Giustizia: carceri inchiodate all’illegalità di Rita Bernardini Europa, 12 agosto 2012 Sono infinitamente grata ad Europa per avermi chiesto di scrivere un pezzo sulla perennemente drammatica situazione delle carceri, ma devo dire che, a ben ragionare sull’argomento, dovremmo piuttosto parlare di bancarotta costituzionale della giustizia, di cui le nostre carceri sono l’anello terminale. Finalmente oggi di carceri si parla, grazie anche all’ostinazione di Pannella e dei radicali. In molti piangono in tv per i poveri carcerati ma, persino coloro che facendo parte del governo hanno gli strumenti adeguati per interrompere la flagranza dei delitti in corso, oltre a chiacchierare, nulla fanno. L’Europa ci condanna da oltre trent’anni per violazione degli articoli 3 e 6 della Convenzione, ma il nostro stato rimane inchiodato all’illegalità non solo del nostro sistema carcerario ma a ciò che più dovrebbe far impressione: l’irragionevole durata dei processi civili e penali. Abbia governato il centrodestra o il centrosinistra mai si è messa mano ad una riforma strutturale della giustizia che potesse invertire questo scellerato corso delle cose. E, d’altra parte, come si può costruire il nuovo se l’infrastruttura “giustizia” è ostruita da oltre dieci milioni di procedimenti pendenti che impediscono ai sopravvenuti di avere il loro corso? Il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa - che è chiamato a vigilare sul percorso di “riabilitazione” del nostro paese - dopo le tante condanne comminate, non si fida più e a marzo scorso ha chiesto al governo italiano di “vedere le carte”, cioè di presentare un piano d’azione fatto di proposte concrete su come risolvere la questione e un fitto calendario per poter monitorare l’efficacia dei provvedimenti presi. Già perché il comportamento delinquenziale dell’Italia non colpisce solo lo stato di diritto nostrano, con la negazione dei diritti sanciti dalla convenzione europea dei diritti umani, ma crea una minaccia seria per l’efficacia del sistema che sottende alla stessa convenzione europea. Come una peste che dall’Italia si diffonde all’Europa, al mondo. Queste cose il presidente della repubblica le sa bene e più di un anno fa ad un nostro convegno cosponsorizzato dal presidente del senato Renato Schifani dimostrò di sapersi esprimere meglio di noi e di chiunque altro. Perciò non ripeterò le sue pregnanti parole sullo stato della giustizia e delle carceri: chi ascolta Radio Radicale le conosce a memoria. Mi soffermerò solo sulle ultime espressioni del suo discorso quando invitò se stesso e noi tutti ad essere capaci di uno “scatto”, di una “svolta”, “non fosse altro che per istinto di sopravvivenza nazionale”. Così il presidente Napolitano dimostrava di sapere che un provvedimento di amnistia era necessario in primo luogo per la “sopravvivenza” del paese prima ancora che essere un atto di clemenza nei confronti di coloro che, ristretti nelle nostre carceri, subiscono trattamenti inumani e degradanti. Egli, il nostro presidente, che a Natale del 2005 marciò con noi per l’amnistia quando la situazione era semmai meno grave dell’odierna, sembra aver smarrito la strada che lo vuole garante e custode della Costituzione. Parla su tutto a reti unificate svolgendo il ruolo, non previsto dalla nostra carta fondamentale, di arbitro fra le forze politiche guardandosi bene dall’esprimersi con i messaggi al parlamento previsti dall’articolo 87. Sull’amnistia continua a ripetere come un disco rotto cantato in coro con il ministro Severino “che non ci sono le condizioni politiche”. Ma al presidente non deve proprio interessare che le condizioni politiche ci siano o meno. Egli ha invece l’obbligo di intervenire per fronteggiare la completa débâcle della nostra Carta costituzionale, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, delle nostre stesse leggi (basti pensare a quanto previsto dall’Ordinamento penitenziario e dal suo regolamento di attuazione). Da parte nostra, con Marco Pannella, da nonviolenti e affermatori di coscienza, chiediamo ai nostri interlocutori istituzionali di rispettare i loro propri obblighi, i loro propri doveri, la loro propria moralità. E questo ci porta a mettere a punto una serie di iniziative per l’attivazione dei meccanismi giuridici europei ed interni, a partire da quelli previsti per quei comportamenti del presidente della repubblica che determinino, magari per omissione, violazioni reiterate e sistematiche della Costituzione, tali da produrre conseguenze più gravi della semplice illegittimità costituzionale. Giustizia: Opg, si avvicina la chiusura… dove finiranno i detenuti malati? di Alessio Lasta www.ilvostro.it, 12 agosto 2012 Alla fine di marzo del prossimo anno verranno dismessi gli ospedali psichiatrici giudiziari: resta da capire come verranno collocate le circa 1.400 persone che vi sono rinchiuse al momento. C’è una data fissata da una legge: 31 marzo 2013. Quel giorno dovrà essere l’ultimo di apertura dei sei ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) in Italia. Entro quel termine lo Stato dovrà dire dove verranno collocate le circa 1.400 persone che vi sono rinchiuse oggi, perché ritenute dalla legge “socialmente pericolose”. Luoghi che la commissione del senatore Ignazio Marino ha chiamato di “degrado e tortura” e il presidente della Repubblica ha definito di “orrore medioevale”. Perché secondo il rapporto della Commissione Marino circa il 40% delle persone rinchiuse negli Opg potrebbe essere affidata ai dipartimenti di salute mentale, visto che per loro non sussiste la pericolosità sociale. “Con la dismissione degli Opg la legge non elimina il binomio tra cura e custodia - afferma Maria Laura Fadda, magistrato di sorveglianza a Milano -. Chi commette un reato penale e viene ritenuto malato mentale per legge deve essere curato in un sistema “manicomiale” che si fonda sull’aspetto della repressione, più che su quello della cura. Oggi di fatto non esiste un solo diritto che il malato manicomiale possa rivendicare, se in custodia. Pensiamo alla pena. Per il reo non vi può essere un aumento oltre quella stabilita in ultima istanza dal giudice. Per il reo ritenuto socialmente pericoloso, perché mentalmente instabile, l’aumento di pena non conosce limiti temporali, perché si basa sul giudizio periodico degli psichiatri. La magistratura torni invece a valutare in modo autonomo l’esistenza della pericolosità sociale, perché altrimenti rischiamo di lasciar rinchiusi per anni in queste strutture persone che malate non sono”. Per superare gli Opg la legge prevede strutture a esclusiva gestione sanitaria. All’interno dovrà quindi esserci solo personale medico o paramedico. Ma la sicurezza sarà garantita dalla vigilanza esterna, in relazione alla pericolosità delle persone ospitate. Inoltre la misura di sicurezza del ricovero in case di cura sarà eseguita esclusivamente all’interno delle strutture sanitarie. “Il rischio è quello di creare dei nuovi mini Opg - dice Stefano Cecconi, presidente del comitato “Stop Opg”. Con uno slogan potremmo dire che chiudono gli Opg e riaprono i manicomi”. La legge finanzia le regioni con 38 milioni di euro per il 2012 e 55 milioni per il 2013. Ma le regioni non sembrano ancora pronte alla data del 2013. Lo conferma Franco Milani, responsabile della sanità penitenziaria della Regione Lombardia. “Sul nostro territorio abbiamo il migliore degli Opg italiani, quello di Castiglione delle Stiviere, che ospita circa 280 persone tra cui 99 donne - afferma -, ma il costo della struttura supera del 40% i rimborsi dello Stato. I percorsi personalizzati post Opg non costeranno meno. Sarà difficile rispettare il termine di marzo 2013, anche se il percorso è ormai segnato”, conclude Milani. Oggi gli Opg sono sotto il controllo dell’amministrazione penitenziaria, ma spesso le difficoltà delle persone internate si erano manifestate già durante l’esperienza del carcere. “Al 4 aprile 2012 nelle carceri lombarde c’erano 564 persone con patologie psichiatriche, 428 con disturbi