Giustizia: detenzione disumana e inutile… facciamo qualcosa contro questa vergogna! di Nanni Riccobono Gli Altri, 10 agosto 2012 Perché dedichiamo questo numero agostano del nostro giornale alle carceri? Ad agosto si sa tutti cercano di alleggerire le pagine e di far “riposare” i lettori con argomenti meno impegnativi, che facciano pensare poco, soffrire poco. Invece noi ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti “no, non lo possiamo fare”. Perché è proprio adesso, d’estate, con il caldo soffocante, che la vita dei detenuti è ancora più infernale, ancora più insopportabile. Parliamone allora. Parliamo di questo cosa assurda, incivile, inumana che sono le patrie galere. Parlarne non è abbastanza, ma è qualcosa. Noi degli Altri siamo per abolirle. Non crediamo nella punizione, soprattutto in una punizione cattiva e vendicativa come quella “offerta” dalle nostre carceri. Forse siamo un po’ matti. Certo questa nostra convinzione non è condivisa da molti. Quello che ci preoccupa dì più è che, non solo non è condivisa a sinistra, ma che anzi, la sinistra da Tangentopoli in poi e soprattutto con Berlusconi, in galera ci manderebbe praticamente chiunque. Perché la sinistra ha perduto proprio questa sua componente originaria, il libertarismo, tra le tante che farebbe bene a perdere? Porse perché il libertarismo è stato minoritario e perdente in realtà sin dall’inizio, è rimasto patrimonio degli anarchici e di chi a sinistra (pochi, troppo pochi) non ha smesso il vizio di pensare con la propria testa. Forse dovremmo lare uno sforzo tutti, a sinistra, per fare un passo indietro per una volta, e recuperare quella visione libertaria della società e dei rapporti tra le persone. Ma anche volendo fare una mediazione verso il “senso comune” che ritiene che la devianza sociale vada imprigionata e soffocata, siamo sicuri che la battaglia per avere delle carceri umane, per abolire l’abominio della carcerazione preventiva, per evitare un sovraffollamento causato da leggi liberticide e ingiuste che sbattono in galera migranti e tossici, non debba essere la battaglia di tutta la sinistra italiana? Dal Pd, passando per Sel e arrivando al manettaro Di Pietro, che su tanti terreni sta facendo un’opposizione a queste) governo che può essere definita di sinistra, perché questi partiti non fanno un accidenti a proposito delle carceri? Leggerete gli articoli che vi proponiamo, a partire da quello di Valentina Ascione, che dipinge la situazione così com’è, con i suoi numeri spaventosi di morti in galera, tra suicidi, violenze e altre misteriose cause. L’articolo di Laura Eduati sulle guardie carcerarie che si suicidano quattro volte di più degli altri corpi di polizia mentre le istituzioni rifiutano di vedere il nesso. Quello di Rita Bernardini, perché se non ci fossero i Radicali in questo Paese di quel che succede nelle prigioni non sapremmo niente. La lettera di Striano, ex carcerato ed ora attore. La testimonianza del nostro Paolo Persichetti, che ancora è costretto a tornare a Rebibbia ogni sera. La storia delle rivolte carcerarie scritta da Andrea Colombo e la riflessione di Gennaro Migliore. E dopo averli letti speriamo che anche voi, come noi, vi sentiate male. Male perché ci indigniamo, ci incazziamo ma non siamo capaci di fare nulla per cambiare questa situazione. E se decidessimo che quella piccola cosa che ancora ci resta, il voto, non la daremo a nessun partito che non faccia propria la battaglia contro la carcerazione preventiva, per l’indulto e per concrete azioni di miglioramento della vita dei detenuti? Giustizia: carcere = pena di morte, è solo merito dei detenuti se la polveriera non scoppia di Valentina Ascione Gli Altri, 10 agosto 2012 Non si fa in tempo a tirare le somme, che già bisogna aggiornare il totale. Di nuovo. Perché nel frattempo un’altra vita si è spenta dietro le spesse mura di una prigione. Dall’inizio dell’anno è accaduto già 96 volte, praticamente un morto ogni due giorni e mezzo, di cui oltre un terzo per suicidio. Luglio il mese più nero con sei detenuti impiccati e altri cinque deceduti per non meglio precisate “cause naturali”; un morto nel carcere di Siracusa dopo 25 giorni di digiuno, un internato dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto asfissiato con il gas e un altro ucciso ad Aversa da un compagno di cella che gli ha dato fuoco. Il bilancio mensile più pesante degli anni Duemila. Da quando, cioè, l’osservatorio di Ristretti Orizzonti ha iniziato la triste conta delle morti dietro le sbarre in Italia, arrivando a registrare più di 700 suicidi e oltre duemila decessi: il bollettino di una quotidiana guerra per la sopravvivenza. Combattuta da migliaia di detenuti in carceri sovraffollate al punto da potersi definire illegali, contro condizioni di vita degradanti imposte da uno Stato, il nostro, incapace di rispettare le sue stesse leggi e i diritti umani fondamentali. E per questo ripetutamente condannato dalla giustizia internazionale. Le statistiche suggeriscono che in carcere ci si ammazza venti volte in più che fuori, ma secondo il governo non è possibile stabilire un rapporto di causa-effetto tra il sovraffollamento carcerario e l’aumento dei suicidi. Ovvio. Nessuna formula matematica potrebbe mai decretare una relazione di questo tipo, tuttavia sarebbe miope, oltre che disonesto, negare che esseri umani costretti a stare come bestie - prede dell’ozio forzato in spazi malsani e inferiori a quelli che la legge garantisce ai maiali negli allevamenti - siano tentati più di altri dall’idea della morte come soluzione e termine delle proprie sofferenze. Attualmente negli istituti di pena italiani oltre 66 mila persone si trovano recluse in celle che, secondo il ministero della Giustizia sarebbero sufficienti al massimo per 45 mila di loro. Ma sebbene negli ultimi anni il tasso di sovraffollamento carcerario sia aumentato, fino a toccare punte del 150 per cento, i dati ufficiali relativi alla capienza regolamentare sono aumentati. Una moltiplicazione “miracolosa”, dovuta al semplice fatto che nel tempo anche gli spazi comuni sono stati adibiti a celle, obbligando così detenuti a stare chiusi a chiave per 20 o 22 ore al giorno. Privati di quasi tutte le attività cui ciascuno di loro dovrebbe poter accedere, perché rappresentano uno strumento per perseguire la finalità rieducativa della pena sancita dalla Costituzione. Troppi corpi, insomma, in troppo pochi metri quadri. Nonostante la normativa europea disponga che ogni detenuto ne abbia almeno 7 in una cella singola e 4 in una multipla, e affermi che al di sotto dei 3 metri quadri la detenzione si traduce in un trattamento inumano e degradante che viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani: quello, per intenderci, che proibisce la tortura. Ma qui da noi questa è considerata roba d’altri tempi e infatti sono 25 anni che l’Italia si sottrae all’obbligo di introdurre il reato di tortura nel proprio codice penale. Così i detenuti se ne stanno accalcati gli uni sugli altri, costretti a fare i turni per mangiare intorno a un tavolo e perfino per stare in piedi e sgranchirsi un pò le gambe, mentre gli altri attendono sulle proprie brande. Con pochissime possibilità di lavorare e quindi di guadagnare. Spesso imbottiti di psicofarmaci che in carcere non solo vengono di rado rifiutati, ma sono prescritti con generosità al tacito scopo di sedare il malessere. Fino quasi a diventare un metodo di controllo preventivo, che ingrossa le fila dei dipendenti da sostanze. Mentre i tossicodipendenti continuano a rappresentare un terzo della popolazione detenuta: migliaia di uomini e donne, per lo più giovani, che invece di marcire in galera in stato di abbandono, dovrebbero per legge trovare accoglienza e assistenza presso una comunità terapeutica. Con un congruo risparmio per le casse dello Stato, visto che un detenuto in cella costa 220 euro al giorno e in comunità solo 60. Ma la strategia dei tecnici, in tempi di crisi economica e spending review, è ancora quella di tagliare le già ridicole risorse del sistema penitenziario, il personale trattamentale e di polizia da tempo fortemente sottodimensionato. Insomma, il colpo di grazia a un moribondo, denunciano i sindacati. La crisi dell’universo carcerario è come un devastante incendio estivo. Uno di quelli che si estendono rapidamente e a perdita d’occhio incenerendo tutto ciò che incontrano sul proprio cammino. Ad andare in fumo nelle nostre galere è però l’esistenza di centinaia e centinaia di esseri umani, che se non si ammazzano quantomeno ci provano, o si fanno volontariamente del male per esprimere un disagio insostenibile, denunciare un torto, rivendicare un diritto. O anche solo per attirare l’attenzione. Secondo il dossier “Eventi critici” stilato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nel 2010 si sono verificati quasi 6 mila episodi di autolesionismo, dei quali circa il 15 per cento di detenuti stranieri. I tentati suicidi sono stati 1137 e la frequenza maggiore in questo caso è tra coloro che sono in attesa di giudizio e che nel nostro paese rappresentano il 42 per cento della popolazione detenuta. Un’odiosa anomalia tutta italiana che, in base alle statistiche, vede oggi reclusi nelle patrie galere circa 14 mila innocenti, a scontare una pena ingiusta e in condizioni - come abbiamo visto - di conclamata illegalità. E dopo i politici che hanno soffiato sul fuoco, riempiendo le galere in nome della sicurezza, cosa fa il governo dei tecnici per spegnere l’incendio? Ben poco. Si culla nei risultati pallidi, se non risibili, di un provvedimento battezzato col nome beffardo di “svuota carceri”, utile solo alle frange estreme del giustizialismo che hanno potuto gridare all’indulto mascherato; e la “corsia preferenziale” auspicata dal Guardasigilli Paola Severino per il disegno di legge delega sulle misure alternative al carcere si è finora rivelata tutt’altro che veloce. Senza contare che dal testo all’esame della commissione Giustizia della Camera è stata stralciata la parte relativa alle depenalizzazioni. Così, mentre la legislatura si avvia rapidamente alla conclusione, il tema della crisi delle giustizia e la sua drammatica appendice carceraria, che avrebbero dovuto costituire una priorità, rischiano di finire ai margini dell’agenda di governo. E pure il presidente della Repubblica Napolitano sembra aver rimosso quella “prepotente urgenza” da lui stesso sollevata un anno fa, in occasione del grande convegno organizzato dal Senato con il Partito Radicale, mentre la Corte europea dei diritti dell’uomo - sommersa da 1.200 ricorsi solo di semplici detenuti - si prepara a emettere una sentenza pilota per denunciare le carenze strutturali dell’Italia in materia. Il tutto nel silenzio più totale dell’informazione, che del carcere ignora i morti e anche i vivi. Quelli che a decine di migliaia