La tragedia di Vincenzo, il dramma di una madre di Elton Kalica Ristretti Orizzonti, 10 luglio 2012 È morto Vincenzo Boscarino. Aveva quarantaquattro anni, e di fronte a una simile tragedia, in galera si usa dire “povera sua madre”. È un detto antico, che però esprime in modo perfetto il pensiero di chi ha sperimentato l’amore incondizionato di una madre verso il proprio figlio, e la capacità di resistere ai peggiori drammi della vita: e la madre di Vincenzo oggi dovrà resistere ad una tragedia, una nuova sfida, nuovo dolore. Ho conosciuto Vincenzo circa quattro anni fa, quando entrò nella redazione di Ristretti. Non parlava tanto di sé, ma mi raccontò un po’ dei suoi trascorsi: figlio di immigrati siciliani, era cresciuto nella periferia di Milano guardando la ricchezza degli altri, finché non aveva deciso di prendersene un pò anche lui, illegalmente. Poi le condanne, lunghe per la recidiva, e così il destino alla fine aveva portato lui, vagante da una galera all’altra per il sovraffollamento, in carcere a Padova. La madre di Vincenzo vive a Milano, ma conosce a memoria i treni, gli autobus e le strade che la portavano a vedere per un’ora il suo unico figlio a colloquio. Forse, durante gli ultimi colloqui si era accorta che Vincenzo dimagriva, forse si era preoccupata in silenzio - si sa come si annoiano i figli delle preoccupazioni delle madri - e non aveva avuto il coraggio di pensare alla malattia; alla fine, in quell’ora di colloquio, si finisce sempre per parlare di un futuro migliore, sognando il giorno in cui ci si potrà abbracciare fuori, in libertà. Vincenzo però si era accorto del suo anomalo e progressivo dimagrire, e si era anche rivolto ai medici del carcere lamentando forti dolori allo stomaco e non solo. Ci eravamo accorti anche noi che qualcosa non andava: una volta a settimana si andava al campo e Vincenzo giocava a pallone sempre, ma poi, tutto d’un tratto, non veniva più. “Ma come sei magro”, gli dicevano anche i volontari in redazione. “Mi curano per una infezione allo stomaco”, raccontava Vincenzo, “sto prendendo dei gastroprotettori”. Solo che i mesi passavano e Vincenzo aveva continuamente febbre e alla fine molte ghiandole si erano gonfiate grosse come delle noci. Altre visite mediche in carcere, altri farmaci, mentre Vincenzo peggiorava: aveva ormai un colorito di un pallore anormale e gli occhi sempre più scavati. Alla fine la diagnosi è arrivata. Scortato in ospedale, è bastata una visita per scoprire che quei grappoli di linfonodi gonfi erano l’effetto dall’attività micidiale di una forma tumorale che si chiama linfoma non Hodgkin. A quel punto i medici dell’ospedale lo hanno ricoverato d’urgenza. In corridoio, i primi giorni era sempre sorvegliato da agenti. La madre l’ha raggiunto immediatamente all’ospedale, piangeva, pregava in corridoio aspettando l’orario per abbracciarlo, per toccarlo. Dopo alcuni giorni il magistrato ha ordinato la sospensione della pena, così Vincenzo è tornato ad essere un uomo libero e poteva ricevere visite. Sua madre non si separava più da lui, l’accarezzava, nonostante l’insofferenza del figlio a tanta tenerezza, lo baciava, lo guardava dormire, e poi dormiva anche lei, ai suoi piedi. Dopo pochi giorni sono venuti i parenti, silenziosi e gentili, gli hanno fatto capire che non era solo. Che potevano essere più uniti ora, senza le mura del carcere di mezzo. Però Vincenzo stava male. La pelle si era colorita di un giallo che spaventava. I dottori dicevano che era arrivato in ospedale troppo tardi, ma nessuno voleva crederci. Quando qualcuno gli chiedeva come stava, diceva “adesso sto meglio” e i suoi occhi cercavano sempre di trasmettere tranquillità al visitatore. Tuttavia, riusciva difficile a chiunque essere tranquilli, e immancabilmente ci si domandava come mai i medici non gli avevano fatto fare degli esami prima, molto prima. Dopo qualche giorno ha iniziato il trattamento con la chemioterapia, che all’inizio ha dato dei risultati buoni. I linfonodi si sono sgonfiati e per Vincenzo le settimane passavano aspettando il prossimo ciclo di cure. Ogni tanto si alzava lentamente e guardava allo specchio i rilievi scolpiti sul proprio corpo ossuto, e probabilmente sentiva muovere nello stomaco un sentimento misto di paura e di ottimismo, ma la fiducia che il proprio corpo sarebbe riuscito a sconfiggere la malattia aveva sempre la meglio sulla paura della morte. Aspettava anche la madre di vedere il figlio rinascere. Ogni tanto però era costretta a scappare a Milano: nulla l’avrebbe mai staccata dal letto del figlio, se non fosse che, dopo tanti anni, era arrivata l’ora che le assegnassero una casa popolare, e alcune pratiche richiedevano la sua presenza. Nel frattempo, c’erano alcuni volontari della redazione a fargli visita, a turno, per tenergli compagnia. Alcune volte l’ho anche sorpreso portando a fargli visita qualche detenuto in misura alternativa, che Vincenzo accoglieva con l’allegria di chi incontra una persona in circostanze inimmaginabili. Poi sua madre tornava, e prendeva posto ai suoi piedi. Pochi giorni fa Vincenzo ha iniziato a sentirsi male di nuovo. I medici hanno cominciato a fare dei controlli, ma la morte l’ha colto di sorpresa, senza dargli nemmeno il tempo di arrabbiarsi, come si arrabbierebbe qualsiasi persona ancora forte se rischiasse una morte prematura. Ha colto di sorpresa anche la madre che ha chiesto di andargli di nuovo vicino per vederlo, per toccarlo e salutarlo, un’ultima volta. Di fronte alla morte di una persona ancora giovane, il pensiero va alla madre che gli è sopravvissuta. Ma come si fa a capire il dolore che porta nel cuore la madre di Vincenzo? Impossibile calcolare le fatiche di una madre che viaggia per centinaia di chilometri per abbracciare il proprio figlio in una sala colloqui; inimmaginabile la rabbia verso un destino così crudele che dal carcere ha offerto quel figlio alla morte traghettandolo lungo i dolori della malattia; forse lei andrà avanti cercando forza nella fede, oppure sarà lo stoicismo di una vita di battaglie a farle superare anche questa prova, ma noi continuiamo a chiederci come mai è arrivato in ospedale così tardi. Se si cercano notizie su questo linfoma, si legge ovunque che “negli ultimi anni il trattamento dei linfomi non Hodgkin ha fatto registrare enormi progressi, anche nei casi in cui il tumore si è diffuso dal sito primitivo, ed è in costante aumento il numero di malati che oggi possono guarire”. Può darsi che quello che ha aggredito Vincenzo sia stato un tumore più cattivo di altri, ma i tempi del carcere sono davvero incompatibili con i tempi della cura. Vincenzo ha avuto il destino di tanti detenuti malati: è stato “consegnato” agli specialisti quando ormai era troppo tardi. La vera battaglia in carcere è quella per costringere tutti a fare più in fretta nella corsa contro la malattia, perché la malattia non si ferma ad aspettare i tempi della galera. Giustizia: lo scempio delle carceri italiane.. a Genova contestata la ministro Severino www.inviatospeciale.com, 10 luglio 2012 Continuano i suicidi e il sovraffollamento è uno scandalo intollerabile. Il Parlamento immobile assiste senza far nulla. I procedimenti di ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo che riguardano l’Italia sono 1.200. Un gruppo di parenti di detenuti nel carcere genovese di Marassi ha accolto ieri il ministro della Giustizia al grido di “Amnistia, amnistia”. Il ministro della Giustizia Severino, accompagnata da Giovanni Tamburini (direttore del Dipartimento amministrazione penitenziaria) e dal direttore del carcere di Marassi Salvatore Mazzeo, ha dovuto affrontare le proteste dei familiari che chiedevano migliori condizioni di vita per i detenuti. Ad attendere il Guardasigilli anche una quindicina di aderenti al sindacato della Polizia penitenziaria Uil-Pa, che aspettavano il ministro indossando una mascherina sul volto per ricordare le condizioni igieniche delle carceri e una fascia nera al braccio in segno di lutto per i colleghi morti in servizio. Un’altra organizzazione degli agenti, il Sappe, ha chiesto un incontro con il ministro. Severino, a proposito dei possibili provvedimenti per tentare di limitare la tragedia, ha detto in modo pilatesco: “Sull’amnistia non sono contraria ma su questo tema è sovrano il Parlamento”. Intanto, il Comitato radicale per la Giustizia Piero Calamandrei ha reso noto che i casi pendenti davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo per i detenuti sottoposti a trattamenti inumani e degradanti causati dal sovraffollamento e non ancora formalmente comunicati al governo italiano sono 1.200. Giuseppe Rossodivita, segretario del Comitato, ha detto: “Chiunque abbia a cuore le sorti del nostro Paese si deve attivare per proporre delle soluzioni che pongano fine a questa situazione vergognosa. Noi radicali le nostre proposte, con Marco Pannella, le abbiamo avanzate e si chiamano amnistia e indulto quale riforme strutturali e precondizioni di una riforma del sistema giustizia in Italia”. L’esponente radicale si è poi rivolto “al Ministro della Giustizia