del comportamento. Queste persone aumentano inevitabilmente l’utenza degli Opg - afferma Francesca Valenzi, dirigente del Provveditorato regionale lombardo dell’amministrazione penitenziaria. Ricordo che tempo fa il direttore di San Vittore mi disse che un detenuto aveva espiato la sua pena in carcere, ma non era in grado di tornare libero per le numerose patologie, mentre i servizi non hanno voluto saperne di prenderlo in carico - prosegue Valenzi -. Non si può chiedere all’amministrazione penitenziaria di fare le veci dell’apparato sanitario: non ne ha le competenze e non le vuole nemmeno avere”. Il problema è capire quale personale dovrà operare all’interno delle nuove case di cura. “Di strutture ce ne sono fin troppe - afferma Valerio Canzian presidente dell’Unione regionale delle associazioni per la salute mentale -. Quello che manca è l’accompagnamento, l’ascolto del malato psichico. Si dice sempre che la persona deve essere al centro. Oggi al centro ci sono soltanto le strutture”. I numeri degli Opg in Italia 6 Opg in Italia: Aversa (Ce), Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto (Me), Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino (Fi), Castiglione delle Stiviere (Mn); 1400 persone internate; 31 marzo 2013 è la data prevista dalla legge 9/2012 in cui dovranno essere chiusi sul territorio nazionale gli ospedali psichiatrici giudiziari; Fondi per il superamento degli Opg: 38 milioni di euro per il 2012, 55 milioni di euro per il 2013; Il 40% delle persone rinchiuse non è più socialmente pericoloso (dati della commissione Marino del Senato). Giacomo matto “per forza”: assistevo a scene orribili A il Vostro parla un ex tossicodipendente finito in cella per rapina. Nel 2005 il trasferimento nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Da quel giorno, la sua vita non sarebbe più stata la stessa. C’hai la vita in pugno a diciotto anni. Giacomo invece, a quell’età, già si fa di droga. E per comprarsela rapina. Si becca tre anni. Entra in carcere a Milano. Cella con altri detenuti, molto più grandi di lui. Protesta per il sovraffollamento, scrive lettere. Ma è pur sempre un drogato. Credibilità zero. Passa in altre carceri. Arriva a Treviso. Stessa cosa, ma non ha più diciotto anni. Ora dà più fastidio. “Dal giorno alla notte mi dicono: “prepara le tue cose, ti trasferiamo di nuovo”. Il giorno dopo entravo per la prima volta all’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Era il 2005. Non sapevo neppure perché mi trovassi lì, né quale fosse la mia malattia mentale, ma appena chiedevo spiegazioni lo psichiatra mi zittiva: se sei qua è perché ti devo curare”. Giacomo in quel posto non ci vuole stare. Era un “tossico”, certo, e con una rapina alle spalle. Ma “matto” proprio no. “Assistevo a scene orribili - prosegue Giacomo. Gente legata al letto con le cinghie e messa in un locale dove una lavatrice girava di continuo. Avete idea di cosa voglia dire rimanere giorni e giorni in quelle condizioni con una lavatrice che non smette mai di girare?” Quarantacinque giorni di osservazione nell’Opg di Reggio Emilia, come prevede la legge. Poi il fatto che lo segna nel profondo. “Mi dicono che devo fare un’iniezione di Haldol, un potente antipsicotico - prosegue -. Non sapevo neppure cosa fosse. Dopo la puntura iniziano gli spasmi muscolari, l’ipersalivazione, i movimenti involontari della lingua. Il mio compagno di stanza mi tranquillizza: “Non ti preoccupare, poi passa. E invece l’irrigidimento muscolare mi è durato un anno”. Alla fine dei 45 giorni di osservazione per cui, per la legge, era un individuo “socialmente pericoloso” Giacomo torna in carcere. E ricomincia le sue battaglie. “Ogni volta che alzavo la testa mi minacciavano con la puntura di Haldol: era chiaro che non dovevo più fare domande, scrivere, protestare”. Dopo cinque anni di galera Giacomo torna libero. Si innamora di Giorgia e insieme a lei apre una piccola attività: produce e vende candele. “Avevamo messo su un nostro laboratorio all’interno di una comunità terapeutica. Ormai la droga era il mio passato - prosegue. Ma dopo tre anni dall’uscita dal carcere mi viene notificata una detenzione da un mese e 10 giorni per un fatto del 1996. Avevo la possibilità di dichiararmi “tossico” di nuovo e così scontarla in comunità. Ma non ho voluto venire meno alla mia dignità. Mi sono costituito in carcere e ho chiesto di rendere esecutiva la sentenza”. Uscito un’altra volta di galera nella vita di Giacomo succede un altro colpo di scena. Arriva un documento in cui lo si ritiene ancora “socialmente pericoloso” e lo si vuole far internare per un anno in una casa di cura. “È il segno che lo stigma della “pericolosità sociale” uno non se lo scrolla mai di dosso - prosegue Giacomo -. Il mio lavoro, le associazioni di recupero e l’amore di Giorgia sono stati fondamentali in questo percorso per uscirne vincitore, ma quanti Giacomo esistono come me, che dovendo scontare la mia pena mi sono trovato “matto” per forza?”. Rinchiuso per un’aggressione: gli hanno appiattito il cervello A il Vostro la storia di un giovane arrestato per aver aggredito il suo coinquilino: dopo essersi costituito, è stato condannato a cinque anni di carcere. Successivamente è stato trasferito all’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. “Mio figlio chiede ogni giorno: “ma guarirò mai?”. E la psichiatra scrive nel suo rapporto: il ragazzo non è ancora cosciente della sua malattia”. Il figlio si chiama Marco, il nome è di fantasia. Ha 27 anni e da tre si trova nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. “La sua vita è stata sempre allo sbando, faceva uso di eroina - racconta la mamma di Marco -. Lo curavano al Sert, a fiale di metadone. Poi lo rispedivano a casa, anche se lui ci andava in auto ed era imbottito di psicofarmaci”. Nel 2010 uno dei coinquilini di Marco, che viveva in un appartamento protetto, viene dimesso. L’arrivo di un altro inquilino, molto più grande di lui, crea nel ragazzo grossa insofferenza. I due litigano spesso. Marco, imbottito di psicofarmaci, metadone e birra una sera perde il controllo e colpisce alle spalle l’uomo. La prognosi è di 15 giorni, ma verrà dimesso dopo tre. Il ragazzo va dai carabinieri e si costituisce. Prende cinque anni e il giudice stabilisce il suo internamento all’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. “Mio figlio paga per la sua malattia - dice la madre del ragazzo - perché l’Opg non è la soluzione per lui. Fa fatica anche solo a leggere il giornale, a guardare la tv, mi continua a ripetere che lì dentro gli hanno appiattito il cervello. L’attività di recupero di cui ha bisogno mio figlio non può essere fatta in un Opg. La sua parola non è mai tenuta in considerazione, non è mai credibile, perché per la legge è un individuo “socialmente pericoloso”. L’unico momento in cui è stato ritenuto credibile è stato quando ha confessato il suo reato. Poi basta. A me non fa paura la parola Opg, fa paura che a mio figlio venga negata, pur nella malattia, la dignità di persona, la possibilità di far valere le proprie idee, anche in uno stato mentale di grossa difficoltà. Mi fa paura che mio figlio possa vedersi aumentare la pena all’infinito, perché magari qualche psichiatra lo valuta ancora “socialmente pericoloso” ed è più facile lasciarlo lì, in Opg, che pensare per lui un percorso alternativo grazie ai servizi sul territorio”. Giustizia: Alfonso Papa (Pdl); carcere inumano, mia missione è denuncia Tm News, 12 agosto 2012 “Il carcere italiano è inumano e il carcere ingiustificato perché inflitto per mezzo di un abuso è violenza assoluta”. Il deputato del Pdl Alfonso Papa ha trascorso 101 giorni dietro le sbarre di Poggioreale, dal 20 luglio 2011, nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta P4, poi sia la Cassazione che il Riesame hanno detto no alla sua detenzione. Lui da mesi conduce una battaglia contro le condizioni di vita nei penitenziari italiani e la carcerazione preventiva. Stasera ne parlerà a Festambiente, a