solo poche settimane fa hanno digiunato nelle proprie celle che con il leader radicale Pannella per chiedere un’amnistia, utile soprattutto allo Stato per uscire dalla bancarotta della giustizia e rientrare rapidamente nella legalità. Ma le rivolte, si sa, quando non sono rumorose e violente non fanno notizia. Quella cui si assiste nelle nostre prigioni è infatti una prova silenziosa e composta del grande senso di responsabilità dei detenuti, grazie al quale la polveriera penitenziaria non è ancora scoppiata. Ancora resiste, sì, grazie ai criminali. Giustizia: migranti, tossici, recidivi, per loro hanno buttato la chiave di Luigi Manconi Gli Altri, 10 agosto 2012 Le cause del sovraffollamento delle carceri sono essenzialmente di due tipi: sistemiche e congiunturali. Tra quelle sistemiche - relative cioè all’organizzazione penale nel suo complesso - possiamo considerare anzitutto una legislazione penale carcero-centrica, che assegna cioè al carcere non la funzione (assegnata dalla nostra Costituzione) di extrema ratio cui ricorrere quando le altre misure non siano efficaci, bensì quella di sanzione prevista pressoché per tutti i reati diversi da quelli dei “colletti bianchi”. Proprio per questo è da accogliere con favore la previsione - nel disegno di legge Severino - di pene principali extra-carcerarie, come peraltro accade nella maggior parte dei Paesi europei. Inadeguato è poi il catalogo delle misure alternative al carcere (disposte cioè non dal giudice del Tribunale ma in fase esecutiva), che sono escluse peraltro per tutti coloro (e non sono pochi) detenuti per i così detti delitti ostativi. Tra questi si annoverano infatti non solo mafia e terrorismo, ma anche una serie di reati (ad esempio in materia, di stupefacenti o immigrazione) la cui gravità non sempre giustifica il divieto di usufruire dei benefici penitenziari. E questo ultimi sono stati inseriti all’interno della categoria degli esclusi più per ragioni di consenso, in omaggio a logiche securitarie e a false rappresentazioni mediatiche, che per reali esigenze di sicurezza pubblica. Se poi si considera che, per oltre il 40%, i detenuti in carcere sono in attesa di giudizio (e come tali presunti innocenti), è evidente come il ricorso alla custodia cautelare in cella - analogamente alla esecuzione di condanna definitiva - non sia affatto una misura residuale. Ovvero un provvedimento da applicarsi quando ogni altra sia ritenuta “inadeguata” per quelle ragioni, tipizzate tassativamente dal codice di tutela della, collettività: reiterazione del reato, prevenzione del pericolo di fuga dell’indagato e inquinamento probatorio. Non a caso, uno dei filoni più garantisti della giurisprudenza costituzionale recente ha dovuto ribadire l’incostituzionalità delle norme - emanate dal governo Berlusconi - che hanno esteso la custodia cautelare obbligatoria anche al di là dei reati di mafia, per i quali soltanto - e in via eccezionale - la Consulta stessa e la Corte europea dei diritti umani hanno ammesso questa sorta di presunzione assoluta di pericolosità sociale. E proprio agli stereotipi del “nemico pubblico” prodotti dalla, legislazione penale recente vanno ricondotte le cause congiunturali del sovraffollamento penitenziario. Cause legate, cioè, a politiche settoriali, inerenti a specifici reati rappresentati strumentalmente come di particolare allarme sociale. Penso essenzialmente al settore dell’immigrazione, a quello delle sostanze stupefacenti e alla disciplina (solo apparentemente trasversale) della recidiva, attraverso leggi quali la Bossi-Fini del 2004, la Fini-Giovanardi del 2006 e la ex-Cirielli del 2005, infatti, si sono previsti dei sotto-sistemi penali speciali, derogatori, cioè, dei principi generali e delle garanzie individuali, connotati da logiche di diritto d’autore o di colpa per la condotta di vita. Pertanto, in quei particolari settori, sono stati resi penalmente illeciti (e puniti con il carcere) anche comportamenti privi di reale offensività nei confronti di terzi (si pensi all’inottemperanza all’ordine di allontanamento per il migrante, la cui sanzione detentiva è stata esclusa soltanto dopo la censura mossa dalla Corte di giustizia nel caso El Dridi). Di più: attraverso quelle leggi è stata resa del tutto marginale, quasi eccezionale, per queste figure soggettive, la possibilità di avvalersi di benefici penitenziari e misure non custodiali, rendendo così il carcere la destinazione “naturale” (o fatale?) per migranti, tossicomani e recidivi: siano essi in attesa di giudizio o condannati. Giustizia: caro Saviano, vieni via con me. In cella di Rita Bernardini Gli Altri, 10 agosto 2012 Lo chiedo a Roberto Saviano che negli ultimi tempi ci sta (a noi radicali) - ancor di più - sorprendendo positivamente con le sue prese di posizione sulla legalizzazione della marijuana, sulla necessaria riforma della giustizia e sulla condizione illegale delle nostre carceri. Vorrei ascoltare, caro Roberto, le tue riflessioni e osservazioni mentre visitiamo cella Poggioreale, Regina Coeli, San Vittore, Piazza. Lanza, l’Ucciardone o altri istituti penitenziari del Nord, del Centro o del sud Italia, isole comprese. Scegli tu dove andare. Lo facciamo, se vuoi, portandoci appresso la nostra Costituzione, la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, il nostro Ordinamento Penitenziario con il suo regolamento di attuazione. Toccherai con mano e, direi, con e in tutti i sensi, quanto il rispetto di qualsiasi forma di legalità sia bandite nelle nostre carceri, non solo per il “trattamento” cui sono sottoposti ì 66.500 detenuti, ma anche per le condizioni di lavoro di tutto il personale. E imbarazzante vedere “servitori dello Stato” come i direttori e i comandanti di polizia penitenziaria abbassare gli occhi quando chiediamo quando è stata l’ultima volta che il magistrato di sorveglianza ha visitato le celle e i luoghi di detenzione o quando la Asl ha verificato le condizioni igienico-sanitarie e strutturali dell’istituto, cosa che per legge deve fare ogni sei mesi; o quando, entrando in una cella di 7 metri quadrati troviamo un letto a castello a tre piani e chiediamo quante ore al giorno rimangono chiusi in quelle condizioni i detenuti. Tossicodipendenti, malati psichiatrici, persone con gravi patologie che non vengono assistite e curate, un’umanità dolente che in base alle leggi nazionali ed europee sta lì per essere “rieducata” e, in futuro, “reinserita” nella società. Basti pensare che solo il 15% ha la possibilità di lavorare, peraltro in lavori poco spendibili una volta usciti all’esterno e che anche quel 15% lo fa “a rotazione” per un paio di mesi all’anno. Ad un ragazzo tossicodipendente incontrato nel carcere di Cassino, chiesi: “Ma quando fra qualche anno uscirai di qui, che farai? Mi rispose “ma cosa può fare uno come mese, uscito di qui e dopo questo “trattamento”, ritorno a Scampia dove abito? Lì la droga te la calano con il cestino dai palazzi, è tutto un viavai... un lavoro vero non c’è”. Ma non è solo questo ciré, comunque, basterebbe per classificare il nostro Stato come delinquente abituale vista la reiterazione, per decenni, di trattamenti inumani e degradanti nei confronti di persone private della libertà. L’Europa costantemente ci condanna e noi continuiamo ad essere recidivi. Dicevo, non è solo questo. Lo sai quanti detenuti sono costretti in istituti situati a centinaia di chilometri dalle loro famiglie? Oltre ventimila! Non vedono più per mesi e perfino anni i loro congiunti, non fanno più colloqui con mogli, figli minorenni e genitori. Eppure il regolamento penitenziario dispone che particolare attenzione deve essere dedicata ad affrontare la. crisi conseguente all’allontanamento del soggetto dal nucleo familiare, a rendere possibile il mantenimento di un valido rapporto con i figli, specie in età minore, e a preparare la famiglia, gli ambienti prossimi di vita e il soggetto stesso al rientro nel contesto sociale. Carta straccia. Sai perché vorrei fare questa cosa con te che hai l’onestà intellettuale di parlare di “legalizzazione” delle sostanze stupefacenti e di rispetto della legalità? Per chiederti - ma solo al termine della visita rigorosamente a sorpresa e senza preavviso - che fare per interrompere subito il crimine in corso. Giustizia: manette e toghe, il cul-de-sac della sinistra di Gennaro Migliore Gli Altri, 10 agosto 2012 “C’è un giudice a Berlino”, disse qualche secolo fa un mugnaio prussiano di fronte alla prepotenza del re di Prussia. O almeno così la raccontò Brecht. Nonostante l’apologo fosse tutt’uno con l’aspirazione ad uno stato che proteggesse dall’arbitrio regio la classe operaia, in molti a sinistra devono aver preso alla lettera quella storia, immaginando che ci dovesse essere sempre e soltanto un giudice a garantire il proprio diritto. Gli ultimi anni, quando le lotte sociali sono arretrate sotto i colpi potenti della riscossa del capitale, fino al punto da mettere in discussione anche ciò che era stato faticosamente conquistato nel secolo scorso, parte della sinistra si è messa in attesa di un giudice, se non proprio di Berlino almeno pronto ad essere ospitato in qualche talk show televisivo. Non penso che si sia trattato di una mutazione genetica, che avrebbe trasformato milioni di persone, dedite a manifestare e a lottare per ottenere i propri diritti, in tanti piccoli giustiziarti. Piuttosto si è trattato di una sostituzione di categorie interne al conflitto capitale lavoro, come destra e sinistra, con elementi più apodittici, come Colpevoli o Innocenti. Il trionfo di quest’equivoco, che in alcune penne raffinate e maliziose è addirittura andato a giustificare a posteriori l’insignificanza di destra e sinistra, è stato rappresentato dalla parabola intrecciata di Berlusconi e Di Pietro. Berlusconi ovvero il dissoluto impunito e Di Pietro il giudice mentore di una lunga sequenza di magistrati “prestati” alla politica. È stato un problema tutto italiano (basti pensare al celeberrimo Garzòn che mai ha pensato di diventare un leader politico), non ancora risolto, dovuto in gran parte all’enorme protervia di Berlusconi. Eppure il problema rimane e la soglia di cultura democratica e garantista si è attenuata fatalmente. Basterebbero pochi esempi per dire che chi è partito con l’idea brechtiana di essere il giudice d’ultima istanza contro l’arroganza del potere si sia trasformato rapidamente in un perpetuatore del peggior istinto legge e ordine dei tempi che furono. Pensate proprio ad Antonio Di Pietro, alle sue campagne giustizialiste, al suo reiterato rifiuto di dare vita ad una commissione di inchiesta sui fatti di Genova, alla campagna violentissima (molto popolare anche tra gli elettori di sinistra) fatta all’epoca dell’ultimo indulto, all’opposizione strenua verso un’amnistia, corredata da considerazioni a dir poco agghiaccianti