Paola Severino, la quale sa perfettamente che quanto messo in campo dal governo è del tutto insufficiente. Sarebbe assai imbarazzante una condanna pilota della Corte di Strasburgo per la sistematica violazione dei diritti umani con un avvocato penalista alla guida di Via Arenula”. Mentre il ministro era a Genova un nuovo suicidio, questa volta nel penitenziario di Vibo Valentia. Un detenuto di 30 anni e di nazionalità bosniaca si è ucciso impiccandosi nella sua cella. L’uomo, che solo poco tempo fa aveva tentato l’evasione dalla Casa di reclusione di Rossano, doveva scontare 13 anni. A nulla sono valsi i soccorsi immediati della Polizia penitenziaria e del personale medico del carcere. Gennarino De Fazio, della direzione nazionale della Uil-Pa, ha dichiarato con rammarico: “Ho ormai perso il conto del numero di suicidi che continuano spaventosamente a perpetrarsi nelle carceri e che fanno assumere al dato i connotati di un bollettino di guerra. Fra sovrappopolamento, ristrettezze economiche, spending review a senso unico e depauperamento degli organici, l’utenza e gli operatori sono coloro che ci rimettono, mentre al centro si continua a teorizzare e a sperperare. Solo di qualche giorno addietro infatti la notizia che la Calabria dopo il provveditore ‘part-timè da condividere ora con questa ora con quell’altra regione da più di due anni, dovrà riscoprire anche i direttori a servizio ridottissimo”. “Dunque mentre a Roma si teorizzano la vigilanza dinamica e i nuovi circuiti penitenziari, in Calabria la Polizia penitenziaria, sempre più abbandonata a se stessa, ricorre all’ormai sperimentatissima arte dell’arrangiarsi - ha denunciato il sindacalista - chiedendosi di nuovo se e come si riuscirà a superare l’estate, ma, soprattutto, quante vite dovranno ancora spegnersi prima che si accenda un faro efficace sull’universo carcerario e, precipuamente, su quello calabrese”. Giustizia: Dap; sezioni “aperte” per detenuti a bassa pericolosità, contro il sovraffollamento di Francesco Grignetti La Stampa, 10 luglio 2012 Personale scarso, ipotesi di patto con lo Stato per i reati minori: celle aperte senza polizia penitenziaria. In futuro sarà il Patto. Tra il singolo che finisce in carcere e lo Stato verrà firmato infatti un accordo, con clausole, prescrizioni e impegni da rispettare. Parliamo di detenuti a basso rischio. Non proprio ladri di polli, ma quasi. Il Patto con l’amministrazione penitenziaria regolerà i loro comportamenti. In cambio, avranno quasi l’autogestione del carcere. Farà discutere, quest’ultima idea del nuovo direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino: le sezioni “aperte”. D’altra parte, alle prese con un sovraffollamento in cella sempre più bestiale, e una carenza cronica di agenti, Tamburino non può illudersi. Di questo passo la situazione peggiorerà sempre più. Dice Roberto Martinelli, segretario del sindacato Sappe: “Non sapete come sia duro e difficile lavorare a Genova, per fare un esempio, in strutture sovraffollate e surriscaldate. Più di 800 detenuti per 450 posti letto; i poliziotti dovrebbero essere 455 ed invece sono 320”. Il che significa che nel carcere non sono mai presenti più di 80-100 agenti per turno. Ma gli 800 detenuti stanno sempre lì. Ecco, di fronte a questa forbice che si va allargando pericolosamente, un mese fa Tamburino ha lanciato l’idea di mantenere saldo il circuito nazionale “ad alta sorveglianza”, concentrando qui il personale di polizia, creando allo stesso tempo dei circuiti regionali “a bassa sorveglianza” per i detenuti che hanno quasi terminato la loro pena, per le donne, per chi è condannato a reati minori. In queste carceri “aperte”, dette anche “istituti a custodia attenuata”, il controllo degli agenti sarà ridotto al minimo indispensabile. “Il servizio di sicurezza - scrive il direttore del Dap - una volta abbandonata l’idea che sia necessario, salvo che negli istituti a maggior indice di sicurezza, un controllo continuo sul detenuto, inutile ancorché impossibile, deve evolversi”. La sua proposta, per gli istituti a basso indice di sicurezza, si chiama “sicurezza dinamica”. In che cosa esattamente consista, non è chiaro. Tamburino scrive ancora: “Nei diversi periodi dell’anno, della settimana e/o del giorno [occorre] prevedere la soluzione delle “pattuglie” che presiedono “territori”“. I sindacati della polizia penitenziaria sono già in fibrillazione. Immaginano che in queste sezioni “aperte” ci sarà un solo agente dove oggi sono in quattro. Ma dato che al momento non è realistico immaginare un’amnistia che svuoti i penitenziari, qualcosa si dovrà pur fare. Già, perché al Dap hanno chiarissimo il rischio della situazione attuale: “Il personale opera in sezioni di istituti sovraffollati che accolgono, peraltro, altissime percentuali di stranieri, malati fisici e psichici, detenuti comuni o ad alta sicurezza e, legato come è alla staticità del posto di servizio, sembra accogliere su di sé tutto il peso della responsabilità... sente di trovarsi, il più delle volte da solo, a dover fronteggiare situazioni critiche avendo a disposizione strumenti non adeguati”. E la tragedia sono i suicidi. Si uccidono i detenuti. Si uccidono gli agenti. Giustizia: il ministro Severino; adesso vera priorità è approvare il ddl sulle misure alternative Adnkronos, 10 luglio 2012 “Dal mio punto di vista la priorità assoluta è l’approvazione del disegno di legge sulle misure alternative al carcere. È la strada maestra”. Lo afferma il ministro della giustizia, Paola Severino, al termine della visita all’Icam di Milano, Istituto di custodia attenuata per detenute madri. Il ministro ricorda che se ci sono realtà carcerarie “straordinarie” esistono anche problemi come il sovraffollamento, ma i dati in possesso sulla recidiva di persone che hanno potuto godere di misure alternative al carcere “sono straordinari. Sono dei dati - spiega - che abbassano il livello di recidiva della metà, di un quarto o di un terzo, rispetto alle altre situazioni. Se vogliamo evitare la ricaduta del reato su questo dobbiamo puntare”, conclude il ministro. Un terzo detenuti potrebbe godere di misure alternative Un terzo dei detenuti nelle carceri italiane potrebbe usufruire di misure alternative risolvendo così il problema del sovraffollamento. Lo annuncia il ministro della Giustizia, Paola Severino, citando degli studi europei sul tema. In visita all’Icam di Milano, dopo avere visto la struttura carceraria di Bollate, il ministro sottolinea l’importanza di puntare sulle misure alternative al carcere che garantiscono anche un migliore reinserimento del detenuto. “Da studi che sono stati fatti a livello europeo e anche extraeuropeo di questo tipo di misure può godere circa un terzo della popolazione carceraria. Se il dato venisse confermato dai fatti sarebbe una bella valvola di sfogo che potrebbe risolvere il problema del sovraffollamento”. Una indicazione anche se, precisa il ministro, “è difficile fare il conto. Quando studiamo le nuove misure alternative dobbiamo essere attenti a contemperare la tutela dell’ordine pubblico e la serenità dei cittadini”, conclude. Le ultime stime parlano di oltre 68mila detenuti presenti dietro le sbarre degli istituti italiani. Secondo le stime degli studi europei, riportati dal ministro Severino, sarebbero dunque quasi 23mila le persone che potrebbero usufruire delle misure alternative. Risparmio con misure alternative (Ansa) Ad avviso del ministro della Giustizia, Paola Severino, il risparmio per quanto riguarda il sistema carcerario italiano si ottiene attraverso le misure alternative “che già sono state varate o sono in procinto di esserlo”. E per questo il ministro chiede al Parlamento una “strada preferenziale” per la loro approvazione. Senza entrare nel merito delle stime dell’associazione Antigone, secondo la quale 10.000 detenuti fuori dalle carceri garantirebbero un risparmio di 1 milione di euro al giorno, il ministro ha spiegato che: “lo sguardo deve andare ai provvedimenti normativi che sono stati varati e che sono in procinto di essere varati. E, a questo proposito - ha aggiunto il ministro della Giustizia dopo la sua visita nel carcere milanese di San Vittore - credo che i disegni di legge che sono oggi pendenti in Parlamento siano fondamentali per ottenere un risultato che è anche economicamente rilevante, ma è soprattutto voluto dalla nostra Costituzione, la quale impone che il carcere sia l’ultima spiaggia, l’estrema ratio”. “E di misure alternative ne abbiamo studiate parecchie - ha proseguito il ministro: la situazione del fatto è di lieve entità, sto studiando le misure alternative alla detenzione: la messa alla prova, la detenzione domiciliare che può essere direttamente emessa dal giudice”. Se noi riusciamo a ottenere questo risultato passando attraverso queste normative, riusciremo a raggiungere un risultato di contenimento della spesa e, soprattutto, di rieducazione del soggetto condannato”. Credo che questa sia la strada maestra e su questo bisogna pigiare il piede sull’acceleratore”. È per questo che il ministro chiede al