Rispescia (Gr), dopo la proiezione del documentario “Just(ice) in Italy - Se vuoi conoscere la civiltà del tuo Paese devi visitare le sue carceri”, video inchiesta che percorre la realtà di otto istituti penitenziari visti da dentro. “La battaglia per un carcere rispettoso della dignità umana si compone di un’attività permanente di denuncia e sensibilizzazione - afferma Alfonso Papa. Dopo la vicenda che ha sconvolto in modo irrimediabile la mia esistenza, io ho inteso questa come la missione cui dedicare ogni mia energia”. Giustizia: deputati-detenuti, i limiti del colloquio di Carlo Federico Grosso La Stampa, 12 agosto 2012 Davvero illegittime le visite in carcere dei parlamentari Sonia Alfano e Giuseppe Lumia? Come è noto essi, rispettivamente impegnati nelle commissioni Antimafia dei Parlamenti europeo ed italiano, nel corso delle visite avrebbero invitato alcuni boss a collaborare con lo Stato. Di qui la polemica esplosa a seguito della pubblicazione della notizia su di uno dei maggiori quotidiani italiani. Vediamo, innanzitutto, che cosa stabiliscono le norme. L’art. 67 dell’ordinamento penitenziario (1975) prevede che ministri, parlamentari, giudici costituzionali ed altre circoscritte categorie di soggetti possano visitare le carceri senza necessità d’autorizzazione. Il suo regolamento di esecuzione (d.p.r. n. 230/2000), all’art. 117 disciplina le visite disponendo che esse “sono rivolte particolarmente alla verifica delle condizioni di vita degli stessi. Non è consentito fare osservazioni sulla vita dell’istituto in presenza di detenuti o internati o trattare con imputati argomenti relativi al processo in corso”. Non v’è pertanto dubbio che se i due parlamentari avessero rivolto ai boss con i quali sono entrati in contatto domande su processi per i quali erano imputati (ad esempio la trattativa fra Stato e mafia), avrebbero clamorosamente infranto una prescrizione di legge. Ma davvero è pensabile che essi abbiano interloquito sui processi? È, piuttosto, verosimile che essi si siano limitati ad invitare in generale i mafiosi a collaborare con lo Stato. È su questa ipotesi che, pertanto, ha esclusivamente senso interrogarsi. Ebbene, alla luce del citato art. 117 non pare dubbio che, se vi fosse stata una sollecitazione a collaborare con lo Stato, essa sarebbe apparsa, comunque, non vietata: come ho precisato, tale articolo vieta infatti soltanto di “fare commenti sulle condizioni carcerarie davanti ai detenuti” e di “rivolgere ad essi domande sui processi in corso” e null’altro. Oltre che con la legge, sempre sul terreno delle norme dettate in materia carceraria, occorre tuttavia fare i conti anche con una circolare ministeriale, emanata nel 2009 con l’obiettivo di raccogliere, per ragioni di chiarezza, le disposizioni concernenti le modalità di svolgimento delle visite, nonché di “apportare gli aggiornamenti suggeriti dall’esperienza applicativa della legge”. Orbene, nell’art. 4 tale circolare stabilisce che le autorità in visita “possono rivolgere la parola ai detenuti al fine di rendersi conto in maniera più completa delle condizioni di vita degli stessi. Tali dialoghi, però, non possono travalicare in veri e propri colloqui e/o interviste, specialmente se vertenti sui contenuti espressamente vietati dell’art. 117 del d.p.r. n. 230/2000. Nel caso in cui la disposizione del capoverso precedente non venga rispettata, il direttore (del carcere) invita l’autorità a non perseverare in tale condotta”. In questo modo sembrerebbe che il dialogo autorità/detenuto, pur consentito, debba risultare tuttavia circoscritto al tema delle condizioni di vita carceraria, e che non possa comunque travalicare in un colloquio o in una intervista: due limitazioni che sicuramente non comparivano nel regolamento di esecuzione del 2000, e tanto meno nel testo dell’ordinamento giudiziario del 1975. Che valore ha, tuttavia, questa apparente modifica restrittiva? Su di un terreno di valutazione giuridica formale, si può obbiettare che una circolare non può contraddire una norma di rango superiore, come è quella contenuta nel d.p.r. n. 230/2000. Da un punto di vista sostanziale, che senso avrebbe, d’altronde, circoscrivere il dialogo fra autorità visitante e detenuto al tema delle sue condizioni di vita carceraria, con esclusione di ogni divagazione su temi diversi (che possono magari essere di loro conforto)? E come è possibile distinguere il “dialogo” dal “vero e proprio colloquio” nel quale esso non dovrebbe trasformarsi? La realtà è che fra autorità visitante e carcerato, fra i quali è sicuramente consentito un contatto diretto e un dialogo (sia pure alla presenza del direttore o di un suo delegato), potrà instaurarsi un rapporto umano, un discorso, che potrà vertere su diversi temi, purché essi non siano specificamente vietati dalla legislazione carceraria o da altre leggi. Tornando al caso dell’iniziativa dei due parlamentari in questione, quali potrebbero essere i divieti scaturenti dalla legge? La legislazione carceraria, abbiamo visto, vieta esplicitamente soltanto che il dialogo concerna processi in corso. In un generico invito a collaborare con lo Stato (se davvero soltanto questo è stato l’invito rivolto dai due parlamentari in questione ai mafiosi), è d’altronde individuabile, come è stato sostenuto da alcuni commentatori, un indebito straripamento della politica in un campo riservato all’autorità giudiziaria? Una indebita invasione di campo vi sarebbe sicuramente stata se i due parlamentari, entrando nel merito di qualche particolare processo, avessero cercato di convincere ad uno specifico e mirato pentimento. Ma se l’obbiettivo era, genericamente, di spingere qualche criminale di rango a collaborare con lo Stato, non comprendo quale violazione di “campo riservato” vi sarebbe mai stata. Gasparri: da Severino e direttore Dap no controllo “Il ministro Severino e il nuovo direttore dell’amministrazione penitenziaria sono palesemente incapaci di garantire il controllo e le sicurezza delle carceri. Lo scandalo Lumia-Sonia Alfano è gravissimo. In violazione delle limitate prerogative parlamentari i due esponenti della sinistra hanno potuto parlare di argomenti che non possono essere affrontati in visite di questo tipo. Usando il dialetto per eludere i controlli. Per il direttore del Dap e per il ministro si pone un serio problema. La loro permanenza indebolisce l’azione dello Stato contro la mafia, è causa di pericoli, offre impreviste tribune a feroci assassini. Porteremo in Parlamento la Severino per far emergere la sua totale inadeguatezza su tutti i fronti”. Lo ha dichiarato il presidente del gruppo Pdl al Senato Maurizio Gasparri. Vitali (Pdl): tour in carcere trovata pubblicitaria “Fino a ieri abbiamo pensato che prerogativa delle visite dei parlamentari nelle carceri nazionali fosse quella di verificare le condizioni di detenzione dei reclusi; di servizio degli agenti; di lavoro del personale addetto. Oggi impariamo che vi è anche il compito di cercare la collaborazione dei mafiosi”. È quanto dichiara Luigi Vitali, componente del direttivo parlamentare del Pdl, commentando le visite compiute in carcere dai parlamentari Beppe Lumia (Pd) e Sonia Alfano (Idv) ad alcuni detenuti in regime di 41 bis. “Sicuramente sarà stata una trovata pubblicitaria - ha continuato il rappresentante del Pdl - ma è assordante il silenzio delle procure distrettuali antimafia interessate sull’iniziativa in questione quasi a legittimare un’azione del genere. Forse - ha concluso Vitali - sarebbe il caso che qualcuno ponesse un qualche rimedio a questo spettacolo”. Lettere: la soluzione per la nostra giustizia esiste… si chiama amnistia di Alessandro Jelmoni Tempi, 12 agosto 2012 Alessandro Jelmoni è attualmente detenuto nel carcere di San Vittore. Fino a poche settimane fa, la sua cella era vicina a quella di Antonio Simone. Ci ha inviato questa lettera. Rileggendo alcuni articoli che il Corriere della Sera ha pubblicato nel mese di luglio, ci siamo resi conto che alcuni di essi sono come pezzi di