sulla natura della pena, alle sue resistenze sull’introduzione del reato di tortura, ai pacchetti sicurezza illustrati mentre era ministro di Prodi al fianco di Fini, e tanto altro ancora. Come lui altri ne sono seguiti e tutti caparbiamente ascritti da molti “compagni” al campo della sinistra! Il problema, a ben vedere, è però tutto nostro, della sinistra. Se questa spesso si è accodata alle campagne antigarantiste dei Di Pietro di turno, se ha letto le sentenze di Cassazione di Travaglio come un faro, sia quando la il giornalista su cose importanti sia quando ignobilmente dà del venduto a Vendola, se ha immaginato, leggendo Repubblica, che ci volesse un pool di giudici per buttar fuori Berlusconi e non una chiara alternativa politica, allora il problema è proprio nostro. Nostro, della sinistra che non ha affrontato con coraggio le insidie del populismo giustizialista che oggi vedono trionfare Grillo, che Di Pietro si da a colpi di ius primae noctis sulle “battaglie per la legalità” (tanto sempre di sostantivo femminile si tratta per il maschio eloquio del leader molisano). Nostro, visto che per me stare a sinistra significa pur sempre che “Nessuno tocchi Caino”, che non esiste una legalità astratta ma una giustizia civile e sociale da conquistare. Nostro, di chi per calcolo, convenienza o timore, non rivendica che, senza la cultura delle garanzie, anche il giudice brechtiano di Berlino sarebbe stato dalla parie del potere costituito. Giustizia: i Bersaglieri di Pannella contro il muro di gomma di politica e informazione di Laura Arconti Notizie Radicali, 10 agosto 2012 Di carcere, come estrema conseguenza di un sistema giudiziario paralizzato, si è cominciato a parlare in qualche quotidiano: solo ora, dopo anni di lavoro incessante dei Radicali. Ormai, nessuno più nega che lo stallo del sistema giudiziario e le condizioni delle carceri siano intollerabili: tuttavia non un cenno dal Quirinale, né dal Parlamento (ormai in ferie) né dai partiti, impegnati in ben altro. Solo i Radicali continuano a “reclamare e pretendere legalità e rispetto dello Stato di diritto”. Queste parole sono ricordate nel comunicato emesso ieri dal compagno radicale avv. Alessandro Gerardi, confermato da Marco Pannella martedì mattina e poi in serata durante la trasmissione “Radio Carcere”. Mentre il resto del mondo che si definisce “politico” fa tutt’altro, volgendo i piedi verso le spiagge più celebri ed i pensieri ai patteggiamenti più inverecondi, in casa radicale suona la tromba della carica. Si vuol dare ancora più forte il segnale di una determinazione e di un impegno che non è mai venuto meno, e che rinnova l’indicazione della strada da seguire per il rientro della repubblica italiana nella legalità. È il momento di tirare le fila di un lungo lavoro collegiale di molti: compagne e compagni radicali i cui nomi non sempre sono apparsi in comunicati ufficiali, e che hanno dato corpo ad un lavoro enorme, con cuore e pensieri dedicati a chi soffre ingiustamente. Non si dimentichi quel 41% di detenuti che non sono stati ancora condannati in via definitiva, e che quindi - a norma di legge - debbono essere tuttora considerati incolpevoli: fra questi, un gran numero sarà poi riconosciuto innocente. Davvero non si capisce come si possano dormire sonni tranquilli, in queste notti d’agosto, mentre, affollati fra mura fatiscenti, soffrono intollerabilmente esseri umani: persone, non numeri. “Abbiamo deciso di compiere un passo ulteriore e di assumerci un preciso impegno: inviare una diffida a tutti i capi degli uffici GIP presso ogni circondario di Tribunale, diffidandoli dal ricorrere all’utilizzo del carcere ogni qual volta non si sia in grado di garantire al destinatario del provvedimento un trattamento carcerario giusto: ossia conforme ai principi costituzionali e convenzionali, nonché alle leggi e ai regolamenti interni. In caso contrario, alla diffida seguirà la denuncia presso le Procure della Repubblica”. Così il comunicato. Ci si augura che a questa iniziativa partecipino in molti, a partire dagli ottomila avvocati penalisti iscritti alle varie Camere Penali, che vengono invitati a prendere contatto con info@radicali.it per fornire assistenza nel denunciare per omissione di atti d’Ufficio i Magistrati di sorveglianza inadempienti, e i Gip (Giudici per le Indagini Preliminari) per abuso di atti di ufficio. Tutto questo si inserisce nel complesso di iniziative in corso da mesi nei confronti della Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) con la predisposizione di due dossier da presentare al Comitato dei Ministri della corte europea, Comitato tra i cui compiti rientra quello di vigilare sul rispetto dell’esecuzione delle sentenze Cedu da parte degli stati membri. Uno dei dossier riguarda l’illegalità delle nostre carceri, e il secondo fornisce dettagli precisi sulla situazione dell’intero sistema giustizia in Italia. In questi dossier - curati dall’avv. Deborah Cianfanelli della direzione di Radicali Italiani - vengono illustrate le sistematiche violazioni perpetrate dall’Italia non solo nei confronti della nostra carta costituzionale, ma anche nei confronti della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. I due documenti saranno resi pubblici a breve. Il silenzio dei media nei confronti dei Radicali, l’affannosa rincorsa dei più rumorosi oratori dal linguaggio tribunizio, tutto indirizzato alle emozioni viscerali del peggio della popolazione, hanno costruito un muro apparentemente invalicabile: un colloso muro di gomma, e per questo ancora più difficile da sfondare. Non è più un muro in cui aprire a cannonate una breccia, come nel 1870 a Porta Pia. Non servono cannoni né plateale gestualità: occorrono azioni precise, concretamente fondate su leggi e strumenti legali, capaci di penetrare le coscienze e di suggerire un moto di riscossa, un desiderio di dignità. È ciò che stanno facendo i Radicali, con la loro tranquilla nonviolenza: tranquilla ma mai inattiva; inerme sì, ma mai inerte. Chi verrà a dare una mano ai Radicali, sotto il sole infuocato di questo agosto? Giustizia: situazione carceri “migliorata”? Ministro Severino… ma ci faccia il piacere! Valter Vecellio Notizie Radicali, 10 agosto 2012 È l’ennesima conferma: il radicato sistema tangentocratico, il “rapporto falsato” (bell’eufemismo per descrivere lo stato dello sfascio e dell’inaffidabilità) tra giustizia e impresa, il caotico e labirintico inferno della burocrazia della italiana; e, per finire, la sempre più insoddisfacente qualità dei “servizi”. Si sommino tutti questi elementi, ed ecco che l’Italia guida la classifica dei paesi più inaffidabili. È ultima per efficienza del sistema giudiziario tra i paesi dell’Unione Europea; e sfigura ampiamente anche a confronto con le altre nazioni che dell’Unione non fanno parte. Il rapporto realizzato dall’Ufficio studi di Confcommercio, in base alle elaborazioni di dati del World Economic Forum e della Banca Mondiale, è un vero e proprio monumento della vergogna. I fattori presi in esame sono la presenza di un quadro normativo di riferimento efficiente, la diffusione di pagamenti irregolari e tangenti, i tempi di attesa della giustizia nella soluzione dei problemi legati all’attività economica, la complessità delle pratiche burocratiche legate alla giustizia. Se ne ricava che per quel che riguarda corruzione e tangenti siamo battuti solo da Grecia e Slovacchia. L’Italia inoltre registra il livello più basso di efficienza del sistema giudiziario. Siamo perfino sotto Grecia, Slovacchia, Slovenia e Messico, e progressivamente, anno dopo anno, da dieci anni, la situazione peggiora. Decisamente pessimiste le previsioni del World Economic Forum su una capacità di ripresa in breve tempo: negli ultimi dieci anni, il tempo di attesa per una sentenza di fallimento o di insolvenza è praticamente raddoppiato, passando da uno a quasi due anni, comunque quasi cinque volte i tempi dell’Irlanda e il doppio del Regno Unito. Non parliamo poi delle infrastrutture: “Nel confronto con altri Paesi europei ed extra europei la qualità-quantità dell’output pubblico in Italia è tra i peggiori, ricoprendo il terzultimo posto nella graduatoria dei 26 Paesi presi in considerazione”. In particolare, l’Italia è in ultima posizione per qualità complessiva delle infrastrutture e in quartultima per qualità ed efficienza delle istituzioni. Inoltre, per l’adempimento degli obblighi fiscali in Italia occorre un numero di ore quasi cinque volte superiore a quello del Lussemburgo. Questa la fotografia, questa la situazione. Urgono, si impongono scelte coraggiose e radicali. Quelle scelte coraggiose e radicali che, per scellerato calcolo, per miopia politica, per incapacità, la classe politica, nel suo complesso, non sa e non vuole adottare. È in questo quadro che si inserisce l’azione politica dei radicali. “Il Presidente della Repubblica è garante della Costituzione. E quando la Costituzione viene sistematicamente violata, noi dobbiamo chiederci chi è il responsabile di questa mancata garanzia. Il Presidente non è arbitro. E noi studieremo anche questo aspetto. Noi vogliamo fare tutto quello che la legge ci mette a disposizione per fare in modo che la legge sia rispettata”, ci ricorda Rita Bernardini, intervistata da “Radio Radicale” sulle iniziative in via di definizione. “I detenuti sono troppi rispetto ai magistrati di sorveglianza, per le condizioni oggettive di lavoro, per mille motivi. Ma è un dato di fatto che i magistrati responsabili del tribunali di sorveglianza non vanno a visitare le celle, non hanno colloqui frequenti con i detenuti, che hanno il diritto di presentare istanze. E dunque noi li chiameremo in causa. I magistrati di sorveglianza possono ordinare all’Amministrazione penitenziaria di rimuovere i trattamenti inumani e degradanti in corso. Eppure non lo fanno, perché le carceri non le conoscono. Noi li inviteremo a farlo”. Il mese di luglio è stato quello più luttuoso, dal 2000 ad oggi, per quanto riguarda le carceri. Anziché disporre la detenzione domiciliare, per imputati che nella metà dei casi poi si rivelano innocenti, i Gip dispongono la custodia cautelare in carcere. “Oggi”, dice Rita Bernardini, “la custodia in carcere è illegale. Noi li diffidiamo. Quanto al Parlamento, la politica non è stata capace di dare una risposta, in tutti questi mesi. Nemmeno un preannuncio di risposta. Noi diciamo che c’è un reato in corso, reiterato, ed è lo Stato a commettere questo reato. Si violano non solo le leggi ma la Costituzione, la Carta europea dei diritti dell’uomo. È una questione che riguarda certo le carceri, ma che riguarda la giustizia, che sono l’appendice, che sono lì a dirci in quali condizioni è la giustizia”. Al prossimo comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sarà presentato un dettagliato documento al riguardo; si stanno