Parlamento “una strada preferenziale”, “perché queste misure - ha concluso - sono importanti, attese e condivise da tutti”. Esportare modelli Bollate e Icam in resto Italia (Adnkronos) Un nuovo modello di carcere più a misura di uomo e di famiglia che si ispiri alle strutture di Bollate o all’Icam. È questo l’auspicio del ministro della Giustizia, Paola Severino, che tra ieri e oggi ha visitato solo in Lombardia 4 diverse carceri. Per il ministro l’Icam, l’Istituto di custodia attenuata per detenute madri con figli fino a 3 anni, è un “esempio straordinariamente positivo”, un modello “esemplare, da esportare e anche da ampliare”. L’immobile di proprietà della Provincia di Milano ospita 11 bambini e per la Severino “è un piccolo miracolo all’interno delle carceri”. Un centro “importantissimo per la madre e per il bambino che segnala una grandissima attenzione per la famiglia. Non solo: l’eccellenza lombarda delle carceri è rappresentata anche da Bollate, un modello “virtuoso” che il ministro pensa di estendere anche al resto d’Italia. Ad esempio, a Bollate gli incontri tra detenuti e famiglie avvengono in giardino “dove ci si dimentica di essere in carcere”. I 1.136 detenuti di Bollate sono vigilati da 400 agenti, in un rapporto inferiore rispetto alle altre carceri dando così la possibilità di destinare gli uomini della Polizia penitenziaria “ad altri compiti diversi dalla custodia”. I detenuti di Bollate sono detenuti “speciali”: si tratta di persone selezionate tra i carcerati che scrivono un patto di responsabilità con l’istituzione carceraria. In pratica sono persone che possono liberamente muoversi all’interno del carcere e che hanno a disposizione diverse attività sociali, dal centro di riparazione di telefoni, al catering, dal call center al laboratorio di vetri artistici. “L’impressione di entrare in un carcere con porte aperte è straordinaria - sottolinea la Severino - e il livello di litigiosità si abbassa vertiginosamente”. Di Giovan Paolo (Pd): fare presto su misure alternative “Con le misure alternative abbiamo la possibilità di migliorare concretamente la vivibilità all’interno delle carceri. Il Parlamento faccia presto perché con l’estate aumenta lo stato di sofferenza di tanti detenuti”. Lo afferma il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, segretario della Commissione Affari Europei. “Maggioranza e governo si impegnino su questo fronte - continua Di Giovan Paolo - Le priorità sono non solo economiche e finanziarie, ma anche sociali”. Giustizia: Fp-Cgil e Antigone; serve una Conferenza Nazionale sull’esecuzione penale Redattore Sociale, 10 luglio 2012 Fp-Cgil e associazione Antigone scrivono una lettera al ministro Severino: “Con la spending review che taglia del 10% il personale penitenziario e della giustizia minorile si dà il colpo di grazia” Con una lettera inviata stamattina al ministro della Giustizia Paola Severino, la Segretaria Generale dell’Fp-Cgil Rossana Dettori e il presidente dell’Associazione Antigone Patrizio Gonnella chiedono la convocazione in autunno di una Conferenza Nazionale sull’esecuzione penale in cui “amministrazione penitenziaria, rappresentanze del personale, associazioni e detenuti possano condividere le tappe di un percorso di rinascita del sistema penitenziario italiano”. “Una richiesta in linea con la pratica diffusa in molte democrazie - aggiungono Dettori e Gonnella - dove ciò avviene regolarmente ogni anno. Il sistema penitenziario, che risponde direttamente alle finalità definite dalla nostra Costituzione, vive oggi un momento di profonda crisi a causa di una legislazione che ha prodotto un grave sovraffollamento, dell’assenza di risorse necessarie ad assicurare i diritti fondamentali delle persone detenute, delle dure condizioni di lavoro per tutto il personale, frutto di decennali politiche di tagli”. “Con l’ultimo decreto sulla spending review, che taglia del 10% il personale penitenziario e della giustizia minorile - continuano la segretaria generale dell’Fp-Cgil e il presidente di Antigone - si dà il colpo di grazia. Nonostante il personale sia insufficiente, si giunge al paradosso degli esuberi per figure centrali quali educatori e assistenti sociali e ciò rende di difficile attuazione la politica sul carcere prospettata subito dopo il suo insediamento. È però questo anche un momento di più diffusa consapevolezza, le parole del Presidente della Repubblica hanno prodotto una maggiore attenzione e contribuito a rendere più informata l’opinione pubblica, meno opaco il sistema”. “Affinché, però, si possano raggiungere gli obiettivi di un sistema detentivo improntato al rispetto dei diritti umani e al recupero sociale, tutti gli attori devono diventare protagonisti del progetto di riforma e avere maggiore gratificazione sociale, per ridurre le asprezze tra chi svolge un ruolo di custodia e chi invece è detenuto. Ma soprattutto - concludono Dettori e Gonnella - il settore non può essere ulteriormente sottoposto a una politica miope di tagli lineari e di riduzione dei costi”. Giustizia: Sappe e Si.Di.Pe.; taglio dipendenti potrebbe portare al collasso il sistema carcerario Tempi, 10 luglio 2012 Dal mondo degli operatori penitenziari si leva un appello al ministro della Giustizia, Paola Severino: “Auspichiamo incrementi di organico e un potenziamento delle misure alternative, sperando che la spending review non ci riguardi”. “Abbiamo apprezzato l’incontro che il ministro ha voluto riservarci dopo la visita nel carcere e le parole di elogio che per i poliziotti e gli operatori penitenziari tutti. Da parte nostra abbiamo chiesto segnali concreti al ministro della Giustizia Paola Severino”. Sono le parole di Roberto Martinelli, segretario generale del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria), dopo l’incontro avvenuto tra una delegazione del sindacato e il ministro della Giustizia che ha visitato il carcere genovese di Marassi. “Abbiamo spiegato come sia duro e difficile lavorare in strutture sovraffollate e surriscaldate dove un detenuto su quattro è tossicodipendente. Per questo ci aspettiamo incrementi di organico dei reparti della polizia penitenziaria e un potenziamento delle misure alternative al carcere, con un più consistente impiego di detenuti con pene minori e di minor allarme sociale in lavori di pubblica utilità”. Anche il Si.Di.Pe (sindacato che raccoglie il maggior numero dei dirigenti penitenziari di diritto pubblico), per voce del segretario nazionale Rosario Tortorella, ha inviato una lettera al ministro in cui si dettaglia la “situazione emergenziale delle carceri” e si esprime “forte preoccupazione” per i tagli ventilati dal Governo. “I dirigenti penitenziari Le chiedono di voler intervenire perché la situazione non consente davvero altre riduzioni di risorse umane”. Occorre “gestire meglio l’esistente, senza depauperarlo ulteriormente”. Se il sistema finora ha retto, nonostante tutto, è grazie all’impegno di chi nelle carceri ci lavora “affrontando enormi difficoltà a costo di sacrifici personali e familiari. Con l’obiettivo di coniugare sicurezza e trattamento, rigore e rispetto della persona umana, per cercare di restituire uomini migliori a una società troppo spesso distratta, che al carcere delega l’impossibile e del quale finisce con il fare la discarica dei problemi sociali che non vuole o non sa affrontare”. Per questo Torterella fa un appello al Ministro, auspicando “che il personale penitenziario sia escluso dalle annunciate riduzioni. Il Si.Pi.Pe confida in un Suo autorevole intervento in tal senso, per un carcere che resti effettivo presidio di legalità, di sicurezza e di rieducazione. Così come deve auspicare un Paese civile e democratico”. Giustizia: Sindacato Medici Italiani; la medicina penitenziaria è la “cenerentola” del Ssn Ristretti Orizzonti, 10 luglio 2012 Pochi medici, strutture obsolete, sovraffollamento della popolazione carceraria. Confusione normativa per i professionisti che vi operano. Il Sindacato dei Medici Italiani-Smi riunita la segreteria nazionale a Roma lo scorso fine settimana, ha approvato un documento in cui chiede che valorizzi il settore della medicina penitenziaria. Per lo Smi dal definitivo trasferimento del Servizio Sanitario Penitenziario dalle competenze del Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Regionale rimangono ancora molti nodi irrisolti (con il Dpcm 1 aprile 2008). Il processo era iniziato con il D.Lgs. 230/99 il quale stabiliva che i detenuti e gli internati, al pari dei cittadini in libertà, hanno diritto all’erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione previste dai livelli essenziali d’assistenza. Di pari passo si sarebbe dovuto definire un assetto normativo di riferimento per l’inquadramento del personale sanitario dei due Ministeri, che rimane invece ancora incerto è conflittuale. Solo per citare un esempio di questa situazione di grave confusione l’Asl. Napoli 1 Centro arbitrariamente e in difformità con quanto stabilito anche dalla Regione Campania, con ben due suoi decreti, ha licenziato tutti i 100 operatori sanitari degli