un unico puzzle: proviamo a metterli assieme. Il 3 luglio Galli della Loggia pubblica un bellissimo ed inquietante articolo sullo “stato d’animo di un testimone”, l’ex-ministro Mancino, per mettere nero su bianco una preoccupazione diffusa: “profonde distorsioni che troppo spesso, quasi fisiologicamente, caratterizzano l’operato delle procure della Repubblica”. Se Mancino, ex-ministro ed ex-vicepresidente del Csm, fine conoscitore dei meccanismi della giustizia, ha paura di diventare una pedina essenziale nella costruzione di un teorema da parte di una procura, con tutto quanto ciò possa comportare, a maggior ragione lo deve temere ognuno di noi. Ovvero: se chi conosce bene come funziona la macchina della giustizia (in particolare quella inquirente) la teme, vuol dire che quella macchina bene non va. Semplice, come bere un bicchier d’acqua, ma letto sul Corriere, fa un certo effetto. Il 25 luglio sull’argomento “Verità e teoremi”, sempre legato alla vicenda “Trattativa Stato-Mafia”, torna Polito. Non pare del tutto condivisibile l’opinione secondo la quale “va a onore di un sistema giudiziario in cui l’Accusa è totalmente indipendente, talvolta perfino dal capo della procura, il fatto che in Italia qualsiasi Pm di qualsiasi sede possa indagare chiunque”, e, in effetti, qualche perplessità sul funzionamento dell’Accusa anche Polito deve nutrirla, se afferma che: “[Gli inquirenti]… si sono bevuti per anni la versione di un finto pentito mandando ingiustamente numerose persone all’ergastolo…” e che in vent’anni “…non sono riusciti nemmeno a individuare gli assassini materiali di Borsellino”. La stilettata all’Accusa arriva di seguito: “va bene indagar sul terzo e il quarto livello, ma anche il primo livello ha una sua importanza”. Sono frasi che si commentano da sole ed il principio sottostante è chiarissimo: il funzionamento della magistratura inquirente presta il fianco a numerose critiche. Il problema esiste: se ne sono accorti anche al Corriere. Nei 22 giorni che intercorrono tra i due articoli esplode il caso “conflitto di attribuzione”, a cui viene dato ampio risalto. L’azione del Presidente della Repubblica “cristallizza” di fatto il problema e consente di trarre un principio generale: l’azione delle Procure può andare (e nel caso di specie, va) ben al di là di quanto legittimamente potrebbe. Come altri giornali, il Corriere riporta le durissime frasi del Capo dello Stato, che denuncia anche una campagna di “irresponsabili illazioni”. Con molto tatto, quasi con garbo, dalle pagine del corriere si lascia intendere che a volte il binomio “Procure-giornali” genera mostri, come il kantiano “sonno della ragione” Se la ragione dorme, l’azione “politica” di alcune procure è ben sveglia e lotta assieme ad alcuni organi di stampa. Il rapporto tra procure e media è storicamente a geometria variabile: in funzione del “target” dell’indagine, esiste sempre il giornale su cui veicolare l’informazione. E così è in questo caso, solo che l’aggressione subita dal Quirinale è tale che il supporto alla Procura di Palermo è del tutto minoritario e riconducibile al solo “fatto quotidiano”. Il Corriere, invece, mette in evidenza la levata di scudi a favore del Quirinale delle più alte cariche dello Stato e del Ministro della Giustizia. Il 27 luglio, a seguito della drammatica e improvvisa scomparsa di Loris D’Ambrosio, l’attenzione viene spostata dalla causa all’affetto: la violenta campagna mediatica di cui è stato oggetto, effetto delle intercettazioni e della “gestione” delle stesse da parte della Procura di Palermo, diventa “il problema”, un pò come quando, indicando la luna a qualcuno, ci si accorge che l’interlocutore guarda il dito e non la luna. Se il 28 luglio Ainis “chiede” silenzio e rispetto per D’Ambrosio, il 29 luglio Giuliano Amato afferma che “i dubbi insensati offendono la verità” e che “la dignità della persona è il valore di fondo del nostro sistema costituzionale ed è la vera premessa di una convivenza civile e democratica”. Come dire: ristabilire la verità è un dovere perché il rispetto della dignità umana non è un’opzione. Restituire l’onore della verità a D’Ambrosio è indice di civiltà: il silenzio, dopo l’offesa, è solo complice e dolorosa omertà. Già… la dignità della persona… il caso D’Ambrosio, anche per la sua tragica fine, è eclatante, ma dalle pagine del Corriere, su temi diversi di cui lo stesso D’Ambrosio si è occupato, l’argomento è stato in qualche modo già toccato. Il 3 luglio si dà un piccolo spazio al commento di Don Davanzo, direttore della caritas ambrosiana, che facendo riferimento alle condizioni delle carceri italiane chiede l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento. A tale richiesta unisce la propria voce Gian Antonio Stella che il 13 luglio porta come esempi “Diaz”, “Bolzaneto” ed il caso “Aldovrandi”. Alla situazione carceraria non fa riferimento, ma in precedenza il Corriere ha dato risalto al fatto che lo stesso Presidente della Repubblica. Ha espresso profonda preoccupazione per la situazione delle carceri. Già… la dignità della persona… non bisognerebbe ricordarsene solo quando accadono episodi come quello tragico di D’Ambrosio, ma si dovrebbe fare anche per ognuno dei suicidi occorsi in carcere (decine negli ultimi mesi), o, più semplicemente, pensando ai molti detenuti costretti in condizioni pesantemente illegali. Il 23 luglio Dacia Maraini si occupa del tema di “Tortura e detenzione” senza se e senza ma: spesso le condizioni di carcerazione sono inumane e sono una vera e propria tortura. È arrivato il momento di cambiare, per non calpestare la dignità della persona, m l’unico politico che si impegna in questa battaglia di civiltà è Marco Pannella, assieme ai radicali. Quello della Maraini è un vero e proprio appello, al momento raccolto da pochi, eppure si occupa della stessa dignità della persona di cui ha parlato anche Giuliano Amato, sempre che si considerino persone i detenuti, visto che in molti casi sono trattati peggio degli animali. Il 30 luglio, anche per onorare la memoria di D’Ambrosio, viene dato ampio spazio alla lettera di risposta del Presidente Napolitano all’appello di oltre cento costituzionalisti e alla lettera al direttore del Prof. Pugiotto, primo firmatario dell’appello. L’emergenza carceraria, quale effetto della grave inefficienza della giustizia, è l’argomento principe dello scambio di corrispondenza, di cui 2 punti meritano un approfondimento. Il presidente afferma che l’ampio accordo politico necessario ad amnistia ed indulto non è attualmente ravvisabile: eppure si tratta di restituire legalità ad una situazione di dominio pubblico; l’attuale maggioranza, che sostiene il governo tecnico, è la più ampia delle ultime legislature e siamo certi che il Parlamento, se opportunamente investito del problema, saprà aprire rapidamente per ridare dignità al paese e legalità alla amministrazione penitenziaria. Il secondo punto è il riferimento alla “pausa agostana”; i molti suicidi, tra detenuti e guardie, esigono un rispetto diverso: durante la “pausa agostana” quanti suicidi ci saranno? Uno, due, tre, di più, nessuno? Perché quando si parla di carceri e giustizia gli emuli di Ponzio Pilato si moltiplicano? I suicidi in carcere non pesano proprio sulle spalle di nessuno o è un peso che, suddiviso tra molti, diventa irrilevante per ognuno, secondo la teoria che la condivisone della responsabilità porta di fatto alla eliminazione della stessa? Il puzzle è completo: proviamo a fare ordine. Le procure operano spesso in maniera distorta, di fatto abusando dei poteri di indagine loro contriti; media e giornali contribuiscono a delegittimare (o a denigrare) indagati ed altri soggetti coinvolti nell’indagine; alcune indagini, dall’esito incerto, rispondono ad “esigenze” politiche e di delegittimazione mediatica, che alla ricerca della verità giudiziaria; le condizioni di carcerazioni (illegali), che in molte carceri sono una vera e propria tortura, contribuiscono ad aumentare la pressione psicologica sugli