inoltre studiando una serie di iniziative per l’attivazione di meccanismi giuridici interni, a partire dalla richiesta di messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano perché, come spiega Alessandro Gerardi, “il capo dello Stato non richiama il legislatore ai propri obblighi di fronte alla totale illegalità in cui versa il sistema giudiziario e penitenziario”. Nelle carceri intanto, continua la mattanza. Può capitare che a Sollicciano un detenuto coreano di 48 anni, Rhee He Cheung cada dal letto e batta la testa sul tavolo e muoia così. Poi ti dicono che aveva voluto farla finita; che la sera del 4 agosto, poco prima di mezzanotte, solo in cella, in cima al letto a castello, assicura il lenzuolo alla testiera e si è avvolge al collo l’altra estremità di quel brandello di stoffa. Ti dicono che arriva una guardia penitenziaria, che prima prova a farlo desistere, poi si allontana per dare l’allarme e prendere la chiave della cella; e ti dicono che è allora che Rhee He Cheung cade dal letto, batte la testa sul tavolo e finisce per terra, ogni soccorso si è inutile: entra in coma e muore il giorno successivo. Ti dicono che Rhee He Cheung doveva scontare una condanna definitiva a sei anni e quattro mesi per due rapine, sarebbe uscito nel giugno del 2014. Non aveva nessuno in Italia, tutti i parenti erano in Corea. Ti dicono che da tempo chiedeva di essere trasferito a Roma, per poter avere dei colloqui con i parenti attraverso l’Ambasciata Coreana. Aveva inviato lettere al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e, nelle scorse settimane, aveva intrapreso uno lo sciopero della fame; ti dicono che se ne stava sempre in disparte, anche durante l’ora d’aria, e qualche volta, litigava con i suoi compagni, che era sotto osservazione psichiatrica e aveva una cella tutta per sè. A fine luglio, l’ultima visita dello specialista avrebbe confermato che le sue condizioni non destavano preoccupazione. “Senza coperta, né cucchiaio, mi trattano come un animale” pare si sia lamentato con i volontari dell’associazione Pantagruel. Ti dicono che una decina di giorni fa, in preda a rabbia e sconforto, aveva devastato la cella, distrutto l’armadio, divelto il lavandino, una furia. Da allora gli era stato impedito di ricevere visite. Un’altra tragica morte a Sollicciano, la quinta dall’inizio dell’anno. C’è poi la storia che racconta Rita Bernardini, appresa da “fonte attendibile”... È la storia di L.D. 49 anni, incarcerato per reati legati al suo stato di tossicodipendenza, una vita passata tra istituti penitenziari e comunità. L.D. da un mese e mezzo si trova nel carcere di Civitavecchia, prima era “ospite” a Santa Maria Capua Vetere. Da quando è stato trasferito si sono interrotti i colloqui con la sorella che, morti i genitori, si è fatta carico di seguire il ragazzo; la donna, non hai mezzi sufficienti ad affrontare il viaggio per raggiungere Civitavecchia da un paesino della provincia di Caserta. Giovedì 2 agosto L.D. Sta mangiando, quando un pezzo di carne gli va di traverso e rischia di strozzarlo; accade spesso a chi è sottoposto a terapie a base di psicofarmaci. Il medico del carcere interviene subito, ma non basta. L.D. Viene ricoverato all’ospedale San Paolo di Civitavecchia. Durante il tragitto ha diversi arresti cardiaci, appena arriva al pronto soccorso, viene immediatamente intubato. Trascorrono ventiquattr’ore. Il fisico di L.D. non regge all’ennesimo arresto cardiaco, muore. La storia però non finisce qui. L.D. sembra sia stato “scarcerato” per l’incompatibilità del suo stato di salute con la detenzione il venerdì stesso della sua morte, ma la notifica non è mai arrivata. Lunedì scorso viene negata ai familiari la possibilità di vedere per l’ultima volta il loro congiunto; il giorno successivo viene eseguita l’autopsia; e il giudice dfispone un percorso per il rientro della salma nel paesino d’origine che nega la sosta nella parrocchia per la celebrazione della messa funebre: L.D. deve andare direttamente al cimitero. Ma, chiede Rita Bernardini, perché L.D. era stato trasferito, senza che neppure i familiari fossero avvertiti? Perché l’Amministrazione penitenziaria non ha rispettato quanto previsto dall’art. 28 dell’Ordinamento penitenziario laddove stabilisce che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie?”. Come mai l’incompatibilità della salute di L.D. con lo stato di detenzione in carcere è stata decisa così tardi? Perché negare alla famiglia la possibilità di vedere il loro congiunto e di fargli celebrare la messa in suo ricordo? Di fronte a questi quotidiani massacri di diritto e di vite umane, suonano beffarde e vuote le promesse del ministro della Giustizi, Paola Severino, che annuncia la calendarizzazione in Aula, dei provvedimenti sulle misure alternative come la messa alla prova e i domiciliari. Il Guardasigilli ricordato il suo “forte impegno” per assicurare alle norme una corsia preferenziale e si dichiara molto compiaciuta del fatto che questo “sia stato condiviso dal Parlamento... Tremila ingressi in meno, grazie alle norme che hanno evitato il fenomeno delle porte girevoli e duemila uscite per i domiciliari in sostituzione degli ultimi 18 mesi di detenzione. A questo, si sono aggiunti gli interventi di edilizia carceraria che hanno consegnato 1.500 posti già disponibili più 3.500 entro l’anno. Auspico che ulteriori risultati che saranno ottenuti con l’approvazione del ddl, attualmente all’esame della Commissione Giustizia della Camera: i domiciliari e la messa alla prova sono misure deflattive forti che garantiscono contemporaneamente la sicurezza dei cittadini”. Ci faccia il piacere, ci faccia! Giustizia: “emergenza carceri”, dal tunnel si esce soltanto con l’amnistia di Carmine Alboretti La Discussione, 10 agosto 2012 Parla il vicesegretario Ciisa Penitenziari, Nazzaro: il Parlamento non sia inerte. C’è un dramma ulteriore in quella tragedia che viene liquidata, a volta con troppo superficialità, con l’espressione “emergenza carceri”. Ed è quello degli agenti della polizia penitenziaria che, sottoposti a turni massacranti, costretti a lavorare in un ambiente difficile, magari a centinaia di chilometri da casa, perdono il controllo e si tolgono la vita. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Nazzaro, vicesegretario nazionale del Ciisa Federazione Nazionale Polizia Penitenziaria. Vicesegretario Nazzaro la situazione diventa sempre più difficile in carcere anche per i suoi colleghi. Ha ragione. Il problema delle morti nelle fila degli agenti della polizia penitenziaria è gravissimo. Negli ultimi cinque anni ben cinquantacinque colleghi si sono tolti la vita a causa delle difficilissimi condizioni in cui sono costretti a svolgere il loro lavoro, per lo stress e la lontananza da casa. Il ministro Severino ha assicurato che dopo la pausa estiva sarà istituto un tavolo nazionale permanente per discutere questo aspetto. Inoltre sarà disponibile un numero verde con supporto anche di carattere psicologico per tutto il personale vive situazioni a rischio. Per venire incontro al problema della lontananza da casa, che pure ha un certo peso, sono stati già firmati 1.500 provvedimenti per la mobilità nazionale. A fine anno ne dovrebbero essere 3.000. Come giudicate l’atteggiamento della classe politica nei confronti delle vostre rivendicazioni? La politica, salvo qualche eccezione, ci appare abbastanza distante dai problemi della realtà carceraria. Quando c’è stata la visita del Santo Padre Benedetto XVI a Rebibbia si è parlato di sovraffollamento, suicidi e quant’altro ma poi non sono seguiti atti efficaci. Sì ma c’è stato lo “svuota carceri”... Il provvedimento cosiddetto “svuota carceri” rappresenta una goccia nel mare. Se si vuole davvero affrontare il problema del sovraffollamento serve una legge di amnistia o di indulto. Il Parlamento deve assumersi questa responsabilità davanti al Paese. Il carcere deve essere l’ex-trema ratio alla quale il giudice deve ricorrere quando non ha altre alternative. In caso contrario è necessario utilizzare altri strumenti. Nel frattempo la lunga scia di morti aumenta di giorno in giorno… Per l’appunto. La classe politica non può restare inerte di fronte anche alle tante condanne in sede comunitaria che il nostro Paese subisce per le condizioni disumane in cui si trovano i nostri detenuti. Bisogna fare qualcosa al più presto. Altrimenti dovremo fare i conti con un autunno caldissimo. Giustizia: i Radicali pronti a un battaglia legale contro l’abuso della custodia cautelare di Dimitri Buffa L’Opinione, 10 agosto 2012 “Denunceremo tutti i gip che prima di spedire qualsiasi cittadino italiano o straniero in carcere non verifichino prima le condizioni di vivibilità dell’istituto penitenziario a cui destineranno ogni singolo detenuto, inoltre è nostra intenzione di fare la stessa cosa con tutti quei magistrati di sorveglianza che non esamineranno le richieste di applicazione di pena alternativa da parte degli stessi detenuti e che si limiteranno a rigettare tutto in maniera burocratica”. Parola più parola meno questo concetto, già enunciato nelle ultime trasmissioni di “Radio carcere” condotte da Riccardo Arena, era stato ribadito domenica scorsa durante l’ultima conversazione pomeridiana tra Marco Pannella e Massimo Bordin, trasmessa da Radio Radicale. Il vero problema italiano infatti è proprio quel “facite a faccia feroce” tipico di una burocrazia da terzo mondo, forte con i deboli e debole con i forti. Dal presidente della Repubblica in giù, nessuno si prende le responsabilità più impopolari a costo di divenire “anti popolare”. Così è stato anche per “l’amnistia” per la repubblica, ormai più necessaria allo stesso stato di diritto che ai detenuti. I radicali, dopo le parole, gli scioperi della fame e gli appelli firmati dai 120 giuristi a partire da Francesco Puggiotta al Capo dello stato perché si assumesse la responsabilità di un messaggio alle Camere sull’amnistia, hanno deciso, con l’iniziativa dell’avvocato Alessandro Gerardi, di passare alle denunce penali. Il tutto propedeutico a nuove pronunce dell’Europa contro il nostro stato, come quella “pilota”, o meglio esemplare, che dobbiamo attenderci da un momento all’altro tra capo e collo. Il degrado, secondo Gerardi e i radicali, sta coinvolgendo anche le prerogative della presidenza della repubblica che “sempre più ha deciso di mutare il suo ruolo di Garante e custode della legalità costituzionale in quello di arbitro e mediatore tra le forze politiche. Ergo? “Denunceremo tutti, alla magistratura italiana e poi alla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Ma perché denunciare magistrati di sorveglianza e gip? Lo spiega perfettamente proprio Gerardi: “L’ordinamento penitenziario assegna poche ma importanti funzioni al magistrato di sorveglianza”, tra cui “quella di vigilare sulla organizzazione