuova Sardegna, 12 luglio 2012 Difficile trascorrere il tempo in cella. Non sempre poi i rapporti tra i detenuti sono cordiali. In questo caso però, secondo il giudice per le udienze preliminari Annie Cecile Pinello, si sarebbe andati di molto oltre. È per questo che è stata accolta la richiesta del pubblico ministero Rossella Spano, che aveva sollecitato il rinvio a giudizio per quattro detenuti del carcere di piazza Manno che avrebbero commesso violenze e anche un abuso sessuale nei confronti di un loro compagno di detenzione. Il rinvio a giudizio, con il processo che si aprirà il 7 dicembre, riguarda l’orgolese Paolo Ungredda, 29 anni detenuto per rapine e furti (assistito dall’avvocato Lorenzo Soro), Graziano Pinna, 42 anni di Borore detenuto per una rapina a Paulilatino (assistito dall’avvocato Aurelio Schintu), Graziano Congiu 30 anni di Milis (assistito dall’avvocato Aurelio Schintu), detenuto per una rapina in una tabaccheria di Simala, e il sassarese di 26 anni Daniele Daga (assistito dall’avvocato Gabriele Satta). I fatti, così come li ha descritti il pubblico ministero, ricalcano la denuncia fatta a suo tempo dal compagno di cella dei quattro che ora si è costituito parte civile, assistito dall’avvocato Marco Martinez. Secondo quanto ricostruito anche con le indagini, all’interno della cella, i quattro avrebbero preso il sopravvento. Nel capo d’imputazione, dove si parla di scherzi che tali non erano. Contro il detenuto sarebbero state lanciate sigarette accese, altre volte gli venivano fatti dei gavettoni, con le minacce sarebbero state all’ordine del giorno. Il fatto più grave sarebbe accaduto quando l’avrebbero costretto ad abbassarsi i pantaloni. La posizione meno grave è quella di Graziano Pinna - per lui c’è stato il rinvio a giudizio solo per minacce, ma in realtà tutti negano che quanto denunciato sia vero. Stati Uniti: avviata la revisione per migliaia di condanne con prove dubbie Ansa, 12 luglio 2012 Nel dubbio che degli innocenti siano finiti dietro le sbarre in base a prove forensi dubbie o addirittura sbagliate, il Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti e l’Fbi hanno avviato la revisione di migliaia di casi, che risalgono almeno fino al 1985, e forse oltre. Si tratta della più vasta operazione del genere mai condotta dall’Fbi e riguarda casi che hanno portato a condanne federali o locali, in gran parte per crimini violenti come stupri, rapine e omicidi. “Il Dipartimento e l’Fbi stanno identificando per la revisione dei casi storici, in cui esami microscopici dei capelli condotti dall’Fbi erano tra le prove che hanno portato ad una condanna”, ha affermato in un comunicato una portavoce, Nanda Chitre, aggiungendo che per l’operazione vengono investiti “una notevole quantità di tempo e risorse... con l’intento di raggiungere determinazioni finali nei prossimi mesi”. La decisione di procedere a migliaia di revisioni fa seguito ad uno scoop del Washington Post, che lo scorso aprile ha rivelato che funzionari del Dipartimento della Giustizia sono stati a conoscenza per anni del fatto che test approssimativi compiuti nei laboratori dell’Fbi possono aver condotto in tutto il Paese alla condanna, anche alla pena capitale, di imputati potenzialmente innocenti, ma i procuratori dei rispettivi casi non hanno informato gli imputati in questione o i loro avvocati. Si tratta di casi emersi negli anni 90, quando è stata avviata una revisione delle prove forensi utilizzate in molti processi dopo che era emerso che in una serie di casi i laboratori dell’Fbi avevano fornito esami inattendibili. In particolare, le prove discutibili si basavano sull’ identificazione degli imputati attraverso l’esame di capelli trovati sulla scena del crimine, ma si tratta di un test che veniva utilizzato prima del moderno esame del Dna e che nel migliore dei casi poteva restringere il campo dei possibili sospetti. In quell’articolo erano indicati tra gli altri i casi di due detenuti in prigione da circa 30 anni. Da aprile, scrive oggi il Post, la loro vicenda processuale è stata rivista, e le accuse contro di loro sono state sollevate. Non è chiaro al momento quanti siano i casi che verranno ora rivisti. Ma a quanto sembra, solo per cominciare si parla di almeno 10 mila, in cui l’esame di capelli e fibre è stato alla base dell’impianto accusatorio.