indagati, spesso ristretti in carcere per esigenze cautelati molto discutibili. La soluzione c’è, si chiama amnistia, ma manca il coraggio “politico” di promuoverla nelle sedi istituzionalmente preposte. I pezzi del puzzle li ha forniti il Corriere, noi ci siamo limitati a metterli in ordine e a chiudere il sillogismo sottostante, in nome di una dignità della persona di cui uno Stato civile e democratico si dovrebbe occupare non solamente quando chi è aggredito è consulente giuridico del Quirinale. Lettere: la condizione dei detenuti omosessuali e transessuali è davvero drammatica di Lucia Brischetto La Sicilia, 12 agosto 2012 La condizione dei detenuti omosessuali e transessuali è davvero drammatica. Da tempo, ma con risultati esigui, le istituzioni competenti lavorano per approntare un piano “protettivo” in difesa delle persone omosessuali e transessuali. Di fatto mancano in Italia i riferimenti legislativi e le strutture idonee atte ad affrontare il problema. Pertanto la condizione gay spesso genera “segregazione”, omertà, isolamento innaturale, disaffettività e paura di essere sodomizzati. Si appalesa pertanto necessaria una immediata revisione del diritto penitenziario. Non è pensabile che in una società civile si possa perdere la vita dentro un istituto penitenziario perché, come scrisse Ornella Favero nell’”Amore a tempo di galera”, ai ristretti di alcuni istituti d’Italia viene negata la vita affettiva e sessuale. La masturbazione, l’autoerotismo e l’omosessualità nei casi di persone ristrette, rinchiuse in strutture fisiche e mentali, quali quelle detentive, prendono posto comodamente e distruggono l’esistenza della persona. Nel resto d’Europa i detenuti possono, se vogliono, avere inconri individuali con i loro compagni ed essere “protetti” dall’Istituzione. Qualcuno si ostina ancora a ripetere che il sesso e l’amore in carcere sono negati per ragioni di opportunità “morali”? Ed è così che l’omosessualità in carcere dimora stabilmente e campeggia ampiamente in quanto “necessariamente” compensatoria. E come gridano gli esperti psicologi del settore, le conseguenze sono inenarrabili: frustrazione, caduta di autostima, umiliazione, sensi di colpa, repressione. Problemi tutti che non consentono di potere affermare che in Italia il carcere possa essere rieducativo e tenente al reinserimento sociale del detenuto. Ma quel che è più grave è la regressione che induce alcuni soggetti ristretti a forti risentimenti nei confronti della società per mancanza di lavoro, per mancanza di attività socio-culturali significative. E quindi l’ansia, la depressione l’autolesionismo, l’insonnia, gli scatti di violenza faranno il resto. Già nel 1971 Marina Valcareggi, nota psicanalista ed esperta del problema, “gridava” il diritto alla vita sessuale per tutti i detenuti, uomini e donne. E a proposito di sesso in carcere, qualche tempo fa un detenuto ebbe a scrivere: “Non avendo né moglie né fidanzata, spero che mi sia permesso, di fare entrare qualche donna di piacere… magari in un luogo adatto”. Certamente, in questo caso, non si richiede altro che una riflessione oculata su un diritto? Una malattia? Un gesto immorale da condannare? Una terapia? Ma di sesso fuori legge ci si ammala. L’omosessualità in carcere è consequenziale. All’interno delle celle è vietata la distribuzione dei preservativi e pertanto le malattie sessualmente trasmissibili si diffondono con estrema facilità. Riferiva, qualche tempo fa la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria che il 60% circa dei detenuti aveva contratto un virus. Infatti l’Associazione nazionale per la lotta contro l’Aids (Anlaids), da tempo richiede l’attuazione di misure di prevenzione nei penitenziari italiani e la distribuzione di profilattici e siringhe sterilizzate. Ci saranno riscontri? Oppure, come scrive un detenuto, “il sesso in carcere è chiuso. Si faccia silenzio”. Roma: detenuto 48enne muore all’Ospedale “Pertini”, era cardiopatico e dializzato Ristretti Orizzonti, 12 agosto 2012 Si chiamava Costa Ngallo, nato in Rwanda nel 1962, detenuto a Rebibbia per scontare una pena residua di circa 4 anni. Ha un decreto di espulsione, non applicato per la sua condizione si salute: cardiopatico, dializzato, ha una dentatura rovinata per totale assenza di cure specifiche. È incompatibile con il carcere ed a marzo 2011 ottiene la detenzione domiciliare, ma non ha un alloggio: avrebbe bisogno di una struttura di accoglienza che si possa occupare di lui anche dal punto di vista sanitario. Non ha soldi, non ha un permesso di soggiorno… e la struttura non si trova. Così rimane in carcere: senza parenti in Italia, senza denaro; l’avvocato non va nemmeno una volta a trovarlo, soltanto i volontari di Antigone cercano di aiutarlo versandogli sul libretto i 20 € necessari per avere copia della cartella clinica, che ottiene dopo 5 mesi di attesa. Tre volte la settimana viene condotto, con scorta della Polizia penitenziaria (3 agenti), all’Ospedale “Pertini” per sottoporsi alla dialisi: in 15 mesi più di 200 “traduzioni”, con costi di decine e decine di migliaia di euro… che avrebbero potuto essere spesi per reperirgli un alloggio e forse salvargli la vita. L’8 agosto, durante l’ennesimo viaggio al “Pertini”, Costa Ngallo muore. Milano: il carcere scoppia di vergogna… in una cella anche nove detenuti di Pino Casamassima Il Giorno, 12 agosto 2012 “Sovraffollamento delle carceri significa sovraffollamento delle celle, cioè, impossibilità pressoché totale in cella di movimento fisico, d’intimità, di attenzione, rispetto proprio e di chi è concellino (coinquilino strettissimo); un bagno, un rubinetto per sei o nove persone; impossibilità di lettura, studio, scrittura, riflessione; supremazia del rumore addomesticante della tv; l’igiene è un terno al lotto. Sovraffollamento vuol dire anche sovraffollamento del cortile dell’aria, dove ginnastica e calcio sono difficili perché in contrasto con la densità delle persone in piccoli spazi, con l’assenza d’acqua corrente, con i cessi intasati e puzzolenti; vuole anche dire intasamento e ingiallimento spaventoso delle docce”. Parole di chi il carcere lo vive sulla pelle. Parole che escono da San Vittore: quadrilatero della vergogna milanese con i suoi 1.600 detenuti per 780 posti. Un sovraffollamento insopportabile con la canicola che questa estate ha reso ancor più drammatica una situazione che, se possibile, conosce di peggio. Cosa c’è di peggio che stare in 6 persone in 8 metri quadrati? C’è Canton Mombello, a Brescia, il peggior carcere non solo della Lombardia, ma di tutta Italia, “grazie” ai suoi numeri : per una capienza massima di 200 detenuti, si arriva a contarne 600. “Delle nostre prigioni, oggi, forse ci vergogniamo” scriveva nel 1975 Michel Foucault nel suo illuminante saggio sulla nascita della prigione. Povero Foucault, se vivesse oggi dovrebbe trovare un sentimento più forte della vergogna: troppo lieve per situazioni che si consumano all’ombra (è proprio il caso di dirlo) della civiltà occidentale più avanzata (progredita è parola grossa). Posizionato nel centro cittadino, Canton Mombello è una struttura salvabile solo in una maniera: la chiusura. Nella provincia che vanta il maggior numero di stranieri di tutta Italia, il carce- re riflette una realtà composta da un meticciato di culture ed etnie dalla difficile convivenza. Una situazione da Piombi di Venezia se si scende nel dettaglio dell’igiene, ma non solo. “Come tutti i “politici” - racconta un ex brigatista - ho fatto il mio bel giro d’Italia carcerario, ma il carcere di Brescia è senza dubbio il peggiore”. La protesta scoppia ciclicamente nel ventre carcerario della Leonessa d’Italia: l’ultima, per disperazione, è ricorsa allo sciopero della fame, finché sono arrivate le rassicurazioni sui punti più importanti e vitali, anche se per un rappresentante dei detenuti “non cambierà niente”. A sostenere la protesta, le famiglie, che senza mezzi termini parlano di lager. “Una parola che non ci piace perché ricorda vicende