istituti di Napoli, laureati medici e non medici. Non solo: attualmente, invece, le particolari competenze che vengono richieste per chi opera in carcere non sono adeguatamente valorizzate e la realtà lavorativa è spesso al limite della sopportabilità. Ecco alcuni spunti di valutazione: la carenza del personale medico, i medici operanti nei circa 250 istituti del territorio nazionale (compresi quelli per i minorenni) sono in tutto circa 3000, il mancato adeguamento dei locali destinati all’attività sanitaria e le attrezzature obsolete. Allo stato il sovraffollamento delle carceri ha raggiunto cifre record di oltre 66.000 persone (su 45mila posti), con un turn-over annuale triplo. Tutte criticità emerse in quasi tutte le regioni e già denunciate a suo tempo, nel 2011, al Ministero della Salute, ma rimaste inevase. Per questa ragione, lo Smi si rivolge al Governo e alle Regioni perché si intervenga con decisione e con urgenza affinché la medicina penitenziaria sia definitivamente considerato uno specifico settore assistenziale, con precise caratteristiche operative e con determinate particolarità nel rapporto medico-paziente. Un’area da valorizzare adeguatamente, non da trascurare come si è fatto fin ad ora. Giustizia: Cassazione; l’Asl non può rifiutare cura ormoni femminili a detenuto trans Tm News, 10 luglio 2012 L’Asl impugna il provvedimento del magistrato di sorveglianza che le ordina di somministrare ormoni femminili al detenuto transessuale: il ricorso, però, è inammissibile perché i soggetti legittimati a impugnare per Cassazione sono altri e tassativamente indicati. L’azienda sanitaria, laddove si ritenga danneggiata nei suoi interessi, può farli valere in sede amministrativa o civile, a patto però che si tratti di un pregiudizio effettivo e concreto. È quanto emerge dalla sentenza 23774/12, pubblicata dalla prima sezione penale della Suprema corte. Niente da fare per l’Asl che ricorre per cassazione invocando l’articolo 71 ter Op: l’impugnazione contro i provvedimenti del magistrato di sorveglianza che decidono sui reclami è limitata al pubblico ministero, al condannato e, in certi casi, all’amministrazione penitenziaria. Nella specie il recluso chiede che gli siano somministrate a spese dell’amministrazione le cure ormonali che ha intrapreso prima di essere arrestato. Di certo c’è che il recluso risulta affetto da “disturbo di identità di genere”, non può permettersi le cure né può lavorare in carcere assieme agli altri detenuti proprio per la sua particolare condizione. I medici sostengono che di quegli ormoni il detenuto trans ha bisogno. E il magistrato di sorveglianza, allora, rovescia il diniego dell’amministrazione penitenziaria e dispone che a farsi carico del trattamento debba essere l’Asl, perché le competenze in materia sanitaria penitenziaria sono passate alle Regioni. Inutile per l’azienda eccepire che le cure ormonali per i transessuali non rientrano nei Lea, i livelli essenziali di assistenza: secondo il giudice è possibile derogare per la preponderanza del diritto alla salute e la peculiarità della condizione dell’aspirante beneficiario, ristretto in una casa circondariale. All’Asl, per ora, non resta che pagare le spese processuali. Toscana: Gazzarri (Idv); carceri fatiscenti e pericolanti perché costruite con materiali scadenti Agenparl, 10 luglio 2012 “Strutture decadenti e difficili da vivere. Intere sezioni chiuse perché letteralmente cadono a pezzi. Questa la situazione delle carceri toscane, ampiamente documentate dalle pagine di cronaca. Oltre le legittime denunce di una situazione diventata insostenibile è doveroso chiedersi come mai, strutture che hanno poco meno di trent’anni, oggi si trovano ad essere fatiscenti e pericolanti. Questo il caso del carcere Le Sughere di Livorno, nato nel 1684. Uno dei tredici super penitenziari coinvolti nell’inchiesta “Carceri d’Oro”, preistoria di Tangentopoli ed emblema degli sprechi di danaro pubblico ottenuti da appalti farsa. Succede quindi, come nel caso di Livorno, che un carcere che dovrebbe rappresentare il fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano e che raccoglie detenuti ad alto indice di sicurezza, si trovi ad essere totalmente inadeguato ed inagibile in molte delle sue aree. Come l’inchiesta “Carceri d’Oro” ha infatti appurato, i materiali usati per la costruzione sono scadenti, con l’utilizzo di ferro e non alluminio per tutti gli infissi. Una situazione questa paradossale che non deve stupirci se pensiamo che l’inchiesta del 1988 ha accertato un articolato giro di tangenti distribuite ai politici per la costruzione di tali istituti di pena. Dobbiamo ora impegnarci perché le storie di ordinaria tangente non si ripetano oggi, nel boom delle speculazioni edilizie e delle gare truccate. Purtroppo siamo testimoni dei tagli pesantissimi fatti a settori strategici come il sociale ed è tempo di ottimizzare le risorse con una seria politica di responsabilizzazione in tal senso. Mi auguro che finalmente si capisca che sulla sicurezza e sull’efficienza delle strutture pubbliche, la cosiddetta politica del mangia mangia e la logica del profitto a tutti i costi non pagano e sono un’offesa al senso del pubblico servizio”. Lo dichiara Marta Gazzarri, Capogruppo Idv in Consiglio regionale della Toscana. Puglia: sull’affollamento carcerario interrogazione di Curto (Fli) al presidente Nichi Vendola www.newspuglia.it, 10 luglio 2012 Premesso che in Puglia, a fronte di una capienza delle carceri stimata in 2.450 posti letto, risultano essere detenuti ben 4.550 persone; tale stato di cose ha fatto sì che nelle ultime settimane fossero levate vibrate proteste contro situazioni che, in special modo in particolari periodi dell’anno, quello estivo soprattutto, definire disumane non è irrealistico; tale stato di cose è stato oggetto di interventi critici anche da parte di alcuni organismi sindacali della polizia penitenziaria che, molto opportunamente, hanno evidenziato il consequenziale disagio venutosi a creare all’interno della polizia penitenziaria medesima in quanto costretta a gestire situazioni divenute ogni giorno di più molto delicate; pur tuttavia, comprensibilmente, la situazione appare particolarmente grave per ciò che concerne la situazione dei detenuti a causa di fattori ambientali e sanitari che nel periodo estivo diventano pressoché esplosivi sì da indurre a gravi atti di violenza nei confronti di altri detenuti, oppure, e la qual cosa non è meno grave - ad atti autolesionistici; nell’ambito delle sacrosante proteste rilanciate dagli organi d’informazione, e delle iniziative da più parti assunte, una voce è risultata del tutto assente: quella del Garante dei diritti dei detenuti, figura eletta circa un anno fa dal Consiglio regionale della Puglia con l’obiettivo di garantire la protezione e la tutela non giurisdizionale dei diritti dei detenuti; all’epoca della elezione, l’evento fu salutato come fatto di grande civiltà giuridica e sociale in quanto la Regione Puglia risultò essere la terza Regione in Italia ad aver eletto tale importante figura; di conseguenza molte furono le aspettative sulla preziosa attività che il Garante dei diritti del detenuto avrebbe posto in essere. Tutto ciò premesso, anche alla luce di quanto in premessa, si chiede di conoscere quali siano state le attività e le iniziative assunte ad oggi da tale figura all’interno del sistema penitenziario pugliese, nonché la valutazione che il governo regionale ritiene di poter dare al riguardo. Messina: 28enne muore all’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto per avere inalato gas Redattore Sociale, 10 luglio 2012 È accaduto ieri a Barcellona Pozzo di Gotto, la vittima è un italiano di 28 anni, Sandro Grillo. Il segretario Capece: “Rivedere la possibilità che i ristretti continuino a mantenere questi oggetti nelle celle, vengono usati per sballarsi”. “L’ennesimo morte di un detenuto morto dopo aver inalato il gas della bomboletta, avvenuta ieri a Barcellona Pozzo di Gotto, impone a nostro avviso di rivedere la possibilità che i ristretti continuino a mantenere questi oggetti nelle celle”. È il commento di Donato Capace, segretario Generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe, dopo il decesso di Sandro Grillo, di soli 28 anni, soggetto alla misura di sicurezza dell’assegnazione di cura e custodia presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario siciliano. “Ogni detenuto - prosegue capace - può disporre di queste bombolette di gas per cucinarsi e riscaldarsi cibi e bevande come prevede il regolamento penitenziario, ma spesso servono o come oggetto atto ad offendere contro i poliziotti, come metodo alternativo per sniffarne il contenuto o come veicolo suicidario. Riteniamo che sia giunto il momento di rivedere il regolamento penitenziario, al fine di vietare l’ uso delle bombolette di gas, visto che l’amministrazione fornisce comunque il vitto a tutti i detenuti, ed anche di dotare i penitenziari di lenzuola usa e getta, visto che è proprio con quelle stoffe che i ristretti tentano (talvolta anche riuscendovi) di