degli istituti di prevenzione e pena anche al fine di assicurare che la custodia degli imputati e dei condannati sia attuata in conformità con leggi e regolamenti”. Ciò nonostante “capita spessissimo di visitare carceri in cui i detenuti non hanno mai visto il magistrato di sorveglianza competente, il quale peraltro non si reca da loro nemmeno per i colloqui richiesti, e non evade le istanze che gli vengono rivolte”. Sui Gip, spiega sempre Gerardi, “occorre ricordare che il 42% dei detenuti italiani è in attesa di giudizio”, un “dato abnorme”, una “percentuale che non ha eguali nel panorama europeo”. “Sono i Gip ad emettere le ordinanze che dispongono la custodia cautelare in carcere - precisa sempre Gerardi - e quindi abbiamo deciso di inviare a tutti i capi degli uffici gip una diffida: non si ricorra al carcere come misura cautelare estrema ogni qual volta non si sia in grado di garantire al destinatario del provvedimento un trattamento carcerario giusto, conforme a principi e leggi. In caso contrario, alla diffida seguirà la relativa denuncia presso le procure della Repubblica”. D’altronde a mali estremi, estremi rimedi: quella della giustizia è la prima riforma da affrontare in Italia e il primo passo a questo punto non può che passare per l’amnistia. L’attuale situazione delle carceri e e della giustizia in genere la portano le scelte sbagliate e demagogiche del passato e non si può per quieto vivere politico continuare a fare finta di niente. I radicali così come non esitano a mettere in gioco il proprio corpo per mandare avanti le proprie battaglie, alla stessa maniera non esiteranno a inondare di denunce i magistrati italiani contro quei loro colleghi che se la cavano nascondendosi dietro la burocrazia. E anche per il Capo dello stato, anzi contro di lui, si preannunciano clamorose iniziative in Europa per il ripristino della legalità costituzionale. Insomma Pannella ha deciso: “A la guerre comme a la guerre”. Giustizia: il ministro Severino; le carceri sono gironi infernali, io lavoro per migliorarle Asca, 10 agosto 2012 Le carceri, “un problema che mi sta molto a cuore”. Parola del ministro della Giustizia, Paola Severino, che in una lunga intervista a L’Espresso, parla della sua vita professionale e politica. “Già da avvocato - spiega - avevo avuto esperienza di questi gironi infernali nel carcere di Poggioreale, ma appena nominata ministro, in quello di Cagliari, dove ero andata per capire le dinamiche di un suicidio, un detenuto mi ha dato una lettera. Per me è stata una svolta”. “Non l’avevo letta subito, ma mentre preparavo il discorso che avrei fatto a Rebibbia davanti al Papa, mi è stranamente rispuntata da una tasca. C’era tanta umanità nuda e sofferente in quella lettera che ho rinunciato al mio discorso e l’ho letta pubblicamente. Ogni volta che i detenuti mi applaudono mi sento in colpa per quell’applauso”. Per ora, spiega il ministro, ho fatto “il possibile. Quasi 2mila posti in più con i nuovi padiglioni, 3mila detenuti in meno con le sliding doors e altri 2mila con gli arresti domiciliari. Ma continuerò a lavorare per loro”. L’intervista completa al Ministro Severino (L’Espresso) Che scoperta la politica. L’impatto-choc col Parlamento. La legge sulle intercettazioni. Il ministro si racconta: “Ma nel 2013 torno a fare l’avvocato”, di Stefania Rossini. Paola Severino affronta un colloquio in cui ha accettato di parlare anche di sé con la stessa vigile compostezza con cui dal novembre scorso fa il ministro della Giustizia. Controlla le parole, tiene a bada le sbavature, aspetta al varco i piccoli agguati del linguaggio e delle emozioni per riportarli al servizio del suo argomentare. L’esercizio forense che ne ha fatto uno dei più illustri penalisti italiani le torna evidentemente utile in ogni aspetto di questa sua avventura pubblica, non cercata ma accettata con quello che lei chiama “spirito di servizio”. Ascoltando questa sobria signora che parlerà con sorvegliata naturalezza anche della malattia che l’ha privata del braccio destro, si ha l’impressione che, con lei, la politica abbia fatto un acquisto importante. Anche se proprio la politica qualche volta l’ha stupita e spiazzata. Ma non certo scoraggiata. A nove mesi dal primo impatto come si trova in questo suo ruolo di governo? “Un po’ più a mio agio. La cosa difficile non è stata imparare a muoversi in un ministero, dove le regole non sono in fondo diverse da quelle di un grandissimo studio legale, ma in Parlamento. La politica vista dall’interno è una scoperta”. Che cosa si scopre? “Per esempio che tra i due rami del Parlamento c’è un forte senso di autonomia e che aver discusso a lungo un provvedimento alla Camera non vuol dire aver portato a casa metà del risultato, ma ricominciare lo stesso lavoro al Senato. Mi ci sono scottata quasi subito”. La politica ha anche il suo fascino. Davvero non lo subisce? “Non innamorarmi del potere è uno dei principi a cui ho ispirato la mia vita, perché se poi viene meno ci si sta male. E io voglio mantenere intatto il mio equilibrio”. Il potere permette però anche di fare le cose. Lei per esempio è da sempre una decisa garantista. Come mai non ha affrontato uno del temi che da avvocato considerava prioritari, come la separazione delle carriere? “Perché sono realista e non vado dietro ai sogni. Ho privilegiato quelle materie sulle quali si poteva ottenere un risultato, come la revisione della geografia giudiziaria”. Quella che ha definito “riforma epocale”? “Lo so, a qualcuno è sembrato un segno di arroganza, ma serviva a segnalare che abbiamo fatto un passaggio dall’epoca in cui si andava in tribunale in carrozza a quella in cui si usano le autostrade. Noi puntiamo addirittura al processo telematico, con tutta l’attenzione a mantenere le garanzie”. Intanto sembra impegnata a fare prestissimo su intercettazioni e anti-corruzione. “Questo e un punto su cui si sono scritte cose confuse e vorrei fare chiarezza. Entrambi i provvedimenti sono all’esame delle Camere da oltre due anni. La lotta alla corruzione è una priorità del governo, perché solo un’efficace azione in linea con quanto ci viene richiesto a livello internazionale consentirà all’Italia di riconquistare la fiducia degli investitori esteri. Il presidente Monti lo ha detto più volte. E per questo che abbiamo aggiornato un disegno di legge che confido sia presto approvato anche dal Senato”. Altrimenti niente intercettazioni? “Non ho mai detto né pensato di condizionare le due cose. Il provvedimento sulle intercettazioni era fermo alla Camera dal luglio 2010 ed è stato rimesso in calendario circa due mesi fa, anche se non è ancora stato esaminato”. Comunque qualcuno sospetta che lei abbia accelerato un nuovo testo dopo le intercettazioni che hanno coinvolto il Quirinale. “È un sospetto infondato, come anche le date dimostrano. Vorrei sgombrare il campo da qualsiasi dubbio: la questione delle intercettazioni del capo dello Stato sarà esaminata e risolta dalla Corte costituzionale. Per quanto invece riguarda la normativa comune, quando il provvedimento arriverà alla Camera saremo pronti, tenendo comunque conto che su alcuni punti i due rami del Parlamento si sono espressi con votazioni identiche che potrebbero renderli immodificabili. Una volta sciolto questo nodo, il governo si assumerà le proprie responsabilità, presentando una proposta integrativa. Spero di essere stata chiara”. Chiarissima, ma non appassionata. È su altri punti del suo lavoro che le brillano gli occhi. “Quali sarebbero?”. Le carceri. Nessun ministro della Giustizia ha mai fatto tante visite negli Istituti di pena, nessuno è mai stato tanto applaudito a Poggioreale, a San Vittore, a Regina Coeli. “ È un problema che mi sta molto a cuore. Già da avvocato avevo avuto esperienza di questi gironi infernali proprio nel carcere di Poggioreale, ma appena nominata ministro, in quello di Cagliari, dove ero andata a capire le dinamiche di un suicidio, un detenuto mi ha dato una lettera. Per me è stata una svolta “. Perché? “Non l’avevo letta subito, ma mentre preparavo il discorso che avrei fatto a Rebibbia davanti al Papa, mi è stranamente rispuntata da una tasca. C’era tanta umanità nuda e sofferente in quella lettera che ho rinunciato al mio discorso e l’ho letta pubblicamente. Ogni volta che i detenuti mi applaudono mi sento in colpa per quell’applauso”. Pensa di non aver fatto abbastanza? “Il possibile, per ora. Quasi 2mila posti in più con i nuovi padiglioni, 3mila detenuti in meno con le sliding doors e altri 2mila con gli arresti domiciliari. Ma continuerò a lavorare per loro”. Anche con un’amnistia, come chiedono i radicali? “Un ministro non ha il potere di fare un’amnistia, che è materia parlamentare e va approvata con una maggioranza dei due terzi. Quindi sarei scorretta se le rispondessi in un senso o nell’altro”. Parliamo allora dei suoi primati. Lei è stata la prima donna in una cattedra di diritto privato, la prima donna con una carica al Consiglio superiore della magistratura militare, la prima donna contribuente nel 1998 con tre miliardi e mezzo di lire, la prima donna Guardasigilli... Sembra un manifesto dell’emancipazione femminile. “Sono partita pensando di fare il magistrato, come mio padre, e le varie occasioni mi sono capitate senza che puntassi a ottenerle. Però sono stata anche una prima figlia. Forse tutto nasce da lì”. È stato faticoso essere una primogenita? “Sì, ma è anche bello. Sono stata molto responsabilizzata dai miei genitori. Quando, a nove anni, ho letto “Incompreso” di Montgomery Florence dove c’è un primogenito che si sente trascurato in favore del fratellino, mi sono immedesimata e ho pianto tutte le mie lacrime. E da allora leggo soltanto libri che mi trascinano dentro un sentimento”. Ormai però è da tempo moglie e madre. “Aggiunga pure nonna. Ho una figlia, tre meravigliosi nipoti e un marito con il quale sono felicemente sposata da quasi quarant’anni”. Anche questo è un record. Come ha fatto? “Con l’accortezza di condividere tutto: pensieri e cose. Entrambi abbiamo avuto dei successi che non ci aspettavamo, ma non siamo cambiati. Abbiamo gli stessi amici che frequentavamo quando, da giovani sposi, mettevamo da parte 50 mila lire al mese per una barca a vela che in parte ci siamo costruiti da soli in kit”. Oggi lei ha la possibilità di comprarsi un panfilo in contanti, se vuole. “Ma non è il mio obiettivo nella vita. Al fondo io aspiro soltanto a continuare a vivere serenamente. Sono ricca per merito e non per privilegio. E ho sempre considerato il denaro un mezzo e non un fine. Tanto è vero che sono stati proprio i miei risparmi di avvocato a permettermi di lasciare lo studio per questa avventura di governo”. La sua serenità è evidente, ministro, anche nel modo con cui vive l’assenza del suo braccio destro. Vuole parlarne? “E l’esito di una malattia che ho affrontato