terrificanti” s’era amareggiata la direttrice Francesca Gioieni nei giorni caldi della protesta, quelli di Caronte, invitando a verificare “lo stato delle carceri siciliane”. Austriaci contro Borboni, insomma. “La dottoressa è in ferie - rispondono dal “circondariale” - la sostituisce la dottoressa Lucrezi a Fiero”. Ma forse, la casa circondariale di Verziano, Nirvana cui aspirano tutti i detenuti ospiti di Canton Mombello, è un’entità metafisica. Impossibile parlare con qualcuno. Manco un agente di passaggio. Oppure è l’intera giustizia a essere andata in ferie. Se ne riparlerà, forse, a settembre, con la ripresa delle attività legislative. Sì, quelle che devono ancora rispondere alle sollecitazioni sulla riforma carceraria rivolte al Parlamento da papa Wojtyla. Dieci anni fa. Lucca: Marcucci e Mariani (Pd); carcere al di sotto dei livelli minimi di sopportazione Asca, 12 agosto 2012 “Due sezioni con un sovraffollamento ormai ordinario, ed una terza che è ampiamente al di sotto dei livelli minimi di sopportazione. Il carcere di Lucca ha stabilmente quasi il doppio dei detenuti consentiti ( sono oggi 184, la metà dei quali extracomunitari, dovrebbero essere 99) in una struttura antica, totalmente inadeguata. Basti pensare che con le temperature di questa stagione, molte docce sono praticamente inagibili”. Lo denunciano i parlamentari del Pd Andrea Marcucci e Raffaella Mariani che oggi hanno fatto una visita ispettiva nell’istituto di reclusione San Giorgio, incontrando il direttore Francesco Ruello, gli agenti di custodia ed i detenuti. “Torniamo a proporre al nuovo sindaco di Lucca e agli amministratori della Versilia - dicono gli esponenti democratici - di nominare il garante per i diritti del detenuto, una figura che funga da coordinamento tra il carcere e le nostre città. Il San Giorgio ha bisogno di tutto - proseguono i parlamentari - gli spazi ricreativi sono esigui ed anche la sicurezza della struttura è sempre a rischio. Entro la fine dell’anno, grazie ad un finanziamento straordinario di 150 mila euro, sarà possibile intervenire, tra le altre cose, per ripristinare le docce”. Rispetto alle precedenti visite ispettive dei parlamentari “si attenua leggermente il sottodimensionamento degli agenti di custodia, ne sono in servizio 83 ma restano 42 in meno di quanto previsto dagli organici”. Per Marcucci e Mariani “è necessario insistere con il Guardasigilli affinché si decida di investire per rinnovare i vecchi carceri come quello di Lucca. Gli enti locali possono invece sostenere con forza le buone pratiche come l’attività teatrale che al San Giorgio sta dando buoni risultati”. Cosenza: Sappe; chiusura tribunale Rossano aumenta spese trasporto detenuti Adnkronos, 12 agosto 2012 “La chiusura del tribunale di Rossano, in provincia di Cosenza pone seri problemi anche all’operatività della polizia penitenziaria del reparto di Rossano che sarà costretta a tradurre i detenuti a Castrovillari, un paese posto ad oltre quaranta chilometri di distanza. Aumenteranno, quindi, le spese di gestione del servizio traduzioni, già gravato dalla carenza di uomini, mezzi e risorse eonomiche su tutto il territorio nazionale”. Lo affermano, in una nota, Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale. A Rossano, una struttura nata per ospitare meno di 200 detenuti, “adesso ce ne sono circa 350, con un organico assolutamente insufficiente, stabilito in 90 unità, ma ce ne vorrebbero già oggi almeno 50 in più. È davvero incomprensibile proseguono i due sindacalisti - la scelta di chiudere il tribunale di Rossano, anche in considerazione del fatto che si tratta di un territorio dove non manca la criminalità organizzata. Ci chiediamo, a questo punto, se ci saranno risvolti organizzativi diversi - concludono - anche per il carcere di Rossano, nato come casa di reclusione, per ospitare detenuti condannati definitivamente, e successivamente trasformata in casa circondariale”. Caserta: incontro con Maria Rosaria Casaburo, direttrice del carcere di Arienzo di Maria Valentino www.quicaserta.it, 12 agosto 2012 È l’istituto di pena più piccolo della Regione Campania. La capienza regolamentare è di 104 unità. I soggetti presenti sono in larga parte detenuti definitivi, pochi sono gli appellanti, è presente qualche giudicabile fino al 1° grado. Molti i giovani ma troviamo anche adulti con un’età compresa tra i 25 e i 50 anni; la presenza di extracomunitari è del 15%. Vi sono 2 sezioni, 53 camere, due sale di socialità, una sala polivalente per celebrazioni religiose, spettacoli teatrali, riunioni sindacali, convegni e manifestazioni. Qui Caserta ha voluto saperne di più incontrando la direttrice dell’istituto di pena, Maria Rosaria Casaburo. “Abbiamo individuato dei percorsi in grado di dare la possibilità ai giovani detenuti di continuare il programma intrapreso negli istituti minorili - ci dice Casaburo - consentendo, tra le altre cose, di ridurre l’impatto traumatico che altrimenti ne potrebbe derivare”. Tanti i corsi di formazione promossi all’interno della struttura: dal corso di scuola media inferiore ed elementare ad un corso di formazione professionale regionale per elettricisti o di serigrafia e di recitazione. “Ovviamente” ha proseguito la direttrice “i corsi non bastano anche se realizzati con la preziosa collaborazione delle istituzioni presenti sul territorio. Occorre fare di più, a partire dal concetto di reintegrazione nel mondo del lavoro. Le attività prima elencate rappresentano sicuramente l’anello centrale; ma le stesse si vanificano nel momento in cui i detenuti non riescono a mettere in pratica quelle nuove norme comportamentali acquisite presso questa struttura. Rischiamo, così, di costruire una inutile “gabbia dorata” perdendo di vista il fine ultimo. Occorrerebbe” conclude la dottoressa Casaburo “un atto di coraggio da parte delle aziende e delle cooperative di zona che dovrebbero “imparare a non aver paura di assumere detenuti. L’importante è non favorire la ghettizzazione dei carcerati e degli ex detenuti che potrebbe favorire una serie di problemi legati alla sfera della sicurezza”. Insomma il lavoro è l’ancora di salvezza dentro e fuori dalla casa circondariale casertana. Oristano: i progetti della Provincia per un “carcere a misura d’uomo” La Nuova Sardegna, 12 agosto 2012 La casa circondariale di Nuchis diventerà una struttura di recupero e integrazione per i detenuti. L’avvio di questo percorso lo ha annunciato ieri, dopo una visita all’interno della struttura penitenziaria, il senatore del Pdl e presidente della provincia Olbia-Tempio Fedele Sanciu. “Avvieremo al più presto un programma di progetti di collaborazione in grado di far crescere i detenuti dal punto di vista culturale, moltiplicando le loro opportunità di reinserimento nella società”. È uno degli obiettivi che si sono prefissi, nell’incontro di ieri, il senatore del Pdl e il direttore del nuovo carcere, Antonio Galati. Nella visita istituzionale, alla quale era presente l’assessore all’ambiente Pietro Carzedda e il comandante del reparto di polizia penitenziaria, il commissario Maria Elena Mariotti, il senatore ha avuto modo di rilevare le criticità di “una struttura che si trova nella delicata fase di avvio e che ha necessità di tutta una serie di attenzioni da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. In modo particolare, è stato rilevato, c’è da completare l’organico degli agenti della polizia penitenziaria, che dagli attuali 54 addetti passerà presto a 82 unità, facendo salire a circa cento il numero dei componenti, tra agenti e personale. “Questa sarà una opportunità di avvicinamento al nucleo familiare di tanti agenti sardi che prestano servizio nella penisola e sono costretti a viaggiare per poter stare vicini ai loro cari. In questo modo un buon numero potrà avvicinarsi a casa - ha spiegato Fedele Sanciu. Siamo orgogliosi del fatto che il nuovo carcere di Nuchis sia il primo tra le nuove quattro carceri sarde ad aprire e che il corpo della polizia penitenziaria sia guidato da una