togliersi la vita”. “Allo stato si sta accertando se si tratta di un suicidio o, come è più probabile, di una morte dovuta ad un eccesso di sballo dopo avere inalato del gas, ma riteniamo che sia davvero giunto il momento di rivedere il regolamento penitenziario al fine di vietare l’uso delle bombolette di gas, visto che l’Amministrazione assicura il vitto a tutti i detenuti. Purtroppo è una pratica estremamente diffusa tra i detenuti di tutte le carceri: sniffare gas dalle bombolette che si usano in cella per cucinare. Uno “sballo” artigianale, un “viaggio” di euforia artificiale che, a Barcellona Pozzo di Gotto, è costato la vita a un detenuto siciliano di 28 anni. È la droga dei poveri, capace di provocare gli stessi effetti dell’eroina. Sniffing, il fenomeno si chiama così. Non ha statistiche, è una sorta di fantasma che ha già ucciso parecchie volte nelle galere italiane. I detenuti possono acquistare le bombolette di gas, il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sanno che se ne fa altro uso, oltre quello di cucinare i cibi. Insomma, la prassi dello sballo è conosciuta e da noi sistematicamente denunciata. Ma la sostituzione con le piastre elettriche come da tempo suggerito dal Sappe non è mai avvenuta”. Trani: detenuto morto per intossicazione da Fenobarbital e broncopolmonite, 14 gli indagati Ansa, 10 luglio 2012 È morto per una broncopolmonite sopraggiunta ad una intossicazione da Fenobarbital, con soffocamento, Gregorio Durante, il detenuto di Nardò di 34 anni deceduto la notte dello scorso San Silvestro nel carcere di Trani. Durante avrebbe dovuto essere trasferito in una struttura ospedaliera esterna per ricevere le cure adeguate. È questa la conclusione a cui sono arrivati Biagio Solarino, Roberto Gaglianio Candela e Roberto Catanesi i tre medici incaricati dalla Procura di Trani dell’autopsia fatta a gennaio. Il Fenobarbital è un medicinale che viene somministrato a chi, come Durante, soffre di epilessia. Nel referto stilato dai tre periti si evidenzia anche che la documentazione sanitaria fornita dalla struttura carceraria di Trani, risulta carente, insufficiente a comprendere le condizioni cliniche in cui il paziente versava nella settimana di detenzione in una cella d’isolamento. Durante era stato accusato dai secondini del carcere di aver simulato malori e quindi era stato messo in isolamento diurno per tre giorni consecutivi come sancito dal regolamento dell’istituzione penitenziaria. Dagli elementi raccolti, per i periti, è ragionevole ritenere “che - è detto nel referto - le condizioni cliniche fossero talmente compromesse da consigliare nei giorni precedenti al decesso il ricovero in ambiente ospedaliero esterno o internistico o neurologico, per la terapia”. Per la morte di Durante sono 14 le persone indagate dalla procura di Trani: il direttore della struttura penitenziaria, Salvatore Bolumetti, e 13 medici tra i quali quelli della Asl che si occupano del carcere di Trani e del reparto di psichiatria di Bisceglie. Viterbo: Ugl e Uil-Pa; il carcere di Mammagialla è un inferno, per gli agenti e per i detenuti di Silvia Cannucciari www.viterbonews24.it, 10 luglio 2012 Oltre 740 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 440 unità e 289 agenti operanti su una pianta organica che invece ne dovrebbe contare 450. Sono questi i numeri che caratterizzano da mesi il carcere di Mammagialla e che i sindacati e la polizia penitenziaria sono tornati nuovamente a denunciare in un sit-in di protesta davanti al carcere viterbese, in previsione di un’estate che si annuncia torrida non solo nelle temperature. “Non ce la facciamo più, la situazione è insostenibile - ha tuonato Danilo Primi, della segreteria provinciale dell’Ugl. Dopo la truffa dei trasferimenti della passata mobilità, quando erano stati promessi 20 agenti in più e invece ne sono arrivati solamente 9, che non hanno permesso di neanche di coprire il personale andato in pensione nel 2011, ci sentiamo ancora più abbandonati a noi stessi. A Mammagialla siamo in piena emergenza, considerando anche la tipologia di detenuti che si trovano in questo istituto penitenziario: basti pensare, infatti, che su 740 reclusi, circa 300 necessitano di cure psichiatriche e il personale sanitario per fornire assistenza non è adeguato, numericamente parlando. Si parla di appena 24 ore a settimana, che non possono essere assolutamente sufficienti”. “Le numerose aggressioni che si sono verificate negli ultimi anni sono sintomatiche di una situazione di profondo disagio vissuta sia dai detenuti che dagli agenti - ha continuato Primi. Il sovraffollamento e la carenza di personale, infatti, non fanno altro che diminuire il livello di sicurezza, senza considerare il fatto che molti colleghi sono fuori per malattia, proprio a causa delle lesioni riportate nelle aggressioni, e che ora è iniziato anche il turnover legato alle ferie, fattori che riducono ancora di più il numero del personale effettivamente in servizio”. “Dopo la proclamazione dello stato di agitazione, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ci è stato promesso che sarà mandato un numero congruo di agenti necessari a far fronte alle nostre richieste e inoltre dal 22 giugno è iniziato lentamente il piano di sfollamento del carcere - ha aggiunto il delegato dell’Ugl, ma se il nostro grido d’allarme rimarrà nuovamente inascoltato, siamo pronti a continuare con le nostre manifestazioni di protesta ad oltranza, fino a quando non si muoverà qualcosa. Intanto però ci teniamo a ringraziare le istituzioni politiche che ci hanno dimostrato il loro appoggio e sostegno in un momento così difficile, come la Provincia di Viterbo”. E proprio Palazzo Gentili era presente al sit-in con l’assessore alle politiche sociali Paolo Bianchini: “Andiamo incontro a mesi molto delicati, considerando che con la chiusura dei tribunali ci sarà il rientro di molti detenuti - ha commento Bianchini -. Con il concorso pubblico indetto dalla polizia penitenziaria speriamo che qualcosa possa migliorare, sperando che il Dap incrementi l’organico di Mammagialla. Con la manifestazione che abbiamo indetto lo scorso 17 ottobre, abbiamo ottenuto importanti risultati come la nomina del direttore dell’istituto e 9 agenti in più, speriamo di continuare su questa strada”. Lo stesso ottimismo, però, non arriva dalla Uil-Pa Penitenziari che, con il coordinatore regionale del Lazio Daniele Nicastrini, esprime tutta la sua preoccupazione: “Il Dap non ha mai avuto accorgimenti nella redistribuzione del sovrannumero di detenuti ospitati nelle carceri laziali, sempre più in aumento soprattutto qui a Viterbo - ha affermato Nicastrini. Dover sorvegliare oltre 700 detenuti, sovrammassati in celle che d’estate diventano camere a gas, con circa una quindicina di agenti per turno, fa vivere un vero e proprio inferno che non dà possibilità di salvezza”. “Da tempo chiediamo la riduzione del 20% della popolazione detenuta, a partire dal numero dei reclusi con problemi psichici - ha concluso poi Nicastrini, inoltre vorremmo che fossero previste delle differenziazioni sui sistemi di detenzione e vigilanza in base alla pericolosità dei detenuti di Mammagialla, cosa che il Dap, purtroppo non ha mai fatto e che invece dovrebbe fare. Rimaniamo perciò in attesa, senza far mancare mai il nostro appoggio a chi vive quotidianamente questo dramma”. Torino: il direttore delle Vallette; sbarre non sono sinonimo di sicurezza, sì alle “sezioni aperte” Adnkronos, 10 luglio 2012 “In un carcere il concetto di sicurezza è piuttosto difficile da definire, ma non può limitarsi alla cella. Sicurezza significa sicurezza per i detenuti, sicurezza per gli operatori, serenità, calo delle tensioni”. A parlare, in un’intervista a La Stampa, è Pietro Buffa, direttore uscente del carcere delle Vallette di Torino, uno dei primi a sperimentare i regimi aperti progenitori della circolare del Dipartimento di pubblica sicurezza (Dap) che prevede le “sezioni aperte” per detenuti a basso a rischio. L’ipotesi è quella di un patto con l’amministrazione penitenziaria con clausole, prescrizioni e impegni da rispettare, che in cambio offrirà ai detenuti una sorta di autogestione. Commentando la circolare del Dap, Buffa precisa “non si tratta solo dell’apertura delle celle. Significa responsabilizzazione, socialità, sicurezza appunto”. E fa un esempio: “alle Vallette alcuni detenuti hanno una squadra di rugby. La mattina escono dalle celle, vanno sul campo, si allenano, mangiano insieme, e la sera rientrano in cella”. “È una sorveglianza dinamica. Ci sono dei percorsi che possono compiere da soli, oppure solo accompagnati. E non c’è solo più la figura della polizia penitenziaria. Ci sono allenatori, insegnanti, assistenti. È la società civile che si apre al carcere. O viceversa”. Ma l’esperienza di Torino è un’isola felice? “Non siamo né un’isola, né siamo felici”, risponde. “Abbiamo anche noi problemi di sovraffollamento, miserie e non per tutti percorsi di questo tipo sono adottabili. Ma un carcere - conclude - non può essere sempre visto solo in termini