bene grazie all’appoggio della mia famiglia. E poi, mi creda, convivere con un handicap è molto più facile di quanto si pensi. Ho incontrato tante persone che proprio nella malattia, nel disagio fisico, hanno scoperto una forza interiore che non sapevano di possedere. Io ne ho tratto un grande amore per la vita e quella tenacia, che è uno dei pochi tratti non innati, ma acquisiti, del mio carattere”. È stato difficile diventare mancina da adulta? “Non è stato facile, specialmente nei primi tempi quando dovevo prendere appunti all’università. Ma poi si impara a giocare a tennis, a nuotare, a fare tutto. Sono riuscita persino a fasciare mia figlia neonata. Questo handicap non mi ha tolto niente della vita”. Neanche l’allegria di fare l’attrice, a quanto si sa. “Si riferisce alle messe in scena dei processi ai grandi della storia? Sì, è divertente fare in teatro l’avvocato difensore di personaggi come Galileo Galilei, Giulio Cesare, Ulisse. Ho perso per pochi voti soltanto con Charlotte Corday ma lì il pubblico ministero era Antonio Di Pietro”. Dove ha imparato a recitare? “Ho il gusto di parlare in pubblico e tante ore di arringhe mi hanno ben allenato. Però quando sono dovuta intervenire davanti al Parlamento ho provato una forte emozione. Sentirsi un rappresentante dello Stato cambia la prospettiva”. Mi sta dicendo che potrebbe restare in politica? “Assolutamente no. Assolverò il mio incarico fino alla primavera del 2013 e poi tornerò al lavoro che amo e che spero di riprendere con lo stesso entusiasmo di prima”. E se si appellassero nuovamente al suo spirito di servizio? “Risponderei di averne dato già prova”. Giustizia: Carofiglio (Pd); chi vuole fare il giudice dovrebbe “provare” 3 giorni di carcere Agi, 10 agosto 2012 “Ho proposto, e non provocatoriamente, che chi entra in magistratura dovrebbe, nel periodo del tirocinio, essere ristretto per tre giorni in una struttura penitenziaria: per capire cosa vuol dire essere nel potere altrui, cosa vuol dire rispettare gli orari di un carcere, essere svegliato da altri eccetera. Sono convinto che molte cose, dettagli e cose sostanziali, cambierebbero sulla base di questa consapevolezza”. Lo ha detto il senatore del Pd Gianrico Carofiglio, intervistato da Radio Radicale, commentando la denuncia annunciata dai Radicali nei confronti dei magistrati di sorveglianza che spesso - secondo le denunce dei detenuti - non rispondono alle istanze dei ristretti in carcere. Carofiglio ha quindi aggiunto “per quello che è la mia conoscenza, accade sicuramente in un numero di casi che i magistrati di sorveglianza non rispondano alle istanze. Su questi temi esistono rimedi interni all’ordinamento penitenziario. Il magistrato che non fa il suo lavoro deve essere sanzionato per questo. Ma non direi genericamente che i magistrati di sorveglianza spesso non rispondono ai detenuti. Ma certamente sono d’accordo sulla considerazione per cui chi fa il magistrato sappia cosa vuol dire passare in carcere”. “Io da sempre - ha infine ricordato - sono un fautore di un diritto penale minimo, in cui la detenzione sia riservata a pochissimi e gravissimi reati”. Giustizia: Babudieri (Simspe); nelle carceri italiane positivi alla Tbc 2 detenuti su 10 Asca, 10 agosto 2012 Intervista a Sergio Babudieri, Associato di Malattie Infettive all’Università di Sassari e presidente Simspe. Positivi al test della Tbc due detenuti su dieci nelle carceri italiane. È uno dei dati inediti, e neanche il più eclatante, su cui si confronteranno medici specialisti ed addetti ai lavori, dal 26 al 28 settembre a Viterbo in occasione della “Conferenza Europea sulle malattie infettive, le politiche di riduzione del danno e dei diritti umani in Carcere”, organizzata dalla Simspe (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria) e dalla Simit (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali). In particolare, il test cutaneo alla Tubercolina (che permette di individuare non gli individui ammalati ma coloro che nel corso della propria vita hanno avuto un contatto con il bacillo della Tubercolosi), effettuato su un campione di 1.069 detenuti che rappresentavano 47,4% della popolazione rinchiusa negli Istituti penitenziari di residenza, ha rivelato la positività nel 21,8% dei casi, con una prevalenza dell’11,8% tra gli italiani e del 43,0% tra gli stranieri. Lo studio, denominato “La Salute non conosce Confini”, è stato condotto da Simspe con la collaborazione dell’Associazione Pazienti Nps (Network Persone Sieropositive), della Simit e con il patrocinio dei Ministeri della Giustizia e della Salute, con il contributo economico non condizionato dell’azienda Farmaceutica Gilead. Spiega all’Asca Sergio Babudieri, Associato di Malattie Infettive all’Università di Sassari e presidente della Simspe: “Poiché il passaggio tra lo stato di portatore d’infezione a quello di malato attivo dipende dalla capacità del sistema immunitario del singolo di tenere bloccata, anche per tutta la vita, l’infezione e poiché lo stato di competenza immunologica è condizionato anche dal proprio equilibrio generale inclusi psiche e sistema nervoso centrale (basti pensare all’esempio banale del “Fuoco di S. Antonio”, riattivazione del virus della Varicella quando si è sotto stress psico-fisico), è intuibile come a fronte di una elevata percentuale di portatori, aumenti considerevolmente, soprattutto in carcere, la probabilità che qualcuno sviluppi, per patologia, per stress o in seguito all’assunzione di farmaci immunosoppressivi, un anche momentaneo deficit immunologico che apre potenzialmente la porta alla riattivazione del bacillo della Tubercolosi, con le conseguenze epidemiologiche che si possono immaginare in un ambiente chiuso come quello penitenziario”. Carceri ad alto rischio, dunque, se si pensa che secondo gli ultimi dati, il sovrannumero ha superato le 21mila unità e che solo nel mese di luglio i morti per suicidio sono stati dieci con un altissimo numero di episodi di autolesionismo. Ma a scatenare la Tbc possono essere anche le terapie per la cura di altre malattie: “Un nostro paziente che era risultato positivo alla Tubercolina ma senza alcuna lesione polmonare alla lastra del torace all’ingresso in carcere - spiega ancora Babudieri - ha iniziato la terapia per l’epatite C con Interferone e, dopo 8 mesi, ha sviluppato una Tbc polmonare”. Il caso è stato così rilevante che la prestigiosa rivista scientifica “Emerging Infectious Diseases”, organo ufficiale del Centers for Diseases Control di Atlanta (U.S.A.) ha pubblicato la segnalazione dell’equipe di Babudieri sul rischio di Tubercolosi polmonare durante la terapia con peginterferon-alfa per la cura dell’epatite C. Il rischio Tubercolosi per detenuti e operatori è dunque reale, ma potrebbe non essere così se, spiega ancora Babudieri, “lo screening, oppure una visita specifica per il controllo della Tbc venisse fatta in tutti gli Istituti ed in oltre il 70% dei residenti: il problema è che quel 47% di test è relativo solo agli Istituti dove lo screening viene eseguito, ma scende desolatamente al 13% se consideriamo tutti gli Istituti di cui disponiamo di dati. Se non c’è controllo il rischio può diventare elevatissimo”. Lazio: insediata Commissione paritetica Regione-Ministero su Centro clinico Regina Coeli Il Velino, 10 agosto 2012 Si è insediata oggi la Commissione tecnica paritetica tra la Regione Lazio e il ministero di Giustizia, così come annunciato dalla presidente Renata Polverini e dal ministro Paola Severino per affrontare le criticità del Centro diagnostico terapeutico della casa circondariale di Regina Coeli. “I tecnici della regione e del ministero si sono riuniti nella Sala Aniene della Giunta regionale definendo il cronoprogramma degli interventi strutturali tecnico-edilizi e delle attività che dovranno essere portate avanti fino al prossimo 20 settembre da appositi gruppi di lavoro - spiega un nota della regione Lazio. La commissione detterà le priorità rispetto al percorso di ottimizzazione dell’assistenza sanitaria ai detenuti per trovare le soluzioni migliori e adeguate al fine di rendere maggiormente fruibile il Centro clinico. Tra i punti che la commissione e i relativi gruppi di lavoro dovranno affrontare vi sono: la tipologia di prestazioni erogabili all’interno del Centro su una base di analisi costi-benefici; individuare linee di attività prevalenti relative alla popolazione malata detenuta: affezioni infettive trasmissibili; detenuti affetti da turbe psichiche; detenuti che manifestano problematiche che richiederanno prestazioni chirurgiche. Per quest’ultimo aspetto la commissione analizzerà un piano di offerta compatibile con il miglior parametro costo-beneficio”. La commissione tecnica paritetica è guidata in rappresentanza del ministero della Giustizia da Alfonso Sabella, direttore generale ufficio Beni e Servizi; Luigi Pagano, vicecapo del Dap; Maria Claudia Di Paolo, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria del Lazio. Per la Regione Lazio da Pietro Giovanni Zoroddu, capo dell’ufficio di Gabinetto; Guido Magrini, responsabile del Dipartimento programmazione economica e sociale; Ferdinando Romano, direttore della direzione programmazione e risorse del servizio sanitario regionale; Alessandro Moretti, capo segreteria assessorato alla Salute e Camillo Riccioni - direttore Asl Rma. Teramo: indagini sulla morte di Valentino Di Nunzio, fascicolo trasferito a Campobasso Agi, 10 agosto 2012 Sul tentativo di suicidio in carcere da parte di Valentino Di Nunzio, 28 anni di Manoppello (Pescara) sulle eventuali responsabilità di chi lo ha tenuto in carcere e di chi ha omesso di adottare le misure minime atte a prevenire il grave gesto, indagherà ora la Procura della Repubblica di Campobasso. Lo annuncia l’avvocato Isidoro Malandra. Il Pm di Teramo, Bruno Auriemma, ha disposto il trasferimento del fascicolo dovendosi ipotizzare responsabilità anche a carico dei magistrati che si sono occupati della vicenda. Intanto - dice sempre il legale - l’autopsia ha confermato che la morte di Valentino è stata conseguenza diretta dei traumi subiti nel Carcere di Teramo il 14 Febbraio scorso. La paralisi di tutti gli organi vitali, e non solo dei quattro arti, ha causato insufficienza multiorgano, stress respiratorio e stato settico, come confermato dal Prof. Claudio Cacaci, il medico legale che per conto della famiglia ha partecipato all’esame autoptico. Dopo una prima reclusione a Pescara Di Nunzio era stato trasferito al carcere di Teramo e dopo il tentato suicidio ricoverato, il 14 febbraio scorso, a Villa Pini. Era accusato di omicidio per aver uccio la madre in casa a coltellate. I fatti risalgono al 25 settembre del 2011. Civitavecchia: non aveva soldi per comperare dentiera, detenuto morto soffocato dal cibo Roma Today, 10 agosto 2012 Morto soffocato in cella, la direttrice: “Sarebbe stato scarcerato il giorno stesso”. “Il giudice stava vagliando questa ipotesi, ritenendo le sue condizioni di salute non idonee alla detenzione”. Riguardo al funerale negato: “È una prassi consolidata” “Il detenuto morto per arresto cardiaco causato da soffocamento mentre mangiava in cella sarebbe stato scarcerato il giorno stesso”. È quanto ha dichiarato all’Ansa dalla direttrice del carcere di Civitavecchia Silvana Sergi. “Il giudice - aggiunge - stava vagliando questa ipotesi, ritenendo le sue condizioni di salute non idonee alla detenzione, anche se doveva scontare ancora una parte della pena”. Per quanto riguarda il fatto che il giudice non ha autorizzato il funerale, come denunciato dalla deputata radicale Rita Bernardini, il direttore ha detto: “Confermo quanto scritto dall’onorevole Bernardini, con la quale sono spesso in contatto epistolare ma è una prassi consolidata. Oltre tutto - sottolinea - i familiari non si sono potuti permettere il trasporto e la tumulazione, tanto che se ne è fatto carico l’istituto stesso”. La direttrice si è poi detta addolorata per la fine del detenuto di 49 anni, campano. “Non era - precisa - un tossicodipendente come ha detto l’onorevole Bernardini, ma soffriva di disturbi di natura psichica. Non a caso si trovava presso l’ala specifica del carcere. Era in cella con il compagno quando mangiando della carne gli è andata di traverso procurandogli poi l’arresto cardiaco. Un incidente che può capitare a chi ha problemi psichici”. Infine, ha ricordato che l’uomo “era così povero che, pur non avendo più i denti, non si era potuto permettere una dentiera. Aveva 49 anni, non era anziano, ma viveva una situazione di disagio assoluto”. Bologna: Garante Desi Bruno; alla Dozza meno sovraffollamento, ampliamento non serve Ristretti Orizzonti, 10 agosto 2012 Dall’ultima visita (31 luglio) alla casa circondariale di Bologna, la Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Desi Bruno, ricava un dato positivo: pur persistendo un problema di forte sovraffollamento, la diminuzione delle presenze - da anni non erano scese fino a 870 (contro le 1250 dell’anno precedente) - fa sì che migliorino le condizioni di vita dei detenuti, e non mancano segnali positivi sul fronte del lavoro dentro le mura della Dozza. Desi Bruno afferma che se venisse mantenuto il trend di diminuzione della popolazione carceraria alla Dozza, potrebbe non rivelarsi necessario, ma addirittura controproducente costruire il nuovo padiglione, di cui è stato pubblicato il bando di gara d’appalto. L’auspicio della Garante è che attraverso il ricorso sempre maggiore delle misure alternative alla detenzione e a un uso oculato della custodia cautelare, si abbatta ulteriormente il numero delle presenze, fino ad approssimarsi alla capienza regolamentare (483). Dalla relazione dell’Azienda Usl fatta in occasione di una precedente visita ispettiva (8 giugno), si registravano ancora 1008 presenze, di cui 606 stranieri e 235 tossicodipendenti. Sul fronte sanitario, l’organizzazione all’interno della Dozza vedeva prestazioni erogate direttamente dall’Azienda Usl, tramite 26 medici e 23 infermieri, con presenza medico sanitaria a intera copertura delle 24 ore. Quanto alle prestazioni specialistiche erogate direttamente in struttura, l’elenco comprende cardiologia, oculistica, radiologia, dermatologia, odontoiatria, psichiatria, ginecologia e quanto necessario per la cura delle malattie infettive; vengono, inoltre, effettuati interventi di educazione sanitaria per i detenuti. I nuovi arrivati (il cui polo di accoglienza è ancora in parte impegnato come locale di custodia per via del sovraffollamento), prima di essere ammessi all’area collettiva, vengono trattenuti in un’area riservata di accoglienza per uno screening di accesso; per i tossicodipendenti, c’è una prima presa in carico da operatori del Sert (che si avvale di 2 medici che coprono 68 ore settimanali di presenza, 2 psicologi per 40 ore e 2 assistenti sociali per una attività di 36 ore settimanali). Il lavoro rimane uno dei bisogni più avvertiti dalla popolazione detenuta, considerata anche l’estrema povertà di oltre i due terzi dei reclusi: il lavoro interno svolto alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, il cosiddetto “domestico”, occupa a rotazione circa 130 detenuti al mese. Dallo scorso maggio, per effetto di una convenzione tra Azienda e Direzione della casa circondariale, la gestione delle pulizie dei locali, in uso all’Azienda per le prestazioni sanitarie, è svolta da 11 detenuti, retribuiti dall’Asl. La Garante aveva già riscontrato la fine, per assenza di commesse, dell’esperienza della tipografia “Profumo di parole”. Una nota positiva è, invece, rappresentata dall’avvio dell’attività dell’officina meccanica “Fare impresa in Dozza”, fortemente voluta da un cartello di imprese che operano nel nostro territorio (Ima-Marchesini e Gd, con la collaborazione della Fondazione Aldini Valeriani e dalla Direzione della casa circondariale ): attualmente, all’interno del carcere lavorano, con regolare contratto da dipendenti, 10 detenuti del penale e altrettanti sono avviati alla formazione; la prospettiva è quella di fornire una qualifica di lavoro spendibile anche all’uscita dal carcere, oltre che una ipotesi di possibile assunzione. Ancora sul piano delle opportunità lavorative, proseguono con successo le attività di recupero di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee), con l’occupazione di 3 detenuti, e nel reparto femminile quelle della sartoria “Gomito a gomito”, coordinata dalla cooperativa “Siamo Qua”, che a sua volta occupa stabilmente 3 donne (una quarta è oggi in borsa lavoro); grande slancio ha preso l’attività di realizzazione di borse in tessuto che vengono vendute in banchetti organizzati da volontarie. Velletri (Rm); Radicali; Commissione regione-ministero si occupi carenze sanitarie carcere Dire, 10 agosto 2012 I consiglieri regionali Radicali Giuseppe Rossodivita, capogruppo, e Rocco Berardo, Lista Bonino Pannella-Federalisti europei, hanno oggi depositato un’interrogazione urgente alla presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, anche nella sua qualità di assessore alla Sanità, sulle “gravi carenze riscontrate nella casa circondariale di Velletri dalla deputata Radicale Rita Bernardini durante la visita ispettiva effettuata lunedì 6 agosto insieme al suo consulente avvocato Alessandro Gerardi”. È quanto si legge in una nota dei Radicali. L’istituto di pena conta 263 detenuti, molti dei quali in attesa di giudizio - di questi 160 sono imputati, 77 appellanti e 26 ricorrenti - i rimanenti (118) stanno invece scontando una pena definitiva. Tra i reclusi, 186 risultano essere tossicodipendenti e 115 di nazionalità straniera. Oltre, spiega la nota, “all’elevato tasso di sovraffollamento e il disagio che i detenuti sono costretti a patire, vi è la carenza di educatori che sono quattro sui sei previsti in pianta organica e due soli psicologi operativi, di cui solo uno a tempo pieno. La carenza di psicologi è molto grave, anche perché nel carcere veliterno si riscontra un elevato indice di detenuti affetti da gravi disagi psichici - peraltro all’interno dell’istituto manca un reparto di osservazione psichiatrica - costretti a rimanere chiusi in cella 20 ore al giorno. Negli ultimi tempi nell’istituto si sono verificati frequenti casi di autolesionismo e di tentato suicidio, mentre due detenuti si sono tolti la vita nel 2009 e nel 2010. Tra le gravi carenze di personal e vi è anche quella degli assistenti sociali, educatori e psicologi”. L’istituto penitenziario di Velletri, denunciano i Radicali, “pur essendo stato edificato sul finire degli anni ‘80 presenta condizioni materiali non ottimali: la struttura, infatti, è spesso soggetta ad infiltrazioni d’acqua e necessita di periodici lavori di manutenzione a causa della continua e repentina usura delle strutture e anche le condizioni igieniche sono pessime e ai limiti della tollerabilità. Inoltre la cronica carenza di fondi non permette alla direzione dell’istituto di far fronte in modo adeguato a tutte le esigenze della popolazione detenuta con riferimento al reperimento dei medicinali, sicché molti farmaci scarseggiano e altri sono fruibili però non a titolo gratuito”. Nell’interrogazione, i consiglieri regionali Radicali Giuseppe Rossodivita e Rocco Berardo chiedono di sapere “quali iniziative la Regione intende fare per garantire il diritto alla salute dei detenuti e, in particolare, entro quali tempi verrà ripristinata un’adeguata assistenza psicologica e psichiatrica; se non si intendano adottare urgentemente le opportune iniziative al fine di aumentare l’organico degli educatori, degli psicologi e degli assistenti sociali in servizio, in modo da renderlo adeguato al numero delle persone recluse. Infine, se e in che modo si intendano potenziare, all’interno della struttura penitenziaria in questione, le attività di orientamento e formazione al lavoro e di ricerca di posti di lavoro da offrire ai detenuti, in particolar modo per quelli che hanno quasi finito di scontare la pena”. I consiglieri regionali Radicali, conclude la nota, “chiedono che la commissione paritetica tra Regione Lazio e ministero della Giustizia oggi insediatasi si occupi anche del Carcere di Velletri”. Verona: la “Casa Don Girelli” ospiterà detenuti psichiatrici dimessi dagli Opg di Zeno Martini L’Arena di Verona, 10 agosto 2012 Il centro sorto per accogliere carcerati a fine pena sarà la prima struttura veneta a sostituire gli ospedali giudiziari. La Regione approva il progetto pilota dell’Ulss 21 autorizzando la nascita di un servizio innovativo destinato a 18 condannati internati dal tribunale. La casa “Don Giuseppe Girelli”, nata per ospitare detenuti che avevano terminato di scontare la pena, cambia vocazione. O, per meglio dire, è stata convertita per assolvere ad un nuovo importante compito. Diventerà, infatti, un centro specializzato nell’accogliere una particolare categoria di condannati riconosciuti autori di reati: la stessa, che finora era affidata agli ospedali psichiatrici giudiziari. La Giunta regionale, con la delibera numero 1331 del 17 luglio scorso, ha autorizzato l’Ulss 21 di Legnago “ad attivare una struttura intermedia riabilitativa ad alta specializzazione per pazienti psichiatrici, ossia internati dal tribunale per aver commesso reati in riscontrata situazione di non sapere né intendere né volere o con tare psichiche”. Ossia persone che fino ad oggi erano sorvegliate e sottoposte a cure psichiatriche nei cosiddetti Opg. Tale servizio sarà attivato, per l’appunto, alla “Don Giuseppe Girelli” di Ronco, prima struttura di questo tipo nel Veneto. Il progetto presentato in Regione dal dipartimento di Salute mentale dell’Azienda sanitaria della Bassa, diretto dal dottor Tommaso Maniscalco, ha