gallurese doc, la dottoressa Maria Elena Mariotti. Ora è urgente che anche gli altri istituti di pena previsti a Sassari, Oristano e Cagliari siano completati in modo da moltiplicare le opportunità di rientro per i nostri agenti. Nella fase successiva si dovrà pensare ad un percorso ottimale per recuperare le vecchie strutture che saranno dismesse e restituite ai cittadini”. Il progetto di collaborazione tra la struttura penitenziaria e il mondo esterno è già stato inserito tra le priorità del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, che una volta entrato a regime e attivato in tutti i suoi settori (nel carcere gallurese manca ancora la prima accoglienza, e gli arrestati devono fare la spola tra Sassari o Alghero e il tribunale di tempio per le udienze di convalida) avvierà contatti con diverse imprese locali in grado di accogliere, tra i loro dipendenti, quei detenuti in regime di semilibertà che potranno, in questo modo, lavorare fuori dal carcere. Napoli: Alfonso Papa (Pdl) domani in visita ispettiva a Poggioreale Asca, 12 agosto 2012 Lunedì 13 agosto il deputato del Pdl Alfonso Papa si recherà in visita ispettiva presso la casa circondariale di Poggioreale a Napoli. Alle ore 13.30 è prevista una conferenza stampa all’ingresso della struttura in via Nuova Poggioreale, 177. Lo comunica il deputato in una nota. Durante l’incontro con la stampa Papa, accompagnato dai rappresentanti di alcune associazioni per i detenuti e dal cappellano di Poggioreale Franco Esposito, annuncerà la nascita del “Comitato per la prepotente urgenza”. “Un anno fa il Capo dello Stato Giorgio Napolitano invocava l’intervento della politica contro il sovraffollamento carcerario. A distanza di un anno quella da lui definita prepotente urgenza non ha meritato neppure un messaggio alle Camere”, è quanto dichiara il deputato Alfonso Papa. “Ci sono le parole e ci sono i fatti - continua il deputato Papa - Come per la ministra Paola Severino, dalla quale ho ricevuto parole di convinto sostegno alla battaglia per le carceri e dalla quale mi attendo già a settembre azioni concrete in materia di depenalizzazioni e decarcerizzazioni”. “Io dalla mia faccio quel che posso - conclude Papa. In Commissione Giustizia langue il mio progetto di legge contro l’abuso della carcerazione preventiva. Su quel testo ho raccolto le firme di oltre trecento deputati, un record in questa legislatura. Ciononostante la Presidente Giulia Bongiorno ha mostrato sinora un’inerzia totale non muovendo un dito per la sua calendarizzazione”. Aosta: delegazione Consiglio regionale in visita alla Casa circondariale di Brissogne Asca, 12 agosto 2012 Lunedì 13 agosto alle ore 10.30, una delegazione dell’Assemblea regionale, guidata dai membri dell’Ufficio di Presidenza, i Vicepresidenti Andrè Laniece e Albert Chatrian e i Consiglieri segretari Emily Rini e Gianni Rigo, visiterà la casa circondariale di Brissogne. Sarà inoltre presente il Difensore civico della Valle d’Aosta, Enrico Formento Dojot, al quale sono state attribuite le funzioni di garante dei diritti dei detenuti, a seguito dell’approvazione della legge regionale n. 19 del 2011 che ha adeguato il funzionamento dell’Ufficio della difesa civica al nuovo quadro normativo. Ad accompagnare la delegazione vi sarà il Direttore del carcere Domenico Minervini. Lo comunica, in una nota, il Consiglio regionale della Valle d’Aosta. ‘La visita di quest’anno - sostiene il Vicepresidente Andrè Laniece - assume per altro una nuova valenza alla luce del trasferimento alla Regione delle funzioni in materia di medicina e sanità penitenziaria, approvato dal Consiglio regionale a marzo del 2012’. Pordenone: Moretton (Pd); presidente regione Tondo chiarisca su ristrutturazione carcere Asca, 12 agosto 2012 “L’intraprendenza del presidente Renzo Tondo e del suo assessore alle Finanze, Sandra Savino aveva prodotto la firma di un protocollo d’intesa tra ministero della Giustizia, Regione, Provincia e Comune di Pordenone: stabilire cosa fare per ristrutturare il carcere e come darvi copertura finanziaria. Costo complessivo: 40 milioni di euro, di cui 20 statali, 15 della Regione che si impegnava a stanziarli con l’assestamento di bilancio 2011, 3 della Provincia e 2 del Comune. Ma nulla è stato fatto”. Lo dichiara il capogruppo del Pd in Consiglio regionale, Gianfranco Moretton. “Successivamente - ricorda ancora il democratico - prende piede una nuova proposta: realizzare il carcere a San Vito, e Tondo dà la propria benedizione, ma si dimentica del precedente protocollo d’intesa che aveva firmato. E probabilmente lo Stato approfitterà per spostare quei denari ad altra destinazione. Prima che sia troppo tardi - ammonisce Moretton. Tondo dica con chiarezza se preferisce San Vito a Pordenone, o se intende onorare l’impegno finanziario da 15 milioni di euro come da protocollo d’intesa da lui stesso firmato”. Eboli (Sa): libro di Dario Vassallo “Il sindaco pescatore” presentato in Casa di Reclusione Ristretti Orizzonti, 12 agosto 2012 Il libro di Dario Vassallo “Il sindaco pescatore” presentato, dall’autore, alla Casa di Reclusione di Eboli. L’evento si è svolto nella sala teatro dell’Istituto di pena ebolitano con il coinvolgimento attivo dei detenuti. Nell’ambito del corso di lettura i detenuti si sono approcciati, attraverso una lettura “corale” del libro, alla figura di Angelo Vassallo, il Sindaco pescatore, appunto, ucciso per il suo impegno, per il suo modo di fare politica, anzi buona politica. Simbolo di quella legalità troppo spesso proclamata, troppo spesso dibattuta, troppo spesso trasformata in futile argomento di conversazione salottiera e molto, molto poco praticata, anche nel quotidiano da ognuno di noi, spesso distrattamente distolto dal rispetto delle regole. E sulle tematiche della legalità è proseguito il confronto con l’On. Antonio Cuomo e l’On. Gianfranco Valiante, presidente della commissione regionale anticamorra. Il dibattito che si è arricchito di contenuti concreti perché vissuti, di significati schietti perché sentiti, di argomenti seri perché provati, di concetti profondi perché compresi e condivisi. Né poteva essere diverso: solo chi, carnefice di un’illegalità che nella sua bieca natura elitaria lo rende al tempo stesso vittima, la legalità ha violato può parlarne con sofferenza, con pathos, come A. che nelle vesti di Carlo Pisacane, nello spettacolo del 27 luglio scorso dedicato alla Risorgimento, come sogno di libertà, brandendo tremante il tricolore “ha sentito un nodo al cuore ed alla gola per aver tradito il giuramento a suo tempo fatto”. Segno questo che i miracoli accadono, accade che i detenuti parlino di legalità in modo molto più convincente del migliore, incensurato oratore. Questo però, solo dopo un processo lungo e difficile, un percorso tutto in salita nelle cui aspre curve è facilissimo sbandare soprattutto quando si incontra sé stesso, la conclusione di un libro scritto solo in parte. D’altra parte non è questa un’ ipotesi remota visto che la strada da percorrere è, in realtà, quella già percorsa, il libro da rileggere, ultimare, riempire di contenuti nuovi e positivi è quello della propria vita. Eppure tutto questo accade. Accade all’interno di un Istituto penitenziario come la Casa di Reclusione di Eboli, dove con una miriade di attività, molte delle quali si realizzano grazie all’apporto del volontariato, organizzate in loro favore si insegnano ai detenuti i valori della legalità, attraverso lo stesso strumento: la legalità. Il messaggio non può essere più semplice, applicando i dettami della Costituzione, dunque, della massima Legge, riconoscendo ai detenuti la loro umanità, non negandola con trattamenti degradanti, applicando i principi dell’ordinamento penitenziario, dunque la Legge, si fa e si insegna legalità. Il tutto si riassume e si sintetizza in quello che la Dott.ssa Rita Romano, direttore dell’istituto indica nel “fare semplicemente il proprio dovere”. È solo necessario che ognuno di noi non deroghi da questo semplice, ma efficace principio. Droghe: Vasco Rossi; legalizzazione non è la soluzione, ma riduce danni Dire, 12 agosto 2012 La legalizzazione “non cancellerebbe la droga dal mondo ed esisterebbe comunque un mercato nero. Ma sarebbe una soluzione che toglierebbe almeno molti dei problemi legati alla tossicodipendenza”. Così sulla pagina Facebook di Vasco Rossi, La Redazione replica, in un botta e risposta, ad un fan che aveva lanciato la discussione sulla legalizzazione che, secondo la Redazione, “non cancellerebbe la droga dal mondo ed esisterebbe comunque un mercato nero. Ma sarebbe una soluzione che toglierebbe almeno molti dei problemi legati alla tossicodipendenza, come la piccola criminalità generata dal bisogno di acquistare dosi di eroina al costo di centinaia di euro, le carceri piene che esplodono di detenuti che sono il 70% tossicodipendenti o per reati legati alla droga. Questa (legalizzazione) - si legge nel post - è la cosiddetta ‘politica della riduzione del dannò. Che non risolve magicamente il problema (come dice e non fa il proibizionismo) ma, come in tutti i problemi della vita, si cerca di ridurre i danni delle disgrazie che capitano!”