numerici di sovraffollamento, suicidi e piante organiche. Un carcere è una miniera, bisogna cominciare a pensarlo come un’opportunità per la società”. Sassari: Sappe e Sinappe; al San Sebastiano una sola agente per controllare 19 detenute di Daniela Scano La Nuova Sardegna, 10 luglio 2012 Una donna sola per controllare diciannove detenute, di cui una pericolosa e un’altra con un bambino piccolo, chiuse in celle distribuite su tre piani. È questa la situazione nella casa circondariale di San Sebastiano dove, come ha denunciato il segretario provinciale del Sappe Antonio Cannas, nei giorni scorsi una assistente capo è stata brutalmente malmenata da una reclusa africana. L’agente è stata salvata dalle altre detenute. La poliziotta se l’è vista brutta: la detenuta che l’ha assalita all’ingresso dei “passeggi” (i cortili per l’ora d’aria) è il classico “soggetto pericoloso”. La donna è tornata a scontare una condanna dietro le sbarre perché, durante un periodo di libertà vigilata, aveva violato il divieto di avvicinare l’ex marito e l’aveva massacrato di botte. Ma anche in carcere la virago risolve i problemi menando le mani. Durante una lite, qualche settimana fa, ha quasi staccato il naso con un morso a una compagna di cella. Da quel momento, nessuno vuole condividere la stanza con la nigeriana e neppure stare a lungo in sua compagnia. Sarebbe questa richiesta delle compagne la causa dell’equivoco che ha spinto la detenuta ad assalire la poliziotta che la stava accompagnando ai “passeggi”. La donna voleva trascorrere l’ora d’aria in compagnia e, quando l’assistente capo le ha detto che non era possibile, lei ha pensato che fosse una decisione della donna in divisa. Invece erano le compagne a non volerla nello stesso cortile. Sono state proprio le detenuto a strappare letteralmente di dosso la compagna all’agente, che ci ha rimesso qualche ciocca di capelli e la serenità. L’episodio ha fatto emergere una situazione esplosiva che si è creata nella sezione femminile della casa circondariale sassarese. “Il personale femminile è del tutto insufficiente - accusa Antonio Cannas, il primo a segnalare l’episodio ai vertici dell’amministrazione penitenziaria. Capita quasi quotidianamente che nel reparto lavori una sola agente donna per turno”. In realtà, visto che la sezione è composta di tre piani, e considerando che un’agente deve portare le detenute ai passeggi, in organico dovrebbe essere di almeno quattro agenti per turno. “A San Sebastiano - prosegue Cannas - la sicurezza del personale non è mai stata a rischio come in questo periodo”. La situazione è diventata insostenibile da quando i ranghi della polizia femminile, già scarni, si sono drasticamente ridotti per malattie e ferie. Di fatto, sono cinque le agenti che si dividono i quattro turni di vigilanza nelle ventiquattro ore. Il conto è presto fatto. “Diciamo che è andata male, ma che poteva andare molto peggio - dice Luigi Arras, coordinatore nazionale del Sinappe. Se l’altro giorno la collega fosse stata ferita o sopraffatta, o se fosse accaduto l’irreparabile, l’allarme sarebbe scattato solo al momento del cambio turno”. “Proprio per prevenire simili episodi - prosegue Arras il nostro sindacato aveva chiesto di chiudere per l’estate il reparto femminile della casa circondariale”. Adesso sia Sinappe e Sappe chiedono con forza al provveditorato regionale della polizia penitenziaria di adottare provvedimenti. Prima che sia troppo tardi. Genova: a Marassi il ministro Severino visita le celle, ma in piazza esplode la protesta di Massimo Calandri La Repubblica, 10 luglio 2012 Guardasigilli e lavoratori delle Case Rosse sembrano parlare due lingue diverse. La Severino: “Struttura esemplare”. Gli agenti: “Un inferno”. Non può essere solo una questione di opinioni, punti di vista. La verità è che parlano due lingue diverse, e il fatto che uno degli interlocutori sia il ministro di Giustizia rende la situazione ancora più inquietante. Paola Severino lascia il carcere di Marassi distribuendo complimenti. Il Guardasigilli sottolinea la “grande buona volontà” e la “fantasia” di chi lavora all’interno della struttura genovese e “crea occasioni” per un futuro reinserimento dei detenuti. Definisce “esemplare” e “all’avanguardia” l’infermeria. Racconta di aver trovato “un ordine e una pulizia maggiori di quanto m’aspettavo”. Ma i prigionieri, i loro parenti, persino i poliziotti della penitenziaria la pensano in maniera diversa. E glielo gridano in faccia. C’è chi denuncia abusi e pestaggi, chi ricorda le cinque morti dietro le sbarre dall’inizio dell’anno, chi spiega che a suicidarsi sono anche le guardie. Perché il sistema non funziona. E poi il sovraffollamento delle celle, cui fa eco il numero esiguo di agenti, la poca attenzione nei confronti dei tossicomani e dei malati terminali. Quel senso di abbandono e di annientamento che - in un luogo per definizione “sicuro”, dove dovrebbero essere garantite le opportunità per rientrare in società come persone “migliori” - non si può tollerare. Gli “abissi di dolore”. Un’ora e mezza, tanto è durata l’annunciata ispezione del ministro. Poi si è recata a Pontedecimo. In precedenza aveva fatto visita a sorpresa anche alla prigione di Chiavari, dove è rimasta “positivamente” impressionata. Molte cose funzionano anche e soprattutto nel capoluogo ligure, ha detto la Severino. Sostenendo che esistono “abissi di dolore” e “picchi di speranza”, ma concentrandosi soprattutto su questi. La panetteria (“il pane è una cosa pulita”), le magliette ecologiche, la falegnameria che produce tavoli da biliardo. Certo, ha ammesso il ministro, esistono anche dei problemi: come “i numeri, e il caldo di questi giorni”. All’esterno del carcere protestavano le guardie carcerarie, lutto al braccio e mascherina davanti alla bocca: “Il primo è per i suicidi dei colleghi e le morti dei detenuti. La maschera perché dentro non si respira, in tutti i sensi. Nove detenuti per stanza, la branda più in alto che sfiora il soffitto. Detenuti che restano in cella 20 ore su 24, e la notte sono 800 con 16 guardie a controllarli. In queste condizioni l’uomo - il prigioniero e l’agente - può solo peggiorare”, dice Fabio Pagani, segretario regionale Uilpa. Accanto alle guardie urlavano la loro rabbia anche i parenti dei reclusi. E raccontavano storie che sembra impossibile. “Morire di carcere”. I genitori di Francesco, che sconta un anno e otto mesi per tentata rapina ed uscirà solo a dicembre, dicono che il figlio soffre d’asma. “A febbraio è andato in coma per un mese. A giugno si è sentito male a Pontedecimo. “Ci vuole altro, vuoi andare in infermeria”, gli hanno risposto gli agenti. Allora lui si è tagliato le braccia, ma all’inizio non bastava. Ha dovuto ferirsi dappertutto e perdere sangue come un animale, perché lo portassero via”. Questo dice il padre, che ha protestato ed è venuto alle mani con una guardia, così lo hanno spostato a Marassi. “Dove dice che sta meglio, ma intanto il giorno del trasferimento lo hanno gonfiato di botte. Mi ha detto che li picchiano anche con gli asciugamani bagnati, così non restano i segni”. Poi c’è Francesca, che è giovanissima e si è tatuata sul braccio il nome del marito, Davide. Diciotto anni per una serie di rapine a mano armata. “Chi ammazza paga molto di meno. Non me lo fanno vedere mai. Ho un negozio nel quartiere, quando c’è stata l’alluvione non mi hanno nemmeno permesso di telefonargli per dire che stavo bene. Ho dovuto farmi intervistare dalla televisione, e dirglielo così”. C’è la mamma di un ragazzo, finito dentro da poco. Deve scontare cinque anni per fatti commessi nel 1994. Nel frattempo si era rifatto una vita, aveva aperto un bar. Tutto finito. “Ho paura per lui. Non si può morire di carcere”. “Non ragionare col cuore”. Il ministro spiega che un prossimo disegno di legge potrebbe cambiare molte cose. “Scongiurando la prigione rispetto alla scarsa rilevanza penale del reato. Puntando sulla messa alla prova nella società civile, se c’è un attenuata pericolosità del colpevole. Concentrandosi sulle misure alternative come la detenzione domiciliare”. La Severino invita tutti a pensare positivo, in termini di giustizia. “La diminuzione del numero dei tribunali, anche in Liguria, vorrà dire risparmio ma anche maggiore efficienza. Dobbiamo avere fiducia”. Dalle celle, durante la visita, arrivavano grida disperate. “Amnistia? Ci vuole il voto favorevole di due terzi del Parlamento. Dobbiamo ragionare con la testa, non con il cuore”. Roma: il Garante Marroni; nel carcere di Cassino ambulatorio odontoiatrico chiuso da 14 mesi Dire, 10 luglio 2012 Da più di 14 mesi, gli oltre 300 detenuti del carcere di Cassino non hanno più l’assistenza per le malattie della bocca per la chiusura del gabinetto odontoiatrico dell’istituto. A denunciarlo è il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, che, con un telegramma urgente, ha invitato il direttore generale dell’Asl di Frosinone, Carlo Mirabella, e il provveditore dell’amministrazione penitenziaria, Maria Claudia Di Paolo, di “adoperarsi al più presto, a fronte di una