trovato accoglimento da parte della Commissione regionale per la salute mentale. L’ex casa per carcerati potrà accogliere così un massimo di 18 ospiti. La retta mensile per ogni ospite è stata fissata in 198,50 euro, ma potrà subire modifiche nel caso di soggetti da inserire che necessitino di interventi di natura socio-sanitaria o assistenziale particolari. La Giunta regionale ha stanziato 190mila euro per coprire le rette e le spese di avviamento del servizio: soldi che verranno versati all’Ulss 21. L’attivazione del nuovo centro si è resa necessaria per dare attuazione al Piano sanitario nazionale e al successivo accordo Stato-Regioni, che ha previsto il trasferimento dall’amministrazione penitenziaria alle Regioni delle funzioni che venivano assolte fino ad oggi dagli ospedali psichiatrici giudiziari, i quali sono in fase di smantellamento. Il ministero della Salute ha previsto la dismissione di sei ospedali psichiatrici giudiziari per un totale di 300 detenuti sull’intero territorio nazionale. Di conseguenza, ha messo a disposizione delle Regioni risorse finanziarie per avviare interventi di riabilitazione e di reinserimento sociale delle persone che sono state dimesse dagli Opg. Gli ospedali psichiatrici giudiziari dovranno essere sostituiti da case di cura e custodia in capo alle Regioni. In realtà, la normativa prevede tre possibilità: l’istituzione di strutture simili agli ospedali psichiatrici con vigilanza esterna; l’affidamento diretto ai servizi psichiatrici e sociali territoriali; oppure la creazione di strutture intermedie, come appunto quella ronchesana. A questo preciso riguardo, l’Azienda sanitaria di Legnago ha presentato a Venezia un progetto per accogliere i soggetti internati negli ospedali psichiatrici in un centro innovativo qual è una casa di cura intermedia, la prima del genere, tra l’altro, a venire inaugurata nella nostra regione. Anche l’Asl 16 di Padova ha presentato un progetto per il reinserimento di tali soggetti, ma si tratta di un comunità terapeutica riabilitativa e non di una struttura intermedia. Comunque sia, si tratta delle prime due esperienze in questo campo sull’intero territorio regionale. Per questo motivo, Casa “Don Girelli” - sorta mezzo secolo fa per volere dell’apostolo dei carcerati, don Giuseppe Girelli, dove per decenni sono stati accolti ex prigionieri rimasti senza una rete familiare alle spalle o condannati diventati anziani dietro le sbarre e che stavano per terminare di scontare la pena - ha subito una profonda trasformazione. La struttura dalla Sesta Opera di Misericordia è stata ristrutturata ed adeguata di recente ai parametri richiesti dalla Commissione regionale per la salute mentale, proprio in vista di avviare il nuovo servizio. D’ora in avanti, gli ex internati potranno essere seguiti nella residenza di Ronco, una struttura completamente diversa dagli Opg, dove all’interno operano persone specializzate ed appositamente formate ad affrontare un compito sicuramente non facile. Napoli: 12 detenuti in una cella e 2 docce la settimana, agosto nell’inferno di Poggioreale di Antonio Mattone Il Mattino, 10 agosto 2012 Un drammatico sovraffollamento e una grande solitudine. Così vive in questa calda estate chi è recluso a Poggioreale. Oggi sono presenti poco meno di 2.600 detenuti, mentre la ricettività è di 1.400 posti. Il “Grand Hotel Poggioreale” è l’unico luogo dove l’overbooking non manda via nessuno a cui è promessa ospitalità. Questo vuol dire che nelle celle vivono anche 12 persone insieme, sistemate su brande che raggiungono il terzo livello, fino quasi a toccare il soffitto. Solo pochi fortunati riescono a sistemarsi nelle “suite”, le celle che ospitano 2 detenuti e che in gergo vengono chiamate cubicoli. Lo stretto contatto con cui si vive gli uni accanto agli altri, in questi giorni di caldo afoso, paralizza i movimenti e il respiro. Nei vecchi padiglioni come il Napoli, il Milano o il Salerno non ci sono docce in camera. Questo lusso è consentito solo 2 volte a settimana, mentre in un piccolo spazio contemporaneamente si cucina e vengono espletati i bisogni fisiologi. Ma ci sono anche le celle dove non c’è separazione e tutto avviene nello stesso ambiente, sarà un offerta last minute! Nel mese di agosto, poi, vengono interrotte tutte le attività intramurarie, cioè “l’animazione”. Le ferie degli agenti e degli operatori penitenziari determinano una sospensione dei corsi, delle iniziative culturali e delle partite a pallone nel campetto di calcio costruito alcuni mesi fa, e tutto si riduce alle due ore d’aria giornaliere concesse. In galera c’è “tanto tempo ma poco spazio”, ha scritto Sandro Bonvissuto nel romanzo “Dentro”. Sfogliando il depliant del soggiorno a Poggioreale sono garantiti ambienti angusti e tempo che non passa mai. Ma a Ferragosto c’è il tradizionale evento della visita dei parlamentari a ravvivare tutto l’ambiente. Eppure sono proprio alcune leggi emanate dal Parlamento ad avere un grande impatto sull’aumento della popolazione carceraria. La cosiddetta “ex-Cirielli” sulla recidiva prevede, tra le varie misure, inasprimenti di pena, rifiuto delle attenuanti e delle misure alternative, e colpisce soprattutto i detenuti condannati per reati di microcriminalità, mentre la legge sulla violazione del possesso degli stupefacenti ha ridotto la dose media giornaliera che una persona può detenere, causando così l’aumento di detenuti tossicodipendenti. Queste norme, nate nella prospettiva di soddisfare il “bisogno di sicurezza” dell’opinione pubblica, non hanno avuto l’effetto di ridurre la criminalità. Può davvero diventare migliore chi esce da un carcere come questo? Anche il ministro della Giustizia Severino, che recentemente ha visitato le celle di Poggioreale, ha parlato della necessità di ricorrere a misure alternative al carcere per limitare il problema del sovraffollamento, auspicando “un pizzico di fantasia nel catalogo delle pene”. Le statistiche ci dicono che chi è sottoposto a misura alternativa al carcere più difficilmente ci ritorna. Questa la strada da seguire per rendere il carcere più umano e allo stesso tempo per rendere più sicura la nostra società. Con le elezioni alle porte avranno i nostri politici la lungimiranza e il coraggio di investire su un tema così impopolare? “In galera nessuno ti fa una carezza”, mi dice Ciro. Non è il carcere duro e disumano a suscitare il desiderio di cambiare vita. Solo accompagnando e sostenendo chi ha sbagliato può emergere un’aspirazione di riscatto. Ciro è di Scampia. “A Scampia la gente è fiera di uccidere, di spacciare, di essere violenta, ma che c’è da essere fieri a uccidere, spacciare o essere violenti?” continua in modo disarmato. Lui ha una condanna lunga e tutti i suoi pensieri sono per sua moglie e per la sua bambina. “Ce la faranno senza di me? “ Sono discorsi maturati nel caldo di questa estate. Parole dettate solo dalla durezza di una stagione difficile della vita? Chi lo sa. Don Pino Puglisi, prete palermitano ucciso da Cosa nostra perché cercava di strappare i giovani alla mafia, diceva che l’amicizia era “l’autentica vittoria non episodica sulla solitudine”. Alfonso, Claudio, Enzo e tanti altri usciti dal tunnel di Poggioreale, sostenuti da una mano amica, con fatica e sacrifici ma con tanta dignità hanno ripreso a vivere in modo onesto, dimostrando che cambiare è possibile. Anche in un tempo difficile come questo. Massa Carrara: nominato il Garante dei detenuti, è Umberto Moisè, presidente dell’Arci Il Tirreno, 10 agosto 2012 Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Questa la nuova figura che si sta affacciando nel panorama istituzionale massese. Scelta del presidente della provincia Osvaldo Angeli ricaduta su Umberto Moisè, presidente dell’Arci comitato provinciale, da anni impegnato nel volontariato carcerario. Figura di tutela a favore di chi è detenuto in istituti penitenziari, penali per minori e strutture sanitarie. Erogazione delle prestazioni al diritto alla salute, miglioramento della qualità della vita, diritto all’istruzione e alla formazione professionale ed esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile. Questi i compiti principali del garante, che fra pochi giorni vedrà attivato anche di uno spazio esterno, in via Cavour 17. “Una carica più di oneri che di onori - come la definisce l’assessore Domenico Ceccotti. A Moisè va il nostro più sentito ringraziamento, poiché il suo operato, completamente volontario, permetterà di continuare quella tradizione di civiltà e correttezza, che da sempre hanno contraddistinto il modo carcerario della provincia”. Tolmezzo (Ud): corso falegnameria, i carcerati realizzano giochi per l’asilo nido comunale Messaggero Veneto, 10 agosto 2012 È terminato il corso di falegnameria all’interno del carcere: sono stati realizzati tanti giochi per l’asilo nido comunale. Si dice che il sorriso di un bambino ripaghi di tutte le fatiche e di tutti gli errori: così dieci detenuti del carcere carnico con i loro giochi di legno hanno allietato i piccoli del nido Arcobaleno. Grazie al corso storico di 400 ore organizzato dallo Ial di Gemona e dedicato alle tecniche di falegnameria, i detenuti hanno acquisito le basi di una professione antica e misteriosa e fatto giocare i bimbi con oggetti caldi e accoglienti. Cavalli a dondolo, banchi da falegname, ma anche arredi colorati e rassicuranti dal 2005 abbelliscono il nido. “Da subito - dice la responsabile, Annamaria Pascuttini - abbiamo pensato di cogliere questa bella opportunità per arricchire il nido con giochi su misura e oggetti utili e duraturi, che piacciono molto ai nostri bambini”. “Abbiamo puntato - spiega il direttore dello Ial, Norberto Urli - sulla parte pratica di laboratorio, oltre che sulla sicurezza e sono anche state previste un centinaio di ore di simulazione d’impresa. Ci sembra un’esperienza più che positiva e che intendiamo replicare anche in futuro”. Gran Bretagna: proposta governo, call center in prigioni Ansa, 10 agosto 2012 Chiami il call center e non risponde l’India o un altro paese-tipo del lavoro in outsourcing. In Gran Bretagna dall’altro capo del filo si potrà trovare un detenuto in base a un nuovo progetto del governo di David Cameron per offrire nuove opportunità di lavoro nelle carceri. I detenuti britannici vengono al momento impiegati in attività manifatturiere come la costruzione di finestre e l’impacchettamento di prodotti. La prospettiva dei call center significa che la popolazione del carcere potrà essere messa in contatto direttamente con il pubblico. Con vantaggio reciproco, spiegano gli organizzatori: ai detenuti a cui verrà offerta la possibilità di una formazione per un nuovo lavoro una volta finito di scontare la pena. E per il pubblico che potrà sentirsi rispondere da “operatori dagli accenti britannici come effettiva alternativa alle opzioni offshore”.