. Svizzera: rivolta nel carcere di Champ-Dollon, 40 detenuti si rifiutano di rientrare in cella www.swiss.info, 12 agosto 2012 Una rivolta è scoppiata ieri sera nel carcere di Champ-Dollon, a Ginevra: al termine della cena 40 detenuti hanno rifiutato di tornare nelle loro celle. La situazione è tornata alla normalità dopo circa due ore grazie all’intervento delle forze dell’ordine. Non vi sono feriti. I motivi della protesta sono da ricercare nelle sanzioni adottate nel pomeriggio nei confronti di due detenuti che avevano aggredito e ferito un altro prigioniero. La direzione del carcere ha tentato invano di convincere i manifestanti a tornare nelle loro celle. Dopo aver giocato senza successo anche la carta dell’ultimatum, i responsabili della prigione sono dovuti ricorrere alle forze dell’ordine. La polizia cantonale si è presentata con un forte dispositivo: assieme al personale di sorveglianza è infine riuscita a prendere il controllo della situazione e a riportare gli ammutinati in cella. Stati Uniti: il carcere della Contea di Montgomery… molto diverso dalle galere italiane www.libertiamo.it, 12 agosto 2012 Apriamo le porte del carcere della Contea di Montgomery (Texas). Mattina presto, ma in sala d’attesa già c’è gente. Sono avvocati frenetici e parenti dei detenuti. Si respira aria di pena, dignità e speranza in quello stanzone luminoso e modernamente arredato. L’ingresso non sembra nemmeno una galera, ma è già tempo di spostarsi nella stanza dei colloqui. Il nostro assistito è un signore sulla settantina condannato per stupro, lo studio legale ne cura l’appello e la fase dell’esecuzione della pena. Siede di fronte a noi separato dalle grate. Ci sente male, indossa la tuta a righe bianche e nere dei detenuti, è malato di cancro. L’avvocato chiederà il trasferimento in ospedale per eseguire le cure e forse per trascorrere gli ultimi mesi di una vita rovinata. Salutiamo ed usciamo dalla postazione per il colloquio. Ci allontaniamo momentaneamente da quei muri che trasudano aria gelida. All’uscita siamo fortunati: incontriamo lo sceriffo che si dice onorato di poter mostrare ad uno studente italiano come funziona il luogo dove svolge il suo lavoro. Iniziamo il tour. Alla registrazione troviamo i nuovi arrivati. Si sente il tintinnio delle manette. Vengono portati ammanettati mani e piedi. Dopo averli registrati e trovato il braccio del carcere adeguato vengono liberati e condotti in cella. Tutte le cellule sono singole, con scrivania, servizi e doccia personali. Parliamo di un carcere con 2mila detenuti, in Italia ce ne sono anche 5 o 6 per cella. Il carcere è diviso in diverse aree dove i detenuti vengono smistati a seconda della tipologia del reato contestato loro o secondo i reati per i quali sono stati condannati. I definitivi lavorano e studiano. Ci passeggiamo in mezzo scortati dallo sceriffo ed un giovane sergente. Leggono libri, mettono in ordine, puliscono, lavano. Così partecipano al funzionamento quotidiano dell’istituto carcerario. Tutti, rigorosamente, indossano la tuta a righe. Il colore delle righe varia a seconda del ramo a cui sono assegnati. Sono bianchi, neri, ispanici, asiatici e sono dentro per reati di ogni genere: dall’omicidio plurimo all’immigrazione clandestina allo spaccio di droga, fino alla guida in stato di ebbrezza. In Texas è piuttosto facile farsi qualche giorno di galera, tuttavia il ricambio è continuo dato che molti convertono la misura cautelare carceraria con il pagamento della cauzione. In Italia questo non è permesso, e per quanto riguarda la popolazione carceraria il dato è contrario: da noi la maggior parte dei carcerati è ancora in attesa di giudizio ed il carcere preventivo non si può sostituire con misure alternative a meno che non lo decida il giudice a seguito di ricorso della difesa. Alcuni ci guardano dalle celle incuriositi, altri dai vetri delle aree comuni loro riservate. Tutto è trasparente, la privacy è un lusso non concesso. Tuttavia sono molteplici gli spazi per i detenuti: dalla mensa alla sala tv, dal campo da basket alla biblioteca fino alla stanza comune per le terapie da alcool o stupefacenti. Il sistema è premiale per i definitivi, si accede cioè a queste aree con frequenza maggiore o minore a seconda della condotta. Molti di loro camminano liberi vicino a noi, l’unica regola sono le mani dietro la schiena, nessuno urla né ci rivolge parola, al massimo qualche occhiata. Complessivamente l’ambiente sembra pulito, silenzioso e tranquillo. Molto lontano dai racconti del terrore delle galere italiane. Per i reati minori c’è anche un’aula di tribunale interna per giudicare gli arrestati in maniera più veloce e sicura. Se il livello di civiltà di un popolo si desume dallo stato delle sue carceri, allora il Texas è molto avanti e l’Italia troppo indietro. Poi è vero, è chiaro, qui c’è ancora la pena di morte, ma questo è un altro discorso, che meriterà un approfondimento a parte. Usciamo dalla porta automatica dipinta di rosso dalla quale siamo entrati. Restano molte considerazioni e quegli sguardi addosso di uomini con tute a righe tutte uguali. In fin dei conti il carcere è luogo di penitenza e recupero, ma anche di sofferenza. Sempre. Per questo ci si dovrebbe restare e andare il meno possibile. Soprattutto quando si attende il giudizio e qualora certi reati possano essere puniti con altre misure. Per ogni Stato che voglia dirsi “di diritto” il carcere dovrebbe essere misura estrema, perché è estremo il supplizio per chi perde la propria libertà. Civiltà sarebbe poi mantenere in buone condizioni le strutture e non de-umanizzare i reclusi. La strada da fare, per l’Italia, è ancora molta, ma il tempo è poco per chi sconta una pena nel sovraffollamento e nel degrado. Egitto: Gamal Mubarak chiede e ottiene verifica condizioni detenzione ex rais Aki, 12 agosto 2012 Gamal Mubarak, figlio dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, ha chiesto e ottenuto una verifica delle condizioni in cui è detenuto il padre nell’ospedale del carcere di Tora. Mubarak junior, riporta l’edizione online del quotidiano al-Masry al-Youm, ha scritto al Consiglio nazionale per i diritti umani, un osservatorio governativo, sostenendo che la struttura non sia adeguata per suo padre. E, dopo il necessario via libera delle autorità, una delegazione del Consiglio domani arriverà a Tora, incontrerà Gamal e visiterà l’ospedale della prigione. Mohamed Fayek, vice presidente del Consiglio nazionale per i diritti umani, ha confermato al giornale che l’osservatorio ha ricevuto una protesta scritta da Gamal Mubarak, anch’egli rinchiuso a Tora ma in una sezione diversa del carcere, e trasmessa tramite il suo avvocato. Lo scorso giugno Mubarak è stato condannato a 25 anni di prigione per l’uccisione di centinaia di persone durante le proteste che all’inizio dello scorso anno lo hanno costretto alle dimissioni.