situazione ormai intollerabile, per riattivare il servizio”. Attualmente nel carcere di Cassino, ricorda Marroni, “dove è stata instituita anche una sezione per sex offenders, i detenuti ritenuti autori di reati a sfondo sessuale, sono reclusi 329 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di soli 172 posti. Nella struttura c’è un’alta percentuale di detenuti con problemi di malattie del cavo orale”. Quello sollevato è un problema serio, “considerando che le malattie del cavo orale, spesso associate alla scarsa igiene e ad un’alimentazione non corretta, sono al terzo posto fra le più diffusa fra i detenuti dopo le patologie del cuore e quelle dell’apparato respiratorio, al punto da influenzare pesantemente la qualità della loro vita”. Secondo quanto dichiara Marroni, “molti detenuti di Cassino non riescono a mangiare per il dolore ai denti e risultano molti casi di detenuti che, visto che le cure non arrivano, gestiscono dolore ed infezioni con rimedi improvvisati e il fai da te: impacchi, acqua freddo, spesso atti di autolesionismo. In sostanza, in carcere è stata sospesa l’attività di cura ed estrazione dei denti e di prevenzione delle malattie del cavo orale e chi ha dei problemi è costretto ad arrangiarsi - conclude Marroni. Più volte, in questi ultimi mesi, abbiamo segnalato all’Asl di Frosinone e al Prap la situazione del gabinetto odontoiatrico senza riuscire a trovare una soluzione”. Bologna: nasce “Ne vale la pena”, il settimanale on-line della Dozza Redattore Sociale, 10 luglio 2012 Un periodico di informazione sul carcere che coinvolge 10 detenuti. Rabbi (Bandiera Gialla): “Hanno bisogno di confrontarsi e usano la scrittura per esprimere i loro pensieri” Un settimanale digitale realizzato dietro le sbarre della Dozza. È “Ne vale la pena”, il progetto promosso da Bandiera Gialla e dal Centro di aggregazione e formazione giovanile Poggeschi per dare voce a chi non ce l’ha. Il prodotto di questo progetto è un periodico di informazione sulla vita in carcere. In redazione ci sono, oltre a Nicola Rabbi di Bandiera Gialla e a 4 volontari del Poggeschi, anche 10 detenuti italiani e stranieri, di cui 5 in attesa di giudizio e 5 con sentenza definitiva. “Siamo entrati alla Dozza grazie all’associazione “Poggeschi per il carcere” - racconta Rabbi. Stiamo realizzando un progetto difficile: nella struttura ci sono, infatti, regole da rispettare come, ad esempio, gli orari di ricevimento limitati per le visite”. L’iniziativa (che si attiene all’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario che consente il volontariato in carcere) vuole dare voce a chi non ce l’ha, a chi sconta la pena nell’isolamento della sua cella e ha come obiettivo quello di portare la realtà del carcere al di fuori delle mura. “Nella loro condizione di chiusura i detenuti hanno bisogno di confrontarsi e grazie al progetto usano la scrittura per esprimere i loro pensieri - continua Rabbi. L’originalità di questa iniziativa è proprio l’uso del web perché garantisce una comunicazione immediata con il lettore”. Gli aspiranti scrittori (alcuni laureati) sono stati selezionati dagli educatori della Dozza in base alle loro capacità e alle loro qualità e hanno seguito un laboratorio di scrittura per circa 4 mesi prima di intraprendere questo percorso. “Il settimanale rappresenta per loro anche un esercizio di scrittura - sottolinea Rabbi. Scrivono i loro articoli su fogli perché non possono usufruire del computer, noi correggiamo i pezzi e poi ci occupiamo di trasferirli sul web”. Il periodico, pubblicato sul sito di Bandiera Gialla, vuole coinvolgere tante persone. “Stiamo pensando anche di collaborare con gli educatori, gli agenti e la direzione per dare una visibilità concreta e completa di questa realtà - conclude Rabbi - e vorremmo riportare gli articoli dei detenuti anche in una rivista che denomineremo appunto Ne vale la pena”. La redazione di “Ne vale la pena” si riunisce ogni settimana nell’auletta pedagogica della Dozza per decidere cosa parlare di volta in volta sul sito del settimanale on line. Dai racconti di vita quotidiana dei detenuti e dei problemi del carcere alle rubriche, una destinata anche alla cucina. Spazio anche a temi generali come diritto alla salute e all’istruzione. Per ulteriori informazioni è possibile seguire l’iniziativa anche sulla pagina Facebook creata ad hoc. Foggia: Osapp; agenti sventano tentativo di suicidio; sostituire Provveditore e dirigenti Prap www.teleradioerre.it, 10 luglio 2012 Il tentativo di suicidio di un detenuto nel carcere di Foggia è stato sventato “grazie alla tempestività ed alla professionalità sempre più alta della Polizia Penitenziaria nonostante le gravissime carenze di personale e le forti criticità del sovraffollamento detentivo”. Lo afferma, per il sindacato di polizia penitenziaria Osapp, il vicesegretario generale, Domenico Mastrulli, il quale chiede l’allontanamento dal suo posto del provveditore regionale della Puglia “con tutto il suo staff dirigenziale mostratosi insensibile alle sollecitazioni di allarme di detenuti ed agenti”. Secondo quanto rende noto Mastrulli, l’episodio è accaduto il 5 luglio scorso sera verso la mezzanotte, quando i poliziotti penitenziari che cominciavano il proprio turno - durante i controlli di ispezione hanno notato che un detenuto foggiano di 50 anni, in carcere per rapina aggravata, detenuto con altre quattro persone, con un lenzuolo si era appeso alle sbarre della finestra del bagno della propria cella ed era già in fin di vita. Il recluso è stato soccorso e subito trasportato in ambulanza negli Ospedali Riuniti di Foggia dove è stato assistito e dove è stato poi riportato in cella dopo 24 ore. Quello di Foggia - sottolinea Mastrulli - è al secondo posto in Puglia per sovraffollamento: ci stanno recluse 745 persone (30 donne e tre bambine) mentre era nato per ospitare 375 detenuti. È un Istituto - aggiunge il dirigente Osapp - che solo in un reparto contiene oltre 300 detenuti con una sola doccia. L’attuale forza in organico è di soli 298 agenti. “Il caldo afoso e le alte temperature tra Caronte, Lucifero e Minosse - aggiunge Mastrulli - stanno aggravando la situazione mentre a Bari negli uffici del Prap (provveditorato regionale) combattono la propria attività in comode stanze climatizzate e dove quasi 100 dipendenti tra polizia e civili gestiscono 11 strutture penitenziarie: altro che spending review”. Immigrazione: (Kyenge) Rete Primo Marzo; i Cie sono inutili e costosi, conviene chiuderli La Gazzetta di Modena, 10 luglio 2012 “Non si tratta di trovare un’altra cooperativa che gestisca la struttura, ma di cambiare radicalmente mentalità. Insomma di chiudere tutti i Cie: perché inutili, costosi e non rispettosi dei più basilari diritti umani”. Interviene nel dibattito sulla nuova gestione del Centro di identificazione ed espulsione modenese, da circa una settimana affidato alla società “Oasi” di Siracusa, Cècile Kyenge, portavoce della Rete dei migranti Primo Marzo. Secondo la coordinatrice nazionale dell’associazione, attiva nella difesa dei diritti degli stranieri residenti in Italia, non è possibile avere ancora nel 2012 “zone d’ombra” sul territorio; zone sulle quali i cittadini non siano in grado di essere adeguatamente informati. “Ormai tenere aperti i Cie non conviene più a nessuno, è una vera e propria perdita sotto tutti i punti di vista. Sono strutture inadeguate ed inefficaci e come tali andrebbero chiuse”. E in questa direzione va anche la raccolta firme per la presentazione di una petizione popolare, avviata dalla Rete Primo Marzo già da alcuni giorni. Secondo la Kyenge, l’associazione sta lavorando per risvegliare le coscienze della popolazione, evidenziando la “promiscuità” che tali centri rappresenterebbero: “I Cie si stanno trasformando in veri e propri carceri etnici. Tutto ciò è anticostituzionale: l’articolo 3 non si propone di rimuovere tutti gli ostacoli, anche di ordine razziale, favorendo una maggiore accoglienza ed integrazione?”. La Rete era intervenuta già nei giorni scorsi sul cambio di gestione del centro di identificazione ed espulsione modenese, rivolgendo all’amministrazione un accorato appello affinché vigilasse sulla trasparenza della nuova conduzione. “Già con la retta di 75 euro giornalieri si registravano gravi inadempienze all’interno della struttura. Mancava perfino l’acqua calda. Ora che la tariffa è stata più che dimezzata ci chiediamo come la cooperativa Oasi riuscirà a garantire la dignità degli ospiti del Centro”, aggiunge la Kyenge. In occasione del dibattito “L’Italia sarebbe migliore senza i Cie”, svoltosi giovedì scorso a Bosco Albergati, durante i Mondiali Antirazzisti, la stessa portavoce aveva dichiarato: “Noi vogliamo porre l’attenzione sulle storie delle persone, riportando al centro i diritti umani”. Ma la Rete Primo Marzo in questi giorni è impegnata anche su un altro fronte: l’emergenza terremoto. “Nelle misure d’urgenza prese dal Governo non c’è nessuna attenzione per la particolare condizione degli stranieri” spiegano dall’associazione. Che supporta la campagna del Coordinamento Migranti bolognese, che chiede alle autorità di agire affinché sia garantito il rinnovo del permesso di soggiorno anche se nei prossimi due anni gli extracomunitari residenti nelle zone terremotate non riuscissero a soddisfare i criteri di lavoro, reddito ed abitazione previsti. Viene inoltre reclamata la cancellazione, sempre per il biennio, della tassa di rinnovo del permesso. Myanmar: proseguono i rilasci di prigionieri politici, ma 400 sono ancora in carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 luglio 2012 Ko Aye Aung era stato arrestato nel 1998 e condannato a 59 anni di carcere per aver distribuito volantini e organizzato manifestazioni studentesche pacifiche. Khun Kawrio, attivista della minoranza kayan, era stato condannato a 37 anni di carcere, nel 2008, per aver chiesto in forma pacifica, scrivendo messaggi sui palloncini e sulle barchette di carta, il rispetto dei diritti umani della popolazione kayan e aver protestato per la mancata consultazione di questo gruppo nella stesura della nuova costituzione del paese. Ko Aye Aung e Khun Kawrio sono due degli oltre 20 prigionieri politici e di coscienza tornati in libertà il 3 luglio per “motivi umanitari”. Fanno parte di un più ampio gruppo di 80 prigionieri, tra cui 34 stranieri e 46 birmani, molti dei quali appartenenti al Fronte democratico di tutti gli studenti birmani. Secondo quanto riportato dal quotidiano filogovernativo “La nuova luce di Myanmar”, i 46 prigionieri locali sono stati rilasciati “in vista dell’obiettivo di assicurare la stabilità del paese e rendere permanenti la pace e la riconciliazione nazionale”. Nel fine settimana, tuttavia, c’è stata una nuova retata di attivisti, segno che la pace, la riconciliazione e il rispetto dei diritti umani sono ancora obiettivi lontani. Comunque, nell’ultimo anno e mezzo, attraverso successive amnistie, le carceri di Myanmar si sono parecchio svuotate. I prigionieri politici e di coscienza tornati in libertà sono oltre 670 ma probabilmente diverse centinaia rimangono dentro. Amnesty International continua a inviare appelli al governo birmano chiedendo che siano rilasciati. Uno di loro è Phyo Wai Aung, un ingegnere di 32 anni condannato a morte con l’accusa di aver preso parte a un attentato allo stadio X20 di Yangon il 15 aprile 2010, durante la Festa dell’acqua, in cui erano morte 10 persone e altre 168 erano rimaste ferite. Phyo Wai Aung si è sempre dichiarato estraneo a quell’orribile attentato. Ha confessato sotto tortura. Durante gli interrogatori svolti nel periodo di detenzione preventiva, è stato privato del sonno, tenuto per giorni con le mani legate dietro la schiena, preso a bastonate in testa, costretto a camminare in ginocchio su piccole pietre taglienti. I suoi aguzzini gli hanno anche ustionato i genitali. In quei mesi del 2010, a Phyo Wai Aung è venuto un tumore al fegato. Non lo hanno preso in considerazione fino al maggio di quest’anno, quando si è svolto il processo al quale neanche è stato in grado di partecipare. A Phyo Wai Aung resta poco tempo da vivere. Farà prima il tumore del boia. Per questo i suoi familiari hanno chiesto alle autorità di Myanmar un’ulteriore decisione per “motivi umanitari”: che muoia nel letto di casa. Marocco: rapper detenuto per brano contro polizia inizia sciopero fame La Presse, 10 luglio 2012 Mouad Belghouat, rapper marocchino arrestato per una canzone critica nei confronti della polizia, ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni in prigione. Noto nel Paese come El-Haqed, “L’arrabbiato”, il cantante ha annunciato tramite il fratello Abderrahim che rifiuterà il cibo per 48 ore. Belghouat dice di non avere accesso al telefono, di subire abusi da altri detenuti e perquisizioni dalle autorità carcerarie. Membro del Movimento del 20 febbraio, gruppo pro-democratico, il rapper ha scritto diversi brani in cui attacca la spropositata ricchezza della monarchia e critica le diseguaglianze nella società marocchina. La canzone che ha portato all’arresto, “Klab Dawla” (“Cani dello Stato”, ndr) accusa la polizia di aver accettato bustarelle. Israele: rilasciato calciatore palestinese Mahmud al-Sarsak, ha trascorso due anni in carcere Ansa, 10 luglio 2012 È rientrato oggi libero nella Striscia di Gaza il calciatore palestinese Mahmud al-Sarsak (per circa tre mesi in sciopero della fame durante la detenzione in Israele, circa due anni in tutto), come previsto dagli accordi con le autorità penitenziarie israeliane che nelle settimane scorse avevano messo fine alla sua protesta record. Lo hanno accertato testimoni oculari sul posto. Sarsak, 25 anni, già nazionale e promessa del football palestinese, è giunto in ambulanza al posto di frontiera di Beit Hanun dove erano in attesa i suoi familiari e centinaia di persone con bandiere e foto di prigionieri palestinesi. Il calciatore era agli “arresti amministrativi” in un carcere israeliano dal luglio del 2009: una misura da codice militare che le forze israeliane possono imporre nei Territori occupati per “ragioni di sicurezza”, senza processo e senza rendere pubbliche imputazioni precise. Nel marzo scorso si era unito ai circa 2000 reclusi palestinesi in uno sciopero della fame di massa di protesta e poi era stato tra i pochi a rifiutare un primo accordo collettivo con le autorità. Finché, il 18 giugno, il suo avvocato aveva annunciato che il calciatore aveva concluso a sua volta un’intesa per interrompere lo sciopero, in cambio dell’impegno scritto dell’amministrazione penitenziaria israeliana a non estendere ulteriormente gli “arresti amministrativi” nei suoi confronti e rilasciarlo alla scadenza del 10 luglio. Al suo arrivo a Gaza, l’atleta - per la cui sorte si erano mobilitati nei mesi scorsi il mondo del calcio, a cominciare dal presidente della Fifa, Joseph Blatter, e diversi organismi internazionali - è stato accolto da grida di vittoria e quindi accompagnato all’ospedale Shifa per essere sottoposto ad esami medici, prima di raggiungere casa sua a Rafah. Nato in un campo profughi, Sarsak era diventato a 14 il più giovane esordiente della serie A palestinese. Era stato arrestato nel luglio 2009 al checkpoint di Erez mentre si dirigeva verso la Cisgiordania per raggiungere la Nazionale. Cina: è detenuto il Vescovo che ha sfidato Pechino di Beniamino Natale Ansa, 10 luglio 2012 È detenuto nel seminario di Sheshan, secondo fonti cattoliche, il vescovo ausiliario di Shanghai Thaddeus Ma Daqin, che sabato scorso ha sfidato apertamente la politica religiosa del governo di Pechino annunciando la sua decisione di abbandonare l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi. Istituita nel 1957 dall’Ufficio per gli affari religiosi, l’organismo governativo che controlla vita religiosa dei cinesi in tutti i suoi dettagli, l’Associazione riconosce il governo di Pechino e non la Santa Sede come autorità ultima e sostiene di avere il diritto di nominare i vescovi, una rivendicazione che la mette in diretto conflitto con il Vaticano. Ma Daqin, di 44 anni, ha rafforzato la sua sfida rifiutandosi di accettare la comunione da Zhan Silu, un vescovo nominato dall’Associazione patriottica senza il consenso della Santa Sede. Secondo la rivista dei missionari cattolici Asia News, la Messa per l’ordinazione di Ma Daqin si è svolta sabato scorso nella cattedrale di Sant’Ignazio, a Shanghai, alla presenza di un migliaio di fedeli e di quattro vescovi riconosciuti dal Vaticano. La Messa è stata celebrata dal vescovo della metropoli Jin Luxian. Nel suo discorso di accettazione Ma Daqin ha ‘espresso la sua gratitudine al Signore, ha ringraziato i presenti e ha lanciato un appello all’unità dei cattolici.’. “In conclusione ha detto di volersi concentrare sulla sua attività di aiutante del vescovo Jin e che di conseguenza non era più opportuno per lui mantenere una posizione all’interno dell’Associazione patriottica”. L’affermazione sarebbe stata salutata con un lungo applauso dai presenti. Ma Daqin è sparito poco dopo, quando è stato preso in consegna da un gruppo di funzionari di polizia. In seguito si è appreso che è stato condotto nel seminario di Sheshan, dove osserverà un periodo di riposo. Sembra trattarsi di una versione ad hoc degli arresti domiciliari illegali o delle scomparse temporanee, strumenti usati normalmente dalla polizia cinese per far pressione sui dissidenti. Le vittime vengono tenute prigioniere, in genere in alberghi, e sottoposte a forti pressioni psicologiche - ed in alcuni casi a vere e proprie torture - perché modifichino il loro comportamento evitando di mettere in imbarazzo le autorità. I vescovi nominati dal Vaticano e non riconosciuti dall’Associazione patriottica vengono spesso sottoposti a questo tipo di trattamento. In genere i funzionari insistono perché aderiscano all’Associazione, riconoscendo in questo modo l’autorità del governo di Pechino. Il caso più recente di detenzione illegale venuto alla luce è quello dell’artista Ai Weiwei, che l’anno scorso è scomparso per 81 giorni prima di essere rilasciato senza che gli sia stata mossa alcuna accusa formale.